In attesa che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dia l’autorizzazione per gli interventi militari in territorio libico, richiesti dal governo italiano e dalla Commissaria UE Mogherini a maggio, si svelano i piani contro i migranti adottati dal Consiglio dei ministri della difesa e degli esteri riuniti a Bruxelles dopo il documento approvato dalla Commissione Europea, a seguito del Consiglio straordinario convocato il 23 aprile a Bruxelles su richiesta italiana. Alla missione Frontex Triton sembra ormai affiancata la missione EUNAVFOR MED, che comporta una ulteriore militarizzazione degli interventi in acque internazionali, mentre la maggior parte delle azioni di ricerca e salvataggio viene operata dai mezzi umanitari civili di MOAS e di MSF e dalla Guardia Costiera italiana.
Dopo il silenzio dell’ONU sulle proposte di guerra della Mogherini, il dibattito europeo si è spostato dalle politiche sulle migrazioni e sui controlli di frontiera, di competenza dell’agenzia Frontex, all’interno dei processi decisionali sui quali occorre la “codecisione” del Parlamento Europeo, alla materia della sicurezza e della politica estera (PESC), sulla quale possono decidere i ministri della difesa e degli esteri dei diversi stati dell’Unione, senza il voto del Parlamento europeo che va soltanto “informato”. Neppure i parlamenti nazionali fanno sentire la loro voce rispetto a decisioni degli esecutivi che possono comportare un vero e proprio stato di guerra.
Sono state accantonate ancora una volta le apparenti novità che sembravano contenute nel programma elaborato dalla Commissione Europea, come l’apertura di canali legali di ingresso e l’impulso verso una maggiore armonia delle normative nazionali in materia di asilo. Erano progetti che si collocavano all’interno di proposte vecchie, come la Carta blu per gli ingressi dei migranti maggiormente qualificati, o si potevano tradurre in generici inviti ai legislatori nazionali, nella sostanza del tutto insignificanti. L’Europa rimane spaccata persino sulle minime possibilità di resettlement dai paesi extra-UE in Europa, appena 20.000 persone in due anni, e di ritrasferimento (relocation) tra i diversi paesi europei, prima ancora che, oltre alle percentuali, vi fosse una indicazione di dati numerici certi. I numeri annunciati saranno raggiunti e superati in qualche mese, o se spalmati in due anni lasceranno confinatia tempo indeterminato, nei centri di accoglienza italiani, altre decine di migliaia di persone. Dopo i paesi dell’Europa orientali guidati dall’Ungheria, si sono sfilati anche la Francia e la Spagna, paesi per i quali so no previste cifre simboliche. L’Italia avrà il comando delle operazioni navali contro i trafficanti in acque libiche, con tutti i rischi conseguenti, ma dovrà fare ancora da sola per accogliere i migranti che sbarcano, soprattutto adesso che gli altri paesi confinanti stanno bloccando le loro frontiere ed applicando con maggiore rigore le riammissioni nel nostro paese previste dal Regolamento Dublino III.
Sono invece assolutamente certi, ed in parte già in corso di attuazione vari interventi a livello di prassi applicate, ben prima che il Parlamento europeo abbia potuto votare sulle singole misure, affidate come al solito alla discrezionalità ed alla riservatezza degli apparati di polizia. Tra questi interventi già avviati, si deve segnalare l’invio in Sicilia, individuata come grande contenitore di “hotspot”, luoghi di blocco e selezione dei movimenti migratori, di pattuglie che dovrebbero sorvegliare la prima identificazione e la selezione dei migranti, tra “richiedenti asilo” e migranti economici, che dovrebbero essere respinti prima possibile, con le operazioni di rimpatrio affidate all’agenzia europea Frontex. Una politica che si sta già rivelando prima di basi legali e del tutto insostenibile dal punto di vista della concreta realizzazione. Non basterà certo l’invio di altre centinaia di agenti di Frontex in Italia ed in Grecia, per dare “effettività” alle politiche di rimpatrio collettivo che l’Unione Europea vorrebbe imporre a questi due paesi.
L’Unione Europea finge di ignorare che la maggior parte delle persone che arrivano oggi dalla Libia ha la qualità di profugo o di sfollato, non solo e non tanto per la situazione nel proprio paese di origine, ma per le condizioni di rischio per la vita al quale si trovavano esposte prima dell’imbarco forzato verso l’Europa. In Libia tutti i migranti sono ritenuti “illegali”, non ci sono persone destinatarie di misure di inserimento e di protezione. La Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. I potenziali richiedenti asilo, come gli eritrei ed i somali, ma anche i lavoratori stranieri di cui le diverse fazioni libiche si vogliono sbarazzare sono considerati illegali e gli illegali vanno arrestati e cacciati via. Come è confermato dal bando del governo di Tobruk contro i lavoratori bengalesi. Per non parlare della triste sorte dei pescatori egiziani che lavoravano nei porti libici, molti dei quali sono stati arrestati, alcuni anche uccisi, o costretti a trasformarsi in scafisti.
Le decisioni del Consiglio europeo, come le proposte della Commissione, spostano l’attenzione sugli aspetti militari più legati alla sicurezza che al controllo delle frontiere. Ma è solo un tassello di una politica più ampia che accentua la chiusura dell’Unione Europea rispetto a tutte le migrazioni. Una chiusura che era già evidente nel piano elaborato dal Consiglio straordinario del 23 aprile e dalla successiva proposta della Commissione al Parlamento Europeo. La collaborazione con i paesi di transito e di origine, fulcro del Processo di Khartoum proposto dall’Italia lo scorso anno, non tiene conto delle gravissime violazioni dei diritti umani dalle quali fuggono i migranti diretti verso l’Europa, ai quali non si offre altra alternativa che non sia cedere al ricatto dei trafficanti.
La Commissione Europea, e le task force di esperti e di comitati ristretti come il COREPER, che per mesi hanno elaborato le linee che solo adesso sono rese pubbliche, ignorano evidentemente che non ci sono le condizioni per istituire campi di raccolta per “selezionare” i richiedenti asilo nei paesi di transito, come il Niger, per le gravi violazioni dei diritti umani che non garantiscono le condizioni minime di incolumità dei migranti che attraversano quelle regioni diretti in Libia. E lo stesso si potrebbe affermare per il Sudan, paese al centro del cd. Processo di Khartoum, che l’Italia persegue dallo scorso anno nel tentativo di coinvolgere i paesi di origine, come l’Eritrea, e di transito, come l’Egitto, nel blocco delle partenze dei migranti, anche se tutti sanno che si tratta di persone in fuga da guerre e da dittature.
L’Agenda Europea sull’immigrazione inviata lo scorso maggio dalla Commissione al Parlamento europeo insisteva molto sulla distinzione tra migranti economici, da arrestare e respingere, salvo le modeste possibilità di ingresso concesse con la cd. carta blu per gli immigrati maggiormente qualificati, ed i richiedenti asilo, che però si ritiene di valutare in Africa, alla luce delle norme più restrittive ( ormai obsolete, alla luce dell’attuale carattere dei conflitti interni) della Convenzione di Ginevra del 1951. Adesso tutta l’attenzione è stata spostata sugli interventi militari mirati, con una graduazione che prevede prima la distruzione delle imbarcazioni dei trafficanti in acque internazionali, poi l’intervento in acque territoriali libiche, quindi gli interventi di terra, sempre che arrivi il via libera da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il prossimo vertice de La Valletta a Malta dovrebbe sanzionare un nuovo patto tra l’Unione Europea e gli stati africani di origine e di transito. Si chiede già qualche concessione persino all’Eritrea, sul piano del riconoscimento dei diritti umani, per legittimare i nuovi accordi che si vorrebero concludere per bloccare le partenze anche da quel martoriato paese.
Tutto sembra giustificato, sono i ministri europei che trovano “le basi legali”, anche a scapito della vita umana, si dà ancora priorità assoluta al contrasto del traffico di esseri umani, sulla scorta dei Protocolli allegati alla Convenzione ONU contro il crimine transnazionale, adottata nel 2000 a Palermo. Un documento che ha giustificato ( nel 2008) accordi di riammissione e di respingimento anche con paesi come la Libia, che non avevano neppure aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Non è bastata neppure la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi per i respingimenti illegali eseguiti all’Italia verso la Libia. Un problema che oggi sembra non rilevare più. Se non si possono eseguire più i respingimenti collettivi si tenta di bloccare le persone in fuga prima che partano. Naturalmente “per salvare vite umane”. Si trasferiscono quindi ai governi dei paesi di transito risorse e mezzi per fermare quei migranti che evidentemente anche l’Europa ritiene “illegali”. Le immagini delle persone incarcerate nei lager dei paesi di transito o preda delle bande di trafficanti non scalfiscono queste politiche dell’abbandono e dell’indifferenza.
La recente “esplosione” della rotta balcanica sta mettendo in crisi questo modello di contenimento della mobilità dei migranti basato su un argine blindato alla frontiera sud, una politica che nel solo 2015 è costata oltre 3000 morti. Adesso tutti i piani che l’Unione Europea aveva adottato per fermare i migranti ed i potenziali richiedenti asilo diretti verso lo spazio Schengen sono saltati. Da un Consiglio europeo all’altro, magari informale, sembra avanzare anche una nuova dimensione di cooperazione intergovernativa che sul movimenti migratori nei Balcani sta escludendo l’Italia. Sembra a rischio non solo la concreta applicabilità del Regolamento Dublino III ma la stessa operatività del regolamento Schengen e dunque il principio di libera circolazione delle persone. Dopo l’apertura della Merkel ai profughi siriani ed eritrei nuovi muri potrebbero alzarsi proprio nel cuore dell’Europa.
Una vera svolta sulle politiche europee in materia di immigrazione ed asilo non è ancora in vista. Semmai è l’Unione Europea che su questi temi sta andando in frantumi trovando accordo solo su ipotesi di intervento militare per bloccare le partenze. Ipotesi respinte dai governi dei paesi direttamente interessati, che lamentano una violazione della propria sovranità. I piani approvati dal Consiglio dei ministri dell’Unione Europea e poi ratificati dal Consiglio, potrebbero portare molto presto alla deflagrazione di una nuova guerra nel Mediterraneo. E sul fronte orientale la politica europea sembra sempre più ostaggio delle scelte e delle paure di Erdogan che usa la minaccia dei profughi per sabotare i piani di pace nelle diverse aree di guerra vicine alla Turchia e per regolare i conti con la minoranza kurda.
Dopo avere visto annegare migliaia di persone senza assumere nessuna iniziativa concreta per ridurre i naufragi nel Mediterraneo, l’Europa, che stringe accordi sulla pelle dei migranti con il capo del governo turco, si macchia le mani di sangue.