Acqua e migrazioni ai tempi del Covid 19

di Antonella Leto,Forum siciliano per l’acqua ed i beni comuni

*relazione presentata al seminario su “Guerre, Migrazioni e Diritti nel Mediterraneo” promosso da ADIF il 20 novembre scorso in collaborazione con l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e con il Dipartimento di Scienze della formazione del’Università di Palermo

Il Medio Oriente e il Nord Africa, il MENA, è la regione più idricamente stressata della Terra: 12 dei 17 Paesi a maggiore stress idrico al mondo sono nel MENA, una regione calda e siccitosa dove la risorsa idrica è bassa in partenza, ma la crescita della domanda ed il prelievo intensivo ha spinto i Paesi verso lo stress idrico estremo. La quantità di prelievi supera la capacità di rigenerazione delle fonti e degli invasi. Quasi i tre quarti degli abitanti di questi Paesi vivono al di sotto della soglia di penuria idrica stabilita in 1.000 m3 all’anno e circa la metà vivono in una situazione di carenza idrica estrenma, con meno di 500 m3, soprattutto in Egitto e Libia. Le proiezioni al 2050 sono catastrofiche.

L’accaparramento delle risorse idriche in queste regioni ha radici millenarie, ma dal dopoguerra è stato alla base dei maggiori conflitti dell’area mediterranea, divenendo al contempo sia lo stumento che l’oggetto delle guerre combattute tra i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, che si sono giocate e si giocano sullo scacchiere delle contrapposte politiche internazionali.

La maggior parte dei bacini acquiferi del Medio Oriente e del Nord Africa sono divisi tra Paesi in conflitto tra loro. Ogni guerra ha avuto tra i suoi obiettivi anche quello, considerato fondamentale, del controllo sulla risorsa. In un’area fortemente instabile, dai numerosi nodi geopolitici irrisolti, la gestione dell’acqua assume un peso strategico determinante. Non a caso l’acqua è definita dagli analisti  della Difesa come un’arma strategica.

Gli esempi principali riguardano i conflitti per il controllo del bacino del Tigri – Eufrate, che vede coinvolti la Turchia, la Siria e l’Iraq, e quelle per il controllo del bacino idrico del Giordano,  geograficamente e politicamente divisa fra quattro Stati, rientrando nei confini di Israele, Giordania e Siria e interessando anche il Libano.

Se la guerra dell’acqua non esaurisce l’origine del conflitto arabo-israeliano, e ancor meno quello israeliano-palestinese, nei termini esclusivi di occupazione di territori strategici per il controllo dei bacini idrografici, la storia ci racconta che il controllo delle risorse dal punto di vista strategico e militare ha sempre avuto e continua ad avere un ruolo determinante.

Il controllo delle risorse idriche in tutta l’area del Mena si è sviluppato attraverso imponenti opere di ingegneria idraulica  volte a sottrarre e controllare a monte le risorse e da operazioni belliche per la conquista delle fonti; gli innumerevoli negoziati che hanno intervallato i conflitti non sono mai andati a buon fine o sono stati sistematicamente violati.

Non volendo ripercorrere tutte le tappe dei conflitti nelle due aree fino a quelli in corso, mi preme qui ricordare che ogni opera realizzata per controllare la risorsa idrica corrisponde alla devastazione irreparabile di ambienti e cicli naturali,   dando vita a migrazioni forzate di intere popolazioni costrette a rifugiasi presso le citta o in campi profughi per tentare di  sopravvivere.  

In Turchia sono presenti più di 500 dighe. Solo due esempi: la diga di Atatürk, realizzata nel 1990, ha garantito alla Turchia il controllo del Tigri e dell’Eufrate: è una delle più grandi del mondo con i suoi 48 milioni di m3.

Un tunnel  lungo 2 614 km e largo 7,62 metri, il più grande mai realizzato sulla Terra, trasferisce le acque fuori dall’area del bacino dell’Eufrate. Le sole operazioni di riempimento di questo immenso bacino hanno fatto abbassare la portata dell’Eufrate di quasi il 50% . Con la realizzazione del progetto, il fiume ha subito una diminuzione del 40% per la Siria e di circa il 90% per l’Iraq. 

L’acqua prelevata a monte è stata tolta a valle; la prima conseguenza è stata la scomparsa delle paludi; la zona umida della Mesopotamia, che combacia con la mezzaluna fertile, ha raggiunto nel 2000 un nuovo record negativo: ne è rimasto soltanto il 10% del totale originale. Nel 1970, l’estensione totale era pari a 20 000 km2, nel 2000 durante il regime Saddam Hussein il 90% della zona umida era stata prosciugata. Le conseguenze del prosciugamento sono state drammatiche, in particolare per il declino della popolazione, gli “arabi delle paludi”, considerati tra i più antichi abitanti della Mesopotamia; mezzo milione di persone di questa comunità vive in campi profughi in Iran o sparsi sul territorio iracheno. Solo in seguito l’acqua è parzialmente tornata nell’area che si estende da Bassora e Nassirya sino ad Amara, ovvero nel grande delta alla confluenza tra il Tigri e l’Eufrate.

La motivazione ufficiale della costruzione della diga di Ataturk è stata quella di riempire il lago di fronte allo sbarrramento. In realtà, si trattava di una dimostrazione di forza per indurre la Siria a ritirare il supporto al gruppo separatista curdo. L’Iraq si ritrovò improvvisamente a corto d’acqua e strinse un’allenza con la Siria. La Turchia fu quindi costretta a garantire un flusso di 500 metri cubi al secondo ai due paesi privati dell’acqua.

Ultima delle grandi opere turche realizzate in ordine di tempo  è la diga di Ilisu.  Il riempimento del bacino artificiale completato a luglio di quest’anno ha sommerso 160 km del fiume Tigri, di 315 chilometri quadrati di territorio,  l’antica città di Hasankeyf  e con essa 12 mila anni di storia nella culla della civiltà, causando la perdita delle abitazioni per circa 80.000 curdi.

A nulla sono valse le resistenze al progetto del 2011, sia a livello internazionale che interno dei movimenti ecologisti e di coloro che vedevano nel sito archeologico e storico di Hasankeyf un patrimonio dell’umanità; Il sito unesco non è mai nato. La forte mobilitazione per la difesa del sito e delle sue popolazioni ha fatto sì che gli invesitori internazionali, tra cui l’italiana Imprigilio, si ritirassero dal progetto, ma Erdogan è riuscito a trovare i finanziamenti per completare l’opera che  a detta di tutti gli osservatori internazionali più che a fornire il 2% delle risorse elettriche al Paese è stata voluta in funzione della volontà di cancellare l’identità e la storia del popolo curdo.

Per brevità non ripercorro le guerre dell’acqua per il controllo del Giordano da parte di Israele ne della progressiva e costante sottrazione insieme ai territori delle risorse idriche alla Palestina. Negli ultimi anni le politiche israeliane, mentre continuano a ridurre la possibilità di vita nei territori occupati, sono impegnate ad accreditarsi sul panorama internazionale come tra le più avanzate in termini di gestione industriale, tecnologica e finanziaria dell’acqua.

Gli equilibri geopolitici globali si fondano sull’accaparramento e sulla finanziarizzazione delle risorse primarie di cui l’acqua, per la valenza di indispensabilità alla vita umana e del pianeta resta la principale e  paradigmatica, in un ottica estrattiva che non tiene in alcun conto i diritti umani delle popolazioni, l’equilibrio degli ecosistemi e la stessa sopravvivenza della vita sul pianeta.

I mutamenti climatici sono il risultato delle politiche dissennate messe in campo dal dopoguerra in poi in quest’ottica estrattiva, contendibile e proprietaria delle risorse; politiche legate all’idea di sviluppo illimitato, in cui petrolio e gas continuano ad essere gli asset portanti, e di cui le guerre rappresentano gli strumenti estremi ma abituali per perseguirle, determinando una accelerazione senza precedenti nella storia dell’umanità verso l’estinzione di massa.

Gli Stati Uniti ad esempio si apprestano a quotare l’acqua in borsa, rafforzando anziché cancellare il trend globale di considerare le risorse primarie indispensabili alla vita come merce tanto più remunerativa quanto più rara. Nel silenzio generale in questi giorni la tensione tra Grecia e Turchia per il controllo delle risorse petrolifere di quell’area del mediterraneo apre un nuovo fronte. 

Le condizioni esistenziali delle comunità umane e dell’ambiente, già gravemente compromesse, restano ostaggio della mancanza di una visione globale dell’emergenza in atto e dalla totale incapacità della comunità internazionale ed europea di opporre resistenza alle pressioni degli interessi politico-finanziari messi in campo dai singoli Paesi e dai blocchi contarpposti sullo scacchiere internazionale.  

I numeri degli sfollati e dei profughi a causa di guerre, carestie, desertificazione, accaparramento di terre e risorse primarie è in aumento esponenziale.

La crisi siriana in 9 anni di conflitto ha prodotto 6,1 milioni di sfollati interni, di cui quasi 1 milione solo da dicembre 2019. Di questi 60% sono bambini e il 21% donne. Scuole e ospedali sono sistematicamente bombardati. Oltre 5,6 milioni i rifugiati siriani nei paesi limitrofi, rispettivamente: – 3,6 milioni in Turchia – 918.000 in Libano – 654.000 in Giordania – 234.000 in Iraq – 129.000 in Egitto.

In Libia il conflitto ha provocato 200.000 sfollati.

La crisi yemenita  ha prodotto 3,6 milioni di sfollati: tra questi oltre 700.000 persone vivono in più di 1.700 insediamenti informali senza servizi o con servizi limitatissimi. Sono già oltre 24 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria a causa del conflitto.

Giordania, Libano, Iraq, Egitto e Turchia ospitano oltre 5 milioni di rifugiati siriani registrati. In Giordania risiedono 656.000 rifugiati siriani.

I profughi registrati sulle isole greche provenienti per lo più da Siria, Afghanistan e Iraq sono 42.000. l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha chiesto invano l’evacuazione per motivi sanitari dei richiedenti asilo che popolano i campi profughi delle isole elleniche.

A questi si aggiunge la pressione dei migranti ambientali ed economici dell’area sub sahariana.

La pandemia sta mettendo in luce in tutta la sua crudezza quanto sia fallimentare la politica di esternalizzazione dei confini nella non gestione delle migrazioni, senza volerne affrontare le cause, gli aiuti economici europei per contenere l’emergenza sanitaria covid in condizioni igienico sanitarie impossibili, in cui l’accesso all’acqua potabile ed ai servizi igienico sanitari è nella maggior parte dei casi difficile se non impossibile, farebbero sorridere se non fossero causa costante di morti silenziose.

È utopico pensare che le politiche di stampo autoritario, dittatoriale e reazionario legate al controllo ed all’uso dissennato delle risorse risultino folli a fronte dell’emergenza umanitaria e climatica che hanno generato? Che debbano cessare? È utopico pensare che la comunità internazionale a partire dall’Europa dovrebbe assumere un ruolo chiave di cambiamento radicale di rotta, rinunciando alla difesa degli interessi economici nazionali in favore di politiche globali che risarciscano il danno prodotto, che possano mettere al centro la sopravvivenza e la vita dignitosa delle persone, la salvezza del pianeta?

Guardando all’oggi sicuramente sì. Anche se le spinte culturali verso una inversione di rotta sono sempre più chiare e definite. Forse uscire dall’era del fossile, dal petrolio e dal gas, può corrispondere all’uscita da alcuni conflitti. Non resta che continuare a connettere tutti quei mondi che guardano ad un altro mondo possibile, locale e globale. In questo un nuovo ruolo attivo delle donne del mediterraneo a fronte di politiche di sopraffazione arcaiche e di stampo machista possono essere fondamentali.