di Fulvio Vassallo Paleologo
Con l’ecatombe del mese di gennaio, con un numero di vittime superiore rispetto a quello del corrispondente mese dello scorso anno, sembra che la rotta libica sia temporaneamente chiusa. Dopo l’impennata dello scorso mese, negli ultimi quindici giorni, a febbraio, non si registrano praticamente attività di soccorso sulla rotta del Mediterraneo centrale, e gli unici sbarchi che ancora si sono verificati riguardano poche decine di migranti tunisini, bloccati a Lampedusa o sulle coste siciliane e quindi trasferiti in centri Hotspot come quello di Trapani Milo. Ma su tutto questo regna un silenzio assordante e per avere notizie occorre consultare la stampa locale o siti stranieri.
Le cause di questo calo delle partenze, censito anche dal ministero dell’interno, risiedono probabilmente nella nuova manciata di euro che è stata pagata alle milizie libiche, e nella situazione di crescente conflitto in Libia ed ai confini meridionali.
La missione militare italiana in NIger sta partendo sotto i peggiori segni di opacità e di inconcludenza. Sembra che non sia condivisa neppure dalle autorità nigerine. Intanto nei paesi nordafricani si moltiplicano le fosse comuni di migranti che sono morti nel deserto, se non nel tentativo della traversata.
Continuano a circolare notizie sulla collusione tra la Guardia costiera libica ed i trafficanti. Nessuno ha smentito veramente quanto affermato in un recente rapporto delle Nazioni Unite. Un rapporto che evidentemente non è pervenuto al Viminale. Oggi che stanno arrivando i finanziamenti, probabilmente, occorre dimostrare all’Unione Europea che quei soldi sono stati inviati agli indirizzi “giusti”.
I comandi di “stand by” impartiti dal Comando centrale della Guardia costiera (MRCC) alle navi umanitarie che potrebbero intervenire con immediatezza in acque internazionali, e la “chiamata” alle autorità libiche, designate in un secondo momento come “Autorità Sar responsabile”, implicano scelte che corrispondono negli effetti ad un vero e proprio respingimento collettivo, attuato dalle autorità italiane in concorso con gli assetti europei presenti in acque internazionali. Scelte dettate alle autorità militari in base agli accordi politici raggiunti tra il governo Gentiloni-Minniti e Serraj, premier del governo di Tripoli sostenuto dalle Nazioni Unite.
Tutte le attività dell’Unione Europea e delle sue agenzie, come Frontex, sono rivolte al contrasto di quella che viene definita come immigrazione “illegale”, anche se ormai è a tutti noto da cosa fuggono i migranti intrappolati in Libia. L’operazione Eunavfor Med si limita a lanciare dispacci per coinvolgere navi commerciali in eventuali attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, ma non dispone di mezzi adeguati per rimpiazzare le ONG che, tra denunce ed intimidazioni, sono state ( quasi tutte) allontanate. Sull’ultimo naufragio, avvenuto agli inizi di febbraio, è calata una censura totale. Ormai si muore anche assai vicino alle coste libiche, mentre i mezzi della Guardia costiera di Tripoli si spingono in acque internazionali nel tentativo di riprendere e riportare a terra i migranti che sono riusciti ad allontanarsi dalle acque territoriali.
Le modalità di intervento della Guardia costiera libica che le autorità italiane hanno utilizzato per riprendere anche migranti giunti in acque internazionali, per quanto contrarie al diritto internazionale del mare, potrebbero avere contribuito a questa riduzione degli arrivi. Ma una zona SAR libica non esiste, come ammettono adesso anche altri vertici della marina italiana. Una ammissione che è anche una ammissione di responsabilità.
Mentre in Italia Minniti riscuote il riconoscimento delle destre per il calo dei soccorsi in acque internazionali, e quindi di sbarchi in Italia, aumenta in Libia il numero dei migranti che, proprio per effetto delle ridotte possibilità di fuga, o della maggiore attività della Guardia costiera di Tripoli, in collaborazione con le autorità italiane, vengono ripresi dai Nuclei anti immigrazione illegale del governo Serraj, oppure bloccati in mare e riportati a terra.
Nulla si sa sull’invio delle Organizzazioni non governative italiane nei centri di detenzione in Libia, una iniziativa fortemente pubblicizzata dal ministro degli esteri Alfano alla fine dello scorso anno, sulla quale adesso, in campagna elettorale, sembra calato un imbarazzato silenzio.
Se non si tratta di criminalizzazione dei migranti, a ridosso di pur gravi fatti di cronaca, sembra che la questione della migrazione in Italia sia stata rimossa nei suoi contenuti, e rimanga al centro della campagna elettorale solo quando occorre “sparare” cifre inattendibili oppure spargere vero e proprio odio razziale. Ma il governo Gentiloni ed il ministro Minniti non trarranno molto vantaggio dalla politica di morte che, dopo il Memorandun d’intesa del 2 febbraio 2017 e gli attacchi diffamatori alle ONG, ha accresciuto in modo esponenziale le vittime in mare e gli abusi ai quali rimangono sottoposti i migranti ingabbiati nei tanti centri di detenzione ufficiali ed informali in Libia.
Le garanzie dettate dagli articoli 10,13 e 24 della Costituzione sembrano non valere più per coloro che sbarcano nel nostro paese e dovrebbero essere respinti o espulsi. Sul territorio italiano infatti la sorte di coloro che, malgrado le politiche di blocco, arrivano dalle coste nord-africane è sempre più affidata alla discrezionalità delle forze di polizia e sottratta al principio di legalità ed al controllo giurisdizionale, con un ricorso strumentale alle procedure di esame accelerato delle domande di protezione internazionale e di respingimento collettivo. Procedure che adesso si svolgono anche a Lampedusa.
Malgrado le condanne subite dall’Italia nel 2016 sui casi Khlaifia , proprio per l’illegittimo trattenimento di cittadini tunisini a Lampedusa, e Richmond Yaw, da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nonostante le ripetute segnalazioni critiche da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, si continua a consentire alle forze di polizia il trattenimento amministrativo oltre i termini previsti dalla legge, anche nel caso di minori, come si è verificato negli Hotspot di Lampedusa e Taranto. A Lampedusa non si contano più le proteste, con i migranti, trattenuti per settimane nell’Hotspot di Contrada Imbriacola, che si cuciono la bocca con un filo, ma nessuno sembra preoccuparsi di quanto sta avvenendo in quell’isola.
Le ultime direttive impartite dal ministro dell’interno hanno trasformato anche il centro Hotspot di Trapani, che finora aveva funzionato con modalità rispettose del dettato di legge, come censito anche dalla Commissione di inchiesta della Camera sui centri per stranieri, in un vero e proprio centro di detenzione nel quale sono riprese le rivolte. Un centro particolarmente “dedicato” ai migranti tunisini, che sono rimasti tra i pochi che si riescono a rimpatriare effettivamente, in base agli accordi bilaterali di riammissione esistenti tra la Tunisia e l’Italia. Come se tutti i migranti provenienti dalla Tunisia fossero qualificabili “migranti economici”, come se non esistessero persone che, pur provenendo dalla Tunisia, sono comunque portatrici di istanze fondate di protezione internazionale o umanitaria.
Occorre dimostrare a tutti i costi che chi è fuggito dalla Libia non ha diritto ad alcun titolo di soggiorno. Nelle Commissioni territoriali stanno prevalendo linee sempre più restrittive, dettate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, e la nuova composizione delle Commissioni potrebbe accrescere i dinieghi per effetto di un maggiore conformismo agli indirizzi provenienti dall’alto.
In questa situazione complessiva si inseriscono i numerosi casi di rivolta che si sono verificati prima a Lampedusa, poi nel CIE di Caltanissetta ( Pian del Lago) oggi chiuso proprio per i lavori di ripristino, necessari dopo una rivolta di alcuni mesi fa, ed adesso nell’Hotspot di Trapani, che è stato impropriamente adibito a centro di detenzione, come è denunciato anche delle forze di polizia preposte a trattenere gli “ospiti” con la forza dei manganelli, in una struttura che già quando era adibita a CIE risultava praticamente indifendibile ed era teatro di continui tentativi di fuga. Occorre un intervento urgente del Garante per le persone private della libertà personale, in un momento in cui le autorità di controllo di estrazione parlamentare sono inattive. Va anche ricordato che nei centri Hotspot italiani sono presenti decine di agenti di Frontex, o meglio della Guardia di frontiera e costiera europea, come adesso l’agenzia è stata denominata. Ma la presenza di questi agenti non ha comportato un maggior rispetto dei termini di trattenimento amministrativo previsti anche dalle direttive europee in materia di rimpatrio forzato e di protezione internazionale.
Quanto sta avvenendo negli Hotspot italiani trasformati impropriamente in centri di detenzione, dove si applicano misure di limitazione della libertà personale in contrasto con la normativa nazionale ed europea, fa capire molto bene quale potrebbe diventare il livello delle violazioni dei diritti fondamentali delle persone se, dopo le elezioni, un nuovo governo, con dentro anche la Lega, dovesse dare corso alle promesse elettorali di rimpatrio forzato di 600.000 persone. Operazione che avrebbe minime possibilità di realizzazione effettiva e costi comunque insostenibili. Un numero di espulsioni con accompagnamento forzato, e dunque con scorta di polizia, almeno due agenti per ogni migrante, calcolato in modo arbitrario, sulla base degli arrivi forzati e spesso dei soccorsi in mare negli anni 2015, 2016 e 2017, dopo la fine dell’Operazione Mare Nostrum. In gran parte persone fuggite da torture di ogni genere che, a prescindere dal paese di provenienza, avrebbero comunque diritto ad uno status di protezione in Europa. Un’Europa che non è stata capace neppure di garantire la Relocation promessa nel 2015 a Grecia ed Italia. O di modificare il Regolamento Dublino, in questo caso anche per giravolta italiani. Il governo italiano si è prestata ai peggiori piani di rimpatrio forzato voluti da Bruxelles e attuati dal Viminale, come nel caso dei rimpatri in Egitto e Sudan. Con la trasformazione di Lampedusa in un grande centro di detenzione, senza reti ma luogo di confino a tempo indeterminato, come recentemente denunciato proprio dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale.
Di certo Minniti non ha le carte in regola per proporsi come nuovo ministro dell’interno o come capo di un governo di larghe intese, con al centro programmi di rimpatrio forzato dei cd. clandestini, come se gli italiani non scontassero sulla propria pelle tutti i giorni gli effetti deleteri delle politiche sul lavoro, sulla sanità, sulla casa, sull’istruzione e dell’informazione, attuate dal governo e dai ministri uscenti. Politiche sulle quali Minniti si è presentato inviando le forze di polizia contro i lavoratori che protestavano. Come era pure intendimento del ministro dell’interno bloccare le manifestazioni antirazziste ed antifasciste a Macerata ed in altre città italiane, un intento che la forza di mobilitazione dal basso delle associazioni e dei movimenti ha per ora sconfitto.
Anche se gli italiani fossero tanto stupidi, e assai probabilmente molti di quelli che andranno a votare lo saranno, da affidare il loro destino a chi gli sta rubando tutti i giorni il futuro loro e dei propri figli, alle destre ed ai potentati economici presenti a vario titolo nei diversi schieramenti, rimane il fatto che le politiche espulsive annunciate da Minniti lo scorso anno sono fallite, e falliranno ancora in futuro, non solo per la impossibilità materiale di aprire decine di centri di detenzione in Italia, ma anche per la netta opposizione di tanti sindaci, appartenenti proprio a quelle forze che oggi reclamano centinaia di migliaia di espulsioni dall’Italia, ma che non hanno voluto l’apertura di un centro di detenzione sul loro territorio.
Sarà questa una situazione che dopo le prossime elezioni non potrà certo risolversi . Anche se ci sarà un ulteriore avvitamento verso un nuovo tipo di fascio-razzismo. Le politiche espulsive progettate dai principali gruppi politici, con la proliferazione di strutture informali di detenzione amministrativa, come sono diventati oggi gli Hotspot di Trapani, Lampedusa e Taranto, porteranno ad un livello di conflittualità mai visto prima, dentro e fuori i centri Hotspot e quelli denominati pomposamente “centri di permanenza per i rimpatri” (CPR), i vecchi CIE. Strutture già fuori dalla legge e dalla Costituzione, che oggi si vorrebbero moltiplicare regione per regione. E i cd. Hotspot rimangono ancora privi di una base legale certa.
Occorre fare ogni sforzo possibile per riportare il dibattito politico e il discorso pubblico verso soluzioni praticabili anche dal basso per restituire vera legalità e sicurezza ai territori, ad esempio con la chiusura del CARA di Mineo, quella sicurezza che non può certo provenire da una moltiplicazione delle forze di polizia o dal ricorso a procedure illegali di trattenimento e rimpatrio forzato. Soltanto il pieno riconoscimento del diritto alla protezione in Italia, nel rispetto dell’art. 10 della Costituzione italiana, e l’apertura di canali legali di ingresso attraverso la concessione di visti umanitari, ben al di là degli esigui numeri che Minniti continua a propagandare, potranno consentire una progressiva evacuazione dalla Libia ed il pieno ed effettivo rispetto dei diritti fondamentali delle persone che comunque arriveranno in Italia, come imposto peraltro dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.