Pesa sul “sistema Italia” di accoglienza la vita spezzata di Ali Musa

 

di Emilio Drudi 

 

Pesa su tutto il “sistema Italia” di accoglienza e fa riflettere la vita spezzata di Ali Muse, il giovane somalo morto a Sesto Fiorentino nell’incendio dell’ex mobilificio abbandonato, dove dormiva insieme a un centinaio di compagni, profughi come lui. Fa riflettere per almeno due motivi.

Il primo è che questa tragedia sarebbe potuta accadere molto prima, decine di volte. Non solo nel capannone in rovina di Sesto, occupato dai disperati che ne hanno fatto un tetto di fortuna, ricavandosi un minimo di privacy con separé di cartone, fogli di compensato, legname di risulta. Edifici in disuso analoghi, diventati rifugio precario di migranti, ce ne sono tanti in tutta Italia, da nord a sud, specie nelle grandi città. I più “famosi” sono a Roma. Come Palazzo Selam, situato oltre il raccordo anulare, alla Romanina. Dopo che una serie di servizi giornalistici pubblicati dal New York Time e dall’Herald Tribune, nel 2012, hanno fatto esplodere lo scandalo, c’è stata anche un’inchiesta dell’Unione Europea, senza però conseguenze pratiche: cessato il clamore iniziale sollevato dalla denuncia, l’impegno di “provvedere”, preso dal Governo Monti, è stato presto dimenticato e la situazione non è cambiata. Oltre 1.200 uomini e donne continuano a restare ammassati in una struttura nata per ospitare uffici, senza servizi adeguati, senza diritti, senza niente: braccia buone per il lavoro nero.

Mille e più sono in un palazzone scrostato del quartiere Collatino, sempre nella periferia romana, ma un altro migliaio in un edificio in pieno centro, all’angolo tra via Curtatone e piazza Indipendenza, 300 metri dalla stazione Termini. Il “meno peggio” dei tre, ma pur sempre una enclave a sé nella città, conosciuta ma ignorata da tutti – Viminale, Prefettura, Regione, Comune – nonostante anche qui ci siano elementi di rischio: un anno fa, ad esempio, i vigili del fuoco vi hanno sequestrato una cinquantina di bombole di gas, usate dai migranti per le cucine improvvisate di cui si servono, ma installate alla meglio e al di fuori di qualsiasi norma di sicurezza. E questi sono solo i tre casi più eclatanti. Sempre a Roma si contano una decina di occupazioni simili, sia pure “minori”. Poi Torino, con un migliaio di “inquilini” nelle palazzine ex Moi, costruite in occasione delle olimpiadi invernali. O Milano, Bari e, si scopre ora, ancora una volta dopo una tragedia, Firenze.

E’ lunga la lista di questi “alloggi forzati”. “Forzati” perché i migranti che li abitano – quasi sempre rifugiati politici – non hanno alternative: sono stati costretti a scegliere tra quelle “case” e la strada. Il punto è che sono stati abbandonati, anzi, molti di loro dicono “ingannati”, dallo Stato italiano, che se li è presi in carico come rifugiati ma poi se ne è disinteressato totalmente dal momento stesso in cui ha consegnato a ciascuno di loro il permesso di soggiorno. Perché questo accade: sono stati dichiarati in regola, con il diritto all’accoglienza, ma non esiste un sistema che li accompagni su un percorso di inserimento: casa, lavoro, studio dell’italiano… Niente. E’ paradossale: diventano fantasmi appena vengono ufficialmente accolti come “regolari”, non-persone che vanno a ingrossare, anno dopo anno, una sacca già enorme di sfruttati.

Sono i numeri del sistema a provarlo: su 179 mila migranti ospitati nel 2016, soltanto 23 mila si trovano nelle strutture della rete Sprar, gestita dal Viminale insieme ai comuni, l’unica che preveda un itinerario di inclusione. Gli altri sono nei Cara, i centri per richiedenti asilo, oppure nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria, in attesa che arrivi il nulla osta per lo status di rifugiato o per un’altra forma di protezione internazionale. Un’attesa lunga almeno un anno, spesso anche di più. Senza poter far niente: solo aspettare. “Eppure – dice un assistente sociale che lavora in uno di questi Cas, a Latina – è assurdo, ma spesso c’è da augurarsi che questa attesa duri anche di più, perché una volta ottenute le ‘carte’ questi ragazzi vengono messi fuori su due piedi, senza prospettive, senza un minimo di informazioni e indicazioni su come muoversi. Senza un tetto dove dormire… Buttati in strada e basta. Allo sbando”.

Il secondo dei motivi che danno da pensare, nel dramma di Sesto Fiorentino, sono proprio le “carte”. Quelle carte che magari li lasciano allo sbando, ma che per i profughi sono ugualmente la vita stessa. Ecco, Ali Muse è morto proprio per quelle carte. Lo hanno raccontato i suoi amici. Era riuscito a salvarsi dall’incendio, ma nella concitazione della fuga non aveva preso con sé i suoi documenti. Allora è voluto rientrare nel capannone. Gli amici hanno cercato di trattenerlo, perché la struttura era ormai avvolta da una densa nube di fumo nero, ma non ha voluto ascoltarli: quei documenti dimenticati  per lui erano tutto.

Quali documenti? Quelli personali di identità, ad esempio: la “carta” della Questura e la tessera Asl che attestano lo status di “migrante regolare”. Già, “regolare”: una parola magica, che ti salva dagli allontanamenti forzati, magari di massa, dall’Italia. Gli allontanamenti di cui proprio in questi giorni si sente parlare sempre più spesso, con il programma “tolleranza zero” annunciato dal ministro dell’interno, Marco Minniti, che prevede anche di riaprire i Cie per moltiplicare le espulsioni. Senza dire della proposta di rivedere l’ordinamento dei ricorsi contro i respingimenti, abolendo o rendendo in pratica quasi impossibile un secondo grado di giudizio dopo la prima sentenza. Documenti per la vita, dunque. Ecco perché si è pronti a tutto per conservarli. Come ha fatto appunto Ali Muse ed altri prima di lui: è morto così anche Sarang, un giovane cingalese annegato a Ostia nell’ottobre del 2011, durante un’alluvione, nel mare di acqua e di fango che stava sommergendo la sua casa, al piano seminterrato, dove è voluto tornare ad ogni costo per recuperare il permesso di soggiorno che aveva dimenticato fuggendo, pochi minuti prima.

Ali Muse, però, teneva ancora di più ad altri documenti. Aveva ottenuto il ricongiungimento familiare con la giovane moglie, lasciata in un campo profughi del Kenya, dove erano fuggiti insieme dalla Somalia, travolta da una guerra che dura da più di vent’anni e dal terrore seminato dalle milizie jihadiste di Al Shabaab. Sperava, anzi probabilmente sentiva forte dentro di sé che poter riabbracciare la sua compagna sarebbe stata come la prova che la vita poteva finalmente ricominciare. E invece la nuova vita è rimasta soffocata in quel capannone. Quando i vigili del fuoco lo hanno trovato, riverso a terra, non respirava più: il fumo deve avergli fatto perdere l’orientamento e i sensi ed è morto asfissiato. Forse, allora, la maniera migliore per onorarne la memoria è non renderne vano il sacrificio: fare in modo, cioè, che quella ragazza arrivi in Italia. Non dovrebbe essere difficile. In Prefettura e in Questura sapranno di chi si tratta e dove si trova: basta ritrovare nei “registri” la pratica di ricongiungimento presentata da Ali Muse. Magari potrebbero farsene carico i sindaci di Sesto o della stessa Firenze, il presidente della Regione Toscana, il Viminale, la Farnesina. Insomma, tutte le istituzioni e le “autorità” che non hanno mai visto quella ex fabbrica occupata da cento disperati se non per firmare ordinanze di sgombero. Senza alcuna alternativa.

E poi chissà, questa storia – nonostante il pesante giro di vite annunciato dal ministro Marco Minniti, dal commissario europeo per l’immigrazione Dimitris Avramopoulos e dal presidente Ue di turno, Joseph Muscat – potrebbe forse contribuire a risolvere il dramma di tantissime donne, giovani come la moglie di Ali Muse, bloccate in Etiopia, in Sudan, in Uganda, in Kenya, da lungaggini, dinieghi, pretesti assurdi accampati dalle ambasciate italiane, che mettono in discussione i nulla osta al ricongiungimento familiare rilasciato ai mariti da parte del Ministero dell’Interno, attraverso le prefetture delle province dove risiedono e si sono integrati, magari da anni. Perché anche questa assurdità accade nel “sistema Italia” per l’accoglienza: la Farnesina che smentisce il Viminale. Lo Stato in conflitto con se stesso. E in questo meccanismo perverso a restare stritolati sono, ancora una volta, i più deboli: i rifugiati e i migranti.