Islam in Love, l’amore al tempo del mutamento

Islam in Love, di Rania Ibraim, (Ed. Jouvence, pp 410, 22 euro), è uno di quei libri che si legge tutto d’un fiato. Un romanzo di formazione del XXI secolo che si presta a tante, troppe interpretazioni quando basterebbe partire da una semplice constatazione: si tratta di una storia d’amore fra due adolescenti la cui identità precostituita si scardina. Due identità solo apparentemente forti e rigide. Leila, ragazza musulmana, mulatta, velata, sospesa fra un universo familiare e religioso che delimita costantemente ciò che è haram (impuro), halal (lecito), houshuma (vergogna) e lui Mark, biondo, legato ad un gruppo razzista e figlio di un padre leader di un partito xenofobo. I due si incontrano, si scontrano, si amano visceralmente fino a rompere le reciproche certezze precostituite, scoprono insieme e nonostante tutto un mondo che non è definibile con logiche binarie, con i limiti degli stereotipi che tanto hanno contribuito, soprattutto in questi ultimi anni a legittimare diversità incolmabili. L’intervista con l’autrice, di origine egiziana ma che ormai conosce le mille sfumature della società italiana più di tanti cultori dell’identità immutabile fondata sul sangue, si è inevitabilmente trasformata in una discussione in cui il libro (che merita di essere letto e diffuso) è divenuto un pretesto per parlare anche d’altro.

Intanto una domanda sulle ragioni che ti hanno portato a scriverlo. Un dovere morale o altro?

«Si tratta di una idea nata parecchi anni fa e che non pensavo neanche di far divenire un libro. Una di quelle storie che scrivo per me stessa e che difficilmente pensavo di potare fuori. Poi lo scorso anno, era gennaio, per diverse ragioni anche legate a lievi problemi di salute, ho deciso di rimettermi a scrivere. Volevo coccolare me stessa, raccontandomi e raccontando una storia d’amore. Ho sentito il bisogno di estraniarmi un po’ da tanto rumore e ho scoperto che mi faceva bene. Insomma ho scritto innanzitutto per me. Ed oggi, vedendo l’effetto che produce soprattutto sulle ragazze che hanno compreso le emozioni che tentavo di trasmettere, che ci si sono riconosciute, penso di aver fatto anche una cosa utile. In fondo ho raccontato un libro fortemente femminile ma mi sono accorta che ha colpito anche gli uomini e questo è un buon segnale».

Ci sono anche elementi autobiografici ma tu hai scelto di ambientare la storia a Dover

«Si per diverse ragioni. Intanto non volevo raccontare la mia storia – che è profondamente diversa – anzi volevo estraniarmi da una storia personale per trovarne una parallela, molto più tormentata. Poi nel periodo in cui avevo ripreso a scrivere c’era stata una manifestazione xenofoba contro un centro di accoglienza a Dover dopo i fatti di Calais e mi sembrava giusto intervenire lì, partendo da un contesto diverso da quello milanese o italiano – non sono mai stata a Dover – ma sapendo che la vicenda che stavo raccontando è terribilmente attuale anche da noi. Se lo avessi fatto quando ho iniziato tanti anni fa, sarebbe giunta troppo presto, oggi i figli di migranti giunti in Italia negli anni Novanta fanno parte di quella generazione di cui scrivo Dialogo e scontro fanno parte del presente, non costituiscono più neanche una notizia, come non fanno notizia i morti in mare. Ci siamo abituati anche a quello».

E in questo quadro ci sono i due protagonisti che cercano di uscire da un contesto predefinito, ribellandosi anche con una maturità che stupisce

«Leila e Mark si incontrano quando sono rinchiusi in un contesto che comprendo bene. Io sono musulmana dalla nascita ed è una condizione che ti deforma. Nasci con l’idea che alcune cose non puoi dirle e non puoi farle perché sono cariche di simboli. Ho deciso di far portare il velo a Laila perché il velo è divenuto una bandiera per esibire la propria fede, cosa che non sopporto. La fede è un fatto privato. Laila prega da sola, non va in moschea per mostrarsi come “brava musulmana” e anche quello è un atto di disobbedienza. E anche Mark è carico di simboli, come lo sono tanti ragazzi della sua età. I tatuaggi, una fede, che non ammette sbavature e incertezze, un ruolo in fondo».

La presa di coscienza è profonda

«Presa di coscienza significa decidere cosa si vuole fare della propria vita. Soprattutto se sei musulmana. E qui entra in ballo anche la sfera sessuale. Si pretende di continuare a fare tutto di nascosto, anche il sesso, ma poi si contravviene ai precetti. Del resto è quello che avviene anche con la religione cattolica. Per questo mi arrabbio sempre più con chi usa la religione».

Una decisione che matura grazie all’incontro fra persone radicalmente diverse?

«Quando si è così diversi scatta la curiosità. Ti domandi perché l’altro sia e la pensi in un tale modo. Leila è un po’ Rania da questo punto di vista. Ho amici che passano per le realtà più assurde, mi piace stare bene con tutti e farmi rispettare. Credo di avere capacità di ascolto e cerco di comprendere cosa hanno da dire gli altri. Noi spesso ci comportiamo come fan di qualcosa, di una religione, di una ideologia, di un principio, ma la curiosità ci fa bene, ci rende anche più determinati».

Leila parlando in prima persona racconta molto di se e del proprio universo, intimo e non solo.

«Leila si vede arrivare l’occasione giusta. In poco tempo cambia e non perché sottomessa. Comincia a dire bugie – cosa che prima non pensava fosse possibile – trasgredisce e viene meno a tanti impegni a scuola al lavoro ma riesce ad essere felice. Le amiche la capiscono, in ritardo ma lo capiscono. Sono amiche reali. Sono le stesse che a me, da ragazza che aveva l’età di Leila chiedevano come si possa seguire una religione così assurda. Parlavano quando dell’Islam si sapeva poco o nulla. Dopo l’11 settembre di Islam si è parlato anche troppo e spesso male. Io provo a spiegare che per me Jhad significa sforzo per migliorare la vita, non per toglierla ad altri. E invece ci ha messo lo zampino un certo modo di far politica. Qui si parla di laicità completa dello Stato ma in Italia si è laici per modo di dire. L’Islam strumenta la religione nella stessa maniera con cui lo fa CL, entrambi hanno un bacino molto ideologizzato. Il mondo è quello delle associazioni musulmane che i ispirano a visioni molto, troppo, ideologizzate dell’islam».

Nel tuo romanzo ad un certo punto prendi una posizione molto netta in tal senso

«Si non potevo trattenermi. A chi accusa, mettendo in un unico calderone, tutti i musulmani rispondo di non sopportare coloro che si ergono ad interlocutori privilegiati della parola di dio per fare da tramite. La religione musulmana non ha un papa come per i cattolici. Un noto esponente della comunità islamica in Italia mi ha criticato per questo approccio dicendo che se voglio contare devo farmi contare. Ma io non ci sto. Quando si parlò della moschea a Milano mi guadagnai non pochi malumori perché dicevo che andava fatta ma che doveva vedere anche una presenza del Comune, che si dovevano prevedere forme di controllo perché ne va anche della mia sicurezza. Ma chi la voleva realizzare meditava di poter gestire tutto il bando per i propri scopi che, come dicevo prima sono politici e non religiosi».

Un’ideologia che ottiene consenso garantendo welfare

«Proprio così. In Egitto non esisterebbe welfare senza la Fratellanza Musulmana. Sono una potenza perché per molte famiglie è tramite loro garantita l’istruzione ai bambini e un minimo di sostegno ai poveri. Esercitano lo stesso ruolo che ricoprì la chiesa cattolica in molti paesi africani. Così si creano adepti. E la fratellanza punta al potere, vogliono essere nelle banche e in parlamento, non c’entra nulla la religione».

Leila non accetta questo

«Si, infatti Leila prega da sola Non deve ostentare. E in questo ci rivedo la mia di vita. Io raramente indosso il velo o vado in moschea ma non per questo credo di essere una cattiva musulmana. Si tratta di meccanismi, quelli della necessità di mostrare agli altri la propria fede, che vedo negativamente in tutte le religioni. La generazione che sta crescendo per fortuna, al di là di alcuni casi, non è così presa da tali dogmi. È una generazione liquida e ormai meticcia che non si chiude in una sola identità. C’è chi definisce i giovani di oggi una “generazione tiepida” io non ci credo, forse perché non mi piace il “tiepido”, per me una cosa o è calda o è fredda.

E tu come ti consideri?

«Io ormai vivo da tanti anni qui Mi sento certamente italiana ma contemporaneamente anche egiziana Quando mi chiedono del mio legame con l’Egitto in rapporto a quello con l’Italia mi sembra che mi si chieda se voglio più bene a mamma o a papà e mi viene un po’ da sorridere. Sono figlia di entrambi i mondi e sono convinta che le nuove generazioni saranno sempre più prive di barriere che tenta di separarle in base ai paesi di provenienza».

Ma, tornando a libro, e a Mark (il protagonista maschile). Come lo inquadri?

«Nel romanzo mi concentro molto, forse addirittura troppo, sul punto di vista di Leila. Mark è un dubbio vivente. È il figlio di un disastro familiare e di un conflitto con il padre che trova nel rapporto con Leila una soluzione inaspettata e non cercata. Molti fra quelli che hanno letto il libro mi hanno chiesto: Perché non scrivi il sequel? Ma non ci può essere seguito. La generazione a cui appartengo io è già lontana. Io ho sposato il solo che ho conosciuto in vita mia, non avevo esperienze precedenti. Oggi è cambiato tutto e tutto cambierà ancora. Nessun rimpianto ma i numeri ci aiutano, ci sono intere comunità che si cambiano, si incontrano, si spostano. Leila a breve non ci sarà più. Oggi già essere musulmani non significa non ribellarsi alle tradizioni. Si è vero ci sono ancora quelli che si chiudono a riccio, che pensano di poter restare sottoposti a regole estremamente rigide, che si sentono all’angolo di un ring, ma il futuro è altro. Io mi sento ancora giudicata da costoro che non mi salutano e che se passa il marito neanche te lo presentano Utilizzano il velo come strumento politico, il velo che diventa bandiera Ma nel frattempo ci sono donne che scalciano in Arabia Saudita, sapendo di poter ottenere di più rispetto alle loro madri. Siamo in una fase complicata e di transizione in cui tanti cambiamenti si prospettano e dobbiamo farci i conti»

E le reazioni rispetto al libro?

«Intanto c’è qualcosa che viene prima. Io insegno italiano e mi viene in mente una mamma. Non voleva che sua figlia facesse tante ore a scuola. Diceva “la bambina non deve stare troppo con bambine italiane” Le ho risposto: “perché non te ne torni in Egitto, se sei già in Egitto?” Alla fine l’ho convinta a far fare il tempo pieno alla figlia. Io parto dalla convinzione che bisogna mettere le persone in condizione di poter scegliere. Alcune si ribellano e non va sempre a finire bene. Una ragazza siriana mi ha detto «io ho letto il tuo libro, ti voglio conoscere, sono come Leila, ho anche scelto di non costringere a cambiare religione al mio compagno che è italiano. Mi hanno cacciata di casa» Ma ho anche incontrato una ragazza marocchina che voleva ricostruirsi l’imene dopo aver avuto una relazione prematrimoniale. Le ho chiesto: «Perché ricominci una vita con una menzogna?» Ma non credo di averla convinta».

A me non piacciono le etichette ma ho letto questo come un romanzo femminista. Mi sbaglio?

«Forse può anche esserlo. Se liberi te stessa comunichi la libertà di fingere di essere qualcun davanti agli altri per flussi di pensiero. Il romanzo parla di vergogna ma anche di piacere. Questo ha creato disagio perché parlo di piacere femminile. C’è stato chi mi ha detto che il libro è bello ma è pieno di esempi di peccato. Molte ragazze mi hanno capito e mi hanno difeso. Anche se il romanzo racconta di un “Islam da non seguire”. In realtà è un libro che parla di scelta, della libertà di scegliere per se e per gli altri. Leila quando si racconta parla di vergogna e paura ma è una persona che sceglie e decide. Io sono ottimista, sono convinta che se uno sceglie può anche sbagliare ma ha esercitato una propria libertà, ha superato le ipocrisie imposte. Il futuro che vedremo pagherà positivamente. La cultura italiana è da guardare con attenzione. È fondata su religione, mamma e famiglia ma è in cambiamento continuo. In Italia si è lottato, come oggi si lotta in Arabia Saudita, per ottenere diritti e questo produce inevitabilmente cultura nuova. Forse il solo ostacolo viene frapposto da una “politica che si mette in mezzo” per usare questo cambiamento».

Da cosa ti deriva questa avversione per la politica?

«In molti mi hanno chiesto di impegnarmi. Ma non ho un contenitore in cui potermi riconoscere. Più in generale vedo la politica come distante dal mondo, dalle persone, dalla vita reale. La mia necessità di oggi è nel voler cercare, trovare e augurarmi che ci possa essere, uno spazio che non si ispiri più alle ideologie passate ma che sia attento ad una società e soprattutto ad una popolazione in continua trasformazione. Sono impegnata nel percorso di “Italiani senza cittadinanza” ma non mi piace come si strumentalizza per fini politici anche il termine ius soli. Ormai dobbiamo parlare di altro, spiegare bene cosa sta accadendo e pensare alle tante e ai tanti che dovrebbero avere il diritto di partecipare ad ogni aspetto della vita del paese che hanno scelto e invece ne sono esclusi. Ma tanto vinceremo. Leila appartiene già al passato e vedrai che fra qualche anno la ricorderemo come un esempio di storia che ha affrancato quella di tante altre e altri. Poi per una politica capace di comprendere il mondo che cambia, c’è sempre tempo».