di Fulvio Vassallo Paleologo
Noi la verità dobbiamo gridarla dai tetti, perchè siamo in un paese nel quale le verità di stato si costruiscono sui rapporti dei servizi, su processi imbastiti proprio su quelle relazioni, su una stampa che nella maggior parte dei giornalisti si adegua agli indirizzi di governo, in un paese nel quale si è introdotta una legge farlocca sul reato di tortura e nel quale non ci sono numeri identificativi sulle divise delle forze di polizia.
Noi la verità dobbiamo gridarla dai tetti, in un paese che stipula accordi con stati, come l’Egitto, che praticano sistematicamente la tortura e deporta in quegli stessi stati, ritenuti “sicuri” persone colpevoli soltanto di avere cercato una via di fuga. Come se le condanne per i respingimenti in Libia, come se le condanne per i fatti della Diaz e di Bolzaneto, come se decine di processi intentati a componenti delle forze dell’ordine per percosse inflitte ai cittadini, ed ai migranti, non ci fossero mai stati. Le indagini sui reati commessi dalle forze dell’ordine non sono quasi mai efficaci, e questo vale in misura ancora maggiore quando si tratta di reati subiti dai migranti. Mentre basta una relazione di polizia per mandare a processo operatori volontari e semplici testimoni, che si ostinano a prestare assistenza ai migranti e a rompere il muro di isolamento e di disinformazione che si continua a costruire attorno a loro.
Noi la verità dobbiamo gridarla dai tetti, perché i processi contro le forze dell’ordine si concludono nella maggior parte dei casi con l’assoluzione degli imputati e con la messa in stato di accusa di chi ha denunciato, perchè nel corso dei procedimenti penali le prove dell’accusa si costruiscono sulla base delle difese degli imputati, perché il principio del giusto processo e il rispetto delle garanzie di difesa valgono a seconda di chi viene chiamato a giudizio. Come nel caso delle irregolarità denunciate nelle operazioni di allontanamento forzato e di trattenimento finalizzato al respingimento differito delle persone sbarcate in Italia per motivi di soccorso.
Non ci sorprende l’ennesimo attacco, durante una audizione in Commissione Libertà civili del Parlamento europeo, del Prefetto Morcone nei confronti del rappresentante ONU che ha criticato gli accordi con la Libia, e soprattutto contro Amnesty International, “colpevole” di avere denunciato due anni fa, in un rapporto, le condizioni indegne di trattenimento, la presenza di minori e l’uso della forza nel prelievo delle impronte, in sintesi l’approccio Hotspot, praticato, a partire dal mese di ottobre del 2014, nel centro di prima accoglienza e soccorso di Pozzallo. Naturalmente, nelle dichiarazioni di Morcone, neppure una parola sulla circolare ministeriale uscita proprio in quel periodo con la quale si autorizzava l’autorità di polizia all’uso della forza nel prelievo delle impronte digitali. Tra quelle denunce, ma non era l’unica, ed anche MSF ed altre organizzazioni denunciavano da tempo i trattenimenti abusivi all’interno di quella struttura, l’accusa di trattamenti violenti, in qualche caso anche manganellate, per il prelievo delle impronte digitali, allora prevalentemente nei confronti di profughi siriani. Trattamenti che, anche senza l’uso dei manganelli, si erano ripetuti nei mesi seguenti ai danni dei profughi eritrei ristretti abusivamente per settimane in diversi Hotspot, da Lampedusa a Trapani, allo scopo di costringerli a rilasciare le impronte digitali. Dopo gli anni nei quali soltanto il 50 per cento dei migranti in arrivo veniva identificato, occorreva dimostrare all’Unione Europea che aveva aperto una procedura di infrazione, che finalmente nel nostro paese si stava facendo “sul serio” . E non si trattava soltanto di usare le maniere forti, ma anche di prolungare a tempo indeterminato il trattenimento amministrativo delle persone soccorse in mare e sbarcate in Italia, quando non collaboravano nel rilascio delle impronte digitali. Una prassi che è proseguita per anni, al di fuori di una espressa previsione di legge, senza alcuna sanzione, senza alcuna possibilità di denuncia che non fosse una voce gridata da lontano. Con la legge n.46 il legislatore ha cercato di metterci “una pezza”, con la previsione della detenzione amministrativa in un CPR ( Centro per i rimpatri) per coloro che si rifiutavano di rilasciare le impronte, ma il problema era ormai risolto perché gli stati europei avevano chiuso inesorabilmente a tutti le frontiere interne, e diminuiva il numero di persone che speravano di proseguire il loro viaggio in Europa. La nuova previsione legislativa non ha comunque alcuna efficacia retroattiva, e gli abusi del passato possono essere coperti soltanto con una sistematica operazione di rimozione, che si accompagna a reazioni sdegnate, non appena venga contrastata con un esercizio minimo di memoria storica.
Mentre il sistema Dublino penalizzava i paesi di primo ingresso e chi vi transitava, e la Relocation, promessa da Bruxelles verso altri paesi europei, non partiva. Dopo anni di tolleranza , alla fine del 2014,l’Italia inaspriva i controlli sull’identità ( e sulle impronte digitali soprattutto) dei migranti in arrivo, in modo repentino, senza salvaguardare il minimo diritto all’informazione e la possibilità di ricongiungimento familiare, con pressioni violente anche su donne e minori, come se fosse l’Unione Europea ad imporlo, magari come merce di scambio per possibilità più ampie di Relocation, che però poi non ci sono state concesse. Esemplare la posizione della parlamentare europea Barbara Spinelli che già allora sollevò gravi critiche sull’operato delle forze di polizia nel centro di Pozzallo. Si trattava di dichiarazioni che provenivano da diverse fonti e che confermavano tutte un eccesso nell’uso della forza al momento del prelievo delle impronte digitali. Adesso anche Amnesty International torna a protestare dopo essere stata messa di nuovo sotto accusa proprio da chi avrebbe dovuto fornire la prova della correttezza delle prassi applicate.
Morcone, che dimentica le accuse rivolte all’Italia a più riprese dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, dovrebbe rendere conto di tutte le critiche che sono state mosse alla gestione dell’Hotspot di Pozzallo, come i trattenimenti prolungati, ben oltre le esigenze di fotosegnalamento, e dunque con una totale privazione della libertà personale, anche per settimane, in assenza di una qualsiasi base legale. Come dovrebbe dimostrare sulla base di quali norme sono stati trattenuti a Pozzallo ( ed a Lampedusa) per settimane centinaia di minori non accompagnati, abbandonati in un contesto degradato, in promiscuità con gli adulti, senza l’adozione di quelle misure di tutela che sono imposte anche dalla nostra legge. Conseguenze di un sistema, quello degli Hotspot, o meglio dell’approccio Hotspot, che rimane ancora oggi al di fuori di una effettiva disciplina normativa avente forza di legge, a parte il modesto richiamo contenuto nella legge n.46 del 2017, nella quale si prevede che coloro che si rifiutano di farsi identificare andrebbero trasferiti in un CPR ( centro per i rimpatri). Usiamo il condizionale, perché, a fronte della mancanza di posti in queste strutture, la norma è rimasta quasi del tutto inattuata, come non sono stati aperti gli undici CPR che il ministro Minniti aveva annunciato nel mese di gennaio di quest’anno.
Le condizioni fisiche ed i segni delle percosse ricevute a partire dal mese di ottobre del 2014 nel centro di Pozzallo ed in altre strutture di prima accoglienza, dopo la circolare del Ministero dell’interno che autorizzava il ricorso all’uso della forza nel prelievo delle impronte digitali, non sono soltanto testimoniate da chi si è potuto avvicinare ai recinti del centro di Pozzallo, ma sono state rilevate anche da chi ha prestato assistenza ai chi riusciva comunque ad andare via da quella struttura, magari per raggiungere Milano, e poi, comunque, un altro paese europeo. Testimoni che non hanno certo dimenticato quanto hanno visto con i loro occhi.
Ci sono diversi rapporti di varie organizzazioni non governative, che il ministero dell’interno non ha mai smentito. I trattamenti inumani e degradati proseguono ancora oggi, e non solo negli hotspot, o per effetto dell’uso dei manganelli. Magari il ministero dell’interno potrebbe anche spiegare le ragioni del trattamento poco conforme con il rispetto della dignità delle persone, inflitto ancora in questi giorni nel centro di accoglienza ubicato nella vecchia caserma Gasparro a Messina.
Ma il tema delle torture e dei trattamenti disumani o degradanti ritorna oggi di prepotente attualità anche con riferimento ai migranti intrappolati in Libia. Se si dice che in Libia “la tortura c’è da sempre”, come ha dichiarato Morcone, si ammette la propria responsabilità e quella dell’intero governo italiano,, perché è noto a tutti che, dopo gli accordi con le milizie fedeli al governo Serraj, e le intercettazioni di migranti in fuga verso le acque internazionali, da parte della cd. Guardia costiera libica, la gran parte delle persone ricondotte in Libia si è trovata a subire di nuovo quelle torture ed altre più terribili, magari dopo essere passata al filtro dell’OIM e dell’UNHCR sul molo di sbarco a Tripoli. Solo una minima parte, infatti, dei naufraghi “soccorsi” in mare e riportato a terra, viene ritenuto meritevole di tutela particolare e quindi evacuato verso un paese europeo (Resettlement), come i governi europei e le agenzie internazionali continuano a promettere ancora oggi. Solo alle persone più provate, e se provengono da alcuni stati, come la Nigeria, si offre l’alternativa obbligata del rimpatrio “volontario”, ma la maggior parte delle persone ricondotte a terra dalle motovedette libiche finisce di nuovo nelle mani dei trafficanti e dei torturatori dai quali hanno tentato di fuggire. E tutto questo dopo essere state individuate e intercettate in mare, anche in acque internazionali, con la collaborazione delle autorità libiche con il comando interforze di stanza a Tripoli.
Morcone aggiunge che l’Italia non fa respingimenti collettivi, e non ne ha fatto in passato, e sfida chi denuncia queste ennesime violazioni delle norme contenute nel diritto nazionale e sancite dalle Convenzioni internazionali, a fornire la prova di quanto afferma. Forse dimentica le motivazioni delle condanne subite dall’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo dal caso Hirsi fino al caso Khlaifia ed al caso Richmond Yaw, da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, e si nasconde dietro le pratiche elusive poste in essere per eludere il divieto di espulsioni o respingimenti collettivi ed aggirare il principio di non refoulement, sancito dall’ art.33 della Convenzione di Ginevra.
Sappiamo che è una lotta impari, e che alla fine la verità sarà quella del più forte, di chi controlla le agenzie di informazione più seguite, di chi sa come nascondere le prove a proprio carico e costruire prove per delegittimare chi osa denunciare le persistenti violazioni dei diritti umani dei migranti nelle attività di controllo delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione irregolare. Vediamo come le forze di polizia tengono lontani i giornalisti dalle “aree attrezzate di sbarco”, come oggi vengono definiti i porti trasformati in Hotspot. Tuttavia le prove esistono, e non si potranno cancellare tanto facilmente. Sono persone in carne ed ossa, che stanno riprendendo la parola, in tutta Europa, documenti e fotografie che non si potranno fare scomparire, sulle condizioni di trattenimento a Pozzallo nel 2015, come a Lampedusa, ed in altri hotspot, come quello di Taranto, ed ancora prove di come l’Italia ha aggirato il divieto di espulsioni collettive, e di come adesso sta aggirando il divieto di respingimento in mare, in acque internazionali, per effetto degli accordi della Guardia costiera libica.
Noi la verità la gridiamo dai tetti, e non abbiamo paura delle accuse. se anche ci mettessero a tacere, la verità sarà reclamata dai tanti che sono state vittime di abuso per effetto di prassi di polizia che hanno cancellato il rispetto della dignità della persona umana nel vano tentativo di dimostrare rigore ed efficacia. Rigore ed efficacia degli interventi in materia di immigrazione che si possono costruire soltanto con una azione convergente tra istituzioni e società civile, e nel pieno rispetto del principio di legalità nel trattenimento amministrativo, senza eccedere nei tempi di internamento, e della dignità umana, senza assoggettare gli “ospiti” a veri e propri “trattamenti inumani o degradanti”. Trattamenti che, anche se non arrivano al livello di “tortura”, sarebbero altrettanto sanzionabili davanti alle Corti internazionale, e se fossero sempre indipendenti, anche davanti ai giudici italiani. Se soltanto le vittime potessero denunciare senza essere costrette alla clandestinità, o senza essere allontanate dal territorio nazionale in assenza delle minime garanzie di difesa. E se i parlamentari insistessero sempre con coerenza, come è successo a Bruxelles, nelle loro denunce.
La questione dell’ Hotspot di Pozzallo, le violenze subite nel 2014 dai profughi siriani, e poi nel 2015 a Lampedusa dagli eritrei, come più in generale la questione migratoria nel nostro paese, è una questione di democrazia, non soltanto di statistiche sul numero di coloro che sono stati allontanati, spesso con la forza, dal territorio nazionale, o su quanti hanno rilasciato le impronte digitali dopo lo sbarco. Se oggi quasi tutti coloro che vengono soccorsi in mare rilascia le impronte digitali non lo si deve certo all’uso dei manganelli o della detenzione a tempo indeterminato. Un ruolo enorme di mediazione è stato svolto dalla società civile e dalle Organizzazioni non governative. Tra le forze di polizia esistono centinaia di operatori capaci di umanità e mediazione, spesso sono le direttive impartite dall’alto che seminano tensione e violenza. Uno stato che non è capace di mediazione, con chi arriva e non viene neppure informato sulla propria condizione legale,e con i propri cittadini, che criminalizza chi presta attività di soccorso e dia assistenza volontaria, è uno stato che si allontana sempre più dal rispetto della verità e dei diritti fondamentali, di tutti, migranti e cittadini.
Migranti: Viminale, falsita” in rapporto Amnesty su hotspot Italia non ha mai fatto respingimenti
(ANSA) – BRUXELLES, 28 NOV – Il rapporto di Amnesty International sugli hotspot “e” falso. Mi denunciassero se possono provare il contrario”. Le forze dell”ordine italiane “non hanno in dotazione l”uso dei manganelli elettrici”. Quelli di Amnesty “vanno troppo spesso al cinema. Non sono stati in grado di esibire una prova”. Cosi” il capo di gabinetto del Ministero dell”Interno Mario Morcone rispondendo all”eurodeputata Barbara Spinelli (Gue) durante un”audizione alla commissione Liberta” civili (Libe) del Parlamento europeo.
“Quello che dispiace, cara Spinelli, e” che lei dica cose non vere. L”Italia non ha mai respinto nessuno”, ha aggiunto Morcone, dicendosi orgoglioso del lavoro fatto dall”Italia che in questi anni ha accolto “700mila migranti”, cosa che nessun altro Paese europeo, salvo la Grecia, ha fatto.
Viminale, strumentali denunce astratte dirigente Onu
Morcone, Italia impegnata in recupero diritti
(ANSA) – BRUXELLES, 28 NOV – “Aiutateci a spingere l”Onu. Non voglio fare polemiche, ma sentire un dirigente” delle Nazioni Unite che invece di occuparsi di quanto chiediamo da mesi con forza, che funzionari internazionali possano essere in Libia, denuncia astrattamente, cosi” la sera dorme tranquillo, ebbro
della sua solidarieta””, e” “strumentale”. Cosi” il capo di gabinetto del ministero dell”Interno Mario Morcone in
un”audizione alla commissione Liberta” civili (Libe) del Parlamento europeo tornando sulle accuse lanciate dal capo dell”Alto commissariato per i diritti umani dell”Onu, il giordano Zeid Raad Al Hussein. “Non abbiamo mai negato che in Libia ci sia la violazione dei diritti umani. Solo Alice nel Paese delle meraviglie si puo” affacciare alla finestra e dire: n Libia c”e” la tortura. E” veramente strumentale tirare fuori questi argomenti”, ha affermato poi al margine, ricordando l”impegno italiano per il recupero di questi diritti. (ANSA).
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28-NOV-17 16:46