Je suis Arash Hampay, la Resistenza è migrante

Flore Murard-Yovanovitch*

A light in the dark giunge da Lesbos. La Resistenza al regime della frontiera è iniziata settimane fa e ha il volto di Arash Hampay, al suo 29° giorno di sciopero della fame per la libertà di tutti i profughi detenuti nell’hostpot di Lesbos, Moria. Il campo dove suo fratello, anch’esso richiedente asilo iraniano, era stato detenuto per 3 mesi (e liberato venerdì corso).

Sciopero della fame per la liberazione di #KozhinHussein, #BahroozArash, che versano in condizioni fisiche precarie senza ricevere cure adeguate e privati della possibilità di comunicare con l’esterno; ma anche per la liberazione di tutti gli altri richiedenti asilo detenuti a Moria e a rischio di deportazione. Denuncia nonviolenta dell’assurda violenza della Frontiera nel cuore dell’Europa, contro persone in fuga.

Il 28 giugno scorso, quattro richiedenti asilo, imprigionati nel campo di detenzione di Moria hanno iniziato un sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione illegale in violazione delle leggi e convenzioni internazionali (sono richiedenti asilo con fondate richieste di asilo). Come Arash Hampay, attivista politico iraniano che ha speso 3 anni nelle celle del regime iraniano subendo torture documentate. Deve ora affrontare una nuova inumanità, ma questa volta ha il volto dell’Europa.

Oltre all’immediato rilascio dei richiedenti asilo detenuti, denunciano con i corpi e i manifesti le violazioni, gli abusi quotidiani subiti da migranti intrappolati da ormai un anno e a tempo indeterminato su un’isola-prigione all’aria aperta. Dove il sistema di cure mediche e di protezione è crollato, come denuncia Medici Senza Frontiere in un rapporto rilasciato proprio il 24 luglio scorso.

Contenimento. Tortura del limbo: tempo infinito, per persone che hanno giù subito violenze o torture e sotto la costante minaccia di essere deportati o rimpatriati, in Turchia (in campi di “rieducazione) in base alla dichiarazione Ue-Turchia, o verso i rispettivi Paesi di origine (che l’Ue ipocrita, dichiara “paesi sicuri”). Ormai, tranquillamente il continente dei diritti dell’uomo deporta Afghani, Sudanesi, Iraniani, alcuni, verso una morta sicura alla discesa dell’aereo, come è recentemente successo a un cittadino Bengalese (testimonianza di un’operatrice umanitaria di United Rescues Aid nel film “Sent to their death, del regista Fridoon Joinda). Persone respinte dalla vista di cui non si sa più nulla.

Intanto il campo, come annunciato dalla sua stessa natura malata, esplode e il clash tra libertà e repressione, tra giustizia e razzismo istituzionale, va avanti sotto nostri occhi. Già il 23 luglio scorso, la polizia aveva fatto irruzione nell’hotspot sedando una rivolta dei richiedenti asilo, si vedono poliziotti greci manganellare e gettare pietre addosso a detenuti sdraiati a terra.

Ieri mattina, 24 luglio, la polizia ho operato una retata nel centro, arrestando lista in mano circa 50 persone, il 90% dei quali richiedenti asilo, in queste precise ore a rischio di deportazioni. Tra questi molti siriani e anche curdo-siriani. Alcuni di loro hanno ricevuto solamente il primo diniego e sono in attesa di definizione del ricorso. Uno degli arrestati è un giovane curdo-siriano che ha già subito violenze in Turchia.

Nella follia di un’Ue che dall’Accordo con Erdogan organizza, da mesi, deportazioni di massa di richiedenti asilo proprio verso i paesi da cui fuggivano. Siria, Afghanistan, Sudan, in un’apocalisse fascista senza precedenti, un’Europa cannibalesca diventa orco respingente o tank impazzito che piana tutto sul proprio passaggio: corpi “altri” da rigettare più in là, dietro confini ormai razziali. In questi giorni a Lesbos si gioca una partita cruciale, per tutti noi, la nostra possibile Tienanmen. I corpi in piazza questa volta sono quelli dei rifugiati. Insorti nel nome e per fare applicare le nostre stesse leggi e convenzioni, i nostri stessi valori.

Accampato sulla piazza di Saffo, nel cuore di Mytilene, Arash è simbolicamente seduto da un mese di fronte all’ufficio dell’Unhcr. Alla sua protesta nonviolenta, le autorità finora sono state indifferenti ( a parte liberare venedì scorso, anche per via della mobilitazione, suo fratello). Arash dal suo Tumblr chiama in causa le autorità greche e europee:

“We shall strike against you (Europe authorities), as we struck against injustice in our own countries. Just as we did not keep silent there, we shall not keep silent here…You can strike with your swords, your whips, your prisons but we shall strike with our pens and our torches. We do not strike with swords where there is darkness in order to show our strength, we strike matches to light candles. Our pens and our torches are more powerful than your swords. We know and you know that in the end we will defeat you…We are the people: you are the government. And the food of victory will, as always, be eaten by the people…#KozhinHussein and #BahroozArash have been hunger striking for 28 days. They will be released as Amir Hampay was released. From this you will inherit only shame”.

Dal 19 luglio, #solidarityactivistslesvos ha iniziato un relay dello sciopero della fame in solidarietà con i detenuti: salutando il loro coraggio nel resistere al reato di cercarsi una vita migliore e di fuggire da paesi non liberi. Per trovarsi di fronte il mostruoso nuovo fascismo europeo della frontiera. “Prima gli zingari… poi i rifugiati… e poi…”. La Resistenza ora abita un’altro campo, quello della libertà di movimento, quella dei profughi che rischiano la vita. Freedom. Riconosciamo almeno che gli dobbiamo tutto. E forse ancora, la nostra stessa libertà.

Nel lucido e bellissimo film-testimonianza dell’inumanità europea, #Sent to their Death, del giovanissimo artista regista afghano Fridoon Joinda, anche lui intrappolato in Grecia, Arash dichiara:

“A life without freedom is worthless and meaningless for us. You must release the refugees or we should end our lives in front of your eyes. Free us or else be responsabile for our deaths. We will keep waiting until the last drop of our life falls from our bodies. It is up to the European people to decide whether human rights should be granted to refugees.To decide whether they should live or die”.

Siamo tutti #Arash Hampay.

*Pubblicato sul suo blog di Huffington Post il 25/07/2017