Quanta discriminazione si può leggere dentro alla parola “clandestino”

Alessandra Ballerini*

Può sembrare quasi impossibile ma esistono decisioni dei tribunali che sono, non solo assolutamente comprensibili, ma anche godibili alla lettura. E non è una perversione per soli giuristi, davvero, ma è un piacere alla portata di tutti.
Così è naturale appassionarsi alla lettura dell’ordinanza del 22 febbraio scorso del Tribunale di Milano circa l’uso della parola clandestino riferita a dei richiedenti asilo e utilizzata nei cartelli affissi dalla Lega Nord per il Comune di Saronno. Il Giudice, senza mezzi termini, dichiara il carattere discriminatorio dell’espressione “clandestino” perché lesiva della dignità degli stranieri e capace di determinare  un clima intimidatorio.
“Il termine “clandestino”, si legge nella decisione, ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività… con l’epiteto di “clandestino” si fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale ed è idoneo a creare un clima intimidatorio. Contrariamente a quanto indicato nei manifesti per cui è causa, i 32 “clandestini” sono persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Stato italiano di riconoscere loro la protezione internazionale. Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano, perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d’origine, di subire un “grave danno”, non possono considerarsi irregolari e non sono, dunque, “clandestini”. .. Deve sottolinearsi come l’attribuzione ai richiedenti asilo dell’attributo di “clandestino” non si possa giustificare come una mera imprecisione terminologica, atteso che il termine ha una chiara ed univoca valenza negativa. A tale considerazione deve poi aggiungersi come la diffusione del termine “clandestino” nel linguaggio comune non possa costituire un elemento idoneo a privare di valenza negativa il termine utilizzato nei manifesti per cui è causa. L’espressione “clandestini”, evocando l’idea di persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale  veicola l’idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini. Emerge con chiarezza la valenza gravemente offensiva e umiliante di tale espressione, che ha l’ non solo di violare la dignità degli stranieri, richiedenti asilo, appartenenti ad etnie diverse da quelle dei cittadini italiani, ma altresì di favorire un clima intimidatorio e ostile nei loro confronti.”
Ma questa parola, seppure estranea al buon gusto e  ai testi di legge, viene usata spesso anche dalle nostre istituzioni oltre che da molti giornalisti, se non con dolo certamente con colpevole negligenza, consapevoli ma disinteressati delle conseguenze che l’uso massiccio e continuo di questa parola genera nell’opinione pubblica e delle ferite che crea nella dignità di chi la subisce e nella coscienza di chi passivamente l’ascolta, dell’inciampo che determina nel difficile percorso di integrazione e pacifica convivenza.
E così accade che la prefettura indichi, in un’indecente nota scritta, come “clandestini” i protagonisti di quel tragico sbarco del 3 ottobre 2013 nel quale persero la vita 368 persone, definite, nella medesima nota come “elementi” con quella violenza linguistica di cui è capace la nostra burocrazia, particolarmente abile “nella banalità del male”.
Lo stesso male sotteso nel recentissimo ed indecoroso accordo Italia – Libia dove, per legittimare un’intesa definita vergognosa da tutte le principali Ong, si fa continuo riferimento ai “migranti clandestini”, perché chiamarle persone, quelle creature in fuga che vorrebbero chiedere protezione nella fortezza Europa, potrebbe suscitare non dico empatia ma quantomeno rispetto per i diritti inviolabili dei quali sono, proprio in quanto persone, portatori.
D’altronde l’etimologia della parola clandestino indica chi si nasconde dalla luce del sole: “come i topi”, mi ha risposto prontamente uno studente straniero tempo fa, aggiungendo, dopo una pausa, l’amara riflessione: “per voi siamo come topi”.
Ecco ora, dopo questa decisione del Tribunale di Milano, chi tratta verbalmente gli esseri umani come fossero topi, chi li umilia e ferisce istigando odio, chi addirittura vorrebbe vietare di soccorrerli o sfamarli, sa che potrà essere punito e forse dovrà pure risarcire le vittime del suo disprezzo.
Ci sono ordinanze che sono davvero ottime letture.

Repubblica 26/03/2017