La memoria è una lanterna. Storia breve e luminosa di un partigiano sinto

Buon 25 aprile a chi ci legge. Abbiamo pensato fosse utile parlare di questa data importante riconducendola alle  ragioni che hanno portato a costituire ADIF e ringraziamo l’autrice che ci ha regalato un articolo tanto documentato quanto carico di passione politica e civile. Ne abbiamo bisogno noi e forse anche chi ci ascolta.

Giulia Veca

Ho letto il suo nome per la prima volta nel 2008 su Lacio drom, rivista bimestrale del Centro Studi Zingari di Roma. Le mie gambe penzolavano da una sedia troppo alta e molto scomoda nella sala consultazione della Biblioteca Regionale Siciliana. Lo ricordo bene perché alcune pagine non erano ancora state tagliate. Nessuno fino ad allora le aveva aperte, e dunque lette, nonostante fossero trascorsi vent’anni dalla loro pubblicazione[1]. La sola idea di essere la prima a farlo mi eccitava non poco. Credevo che quella rivista – e tutto il mondo che stava per svelarmi – fosse lì per me. E io per lei, come cantava l’indimenticabile Pino Daniele: “Se sei tu il mio destino, allora portami via”.

Un lungo articolo di Mirella Karpati affrontava un tema doloroso e poco conosciuto ancora oggi, lo sterminio della popolazione romanì durante la Seconda guerra mondiale. Sterminio che nella lingua dei rom viene indicato con due termini: porrajmos, “divoramento”, e samudaripèn, l’essere “tutti morti”.

Le deportazioni, le esecuzioni di massa, il numero impressionante di morti nei campi di concentramento di tutta Europa, le torture, gli esperimenti “scientifici” e le foto dei corpi martoriati mi costrinsero a fare più di una pausa durante la lettura.

In quelle pagine si faceva cenno anche alla politica dell’Italia fascista nei confronti dei rom e dei sinti e al loro internamento nei campi di Agnone (Molise) e Tossicia (Abruzzo), argomento di cui si sono occupati in seguito e più diffusamente altri studiosi: Giovanna Boursier e Luca Bravi, solo per citarne un paio.

Tra i partigiani, Karpati ricordava alcuni rom e sinti che combatterono in prima linea contro il nazifascismo: il sinto Amilcare Debar, “Taro”, che dopo la guerra ricevette il diploma di partigiano dal Presidente Sandro Pertini, il rom istriano Giuseppe Levacovic, “Tzigari”, Rubino Bonora, sinto della divisione “Nannetti” che combatteva in Friuli Venezia Giulia e i due cugini Catter, anch’essi sinti, Walter che fu impiccato a Vicenza nel 1944 e Giuseppe, ucciso dai fascisti appena ventenne.

Erano dunque esistiti rom e sinti che avevano partecipato alla Resistenza, erano stati soggetti politici attivi e avevano contribuito alla formazione dell’Italia democratica. Non una parola di tutto ciò avevo letto nei manuali di storia del liceo e dell’università. E non poteva certo trattarsi di una svista. Gli Stati nazionali hanno molti strumenti per annientare una minoranza odiata: l’eliminazione fisica e quella culturale. In Europa, la popolazione romanì le ha subite entrambe.

L’anno successivo acquistai e lessi (comodamente a casa mia) il bellissimo libro di Pino Petruzzelli, Non chiamarmi zingaro[2]. Quando Pino Petruzzelli scrive, parla e racconta, io imparo sempre qualcosa di sorprendente e disturbante, ma non della cultura romanì, di cui non è uno studioso; imparo qualcosa dell’Italia, delle asimmetrie di potere, dei silenzi complici e delle parole che discriminano. Quando Pino Petruzzelli scrive, parla e racconta di rom, tutti loro smettono di essere l’oggetto misterioso di studi antropologici e sociologici e tornano finalmente ad essere ciò che sono sempre stati: uomini e donne tali e quali a me. Quando Pino Petruzzelli scrive, parla e racconta, le distanze si accorciano.

Nell’ultima pagina del suo libro – e il luogo non mi parve casuale – incontrai nuovamente Giuseppe Catter e cominciai a scoprire qualcosa in più della sua breve vita.

Giuseppe era un sinto piemontese nato in provincia di Cuneo nel 1923 e di mestiere faceva l’orologiaio. Durante la Seconda guerra mondiale scelse di unirsi ai partigiani. Anche lui, come i suoi compagni aveva un nome di battaglia: Tarzan. Fu catturato da un gruppo di fascisti mentre si trovava sul Colle San Bartolomeo, nelle Alpi Liguri. Fu portato ad Aurigo, in provincia di Imperia, e torturato affinché parlasse. Giuseppe non parlò e venne ucciso. Era il 1944, aveva solo 21 anni. A lui, così giovane e così coraggioso, fu intitolato un distaccamento della sua Brigata.

Conclusa la lettura, feci una piccola ricerca sul web. Poche le notizie e le fonti attendibili, ma in compenso trovai una sua fotografia. Mostrava un giovane tutto sorriso e onde di brillantina. Oltre a un nome, un cognome e un soprannome, quel partigiano aveva adesso anche un volto.

Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, rappresentanti di varie istituzioni ci invitano a ricordare, a celebrare la memoria come imperativo etico e per farlo si affannano a organizzare commemorazioni ufficiali che raramente aprono una riflessione critica sul passato e ancor più raramente pongono interrogativi sul presente. Cerimonie spesso vuote che sembrano influenzare ben poco le nostre coscienze e l’azione politica dei nostri governanti.

Ma la memoria è altro. O forse è altrove. E spesso non compare in quelle celebrazioni. L’avremmo riconosciuta, perché la memoria è una lanterna che illumina gli angoli bui del nostro presente. Quel presente in cui la popolazione romanì vive confinata nei campi “nomadi” e subisce discriminazioni nell’accesso alla casa, al lavoro, ai servizi. Quel presente in cui un candidato che ambisce alla poltrona di sindaco della Capitale afferma che i rom “per la loro identità hanno difficoltà a integrarsi”[3]. Quel presente in cui due ultras dello Sparta Praga, giunti in Italia per seguire una partita della loro squadra, urinano addosso a una donna che chiede qualche moneta nel centro di Roma e tornano tranquillamente nel loro Paese senza che le nostre istituzioni intervengano a condannare l’accaduto e a punirli come meritano[4]. Quel presente in cui il disprezzo esplode persino in un campo di calcio, tra i denti di un giocatore che definisce l’avversario “zingaro di merda”, senza subire per questo alcuna sanzione[5].

Celebrare la Liberazione significa riconoscere che le cause che determinarono quella storia sono ancora presenti nella nostra società. L’ostilità nei confronti delle minoranze, la retorica dello straniero, le politiche dell’esclusione, il razzismo sono attivi e ben visibili: hanno la forma dei ghetti monoetnici in cui continuiamo a segregare migliaia di donne, uomini e bambini. La figlia di Rubino Bonora ha vissuto per anni in un campo “nomadi” di Vicenza. Rubino, potrai mai perdonarci?

Io non voglio salvare Giuseppe Catter dall’oblio, non è il mio compito e non ho il potere di farlo e non voglio neanche salvare i rom e i sinti, perché non hanno bisogno di tutori e a poco a poco, nonostante l’ostilità generale, stanno trovando la forza di rivendicare i loro diritti, per troppo tempo negati. Io voglio vivere in un Paese diverso, migliore, in cui altri esseri umani non vengano confinati nei campi o, come qualche amministratore preferisce chiamarli con incredibile cinismo, nei “villaggi della solidarietà”. Questi luoghi che noi progettiamo, realizziamo, manteniamo sono figli dei campi di concentramento, perché sono basati sui medesimi criteri: esclusione, segregazione, controllo. Senza questa consapevolezza, la memoria non può avere alcun valore positivo.

Ciao, Giuseppe e grazie.

  1. M. Karpati, Il genocidio degli zingari, in «Lacio drom», Rivista bimestrale di studi zingari, Anno 23, n. 1, 1987.
  2. P. Petruzzelli, Non chiamarmi zingaro, Chiarelettere, Milano 2008.
  3. Cfr. l’intervista rilasciata da Alfio Marchini a Stefano Cappellini per Repubblica tv, al seguente link: http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/02/23/news/elezioni_comunali_roma_alfio_marchini_repubblica_tv_reptv-134040955/.
  4. Cfr. il video pubblicato sul sito di Rai news, al seguente link: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Follia-ultra-tifoso-Sparta-Praga-urina-su-una-mendicante-Lei-C-era-chi-faceva-le-foto-2d709034-0fab-4493-bd97-f464c2f5b353.html.
  5. Ad insultare il giocatore croato della Juventus, Mario Mandzukic, è stato il capitano giallorosso Daniele De Rossi. Cfr. il link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/24/daniele-de-rossi-insulto-razzista-a-mario-mandzukic-stai-muto-zingaro-di-merda/2402122/.