di Fulvio Vassallo Paleologo
1.Negli ultimi gioni Giorgia Meloni ed altri esponenti di governo hanno cercato di smentire chi denunciava il rischio di “deportazioni” verso l’Albania, per effetto dell’attuazione, se e quando verrà, del Protocollo per le “procedure di frontiera e di rimpatrio” firmato il 6 novembre scorso con il premier albanese Edi Rama. Per la Presidente del Consiglio, non ci saranno “deportazioni” in quanto in Albania ci sarà soltanto un Centro per i rimpatri (CPR), soggetto alla giurisdizione italiana, dunque nessuna violazione del diritto interno e della normativa europea.
Nel frattempo, i media italiani hanno dato notizia che la Commissione avrebbe approvato il contenuto del più recente accordo tra Italia ed Albania, anche se in un primo momento non aveva preso posizione, limitandosi a precisare che qualunque intesa avrebbe dovuto essere “conforme al diritto comunitario e internazionale”. Conformità che, leggendo il testo dell’accordo ed i suoi allegati, appare davvero dubbia. Come rimane ignoto il contenuto degli ulteriori Protocolli operativi da negoziare con l’Albania, annunciati dal goveno italiano ma su cui si lavorerà nei prossimi mesi.
Sembra che dopo una prima nota della Commissione europea, appena pochi giorni più tardi, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson abbia dichiarato che “L’accordo Italia-Albania non viola il diritto comunitario perché ne è al di fuori”. I soliti esperti, ed i giornalisti al traino, che devono giustificare ad ogni costo le scelte del governo, hanno subito interpretato questa dichiarazione come una sorta di approvazione dell’operato di Giorgia Meloni, mentre in realtà la posizione della Johansson era molto più articolata, e per certi versi contraddittoria, in quanto la Commissaria europea aggiungeva che, “data l’appartenenza dell’Italia all’Unione e l’adozione obbligatoria di una legislazione comune, le regole che si applicheranno all’interno dei centri albanesi saranno effettivamente di natura europea e imiteranno il quadro che si applica sul suolo italiano”. Per la Johansson, “Se vengono applicate le leggi italiane, le persone dovrebbero essere esaminate secondo la legge italiana dalle autorità italiane e, dopo una decisione (positiva) sull’asilo, essere portate in Italia o, in caso contrario, riportate nel paese di origine e, se non è possibile, riportate indietro. in Italia”. Per la Commissaria agli interni UE, “L’Italia sta rispettando il diritto dell’UE, quindi ciò significa che si tratta delle stesse regole. Ma giuridicamente parlando, non è il diritto dell’UE ma è la legge italiana (che) segue il diritto dell’UE.”. Non si riesce davvero a trovare nel Diritto dell’Unione europea attualmente vigente, e nel diritto italiano, una sola norma che autorizzi i trasferimenti forzati al di fuori dell’Unione europea ed il regime di trattenimento amministrativo in Albania, abbozzati nell’intesa tra la Meloni e il premier albanese.
In base alle contradittorie dichiarazioni della Commissaria UE dunque, se l’accordo, ancora abbozzato e privo di dettagli operativi, tra Italia ed Albania rimane “fuori” dal diritto europeo, le norme interne che saranno adottate in Italia per rendere esecutiva l’intesa, e le prassi che seguiranno, non potranno sottrarsi al diritto dell’Unione europea ed alle norme a tutela dei diritti dei richiedenti asilo (Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE) e in materia di garanzie nei casi di rimpatrio (Direttiva 2008/115/CE). Perchè ormai è evidente che da qui alle prossime elezioni europee sarà ben difficile che il Consiglio e la Commissione europea possano approvare nuovi atti legislativi (Direttive e Regolamenti) in attuazione di quel Patto sulle migrazioni in 10 punti che nel 2023 costituisce il punto di arrivo del fallimentare Piano sulle migrazioni e l’asilo del 2020, che imprimeva già una svolta verso una esternalizzazione più marcata delle politiche europee sulle frontiere, Dunque, prima che l’accordo tra Italia ed Albania diventi operativo, sarà necessario adottare norme interne e prassi operative coerenti con il diritto dell’Unione europea vigente, e non con le norme di Piani di azione e Patti sulle migrazioni che mancano ad oggi di base legale. Ma anche derogando il diritto dell’Unione europea con una nuova legge nazionale non si potranno superare i limiti imposti dal diritto internazionale che vieta i respingimenti collettivi ed impone garanzie per i casi di trattenimento amministrativo. Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato “Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)”, è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale”. Ed è inutile che il governo giochi con la forma degli accordi, definendoli Memorandum o Protocolli d’intesa, perchè se hanno contenuto politico ed implicano oneri di spesa, sono comunque accordi internazionali e vanno approvati in sede parlamentare in base all’art. 80 della Costituzione, e non possono derogare al principio di gerarchia delle fonti sancito dagli articoli 10 e 117 della stessa Costituzione.
2. I migranti trasportati dalle navi militari italiane saranno sbarcati a Shengjin dove l’Italia gestità in un centro di transito le procedure di sbarco e identificazione, mentre si realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che secondo quanto affermano esponenti di governo, di fatto sarà una “struttura modello Cpr”, per le successive procedure volte all’accertamento del diritto alla protezione, o in caso negativo, al trasferimento forzato in Italia, se non nel paese di origine. Ci sono tutte le premesse per una proliferazione di casi di trattenimento informale, fin troppo tollerati dall’Unione europea, ma già oggetto di dure condanne dell’Italia su diversi procedimenti individuali di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Se l’Italia dunque, dovesse davvero aprire in Albania un centro di identificazione nel punto di sbarco dei migranti trasportati da unità militari italiane, e quindi in una località più interna, una struttura detentiva che, nelle dichiarazioni di diversi esponenti di governo dovrebbe essere assimilata ad un CPR (centro per i rimpatri), prima di una nuova base legale per le cd. procedure accelerate in frontiera e per i rimpatri forzati, adottata dalla Commissione UE e dal Consiglio, con il voto favorevole del Parlamento, si potrebbe verificare una eclatante violazione del diritto dell’Unione europea. Per questa ragione si dovrebbe utilizzare necessariamente il termine deportazione, che in Italia non ha al momento una precisa portata normativa, per descrivere il trasporto su nave militare di persone soccorse in mare, e le operazioni di consegna delle persone migranti alle autorità albanesi per il trasferimento dal punto di sbarco al centro di detenzione e quindi, in caso di esito negativo della domanda di protezione, per il trasferimento forzato delle stesse persone dal centro di detenzione (CPR) al punto d’imbarco verso l’Italia, o peggio all’aeroporto albanese, dunque sotto scorta albanese, dal quale dovrebbero decollare i voli di rimpatrio. A meno che questi stessi voli non fossero previsti da territorio italiano, con l’onere per le nostre autorità di riportare in Italia i richedenti asilo denegati che dovessero essere espulsi con accompagnamento forzato nel paese di origine. In tutti questi passaggi da una forza di polizia ad un’altra, senza una immediata convalida giurisdizionale, si può correttamente parlare di deportazione, come è corretto parlare di deportazione nel caso del respingimento collettivo effettuato nel 2009 da una motovedetta della Guardia di finanza nel porto di Tripoli, da cui scaturì la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi. Una condanna alla quale ne stanno seguendo altre a carico dell’Italia, per respingimenti collettivi e per trattamenti inumani e dagradanti, che permettono di parlare di vere e proprie deportazioni anche nel caso dell’accoglienza/detenzione nei centri Hotspot. Secondo l’art. 6 del Protocollo tra Italia ed Albania firmato lo scorso 6 novembre, “le competenti autorità della parte albanese assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica nel perimetro esterno alle aree e durante i trasferimenti via terra, da e per le aree, che si svolgono nel territorio albanese. Le competenti autorità della parte italiana assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno delle aree. Le competenti autorità della Parte albanese possono accedere nelle aree, previo espresso consenso del responsabile della struttura stessa. In via eccezionale le autorità della parte albanese possono accedere nelle strutture, informando il responsabile italiano della stessa, in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento”. Dunque nei confronti delle persone sbarcate in Albania da navi militari italiane si realizzeranno vere e proprie rendition ( consegne) collettive, che certamente comporteranno temporanei trasferimenti sotto la giurisdizione delle autorità albanesi, al di fuori di qualsiasi coperura garantita dalle normative europee ed italiane per i casi di trasferimenti forzati di stranieri (garanzie precisate dalla sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale italiana). Le forme di privazione della libertà personale delle persone affidate per i trasferimenti alle autorità albanesi, e poi successivamente ritrasferite “sotto giurisdizione italiana”, dopo l’ingresso nei nuovi centri, non rispettano la riserva di legge (obbligo di espressa previsione di legge) e la riserva di giurisdizione (obbligo di convalida da parte di un giudice) imposte dagli articoli 10 e 13 della Costituzione e dall’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Ancora più fumose le previsioni contenute nel Protocollo d’intesa Italia-Albania con riferimento ai ritrasferimenti dei richiedenti asilo denegati in Italia, o l’eventuale rimpatrio nei paesi di origine. Difficile negare che per un tempo indeterminato, persone migranti che, già sulle navi militari italiane sono sotto giurisdizione italiana, dopo lo sbarco in Albania, potranno essere sottoposte a forme diverse di trattenimento amministrativo, al di fuori dei casi e delle garanzie stabilite a livello nazionale ed europeo. Come saranno applicabili in Albania le nuove norme in materia di trattenimento amministrativo nei CPR adesso fino a 18 mesi? Nel 2022 all’aumento del tempo di trattenimento nei centri di permanenza dei rimpatri è corrisposto un calo del numero dei migranti rimandati nei loro Paesi d’origine. A fronte delle pesanti sanzioni penali introdotte con l’ennesimo decreto sicurezza per le persone migranti che si ribellano durante il trattenimento all’interno di un centro di detenzione, e persino dentro un centro di accoglienza, quale giudice provvederà ad adottare le nuove pesanti sanzioni e come verrà garantita la loro effettiva applicazione, in Italia, evidentemente, una volta che sarà assodato che i rimpatri non saranno possibili ?
Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n.105/2001) “ Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto”.
3. La distinzione che, al fine di legittimare le deportazioni in Albania, si vorrebbe operare tra soccorsi operati dalle navi militari italiane in acque internazionali e soccorsi operati dalle stesse navi in acque territoriali è del tutto priva di fondamento, perchè le persone soccorse o trasferite da navi militari italiane ricadono sotto la piena giurisdizione dello Stato italiano, anche se vengono prese a bordo in acque internazionali, come insegna la sentenza Hirsi adottata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. E infatti il Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale di 46 Stati con sede a Strasburgo, come la collegata Corte europea dei diritti dell’Uomo), ha bocciato il Memorandum Italia-Albania, definendolo come “preoccupante per i diritti umani”. Secondo la Commissaria del Consiglio d’Europa per i diritti umani, Dunja Mijatovic. l’accordo tra Italia e Albania “è indicativo di un processo più ampio da parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa” che spinge verso la creazione di “vari modelli di esternalizzazione dell’asilo come potenziale soluzione rapida alle complesse sfide poste dall’arrivo dei rifugiati”,. Per la Commissaria, “Tuttavia, le misure di esternalizzazione aumentano significativamente il rischio di esporre rifugiati, richiedenti asilo e migranti a violazioni dei diritti umani” e il recente accordo tra Roma e Tirana potrebbe contribuire a “un effetto domino che potrebbe minare il sistema europeo e globale di protezione internazionale”.
Amnesty International mette in evidenza come il protocollo sia “illegale ed impraticabile” e potrebbe entrare in conflitto con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, articolo 78, paragrafo 1, e con la Carta europea dei diritti fondamentali (articoli 18 e 19) che garantisce il diritto di chiedere asilo nell’Unione Europea e vieta i respingimenti collettivi.
Le posizioni della Commissione europea, con i suoi sottili distinguo, rimangono dunque prive di basi legali e costituiscono soltanto una sponda di alcuni componenti della Commissione Europea, come la Von der Leyen e la Johansson, molto legate a Giorgia Meloni con la quale nel corso del 2023 hanno condiviso tutti i tentativi falliti di esternalizzazione del diritto di asilo, dal Memorandum Unione Europea-Tunisia, ormai caduto nel dimenticatoio, mentre a Lampedusa riprendono gli sbarchi di massa, al rifinanziamento di Frontex ed ai pattugliamenti coordinati con la sedicente Guardia costiera libica, fino agli ultimi accordi con l’Albania. Le elezioni europee si avvicinano e ciascun componente della Commissione porta avanti le politiche che più sembrano promettere in chiave di consenso elettorale, anche se le prospettive di una vera riforma delle normative europee in materia di asilo e immigrazione si allontanano sempre di più. Alla fine, ci sarà sempre un vertice europeo dal quale fare venir fuori un accordo di facciata sulle politiche di esternalizzazione, che, come l’accordo tra Italia ed Albania, magari, non saranno mai attuabili, ma intanto potrebbero garantire inedite alleanze e un consistente vantaggio elettorale.
4. Il 5 ottobre 2018 l’Unione europea ha firmato con l’Albania un accordo di cooperazione in materia di gestione delle frontiere tra questo paese e l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex). Questo accordo consente all’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri dell’UE e l’Albania per la gestione delle frontiere esterne dell’UE. La guardia di frontiera e costiera europea avrà la possibilità di agire alla frontiera esterna tra uno o più Stati membri confinanti e l’Albania. È previsto anche l’eventuale intervento sul territorio albanese, previo accordo dell’Albania. Per ciascuna operazione dovrà essere concordato un piano tra l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera e l’Albania.
Dopo gli accordi stipulati tra Italia ed Albania questo accordo di cooperazione tra Unione europea ed Albania non potrà certo essere cancellato, e dunque le attività di polizia che l’Italia si propone di svolgere in territorio albanese dovranno necessariamente essere coordinate di volta in volta con il governo albanese e con Frontex. Siamo davvero curiosi di vedere quali livelli di collaborazione saranno stabiliti dalle autorità italiane presenti in Albania, con la giurisdizione su due centri di accorglienza/detenzione in cui si dovrebbero internare 3000 persone al mese, con una agenzia come Frontex che rimane sicuramente soggetta alla normativa dettata dal Regolamento UE n.656 del 2014, che contiene norme che vanno in contrasto frontale con le previsioni, più annunciate che abbozzate, del nuovo acordo tra Italia ed Albania. Ancora una ragione per cui si potrà correttamente parlare di deportazioni qualora l’Italia riuscisse davvero a consegnare alla polizia albanese persone che sono già sotto la sua giurisdizione, trattandosi di autorità di un paese terzo, e da questo si tentasse poi di avviare procedure di rimpatrio forzato, al di fuori di qualsiasi previsione contenuta nella vigente legislazione dell’Unione Europea. Quanto previsto dal Protocollo Italia-Albania va contro il chiaro disposto della legge italiana, che all’art. 10.ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, in conformità con la stessa normativa europea ( Hotspot Approach) prevede che “ Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”. Secondo la stessa norma (c. 1 bis), “Per l’ottimale svolgimento degli adempimenti di cui al presente articolo, gli stranieri ospitati presso i punti di crisi di cui al comma 1 possono essere trasferiti in strutture analoghe sul territorio nazionale, per l’espletamento delle attività di cui al medesimo comma. Al fine di assicurare la coordinata attuazione degli adempimenti di rispettiva competenza, l’individuazione delle strutture di cui al presente comma destinate alle procedure di frontiera con trattenimento e della loro capienza è effettuata d’intesa con il Ministero della giustizia”. Non è dunque previsto, nè consentito, allo stato della vigente legislazione interna o della corrispondente normativa europea, il trasferimento delle persone migranti soccorse in mare da autorità italiane, ovunque soccorse, non rileva se in acque territoriali o internazionali, verso centri hotspot (punti di crisi) ubicati al di fuori del territorio nazionale. Per chi sarà deportato in Albania, perchè di deportazione si tratta per la grave lesione dei diritti fondamentali che ne deriva, si prevede una condizione giuridica “speciale” di extra-territorialità, perchè non sarebbe soggetto al diritto albanese, se non, forse, nel transito dai porti di sbarco al centro di detenzione, o in caso di fuga dai centri, ma neppure potrebbe avvalersi effettivamente di tutte le tutele, a partire dalle garanzie costituzionali, stabilite per chi si trova sotto giurisdizione italiana nel nostro territorio.
Non sarà certo la presenza dell’OIM e dell’UNHCR, nei nuovi centri che si dovrebbero aprire in Albania, annunciata dal governo italiano ma ancora non confermata, sempre ammesso che queste procedure in frontiera si realizzno in un paese terzo non appartenente all’Unione europea, che potrà scardinare le norme di garanzia a favore dei richiedenti asilo e delle persone sottoposte a procedure di rimpatrio nei centri qualificati come CPR. Sarebbe piuttosto auspicabile che queste organizzazioni chiariscano una volta per tutte la loro posizione ed impediscano di essere utilizzate come una giustificazione per trasferimenti forzati e forme di detenzione amministrativa che sono e rimarranno privi di basi legali e dunque assumeranno il carattere di una deportazione vera e propria. Al di là da impropri richiami storici, si può intendere per deportazione il trasferimento con accopagnamento coatto e dunque forzato verso un luogo di detenzione ubicato in uno Stato diverso dal proprio paese di origine. Esattamente quello che si propone il governo Meloni con gli accordi siglati con il premier albanese Edi Rama, dopo che analoghi propositi erano falliti dopo la firma del Memorandum d’intesa tra Unione Europea e Tunisia, e dopo che analoghi progetti di esternalizzazione attraverso accordi di riammissione erano falliti a seguito del colpo di Stato in Niger, e per la crescente instabilità di tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana.
5. Una mera coincidenza cronologica ha avvicinato i tentativi dell’Unione Europea e del governo italiano, tesi a dimostrare la legittimità del Protocollo d’intesa tra Italia ed Albania, alla sentenza della Corte suprema inglese che in via definitiva ha stabilito la illegittimità degli accordi stipulati tra il governo inglese ed il governo del Rwanda per respingere in quel paese i richiedenti asilo intercettati nel tentativo di fare ingresso irregolare in Gran Bretagna. Sunak aveva incassato il plauso della Meloni sul tentativo di fare processare in quel paese le richieste di protezione e quindi di eseguire direttamente da quello stesso paese i rimpatri con accompagnamento forzato delle persone che avessero ricevuto un diniego sulla richiesta di protezione. Anche se il contenuto degli accordi stipulati dal Regno Unito con il Ruanda è molto diverso da quanto appena abbozzato nel Protocollo tra Italia ed Albania. Ed è bene ricordare, come il Regno Unito non sia più soggetto dal 2020 al rispetto delle Direttive e dei Regolamenti europei in materia di protezione internazionale e procedure di rimpatrio forzato. Una circostanza richiamata anche dai giudici inglesi.
La Corte Suprema inglese, riconosce adesso che il governo ruandese ha aderito validamente al Migration and Economic Development Partnership (MEDP), che dispone di incentivi per garantirne il rispetto e che le modalità di monitoraggio forniscono un’ulteriore tutela. Per la stessa Corte, tuttavia, che esclude qualsiasi rilevanza degli obblighi derivanti dalle Direttive e dai Regolamenti europei, “le prove dimostrano che ci sono sostanziali motivi per ritenere che esista un rischio reale che le richieste di asilo non vengano valutate correttamente, e che i richiedenti asilo correranno quindi il rischio di essere rimpatriati direttamente o indirettamente nel loro paese di origine. I cambiamenti e il rafforzamento delle capacità necessari per eliminare tale rischio potrebbe verificarsi in futuro, ma non è stato dimostrato che fossero presenti quando in questo procedimento si è dovuto considerare la legalità della politica del Ruanda”. Una sconfitta frontale per il premier inglese Rishi Sunak, che Giorgia Meloni evoca come modello e alleato, che colpisce altri casi di deportazione già tentati dal governo inglese, casi che, seppure non possano essere confusi con il modello ancora in bozze del Protocollo Italia-Albania, risultano in contrasto con il diritto inglese per le stesse ragioni per cui risulterebbero in contrasto con il diritto italiano e dell’Unione Europea le norme e le prassi di attuazione degli accordi tra Italia ed Albania. Anche nel caso delle persone migranti deportate in Albania dopo essere state a bordo di navi militari italiane, dunque già sotto giurisdizione italiana, si potrebbe profilare “un rischio reale che le richieste di asilo non vengano valutate correttamente, e che i richiedenti asilo correranno quindi il rischio di essere rimpatriati direttamente o indirettamente nel loro paese di origine”.
La definizione di “paese terzo sicuro” sbrigativamente attribuita per decreto a numerosi paesi di origine che sicuri non sono affatto, come dimostrano le sentenze dei giudici che a cittadini di questi paesi riconoscono il diritto alla protezione e bloccano le misure di accompagnamento forzato, se applicata in Albania, per di più con le nuove procedure accelerate, che già in Italia hanno evidenziato tante criticità, potrebbe colpire con effetti irreversibili persone che in Italia potrebbero difendersi meglio, a partire dalle possibilità di accesso ad un dignitoso sistema di accoglienza, e di monitoraggio delle strutture e delle procedure di rimpatrio forzato, che non sembra previsto dalla legislazione albanese.
Si tratta dello stesso rischio a fronte del quale il nostro legislatore ha previsto i divieti di respingimento sanciti dall’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione, e per il quale le Direttive ed i Regolamenti europei in materia di controllo delle frontiere e di protezione internazionale, richiamano tutte le Convenzioni internazionali a difesa dei diritti dell’Uomo, in particolare la Convenzione di Ginevra del 1951 che vieta il refoulement (art.33) e stabilisce garanzie inderogabili per l’accesso alla procedura di asilo, e la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, firmata a Roma nel 1950, che vieta respingimenti o espulsioni verso paesi nei quali le persone potrebbero essere sottoposte a trattamenti inumani o degradanti (art. 3) e impone garanzie vincolanti in tutti i casi di detenzione amministrativa (art.5).
Il Premier inglese Sunak, come la sua sodale Meloni in Italia, si propongono adesso di superare l’esito per loro negativo delle decisioni della magistratura con provvedimenti di legge che contano di fare approvare da Parlamenti sempre più ridotti ad organi di ratifica delle decisioni dell’esecutivo. Ma la partita, almeno in Italia, non si chiuderà certo con i peirodici decreti legge approvati a colpi di fiducia in base alle esigenze elettorali delle forze di governo. Se davvero a maggio del 2024, giusto alla vigilia delle elezioni europee, si vorranno avviare i nuovi centri di acoglienza/detenzione in Albania,e ammesso che in Albania il premier Edi Rama riesca ad imporre al Parlamento ed all’opinione pubblica le norme di attuazione degli accordi con la Meloni, i tentativi di deportazione che il governo italiano dovesse sperimentare troveranno una opposizione determinata e capace di incidere anche a livello internazionale.
E per quanti si lamentano ancora dell’uso del termine “deportazione” con riferimento agli acordi tra Italia ed Albania, già stipulati, o ancora da stipulare, persone che non hanno neppure memoria del costo umano degli accordi con la Tunisia e con la Libia, per effetto dei respingimenti collettivi delegati alle motovedette tunisine e libiche e delle successive deportazioni verso paesi non sicuri, si può soltanto ribadire che in lingua inglese il termine “deportation” significa semplicemente rimpatrio forzato, dunque ha una portata ancora più ampia di quella che noi gli abbiamo attribuito nella lingua italiana, come si può ricavare dalla stessa lettura della sentenza della Corte suprema che ha dichiarato la illegitimità degli accordi con il Ruanda. Come si lege in inglese, comunque, grazie ad un forte impegno della società civile e degli avvocati, “No one had been deported to the country while the plan was being challenged in the courts”.
Piuttosto che giocare sui termini usati nel discorso politico, chi sta al governo dovrebbe giustificare il proprio operato per i ricorrenti tentativi di abbattere il diritto di asilo e lo Stato di diritto (Rule of law). Difficile pensare che in tempi brevi la politica basata sugli annunci e sulla propaganda contro gi stranieri possa cessare. Conviene ancora troppo sul piano elettorale. Dentro e fuori i confini dell’Unione europea, assistiamo ad un continuo attentato al principio di uguaglianza, ai diritti umani ed alla democrazia. La dittatura della maggioranza sembra non trovare ostacoli. Quando gli europei si sveglieranno da questo sonno delle coscienze (oltre che della ragione) potrebbe davvero essere troppo tardi.