di Amalia Chiovaro
Può la mancanza di un contratto d’affitto, di un certificato di residenza o di un permesso di soggiorno impedire di giocare a pallone? In un tempo sempre più caratterizzato dalla velocità del “Qui e ora”, la burocrazia rappresenta in Italia l’ultimo baluardo della lentezza, che spesso rende paradossali le vite delle persone, costringendole ad una non-vita.
È quello che è successo ad alcuni ragazzi dell’Afro – Napoli United, squadra di calcio nata nel 2009, composta da migranti provenienti dall’Africa e dal Sud America, da italiani di seconda generazione e da napoletani. Dopo cinque anni di tornei amatoriali, giocati nei campi delle periferie napoletane, il Presidente e fondatore Antonio Gargiulo decide di iscrivere la squadra al campionato di Terza Categoria della Figc. Proprio in questa occasione emergeranno diversi ostacoli e resistenze dovute alla burocrazia sportiva e alle leggi italiane, questioni legate al permesso di soggiorno, al certificato di residenza storica e ai contratti d’affitto che i padroni di casa non rilasciano, problemi questi che nei campionati di serie A spesso vengono risolti con generose somme di denaro.
Una fra tutte, citiamo la storia di Lello nato a Napoli nel ‘92, ma mai dichiarato all’anagrafe. Si tratta di uno dei pochissimi apolidi (cioè persone che non hanno la cittadinanza di nessun paese), che non ha documenti ma ha frequentato la scuola, ha la fascia da capitano ma non può giocare il campionato, ha la sua vita ma per lo Stato non esiste.
Questa e altre sono le storie che Pierfrancesco Li Donni, giovane regista palermitano, ha raccontato nel suo secondo importante lavoro cinematografico, “Loro di Napoli”, premiato come miglior film italiano della 56° edizione del “Festival dei Popoli – Festival Internazionale del Film Documentario”. Il film, prodotto da Own Air in associazione con Minollo, è stato presentato lo scorso 29 novembre, in anteprima nazionale, allo “Spazio Alfieri” di Firenze, all’interno della sezione “Panorama”.
L’abilità di Li Donni sta nel raccontare delle storie senza enfatizzare troppo le questioni dell’immigrazione dell’antirazzismo. Ci mostra pezzi di vita che permettono, nella loro totalità, di far conoscere cosa sia Napoli e come essa, oggi, si ponga rispetto ai temi dell’integrazione.
La narrazione, dunque, è il risultato di più voci e porta a riflettere, ancora una volta su come la vita degli individui possa essere condizionata dalla presenza o meno di un documento.
Vicende di questo tipo confermano le mancanze di uno Stato colmate da organizzazioni e associazioni e l’Afro – Napoli, in tal senso, rappresenta un’esperienza paradigmatica. È la prima squadra in Italia, ufficialmente iscritta alla Figc, composta da migranti e non. Non si tratta di una semplice squadra, ma è anche un luogo in cui la solidarietà e la lotta alle discriminazioni ne sono la base.
Rispetto a questo progetto il regista dice: «Napoli è una città con la quale volevo confrontarmi, per un regista è un banco di prova importante. Abbiamo voluto raccontare una Napoli diversa, quella dei nuovi napoletani, esaltando le pratiche dell’anticamorra. Nessuna intenzione o voglia di buonismo sul tema dell’immigrazione. Molte scene sono state girate in macchina, magari quando si andava agli allenamenti, ed è stato un modo sia per gestire i ragazzi che erano indomabili ma anche per catturare la loro intimità».
Usare il calcio è stata una trovata sicuramente interessante. L’Italia è un paese che davanti ad una partita si paralizza, il calcio ha una valenza altamente popolare, e probabilmente veicolare messaggi di questo tipo in questo modo può avere la sua utilità. Tutto questo senza dimenticare, chiaramente, la valenza dello sport come metafora dello stare insieme e del fare squadra.
Continua il regista: «Per me Napoli è una Palermo all’ennesima potenza. C’è una grande soglia umana diffusa e questo si manifesta in tutto il resto delle cose. È una città all’avanguardia e va oltre il dibattito nazionale, dove le barriere vengono superate prima ancora di essere scoperte. Il colore della pelle è l’ultimo dei problemi, quello che si crea è un sistema in cui anarchia e immigrazione vanno a braccetto. Il vero soggetto è la città, è Napoli, che accoglie e non crea lo stereotipo del migrante. Tutto questo andirivieni è la normalità. Sicuramente si può parlare di una integrazione compiuta, dentro un sistema sociale non compiuto».