Daniela Padoan & Cornelia I. Toelgyes
Il 15 aprile 2016, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi inviò alla Commissione europea e al Consiglio il cosiddetto Migration compact, un piano per limitare l’arrivo di migranti in Italia e in Europa in virtù accordi di cooperazione con i paesi di origine e di transito. Il progetto sulla creazione di un nuovo quadro di partenariato con i paesi terzi nell’ambito dell’agenda europea sulla migrazione venne adottato dall’UE il 7 giugno 2016, con una comunicazione della Commissione. Tra le “azioni fondamentali” da intraprendere, vi era il varo di “patti su misura” con diversi paesi tra cui il Mali, «fondati sui dialoghi ad alto livello e sugli incentivi individuati». Il Mali, scriveva la Commissione, «è uno dei principali paesi di origine della migrazione irregolare verso l’Europa e un partner nel più ampio contesto dell’impegno europeo nella regione del Sahel».
Il 12 dicembre 2016, l’UE sottoscrisse a Bamako un accordo con il Mali per favorire il rimpatrio di migranti clandestini. Era il primo compact con un paese africano, stretto per «lottare contro le cause profonde della migrazione irregolare» e «favorire il ritorno dei migranti maliani dall’Europa», nel quadro giuridico del piano d’azione adottato nel vertice di La Valletta dell’11 e 12 novembre 2015 dai capi di Stato e di governo europei e africani, che prevedeva un finanziamento di 1,8 miliardi di euro.
Il ministro degli Esteri olandese Bert Koendeers, che aveva siglato l’accordo a Bamako a nome dell’Alto rappresentante UE per gli Affari esteri Federica Mogherini, disse che era la prima volta che l’UE stabiliva «di impegnarsi in modo così specifico con un paese africano sul rientro dei richiedenti asilo respinti».
La partnership con il Mali – sulla cui falsariga verranno negoziati accordi con l’Etiopia, il Niger, la Nigeria e il Senagal – implica misure per la lotta al traffico di esseri umani, miglioramento dei controlli di frontiera, invio di funzionari maliani negli Stati dell’Unione per facilitare le identificazioni dei migranti irregolari e le pratiche di rimpatrio, iniziative per aiutare i giovani maliani a trovare occasioni di lavoro e impegno europeo a rafforzare le capacità dei servizi di sicurezza del Mali.
«I giovani possono dare un grande contributo al futuro del loro paese», ha detto Koendeers. «Dobbiamo evitare che i maliani si mettano in cammino verso il nord Africa e l’Europa ponendo a rischio le loro vite e finendo nelle mani dei trafficanti di esseri umani».
Il 30 dicembre 2016, tuttavia, le autorità maliane hanno rispedito a Parigi i primi due immigrati irregolari che il governo francese sperava di espellere e rimpatriare a Bamako con un semplice lasciapassare, affermando di non poter accettare persone «solo suppostamente maliane».
I maliani sono tra i cittadini sub-sahariani maggiormente deportati dalla Francia.[1] Il gruppo maliano anti-corruzione “Mains propres” che opera a Parigi e che ha occupato il consolato del Mali a Parigi per l’ultima settimana del 2016, dal 23 dicembre, ha detto che le autorità di Bamako sono state ingannate da Bruxelles e ha parlato di «progetto razzista dell’Europa».
Lo scorso 14 gennaio, in una conferenza stampa a Bamako a margine del XX Vertice Africa-Francia, il presidente Keïta, in un articolo pubblicato dall’organo ufficiale del governo maliano intitolato Le Mali ne signera “jamais” d’accord de réadmission de migrants, ha detto: «Il governo maliano è stato accusato di aver firmato un accordo di riammissione. Non lo abbiamo fatto e non lo faremo mai. […] Non vogliamo aggiungere alla miseria fisica e umana la miseria morale».
A proposto della situazione dei giovani e del motivo per cui il Mali non potrà davvero attare un piano di riammissioni, ha parlato Aminata Traorè, coordinatrice del Forum per un altro Mali, già ministro della Cultura e del Turismo del Mali: «In alcune regioni del Mali è diventata una tradizione emigrare. Si migra, in particolare per quanto riguarda i giovani, perché ci sono molti problemi climatici, la terra è secca e l’agricoltura non rende. Per certe regioni, l’emigrazione è l’unica risorsa. Quando i giovani emigrano in Francia, dalla Francia mandano i soldi in Mali. I soldi che arrivano dagli emigrati francesi rappresentano una somma più importante di tutti gli aiuti che gli Stati europei danno all’Africa. Questo significa che quando l’Europa in crisi chiede all’Africa di aiutarla a non far partire i migranti – come vuol fare adesso con il vertice di La Valletta – è come se chiedesse ai governanti africani di suicidarsi, cioè di rinunciare ai soldi che mandano i migranti, perché l’Europa non ha più la possibilità di aiutare i Paesi africani. Se gli Stati europei danno un aiuto all’Africa, è perché ci sono delle condizioni. L’aiuto che l’Europa dà all’Africa ha come condizione che i Paesi africani liberalizzino il mercato, e infatti tutte le volte che i governanti europei vengono in Africa in visita ufficiale, vengono con imprenditori».[2]
Un reportage della BBC del 2015, Inside Mali’s human-trafficking underworld in Gao, racconta la situazione nella cosiddetta “porta del Sahara”, la prima destinazione per chi tenta di raggiungere l’Europa, soprannominata “il ghetto”.
«I migranti hanno una possibilità su dieci di raggiungere il luogo dove vogliono andare», dice un ragazzo che prende dieci dollari per ogni migrante che porta nel ghetto. Molti maliani passano per i campi libici. Un gruppo di 159 cittadini maliani – tra cui numerosi bambini e almeno tre minori non accompagnati – è stato riportato a Bamako dall’OIM lo scorso 29 dicembre, 40 di loro hanno raccontato di essere stati imprigionati in Libia e sottoposti a violenza e aggressioni razziste in quanto neri africani.

Malian gendarmes show weapons used by Islamist rebels at a military camp in the centre of Timbuktu February 1, 2013. REUTERS/Benoit Tessier/Files – RTSPLRU
«In Mali la guerra civile scoppiata nel 2012 con la rivolta tuareg nelle regioni del nord, l’Azawad, in realtà non è mai finita, nonostante l’intervento francese del 2013, ed ha assunto una connotazione sempre più fondamentalista, con milizie legate o all’Isis o ad Al Qaeda», ha scritto don Mussie Zerai al ministro Marco Minniti. «I ribelli sembrano in grado di colpire ovunque, come dimostrano i continui attentati e attacchi contro l’esercito, le truppe francesi e quelle dell’Onu, ma anche contro obiettivi civili, nelle piccole come nelle grandi città, inclusa Bamako, la capitale. […] Ci sono segnali crescenti che proprio il Niger, insieme al Mali, possa diventare nel Sahel la principale base per la rivolta fondamentalista in Africa».
Tant’è che, lo scorso 24 gennaio, i cinque Stati africani riuniti nel vertice G5-Sahel di Bamako hanno annunciato l’intenzione di costituire un contingente multiforza formato da Mali, Burkina Faso, Ciad, Mauritania e Niger. Una richiesta in questo senso sarà sottoposta quanto prima all’ONU dal guineano Alpha Condé, presidente di turno dell’Unione Africana presente al G5 Sahel di Bamako.
Il presidente del Ciad, Idriss Déby, ha puntualizzato che è arrivato il momento di «agire autonomamente» e che «è necessario mettere in sicurezza le frontiere dai terroristi e dalla droga». I membri del G5 Sahel chiedono all’UE di assumere le spese per l’equipaggiamento del contingente, armamenti compresi.
Il problema maggiore resta il nord del Mali, dove gli attacchi dei terroristi si susseguono. L’ultimo è avvenuto a Gao lo scorso 18 gennaio e ha ucciso oltre settanta persone. L’attentato kamikaze è stato rivendicato dal gruppo al-Mourabitoune, legato ad al-Qaeda nel Magreb islamico. Per ammissione dello stesso Keïta, il trattato di pace e di riconciliazione (trattato di Algeri) firmato nel 2015 stenta a decollare e ciò rende difficile arginare i continui attacchi terroristici.
Proprio questa settimana si sono riuniti a Bamako i firmatari del trattato di Algeri e i ministri dei Paesi implicati nel processo di pace, in prima linea il ministro degli Affari esteri algerino, Ramtane Lamamra. La nuova tabella di marcia per realizzare l’accordo è ambiziosa e fitta. Entro la fine del mese dovrebbero essere riaperti gli uffici governativi a Kidal, una settimana più tardi a Timbuktu, mentre i pattugliamenti misti (composti da truppe dell’esercito regolare, dal coordinamento del movimento per l’Azawad “CMA” e da combattenti della piattaforma di autodifesa), finalizzati alla formazione di un esercito unitario maliano, dovrebbero prendere il via il prossimo 20 febbraio a Gao.
I cinque capi di Stato del G5-Sahel sono concordi sul fatto che contro il terrorismo la risposta militare da sola non è sufficiente e che è necessario combattere contemporaneamente la povertà estrema.
Sembrerebbe un messaggio di sfiducia nei confronti della missione Minusma, il cui mandato – esteso per un anno il 29 giugno 2016 – non riguarda solo il Mali ma il Sahel, tanto che una parte delle sue truppe si trova nel Nord per controllare l’intera zona.
Inoltre abbiamo Eucap Sahel Mali (European External Action Service), una missione civile dell’UE con base a Bamako, che mette a disposizione delle forze dell’ordine maliane e dei ministeri interessati esperti in formazione e strategia per sostenere la riforma nel settore della sicurezza. La Svizzera è il primo paese non membro ad aver concluso un accordo di partecipazione con Eucap, e a questo sembra essere collegato il rapimento avvenuto il 25 dicembre 2016 a Gao di un’operatrice umanitaria francese che lavorava per ong svizzera, anche se ancora non c’è una rivendicazione.
Già il 6 gennaio 2016, a Timbuctu, era stata rapita una missionaria svizzera (per la seconda volta, il primo rapimento era accaduto nel 2012). L’atto è stato rivendicato da Al Qaeda nel Maghreb islamico.
É Aminata Traoré a mettere in guardia sul legame tra interventi militari europei e fondamentalismo: «Quel che succede attualmente nel Nord del Mali è paradigmatico perché permette di vedere le strumentalizzazioni degli occidentali per far credere che la loro presenza sia motivata dalla necessità di aiutare e persino salvare il Mali. Dobbiamo riflettere quando ci dicono che per proteggere bisogna andare ad uccidere. L’Islam diventa fondamentalismo quando non si hanno alternative, non si hanno risposte alle domande. Se avessimo fatto un’analisi onesta di questa situazione, avremmo potuto evitare il jihadismo. Dal 2008, in Mali c’erano alcuni gruppi isolati di jihadisti. Fino al 2012 non hanno fatto niente. Dopo la caduta di Gheddafi, hanno chiesto ai tuareg che erano in Libia di tornare in Mali. I tuareg hanno messo una condizione: se dobbiamo tornare nel Mali, vogliamo avere una parte del paese per noi. Questo accadeva alla vigilia dell’elezione di Nicolas Sarkozy, che con un solo colpo voleva liberare gli ostaggi così da averne un beneficio politico, voleva riposizionare la Francia e i suoi interessi in questa parte dell’Africa, infine pensava che se le popolazioni fossero tornate nel Maghreb ci sarebbe stato un freno all’emigrazione. Ma i tuareg che sono tornati hanno trovato in Mali altri tuareg fondamentalisti e hanno dato vita a una coalizione contro l’esercito e lo Stato. In questo modo è cominciato il conflitto nel Nord del Mali.
Alain Juppé dichiarò che i combattenti facevano progressi. Ne concludo che se i jihadisti sono arrivati dove sono arrivati, è stato con la complicità della Francia. Per questo dico che non posso ringraziare la Francia per aver liberato il mio paese. Il seguito lo conoscete: la propaganda di François Hollande, che è andato a Timbuctu e ha detto che era stato liberato il Mali. Aveva bisogno di questa “vittoria” perché aveva subito una sconfitta interna. Hollande è riuscito a trascinare tutta l’Europa in questa guerra in Mali, dunque il Mali è ora preso in ostaggio da una Francia e da un’Europa in crisi».[3]
[1] Dati Eurostat 2015: Senegal 540, Mali 290, Costa d’Avorio 270, Nigeria 235, Guinea 165)
[2] Aminata Traoré in Focus sulle migrazioni, Atti dei Convegni GUE/NGL a Milano, 2016.
[3] Cit.