di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Introduzione: l’abuso della decretazione d’urgenza
Il “Decreto Cutro”, ma ormai sarebbe meglio chiamarlo “Decreto Piantedosi”, approvato dalla Camera, e adesso pubblicato in Gazzetta Ufficiale (GU n. 104 del 5.5.2023, Legge n.50 del 5 maggio 2023), è molto più ampio e disumano di quello propagandato con la Conferenza stampa a Cutro dopo la strage di Stato del 26 febbraio scorso. Il governo Meloni, a fronte delle divisioni e della scarsa reazione delle opposizioni, e contando sulla magioranza assoluta che i suoi elettori gli hanno riconosciuto, ha enormemente “dilatato” la portata del provvedimento, scaricando al suo interno tutte le richieste peggiorative della Lega di Salvini e dei vertici del Viminale, incapaci di dare altre risposte di fronte all’aumento esponenziale degli arrivi dalle rotte del Mediteraneo centrale. Una ennesima svolta repressiva che viola principi basilari della Carta Costituzionale, come il principio di uguaglianza (art.3), il diritto di asilo (arrt.10),il diritto alla libertà personale (art.13),il diritto alla salute (art.32), il diritto ad un ricorso effettivo (art.24), in particolare contro atti della Pubblica amministrazione (art.113). Ma che intacca anche diritti e garanzie procedurali stabiliti dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalle Direttive europee in materia di procedure di protezione, detenzione amministrativa e rimpatri con accompagnamento forzato. L’abrogazione di fatto della protezione speciale, anche nei casi di effettivo inserimento sociale in Italia in particolare, viola l’art. 10 della Costituzione e l’art.8 della CEDU. Perchè la giurisprudenza aveva già riconosciuto la protezione umanitaria come una forma dell’asilo costituzionale. E la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si era espressa in maniera chiarissima, proprio in materia di vulnerabilità e riconoscimento di diritto alla protezione, in base all’art. 8 della CEDU, che il legislatore italiano tenta adesso di disattivare.
Le nuove previsioni in materia di trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo nella “fase di identificazione” impattano anche sulla condizione giuridica dei richiedenti protezione internazionale, e dunque dovrebbero rispettare le Convenzioni internazionali e le Direttive europee in materia. Mentre l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite dovrebbe preoccuparsi ed intervenire concretamente nei confronti del governo italiano sulla situazione dei potenziali richiedenti asilo, o di coloro che hanno già manifestato la volontà di chiedere asilo, senza avere la possibilità di formalizzare la domanda, dopo l’ingresso in frontiera. Dove possono essere trattenuti con modalità discrezionali che non sembrano rispettare il principio di riserva di legge, affermato non solo dall’art.13 della Costituzione italiana, per tutte le ipotesi di limitazione della libertà personale, ma anche dall’art.5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
Il provvedimento pubblicato in Gazzetta Ufficiale va ben oltre il ripristino dei “decreti sicurezza” di Salvini, il primo adottato ad ottobre del 2018, dopo la vittoria elettorale, per cancellare la protezione umanitaria e demolire il sistema di accoglienza, ed il Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, approvato alla vigilia della crisi del governo Conte 1, per fare fuori le navi del soccorso civile ed impedire i soccorsi operati dalle ONG nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
La Legge n.50 del 2023, titolata “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare”, in realtà contiene al suo interno, nella parte preponderante del provvedimento, misure che tendono alla definitiva demolizione del sistema di accoglienza pubblico ed alla cancellazione dei diritti fondamentali delle persone migranti, a partire dallo svuotamento del diritto di asilo, sancito dall’art. 10 della Costituzione e dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. A differenza di quanto sinteticamente previsto nella formulazione originaria del “Decreto legge Cutro”, si va ben oltre la restrizione dei casi in cui risulta possibile riconoscere la protezione speciale, ed anche oltre le “misure straordinarie per la gestione dei centri per migranti”. Colpisce soprattutto l’ampliamento delle previsioni che riguardano le procedure, e qui l’impronta delle richieste del Viminale è evidente, per ottenere una negazione sostanziale dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, attraverso un fitto reticolo di norme procedurali con le quali avrà campo libero la discrezionalità della pubblica aministrazione, dunque delle prefetture e delle questure, su indirizzo del governo. Con un sostanziale svuotamento dei controlli e delle garanzie giurisdizionali, che tanto fastidio hanno dato quando i tribunali hanno riconosciuto i diritti alla protezione, prima” umanitaria” e poi “speciale”, o affermato il principio di non respingimento per adempimento di obblighi costituzionali (art.19 T.U. n.286/1998 e successive modificazioni).
La “firma” dei vertici del Viminale al nuovo decreto, imposto dal governo all’approvazione di un Parlamento che non ha saputo neppure adottare un parere in Commissione affari costituzionali del Senato, è evidente in quanto ricorda Livio Neri in un recente studio dedicato all’istituto della Protezione speciale. Con le circolari prot. 156594 del 23.11.2021 e prot. 11650 del 15.11.2021 del Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale immigrazione e polizia delle frontiere del Ministero dell’interno38. Il Ministero dell’interno, si tentava di ricostruire due diversi tipi di protezione speciale, a seconda che la domanda fosse presentata direttamente al questore, o invece venisse rivolta alla Competente commissione territoriale. Come ricorda Livio Neri, con tali circolari, prendendo atto dell’orientamento espresso dalla Commissione nazionale in merito alla possibilità per il cittadino straniero di richiedere il rilascio del permesso per protezione speciale rivolgendosi direttamente al questore,(si) deduce dall’esistenza dei due differenti canali di accesso alla protezione speciale l’esistenza nell’ordinamento di due differenti permessi di soggiorno con la medesima denominazione, rilasciati l’uno ai sensi dell’art. 19, co. 1.2, TU all’esito della domanda diretta al questore e solamente da quest’ultima norma disciplinato, l’altro ai sensi dell’art. 32, d.lgs. n. 25/2008, ottenuto a seguito di trasmissione degli atti al questore dalla Commissione territoriale, investita di domanda di riconoscimento della protezione internazionale, la cui disciplina è rinvenibile in tale ultima disposizione.
La convertibilità del permesso di soggiorno, in ragione del richiamo operato dall’art. 6,
co. 1-bis, lett. a), TU al solo art. 32 d.lgs. n. 25/2008, sarebbe quindi riservata secondo il
Ministero a quest’ultimo permesso, differentemente regolato tanto sotto il profilo procedimentale quanto sotto quello sostanziale“. Le resistenze alla convertibilità del permesso di soggiorno per protezione speciale prima manifestate dai vertici del Ministero dell’interno, che addirittura sostenevano l’esistenza di due tipi diversi di permessi di soggiorno per protezione speciale, hanno avuto adesso riscontro nella forte limitazione delle possibilità di rinnovo, dettata dalla legge 50/2023, fino alla (apparente) cancellazione del permesso di soggiorno per protezione speciale nei casi previsti dal terzo e dal quarto periodo del primo comma dell’art. 19 (casi di inclusione sociale). Che si può ritenere, una abrogazione apparente, perchè di certo il legislatore nazionale non può escludere la persistente applicabilità dell’art.8 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, che è la norma dalla quale promanavano i casi di protezione speciale adesso abrogati dal Parlamento italiano. Quel riconoscimento che il legislatore tenta di cancellare per ragioni di consenso elettorale, costituisce adempimento di obblighi costituzionali ed internazionali, rientrando dunque sotto la vasta copertura normativa garantita dall’art. 5.6 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, norma che non è stata abrogata, nè avrebbe potuto esserlo.. Tocca adesso alla giurisprudenza riconoscerlo, purtroppo soltanto nei casi in cui sarà possibile sostenere i ricorsi fino alle istanze più elevate, e se necessario, davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo ed alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
2. Le norme sugli ingressi legali per lavoro (rinvio)
In questa prima analisi della legge n.50 del 5 maggio 2023 pubblicata in Gazzetta Uficiale n.104 del 5 maggio 2023 lasceremo da parte le norme riguardanti “disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri”. Si tratta di norme che non necessitavano di essere previste per via della decretazione d’urgenza, e che appaiono evidentemente distanti dagli scopi annunciati, per prevenire in futuro altri tragici disastri in mare come il naufragio di Cutro. Come è peraltro tristemente provato dall’aumento dei naufragi subito dopo l’entrata in vigore del Decreto legge del 10 marzo n.20 del 2023. Così come non saranno certo le previsioni introdotte con l’art. 5 della nuova legge, sull’ingresso dei lavoratori nel settore agricolo e sul contrasto delle agromafie, che libereranno gli immigrati impiegati in questo settore da condizioni sistematiche di sfruttamento che derivano dai criteri di recutamento previsti dalla legge, dalla mancanza di controlli e tutele effettive, e da un numero troppo limitato di ingressi consentiti per ragioni di lavoro, anche stagionale.
Scorrendo le singole norme nel provvedimento pubblicato in Gazzetta Uficiale n.104 del 5 maggio 2023 emerge subito come le misure di programmazione degli ingressi (art.1), con il richiamo strumentale a quote riservate ad apolidi o rifugiati riconosciuti dall’UNHCR, o le misure previste per la semplificazione ed il nulla osta al lavoro (art.2), come la previsione di ingressi al di fuori delle quote (art.3) non modificano la situazione attuale. Che vede sostanzialmente chiusi i canali legali di ingresso per la stragrande maggioranza delle persone che sono costrette a fare ingresso irregolare (non solo via mare) in Italia. Rimane il carattere disfunzionale del sistema dei “flussi migratori” e della “chiamata a distanza”, in quanto assai difficilmente i datori di lavoro sono disposti a chiamare una persona loro sconosciuta, che vive all’estero e le cui capacità lavorative non hanno la possibilità di sperimentare. Mentre potrebbe essere una valida alternativa la reintroduzione della chiamata attraverso “sponsor”, visti di ingresso per ricerca lavoro ed una estesa regolarizzazione permenente attraverso la emersione di rapporti di lavoro già in corso in Italia con cittadini stranieri privi di un permesso di soggiorno.
Le disposizioni previste dala legge n.50 del 2023 in materia di flussi di ingresso e di quote riservate, appaiono comunque ben distanti dall’obiettivo conclamato nel corso della conferenza stampa seguita alla riunione del Consiglio dei ministri a Cutro, di offrire una valida alternativa a coloro che sono costretti a tentare la via dell’attraversamento del Mediterraneo per fare ingresso in Italia, considerando l’esiguità delle stesse quote, ed il rischio che, per agevolare l’ingresso regolare di cittadini di paesi terzi con i quali si instaurano accordi di collaborazione nelle attività di dissuasione delle partenze, si peggiori significativamente la condizione dei potenziali richiedenti asilo in transito in quei paesi, che potrebbero essere soggetti a procedure indiscriminate di respingimento e di espulsione collettiva. Come si sta verificando in questi ultimi mesi proprio in Turchia, in Libia ed in Tunisia, paesi dai quali sono partiti i barconi che hanno fatto naufragio nel Mediterraneo, sulla rotta libico-tunisina, ed a Cutro, sulla rotta dalla Turchia, con un crescente numero di vittime innocenti. E come si potrebbe verificare anche nel caso dell’Egitto. Vittime non dei trafficanti ma di chi chiude le vie di ingresso legale, come si verifica ad esempio con il blocco dei visti di ingresso, o di chi permette comunque ai trafficanti, malgrado gli accordi di cooperazione di polizia, di fare partire imbarcazioni destinate al naufragio.I periodici viaggi dei ministri nei paesi di transito per ottenere una maggiore collaborazione nel blocco delle partenze, al di là delle consuete dichiarazioni propagandistiche, finiscono sempre con un nulla di fatto, ed appena le condizioni meteo lo permettono le partenze riprendono con la stessa frequenza di prima, indotte dalle politiche espulsive del governo tunisino e delle diverse autorità che si contendono il controllo della Libia.
3. Proroga e conversione dei permessi di soggiorno per i minori stranieri non accompagnati
La riduzione dei casi di proroga e conversione dei permessi di soggiorno per i minori stranieri non accompagnati stabilita dall’art. 4 bis della legge 50 avrà effetti devastanti sulla vita di giovani adulti rigettati nella clandestinità, con il rischio di cadere nelle più tragiche forme di devianza. Il nuovo art. 4 bis della stessa legge, introdotto al Senato, e poi confluito nella legge di conversione, prevede inoltre che “Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 può essere rilasciato, per il periodo massimo di un anno, per motivi di studio, di accesso al lavoro ovvero di lavoro subordinato o autonomo previo accertamento dell’effettiva sussistenza dei presupposti e requisiti previsti dalla normativa vigente, al compimento della maggiore età, ai minori stranieri non accompagnati, affidati ai sensi dell’articolo 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184, ovvero sottoposti a tutela, previo parere positivo del Comitato per i minori stranieri di cui all’articolo 33 del presente testo unico, ovvero ai minori stranieri non accompagnati che siano stati ammessi per un periodo non inferiore a due anni in un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato che abbia rappresentanza nazionale e che comunque sia iscritto nel registro istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ai sensi dell’articolo 52 del regolamento di cui al decreto del Pre- sidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 ». Rimane del tutto incerta la sorte dei minori stranieri non accompagnati arrivati più di recente che compiano, o ai quali venga attribuita, la maggiore età, senza rientrare nelle categorie che danno titolo al rilascio di un permsso di soggiorno dopo il compimento dei diciotto anni.
Si dispone l’abrogazione degli ultimi due periodi del comma 1-bis del vigente articolo
32, T.U. n.286/98, ossia della previsione che il mancato rilascio del parere da parte del Ministero del lavoro non possa legittimare il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno, nonché della previsione dell’applicazione dell’istituto del silenzio assenso al procedimento di conversione (mediante la soppressione del rinvio all’articolo 20, commi 1, 2 e 3 della legge n. 241 del 1990.
La condizione dei minori stranieri non accompagnati ritorna così ad essere assoggettata ad un regime di totale discrezionalità delle autorità amministrative, con una forte svalutazione del ruolo dei soggetti affidatari, degli enti di tutela e dei Tribunali minorili. In questo caso si dovrà verificare la compatibilità delle nuove previsioni normative e delle prassi che seguiranno, con il principio del “superiore interesse del minore”, che non si esaurisce al compimento della maggiore età, e che è sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, oltre che dalla normativa nazionale non ancora abrogata (Legge n.47 del 2017 – cd. Legge Zampa).
4. La nuova disciplina del sistema di accoglienza e dei controlli di frontiera
Gli articoli 5 bis, ter e quater della legge 50 pubblicata in Gazzetta Ufficiale smantellano, dopo i tagli conseguenza del Decreto sicurezza Salvini n.113 del 2018, quello che rimane, del sistema di accoglienza in Italia, abbandonando il modello dei centri di accoglienza gestiti dai comuni, per puntare su strutture date in gestione ai privati dalle prefetture, sulla base di provvedimenti da”stato di emergenza”, con una riduzione al minimo dei servizi offerti e con la eliminazione di tutte le possibilità di inclusione e di difesa dei diritti. Per i richiedenti asilo non si prevede più la possibilità di essere accolti nel sistema SAI, restando per loro previsti i centri di accoglienza straordinaria (CAS), o altri centri di prima accoglienza (CPA) reperiti dalle prefetture.
Secondo le prime istruzioni ministeriali, la norma non si applica ai richiedenti già presenti nel sistema SAI alla data di entrata in vigore della legge di conversione, ma alcune prefetture, come a Torino, hanno immediatamente sollecitato gli enti gestori a fare uscire i richiedenti asilo già ospitati nei Centri accoglienza del sistema SAI.
I centri di prima accoglienza ed i centri hotspot, attualmente disciplinati con una scarna previsione dall’art. 10 ter del T.U. n.286 del 1998, diventano di fatto centri di trattenimento amministrativo, con la violazione dei principi in materia di libertà personale affermati dal’art.13 della Costituzione e ribaditi dalla CEDU, che ha già condannato l’Italia per i trattenimenti arbitrari a Lampedusa (caso Khlaifia). Ma si estende a dismisura il potere delle autorità amministrative di individuare nuove strutture di prima accoglienza a carattere detentivo.
All’articolo 10-ter del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 1 e’ inserito il seguente: “1-bis. Per l’ottimale svolgimento degli adempimenti di cui al presente articolo, gli stranieri ospitati presso i punti di crisi
di cui al comma 1 possono essere trasferiti in strutture analoghe sul territorio nazionale, per l’espletamento delle attivita’ di cui al medesimo comma. Al fine di assicurare la coordinata attuazione degli adempimenti di rispettiva competenza, l’individuazione delle strutture di cui al presente comma destinate alle procedure di frontiera con trattenimento e della loro capienza e’ effettuata d’intesa con il ministero della Giustizia. Di fronte alla carenza di posti nei centri Hotspot e nei centri di prima accoglienza, si vuole forse arrivare alla utilizzazione di strutture carcerarie ?
In assenza di una qualsiasi previsione normativa a livello europeo e nazionale, lacuna colmata solo in parte nel 2017. il regime dei centri hotspot, e la condizione giuridica delle persone che vi venivano trattenute, rimangono così affidate alle decisioni dell’esecutivo, in particolare del ministero dell’interno, ed alla discrezionalità amministrativa degli organi periferici, le prefetture, che ne determinavano modalità di funzionamento e regolamenti convenzionali con gli enti gestori, quelle prefetture che pure dovrebbero espletare attività di controllo sull’erogazione dei servizi da parte degli stessi enti.
Dopo il decreto legge n. 13 del febbraio 2017, convertito nella legge n. 46/17 (Minniti-Orlando) che per la prima volta faceva un parziale riferimento ai centri Hotspot, soltanto richiamati all’art. 10 ter, la legge n. 132/2018 (primo Decreto sicurezza Salvini) aveva introdotto disposizioni ancora oggi in vigore, con riferimento al trattenimento amministrativo nei diversi centri adibiti all’approccio Hotspot, stabilendo che il richiedente protezione internazionale può essere altresì trattenuto, presso i punti di crisi, come il legislatore definisce gli hotspot, istituiti nei centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) o nei Centri governativi di prima accoglienza (CPA) di cui all’art. 9 d. lgs. 142/2015, per la determinazione o la verifica dell’identità o della nazionalità. Si stabiliva quindi una estensione generalizzata dell’approccio Hotspot a tutti i centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), e di prima acoglienza (CPA), già disciplinati in precedenza soltanto dall’ articolo 23 del Regolamento di attuazione n.394 del 1999 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Non risultava però alcuna disposizione specifica riguardo alla convalida del trattenimento entro le 48/96 ore, sulla comunicazione della misura limitativa della libertà personale all’autorità giudiziaria, e sullo status giuridico delle persone “ospiti” dei centri, come si cercava di dire con un eufemismo che tendeva a nascondere la condizione di vera e propria detenzione amministrativa che si realizzava all’interno di queste strutture.
Con il Decreto legge sicurezza n.113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 del 2018 , si è così verificato un ampliamento delle strutture che potevano essere utilizzate con approccio Hotspot, per realizzare una limitazione della libertà personale dei migranti in attesa che fossero completate le procedure di pre-identificazione e foto-segnalamento, che si potevano così realizzare fino al tempo limite di 30 giorni non solo nei centri qualificati come Hotspot, ma anche in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” o “in locali idonei presso l’ufficio di frontiera”, se non all’interno dei CPR (Centri per i rimpatri), fino al 2017 chiamati CIE ( centri di identificazione ed espulsione).
Dopo il Decreto n.113 del 2018 il tempo massimo di trattenimento nei CPR veniva portato a 180 giorni, mentre per i richiedenti asilo nei casi sempre più frequenti nei quali era previsto il trattenimento amministrativo, si prevedeva la possibilità di un trattenimento che poteva protrarsi addirittura fino a 12 mesi. Nei centri di prima accoglienza adibiti all’approccio Hotspot il tempo massimo di trattenimento si limitava a 30 giorni, ma non vi erano disposizioni precise in ordine alla convalida dei provvedimenti che stabilivano questa limitazione della libertà personale ai fini della identificazione e del successivo trasferimento verso altre strutture.
L’art.3 del decreto legge n.113 del 2018, relativo al trattenimento ed alla verifica dell’identità e della cittadinanza dei richiedenti asilo, aggiungeva l’art. 3 bis dopo l’art.3 del decreto legislativo n.142 del 2015, secondo cui, ” Salvo le ipotesi di cui ai commi 2 e 3, il richiedente puo’ essere altresi’ trattenuto, per il tempo strettamente necessario, e comunque non superiore a trenta giorni, in appositi locali presso le strutture di cui all’articolo 10-ter, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per la determinazione o la verifica dell’identita’ o della cittadinanza. Ove non sia stato possibile determinarne o verificarne l’identita’ o la cittadinanza, il richiedente puo’ essere trattenuto nei centri di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con le modalita’ previste dal comma 5 del medesimo articolo 14, per un periodo massimo
di centottanta giorni.
Come si osservava in un Parere del 25 novembre 2018 dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), “la norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione”. Nel parere dell’ANM si osservava anche che “Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi. Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. Si aggiunge, poi, che la possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre -condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati”.
Con il nuovo comma 4 dell’art. 5 bis della legge n.50 del 2023, si modifica il comma 2-bis all’articolo 11 del D. Lgs. 142/2015, prevedendo che nelle more dell’individuazione di disponibilità di posti nei centri governativi o nelle strutture temporanee, l’accoglienza possa essere disposta dal prefetto, per il tempo strettamente necessario, in strutture di accoglienza provvisoria individuate con le modalità di cui all’articolo 11, comma 2, del D. Lgs. 142/2015. Secondo qiest’ultima norma, “Le strutture di cui al comma 1 soddisfano le esigenze essenziali di accoglienza nel rispetto dei principi di cui all’articolo 10, comma 1, e sono individuate dalle prefetture-uffici territoriali del Governo, previo parere dell’ente locale nel cui territorio e’ situata la struttura, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. E’ consentito, nei casi di estrema urgenza, il ricorso alle procedure di affidamento diretto ai sensi del decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle relative norme di attuazione. Si torna dunque al vecchio sistema dei centri di prima accoglienza (CPA) disciplinati dalla legge Puglia del 1995 con pochissime disposizioni, senza nessun riferimento alla condizione giuridica degli “ospiti”, rimessa nella sostanza alle determinazioni discrezionali delle autorità di polizia, spesso in violazione dei limiti temporali e delle garanzie procedurali dettate dall’art. 13 della Costituzione. Dai centri di primissima accoglienza e dagli Hotspot vicini ai luoghi di sbarco si prevedono poi trasferimenti -anche via mare- verso una pletora di strutture ubicate nell’intero territorio nazionale, con destinazioni finali stabilite dal ministero dell’interno.
Al comma 5 dell’art. 5 bis della nuova legge n.50 si prevede che“al fine di assicurare adeguati livelli di accoglienza nei punti di crisi di cui all’articolo 10-ter del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il Ministero dell’interno e’ autorizzato a stipulare, con le facolta’ di deroga richiamate al comma 1 del presente articolo, uno o piu’ contratti per l’affidamento del servizio di trasporto marittimo dei migranti ivi presenti, nel limite massimo complessivo di euro 8.820.000 per l’anno 2023”.
L’art. 6 della legge n.50 del 2023 prevede poi “Misure straordinarie in materia di gestione di centri per migranti”, con un’ampia deroga alle norme di contabilità pubblica, stabilendo in particolare la istituzione di un presidio ospedaliero presso l’isola di Lampedusa, in previsione evidentemente di arrivi ancora più consistenti in futuro, e di un prolungato trattenimento degli “ospiti” nell’isola.
Le reali intenzioni del legislatore, e dei partiti che controllano il Parlamento godendo di una maggioranza assoluta, emergono nelle modifiche alle modalità di accoglienza (art.6 ter). Nei centri in cui saranno accolti/trattenuti i richiedenti asilo si prevede in particolare la cancellazione dei corsi di apprendimento della lingua italiana e dei servizi di consulenza legale. Le finalità sono evidenti. Non si vuole fare comprendere ai nuovi arrivati cosa gli sta succedendo e si nega qualsiasi possibilità di tutela legale di fronte ad una pletora di procedure che appaiono illegittime già sulla carta. Esattamente l’opposto di quanto auspicato da anni dall’UNHCR, che, soprattutto per le ““strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”, richiede che vengano individuate dalla legge in modo trasparente e che siano previsti standard adeguati, “ivi incluso per quanto riguarda l’accesso di organizzazioni specializzate al fine della erogazione di servizi di assistenza legale”.
Non si può comunque consentire una limitazione della libertà personale in luoghi che non siano disciplinati specificamente (o previsti) con una legge, lo afferma anche una recente sentenza di condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo con riferimento al trattenimento illegale di quattro cittadini tunisini nell’Hotspot di Lampedusa nel 2017. La formulazione, contenuta nella legge n.50 del 2023, di altre strutture di detenzione amministrativa per richiedenti asilo, individuate con provvedimenti dei prefetti o del ministero dell’interno, anche oltre la scarna previsione dell’art. 10 ter del T.U.286 del 1998, consente invece prassi che costituiranno motivo di ulteriori condanne dell’Italia da parte della Corte europea di Strasburgo.
Già nel 2017, al tempo dei fatti oggetto di questa pesante sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU, il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, in base alla Relazione presentata il 21 marzo 2017 , rilevava che“la natura giuridica degli hotspot rimane poco chiara, mancando una previsione normativa specifica e la relativa disciplina, poiché tale non può essere considerato – quando trattasi di privazione della libertà – il documento Standard Operating Procedures (SOPs) redatto dal Ministero dell’interno con il contributo della Commissione europea né possono esserlo le circolari amministrative. Nel documento si legge che una persona può uscire dalla struttura solo dopo essere stata foto-segnalata, concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono state completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia. Il tempo di permanenza è dunque indeterminato e rimesso di fatto allo svolgersi della procedura di foto-segnalamento e di rilevamento delle impronte”. Si verificava dunque una situazione potenzialmente in violazione dell’art.13 della Costituzione italiana, e dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche perché nel corso del tempo la durata del trattenimento, prima finalizzato al prelievo delle impronte ed alla ricollocazione, risultava sempre più prolungata al fine di eseguire trasferimenti nei centri di detenzione amministrativa (CPR), notoriamente carenti di disponibilità di posti, o per dare tempo alle autorità di polizia per eseguire respingimenti differiti con accompagnamento forzato in frontiera nei paesi con cui l’Italia aveva stipulato accordi di riammissione.
In molti casi persone destinatarie di provvedimenti di respingimento differito sono rimaste all’interno di centri Hotspot fino all’esecuzione dell’accompagnamento forzato in frontiera, soprattutto nel caso di cittadini tunisini, ed il provvedimento adottato dal questore a loro carico è stato notificato poche ore prima dell’imbarco sull’aereo che li avrebbe riportati in patria sotto scorta della polizia italiana. Con una evidente lesione del diritto di difesa, riconosciuto, oltre che dall’art. 24 della Costituzione e dall’art.13 della CEDU, anche dall’art. 14 del Regolamento frontiere Schengen, 2016/399/UE, che in tutti i casi di respingimento prevede espressamente la possibilità di fare ricorso. Anche se in generale si prevede che il ricorso non abbia effetto sospensivo automatico, ma che questo debba essere stabilito caso per caso, non sembra ammissibile che lo stesso ricorso risulti “ineffettivo”, svuotato di qualsiasi efficacia, perché l’esercizio effettivo del diritto di difesa è spesso impedito dalla natura dei luoghi e dalla condizione di trattenimento, mentre i tempi di esecuzione dell’accompagnamento forzato risultano più veloci dell’intervento dell’autorità giudiziaria e dei difensori di fiducia.
L’art. 13 della CEDU stabilisce invece il diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un’ istanza nazionale a ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla Convenzione siano stati violati.L’art. 5 della CEDU prevede garanzie precise in materia di limitazioni della libertà paersonale, e l’art. 13 della stessa Convenzione impone che il ricorso sia “effettivo”. Ma gli Hotspot italiani, ed i centri di trattenimento per stranieri assimilati, sotto questo profilo, sembrano realizzare quasi una condizione di extraterritorialità, come se non fossero soggetti ad alcuna giurisdizione, come se le persone trattenute per settimane si trovassero sospese in un limbo nel quale la loro condizione giuridica (e materiale) resta stabilita, luogo per luogo, giorno dopo giorno, esclusivamente in base a regolamenti amministrativi ed a provvedimenti di polizia.
5, Il tentativo di svuotamento dell’istituto della protezione speciale: aspetti critici
L’articolo 7 della legge n.50/2023 abroga il terzo ed il quarto periodo dell’articolo 19, comma 1.1, del Testo unico sull’immigrazione (di cui al decreto legislativo n. 286/1998), e dunque fa venir meno il divieto di respingimento ed espulsione di una persona in ragione del rispetto della sua vita privata e familiare, che consentiva poi l’ottenimento di un permesso per protezione speciale. Non sono comunque ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6 del Testo Unico Immigrazione n.286/98. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani (art. 19 comma 1, primo e secondo periodo,dello stesso Testo Unico, che non vengono abrogati). Su questo punto sarà battaglia nei tribunali e sui territori contro l’adozione di provvedimenti di respingimento o di espulsione che appaiono gravemente lesivi di diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalle Convenzioni internazionali, oltre che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Vengono quindi abrogati il terzo ed il quarto periodo dell’art.19 T.U..286/1998 comma 1.1 e precisamente quelli secondo cui:
(art.19 comma 1.1, terzo e quarto periodo, adesso abrogati).
“Non sono altresi’ ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato
qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale
comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che
esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonche’ di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettivita’ dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonche’ dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”.
Si cancella, come voleva la Lega, la previsione secondo la quale, ai fini della valutazione del fondato rischio di violazione del diritto alla vita privata e familiare, (vedi al riguardo l’art. 8 della CEDU) si dispone che occorra considerare la natura e l’effettività dei vincoli personali o familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese di origine.
Vengono così eliminate tutte le modifiche apportate all’articolo 19, comma 1.1, già modificato restrittivamente dal Decreto “sicurezza” n.113 del 2018, ad opera del decreto-legge n. 130 del 2020 (definito Decreto Lamorgese).
Nella Relazione al Decreto legge “Cutro” si osserva in particolare come il terzo periodo del comma 1.1. dell’articolo 19 fosse collegato in sede giurisprudenziale (Cass. civ. Sez. VI – 1, ordinanza n. 7861 del 2022) al principio di cui all’art. 8 CEDU, il quale riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. In questo senso – ad avviso della Corte – deponeva sia il tenore letterale della disposizione, sia il fatto che l’art. 5, comma 6, del Testo unico fa salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano nell’adozione di provvedimenti di rifiuto o revoca del permesso, adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti. Nella Relazione di accompagnamento del Decreto legge n,20/2023 si osservava al riguardo che la Corte di Cassazione ha affermato che il diritto di cui all’art. 8 CEDU, “alla vita privata e familiare” non è assoluto e “deve essere bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati: sicurezza nazionale e pubblica, benessere economico del paese, difesa dell’ordine e prevenzione di reati, protezione della salute, e della morale protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Non si può tuttavia trascurare quell’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. Unite sentenza n. 24413 del 2021) secondo cui il disposto dell’art. 8 CEDU è fondamentale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e la condizione di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia nel tempo necessario al compimento dell’esame della sua domanda di protezione in sede amministrativa e giudiziaria. Al riguardo, come si richiamava anche nei lavori preparatori del decreto, le Sezioni Unite della corte di Cassazione hanno ribadito come l’art. 8 CEDU consideri, e dunque tuteli, separatamente la vita privata e la vita familiare, come chiarito dalla Corte EDU nella sentenza 14 febbraio 2019 Narjis c. Italia, là dove si afferma che “si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi dell’art. 8. Indipendentemente dall’esistenza o meno di una “vita familiare”, l’espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata”.
Va ricordata a tale riguardo la nota sentenza della Corte di cassazione (prima sezione) n. 4455 del 23.2.2018, con cui si affermava che che la condizione di «vulnerabilità» può «avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standard minimi per un’esistenza dignitosa», oltre a poter essere «la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nel d.lgs. n. 286 del 1998, art. 36» o ancora «essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del Paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)». Secondo la Corte «Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono l’accertamento rigoroso delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel Paese d’origine perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano lai dignità».
Con la sentenza 24 settembre 2019, n. 29459, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione aveva risolto due rilevanti questioni in tema di protezione umanitaria, che si ripropongono adesso, a fronte della carente formulazione del decreto n.20 del 2023 sul regime intertemporale e sulla rilevanza dell’integrazione sociale ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per la cd. protezione speciale.
Secondo i giudici della Cassazione, affermavano che la nuova disciplina allora introdotta dal Decreto legge n.113 del 2018 non era applicabile retroattivamente alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore e che la protezione umanitaria aveva natura di diritto soggettivo “da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli artt. 2 Cost. e 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”, affermando che “che tutti i tipi di protezione son ascrivibili all’area dei diritti fondamentali: non solo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ma anche la protezione umanitaria, avente carattere temporaneo e residuale”. La Corte concludeva che in base all’art. 10 della Costituzione “Ciò che può essere definito per legge – e quindi l’ambito di discrezionalità che la Costituzione riconosce al legislatore – riguarda l’accertamento del diritto e l’individuazione delle modalità per il suo esercizio”.
La riduzione dei casi nei quali sarà possibile ottenere un permesso per protezione speciale, oltre a produrre un aumento dei casi di soggiorno irregolare, risulta dunque in aperto contrasto con un diffuso orientamento giurisprudenziale che applica la normativa vigente che si modifica con il decreto, come uno sviluppo coerente del dettato dell’art. 10 della Costituzione italiana, che ha una portata più ampia della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e delle Direttive europee in materia di protezione internazionale.
Regimi speciali di protezione sono peraltro previsti nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, in base alla c.d. Direttiva rimpatri (n. 2008/115/CE, art 6.4), dall’art. 6, co. 5, lett. c, del Codice frontiere Schengen – Regolamento 2016/399 -, dall’art. 17(2) del Regolamento Dublino 2013/604, dagli articoli 19 e 25 del Codice visti – Regolamento 810/2009, come si può verificare, in almeno 20 dei 27 Stati membri (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria). Secondo l’art. 6 comma 4 della Direttiva europea 2008/115/CE, “In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio. Qualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare”.
La soppressione della possibilità di convertire il permesso di soggiorno per protezione speciale in un permesso per lavoro, al di là dei casi in cui è consentito un unico rinnovo annuale, cancella le aspettative di vita in Italia per migliaia di persone già stabilmente incluse nel nostro sistema sociale. Non sembra prevista neppure la conversione in un permesso per motivi di studio.
La formulazione dell’art. 7 della Legge n.50/2023 non risulta chiara per quanto concerne la situazione di chi ha già ottenuto il riconoscimento della Protezione speciale in base alla parte dell’art. 19 che viene abrogata, ed ha un permesso di soggiorno in corso di validità. Si prevede soltanto che “I permessi di soggiorno già rilasciati ai sensi del citato articolo 19, comma 1.1, terzo periodo, in corso di validità, sono rinnovati per una sola volta e con durata annuale, a decorrere dalla data di scadenza. Resta ferma la facoltà di conversione del titolo di soggiorno in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, se ne ricorrono i requisiti di legge”. Se per le Commissioni territoriali verrà in rilievo la nuova lista ampliata dei paesi terzi sicuri, che include adesso anche la Nigeria, la Tunisia ed il Gambia, si può prevedere che ci saranno molti pareri sfavorevoli rispetto alla possibilità di rinnovo per i cittadini stranieri già titolari di protezione speciale e provenienti da questi paesi, con un ulteriore aumento del cintenzioso davanti ai Tribunali. Come non sembra affatto scontato che tutti gli attuali titolari di un permesso di soggiorno per Protezione speciale per motivi di inclusione sociale (abrogata) possano o vogliano convertire il loro attuale permesso di soggiorno in un permesso per lavoro. Basti pensare al caso dei numerosi studenti stranieri titolari di un permesso di soggiorno per protezione speciale, derivante da motivi di inclusione sociale, che frequentano da anni corsi universitari. Sembra poi scontato, alla luce delle esperienze maturate in passato, un atteggiamento delle questure in senso fortemente restrittivo, nella negazione totale di qualunque possibilità di conversione del permesso di soggiorno per protezione speciale già rilasciato ed in corso di validità in un permesso per lavoro, per la elevata discrezionalità che comunque ricorre nella valutazione dei requisiti di legge previsti per il rilascio di questo tipo di permesso di soggiorno. In molti casi ci saranno dinieghi e ricorsi, ma anche espulsioni con accompagnamento forzato in frontiera o trattenimento in un centro di detenzione, a fronte della riduzione dei casi nei quali i ricorsi hanno effetti sospensivi delle misure di allontanamento forzato.
Si limita anche la possibilità di convertire in permesso per lavoro un permesso rilasciato per ragioni di calamità naturali, che adesso da gravi devono essere “eccezionali” (con una modifica dell’art. 20 bis del T.U. n. 286/98). Analoghe previsioni restrittive vengono introdotta per i permessi per protezione speciale rilasciati per motivi di salute. Tra le condizioni di inespellibilità, la restrizione sul riconoscimento delle “gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie”,sostituite dal richiamo a “condizioni di salute derivanti da patologie di particolare gravità, non adeguatamente curabili nel Paese di origine”, lede il diritto alla salute (art. 32 Cost.), perchè nei paesi di origine le cure mediche non sono garantite ai non abbienti. Non si comprende chi e come potrà provare la impossibilità di cura nei paesi di origine, quando spesso questa impossibilità non si riscontra sulla carta, ma discende dal prezzo che si deve pagare in quei paesi per accedere al sistema sanitario, e per i diffusi sistemi di corruttela che in molti paesi impediscono ai non abbienti l’accesso effettivo alle cure mediche.
Come osserva però Nazzarena Zorzella, con riferimento all’art. 7 comma 3 del Decreto Cutro n.20 del 2023, “la norma si riferisce ai soli permessi per protezione speciale afferenti al diritto al rispetto della vita privata e familiare, quella loro specifica disciplina li differenzia da quelli rilasciati sulla base degli altri tre ambiti applicativi dell’art. 19, in relazione ai quali continuerà ad applicarsi la disciplina prevista dall’art. 32, co. 3 d.lgs 25/2008, non intaccato dal D.L n. 20 e dunque i permessi avranno validità biennale, rinnovabili e convertibili”.
Di certo si svilupperà un ampio contenzioso davanti ai tribunali, fino ai gradi più alti della giurisdizione. Si determina così una situazione di totale incertezza di vita per una vasta platea di persone, magari giunte da minori nel nostro paese, ed ormai perfettamente inserite nel nostro sistema scolastico o lavorativo.
Se si incrociano gli effetti del Decreto del ministero degli esteri del 17 marzo scorso sui “paesi terzi sicuri”, che ne amplia la lista e restringe il riconoscimento della protezione a chi provenga da paesi come la Nigeria, il Gambia, la Tunisia, con il testo definitivo del Decreto Cutro, si vedono gli effetti nefasti della deterrenza attuata attraverso misure amministrative che restringono l’accesso ad uno status legale di soggiorno. All’atto della presentazione della domanda di protezione internazionale l’ufficio di polizia deve informare il richiedente che, ove proveniente da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’art. 2-bis, la domanda può essere rigettata dalla Commissione territoriale ai sensi dell’art. 9, co. 2-bis (art. 10, co. 1, d.lgs. n. 25/2008), cioè che se non produrrà elementi gravi per fare capire che la sua situazione individuale non è sicura la domanda potrà essere ritenuta manifestamente infondata per questo solo motivo; in questi casi sarà un onere a carico del richiedente protezione invocare di fronte alla Commissione territoriale “gravi motivi” per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova (art. 2-bis, co. 5, d.lgs. n. 25/2008). La domanda di protezione internazionale è esaminata in questi casi con procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis, d.lgs. 25/2008) di cui tratteremo più avanti: appena ricevuta la domanda, la questura deve provvedere senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale, la quale dovrebbe provvedere all’audizione nell’arco di 7 giorni e adottare la decisione entro i successivi due giorni (termine raddoppiabile se la domanda sia ritenuta manifestamente infondata e comunque superabile se sia necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda).
In caso di decisione negativa della Commissione teritoriale non rimane che la via del ricorso giurisdizionale, che comunque non ha effetto sospensivo automatico ed ha tempi lunghi finendoper diventare una circostanza destabilizzante per la vita di persone già duramente provate nei paesi di origine o durante l’attraversamento dei paesi di transito, con conseguenze imprevedibili, anche sul piano psichico, ed anche dopo che il ricorso sia stato accolto con il riconoscimento di uno status di protezione. Per molti che si rirovano in queste circostanze matura la fuga verso altri paesi europei (cd. movimenti secondari). Ma forse è proprio questa la finalità recondita dele autorità italiane, anche a fronte del numero esiguo di procedure di allontanamento forzato che annualmente riescono a concludere, Come se in questo modo fosse possibile ridurre la presenza di immigrati in Italia o, per effetto di misure che si ritengono “deterrenti”, limitare i cd. “sbarchi”.
Questa modalità di governo dei “flussi migratori” per contrastare il “pericolo” della “sostituzione etnica” che costituisce, al di là delle parole sfuggite ad uno sprovveduto ministro, la principale preoccupazione dell’intero governo di fronte al suo elettorato di riferimento, moltiplicherà soltanto la clandestinità, l’esclusione e lo scontro sociale. Una valanga di ricorsi sommergerà i Tribunali, fino alla Corte di Cassazione. L’ulteriore aumento degli arrivi via mare, e delle vittime di naufragio per abbandono, saranno il suggello tragico del fallimento di politiche migratorie basate esclusivamente sulla deterrenza e sulla discriminazione.
6. Le questioni di diritto intertemporale.
Nella legge 50 pubblicata in Gazzetta Ufficiale n.104 del 5 maggio 2023 non si risconrano norme chiare neppure sotto il profilo del diritto intertemporale. L’art.7 comma 2 della Legge n.50 modificata dal Senato prevede “Per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l’invito alla presentazione dell’istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente”. In questi casi dunque i tempi di rinnovo e le possibilità di conversione dei titoli di soggiorno rimangono immutati.
Si prevede poi che “ai procedimenti di competenza della Commissione nazionale per il diritto di asilo pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continua ad applicarsi la disciplina previgente». E per tutte le altre procedure modificate dalla nuova normativa, o per i rinnovi dei permessi di soggiorno per protezione speciale tuttora validi, già rilasciati in precedenza, quale regime intertemporale sarà applicabile ?
Al riguardo la sentenza 24 settembre 2019, n. 29459, le Sezioni Unite aveva risolto due rilevanti questioni in tema di protezione umanitaria, che si ripropongono adesso, a fronte della carente formulazione della legge e della esclusione della rilevanza dell’integrazione sociale ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per la cd. protezione speciale.
In passato i giudici della Cassazione, affermavano che la nuova disciplina allora introdotta dal Decreto legge n.113 del 2018 non era applicabile retroattivamente alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore e che la protezione umanitaria aveva natura di diritto soggettivo “da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli artt. 2 Cost. e 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”, affermando che “che tutti i tipi di protezione son ascrivibili all’area dei diritti fondamentali: non solo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ma anche la protezione umanitaria, avente carattere temporaneo e residuale”. La Corte concludeva che in base all’art. 10 della Costituzione “Ciò che può essere definito per legge – e quindi l’ambito di discrezionalità che la Costituzione riconosce al legislatore – riguarda l’accertamento del diritto e l’individuazione delle modalità per il suo esercizio”.
Non sembra dunque facile escludere qualsiasi valenza retroattiva della nuova disciplina, e la materia sarà sicuramente controversa per le interpretazioni restrittive che forniranno le questure e gli uffici ministeriali. Rimane un groviglio di dubbi sulla efficacia intertemporale delle numerose norme contenute nella legge 50/2023 che modificano aspetti procedurali e su questa materia a fronte del prevedibile profluvio di circolari ministeriali non rimane che prepararsi ai ricorsi di fronte ai Tribunali, anche in sede cautelare e d’urgenza.
7. Il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo
Il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo non rappresenta una novità assoluta, ma le previsioni introdotte con la legge n.50/2023 ne ampliano ulteriormente la portata. Si tratta però di disposizioni che nell’immediato non saranno applicabili, perchè la legge fa riferimento ad un ulteriore decreto ministeriale che dovrebbe essere adottato entro 90 giorni dalla sua pubblicazione, per definire i casi e le circostanze in cui, sotto il profilo dela dimostrazione di autonome risorse finanziarie, potrebbe evitarsi il ricorso al trattenimento.
Il 17 maggio 2016, il Ministero dell’interno, Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e Dipartimento della Pubblica Sicurezza, pubblicava le Procedure Operative Standard, (SOP) secondo cui «la persona può uscire dall’hotspot solo dopo essere stata foto-segnalata concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono stati completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia». Salvo il verificarsi di afflussi eccezionali che potevano imporre l’adozione di iniziative diverse come il trattenimento prolungato senza alcun accesso alla procedura di asilo, e senza una completa informazione sulla condizione giuridica nella quale venivano a trovarsi le persone dopo l’ingresso nel territorio italiano. Trattenimento che, come verificato nel corso degli anni, costringeva ad una situazione di promiscuità anche donne, vittime di abusi, minori, soggetti vulnerabili per le torture subite prima dell’arrivo in Italia o per malattie contratte durante il loro viaggio.
Nelle disposizioni ministeriali, si precisava che le persone condotte negli Hotspot o ristrette in altre strutture nelle quali si operava con il cd. Approccio Hotspot, sarebbero state sottoposte a limitazioni della loro libertà personale per una durata di tempo assolutamente indeterminata e sostanzialmente rimessa alla discrezionalità delle autorità di polizia. Si prevedeva soltanto che “il periodo di permanenza nella struttura,dal momento dell’ingresso, deve essere il più breve possibile, compatibilmente con il quadro normativo vigente” . Sempre secondo le SOP, si prevedeva “per le persone che non abbiano manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale e non abbiano diritto di rimanere sul territorio nazionale, compilazione del foglio notizie previsto nella direttiva rimpatri (cosiddetto“allegato 4”) e successiva emissione dei provvedimenti di respingimento del Questore o Espulsione del Prefetto. Tali provvedimenti, a seconda dei casi, potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni,i immediatamente, oppure mediante il trasferimento in un CIE o, nel caso di indisponibilità dei posti, mediante l’ordine del Questore a lasciare il territorio nazionale in 7 giorni”. Come si verificava nella maggior parte dei casi, con l’adozione di provvedimenti di “respingimento differito” e l’intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio dello Stato, atteso che la capienza complessiva dei CIE (oggi CPR) italiani non ha mai superato il numero di 700-1000 posti, a seconda dei diversi periodi, indipendentemente dai propositi dei governi che si avvicendavano
La distinzione tra “migranti economici” e richiedenti asilo, che di fatto diventava da allora la principale funzione dell’approccio Hotspot, non può competere esclusivamente alle autorità amministrative, sia pure con il concorso dell’UNHCR e dell’Agenzia europea EASO. Il decreto legislativo n. 142/2015 (attuativo della Direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale e della Direttiva 2013/32/UE sulle qualifiche della protezione internazionale) definisce come richiedente asilo/protezione internazionale colui che ha “manifestato la volontà di chiedere tale protezione”. Si diventa dunque “richiedenti asilo” per effetto della prima manifestazione di volontà di richiedere protezione, anche se questa verrà formalizzata in seguito. E sulla distinzione tra migranti economici e titolari di un diritto alla protezione può decidere soltanto una Commissione territoriale, salvi tutti i mezzi di ricorso previsti dalla legge.
Il luogo del «trattenimento» non assume alcuna incidenza rispetto alla distinzione tra restrizione della libertà di circolazione e privazione della libertà personale.. Già nel 1996 (Amuur c. Francia, n. 19776/92) la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha statuito che il trattenimento di richiedenti protezione internazionale nell’area internazionale di un aeroporto costituiva una violazione dell’articolo 5, paragrafo 1. La differenza tra privazione e restrizione della libertà riguarda solo il grado o l’intensità, non la natura o la sostanza del trattenimento amministrativo a seconda del luogo nel quale si realizza. Le stesse considerazioni che valgono per i luoghi di transito aeroportuale possono dunque valere per tutte le altre strutture a disposizione delle autorità di polizia per attuare la privazione della libertà personale di richiedenti asilo e/o di cittadini stranieri in una condizione di ingresso o soggiorno irregolare.
L’art. 10 ter del T.U. n.286/98, introdotto nel 2017, è l’unica norma del Testo Unico sull’immigrazione che fa espressamente riferimento ai cd, centri Hotspot, che in realtà vengono ricollegati alle scarne previsioni sui CPA ( Centri di prima accoglienza) contenute nella cd. Legge Puglia del 1995 e poi nel Decreto legislativo n.142 del 2015 (art.9).. Si stabilisce che “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito. In base alla stessa norma “Il rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi di cui ai commi 1 e 2 configura rischio di fuga ai fini del trattenimento nei centri di cui all’articolo 14. Il trattenimento è disposto caso per caso, con provvedimento del questore, e conserva la sua efficacia per una durata massima di trenta giorni dalla sua adozione, salvo che non cessino prima le esigenze per le quali è stato disposto. Si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 14, commi 2, 3 e 4. Se il trattenimento è disposto nei confronti di un richiedente protezione internazionale, come definita dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, è competente alla convalida il Tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facoltà derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola. Nel corso del tempo la funzione primaria di questa norma è passata dall’esigenza di una prima identificazione alla limitazione della libertà personale, in vista dell’adozione di un provvedimento di respingimento differito, ove possibile, con acompagnamento forzato in frontiera.
La legge n. 132/2018 (primo Decreto sicurezza Salvini) ha introdotto disposizioni ancora oggi in vigore, che fanno riferimento al trattenimento nei diversi centri adibiti all’approccio Hotspot, stabilendo che il richiedente protezione internazionale può essere altresì trattenuto, presso i “punti di crisi”, come il legislatore definisce gli hotspot, istituiti nei centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) o nei Centri governativi di prima accoglienza (CPA) di cui all’art. 9 d. lgs. 142/2015, per la determinazione o la verifica dell’identità o della nazionalità. In questo modo si stabiliva una estensione generalizzata dell’approccio Hotspot a tutti i centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), e di prima acoglienza (CPA), già disciplinati in precedenza dall’ articolo 23 del Regolamento di attuazione n.394 del 1999 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Non risultava però alcuna disposizione specifica riguardo alla convalida del trattenimento negli Hotspot oltre le 48 ore, sulla comunicazione della misura limitativa della libertà personale all’autorità giudiziaria, e sullo status giuridico delle persone “ospiti” dei centri, come si cercava di dire con un eufemismo che tendeva a nascondere la condizione di vera e propria detenzione amministrativa che si realizzava all’interno di queste strutture.Di centro il trattenimento all’interno dei CPR non poteva sfuggire alla convalida del giudice, nel caso dei richiedenti asilo, del Tribunale e non del giudice di pace come del resto previsto dall’art. 14 del Testo Unico n.286/98. La verifica della tempestività della richiesta di proroga deve essere comunque effettuata tenendo conto dei termini massimi di trattenimento previsti dalla normativa “(…)per cui va sempre assicurato il diritto al riesame del provvedimento di trattenimento, o di relativa proroga, ai sensi dell’art. 15 della direttiva n. 2008/115/CE, norma self-executing direttamente applicabile nell’ordinamento interno”.
Con il Decreto legge sicurezza n.113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 del 2018, si è quindi verificato un ampliamento delle strutture che potevano essere utilizzate con approccio Hotspot, per realizzare una limitazione della libertà personale dei migranti in attesa che fossero completate le procedure di pre-identificazione e foto-segnalamento, che si potevano così realizzare fino al tempo limite di 30 giorni non solo nei centri qualificati come Hotspot, ma anche in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” o “in locali idonei presso l’ufficio di frontiera”, se non all’interno dei CPR (Centri per i rimpatri), fino al 2017 chiamati CIE ( centri di identificazione ed espulsione).
Come ha osservato l’ASGI, “Le modifiche legislative introdotte dalla legge 132/2018 e confermate dal D.L. 130/2020 circa la possibilità di trattenere i richiedenti asilo in appositi locali negli hotspot per un periodo massimo di 30 giorni, al fine di verificarne o determinarne l’identità, e la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento in locali idonei in frontiera non hanno risolto il problema dell’assenza di base legale per la privazione della libertà all’interno di tali centri e continuano a sollevare numerose criticità circa la compatibilità con il dettato costituzionale e con la normativa comunitaria”.
Secondo il comma 6° dell’art. 6 del D. Lgs. 142/2015, così come modificato dall’art. 2 del D.L. 130/2020, “Il trattenimento o la proroga del trattenimento non possono protrarsi oltre il tempo strettamente necessario all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 28-bis, commi 1 e 2, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni, come introdotto dal presente decreto, salvo che sussistano ulteriori motivi di trattenimento ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Eventuali ritardi nell’espletamento delle procedure amministrative preordinate all’esame della domanda, non imputabili al richiedente, non giustificano la proroga del trattenimento”.
Le modifiche introdotte dalla legge n.50 del 2023 in materia di procedure di asilo non riguardano soltanto i richiedenti protezione speciale, ma si rivolgono a tutti coloro che al momento dell’arrivo in una frontiera italiana dichiarano di essere portatori di una istanza di protezione, quale che sia il mezzo di comunicazione, anche i segni delle mani, senza bisogno di una immediata richiesta formale. La individuazione in frontiera, subito dopo l’ingresso, o lo sbarco, dei richiedenti asilo, come quella dei minori non accompagnati o delle donne vittime di violenza, è della massima importanza, e radica nel richiedente la garanzia del divieto di respigimento o di espulsione (art. 33 Convenzione di Ginevra), per tutta la durata del procedimento, e di eventuali ricorsi.
In base all’art. 7 comma 1 bis della legge 50/2023, con riguardo alla domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera o zona di transito da uno straniero proveniente da Paese di origine sicuro oppure fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli, la procedura accelerata di esame della domanda può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito.
La legge n.50 del 2023, modifica il decreto legislativo n. 142 del 2015, che in un unico provevdimento dava attuazione alle Direttive dell’Unione europea in materia di Accoglienza (2013/33/UE) e di Procedure (2013/32/UE) per il riconoscimento dela protezione internazionale, adottate nel 2013. Il provvedimento approvato sull’onda delle reazioni alla strage di Cutro estende ancora una volta i casi di trattenimento del cittadino straniero durante lo svolgimento della procedura in frontiera. La stessa legge prevede poi la possibilità di internare i richiedenti asilo nei Centri per i rimpatri (CPR) previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione, e aumenta i tempi intervallo tra una convalida e l’altra (da 30 s 45 giorni), confermando la durata massima del trattenimento amministrativo in 90 giorni (art.10 bis legge n.50 del 2023).
I richiedenti asilo non potranno essere più inseriti nei circuiti della rete SAI, costituita da piccoli centri che favoriscono l’integrazione, e potranno, invece, essere trattenuti nei centri di detenzione, negli hotspot e addirittura nei CPR, non solo nel corso della prima fase dell’identificazione, ma anche durante la procedura d’asilo, dopo la presentazione della domanda d’asilo. Si stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto quando sia necessario determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale che non potrebbero essere acquisiti senza il trattenimento e sussiste il rischio di fuga: la legislazione previgente prevedeva che dovesse essere verificata solo la seconda delle due condizioni appena descritte. Ma è proprio il trattenimento amministrativo che spesso impedisce ai richiedenti asilo di presentare istanze credibili e fondate, che presuppongono la possibilità di ricostruire la propria storia in una situazione nella quale sia assicurata la libertà di comunicazione con sportelli di informazioni legali e con reti di solidarietà sociale.
Rimane ancora molto generica la previsione dei luoghi nei qual ii richiedenti possono essere trattenuti a fini di identificazione. Preoccupa il richiamo al Ministero della giustizia, contenuto in alcuni passaggi della legge n.50 del 2023, che lascerebbe presagire l’utilizzo di caserme dismesse. In ogni caso il trattenimento potrebbe aver luogo in strutture di accoglienza/detenzione non ricomprese fra quelle identificate dalla legge come luoghi di detenzione, ovvero in luoghi che sono attivati esclusivamente sulla base di atti di impulso delle autorità amministrative.. Sotto questo profilo, le norme che prevedono il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo potrebbero risultare in contrasto con l’art. 10 della Direttiva 2013/33/EU (Direttiva Accoglienza), che detta le condizioni per il trattenimento dei richiedenti asilo, come la disponibilità di spazi aperti, il diritto di essere informati delle norme vigenti nel centro, la possibilità di comunicare e ricevere visita da parte di personale UNHCR, familiari, avvocati consulenti legali e rappresentanti di organizzazioni non governative. In ogni caso, il trattenimento dei richiedenti asilo, che nella normativa euro-unitaria viene considerato come un caso residuale, nell’ordinamento italiano diventa ormai la regola prevalente, al di là della sua dimostrata inapplicabilità.
Appare anche assai dubbio che le nuove previsioni introdotte in Italia in materia di detenzione amministrativa dei richiedenti asilo, che tende a diventare una misura generalizzata, anche in luoghi non qualificabili come centri di detenzione, soddisfino il rispetto delle garanzie della libertà personale e degli obblighi procedurali, previsti dalle Direttive dell’Unione europea in materia di rimpatri ed accoglienza dei richedenti asilo, secondo cui “Member States shall not hold a person in detention for the sole reason that he or she is an applicant. The grounds for and conditions of detention and the guarantees available to detained applicants shall be in accordance with Directive 2013/33/EU”. Anche se le Direttive europee prevedono la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo nella fase della “prima identificazione”, non si puà ritenere che questa possa protrarsi per un tempo indeterminato senza la convalida di un giudice, o nei casi di mancata convalida della proroga. Per non parlare dell’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, secondo cui qualunque forma di limitazione della libertà personale deve verificarsi nel rispetto di regole procedurali fissate per legge.
Nel caso della recente condanna dell’Italia per il trattenimento arbitrario nell’Hotspot di Lampedusa nel 2017, alla quale si rinvia per la sua articolata motivazione, la Corte di Strasburgo oltre a riconoscere la ricorrenza della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), afferma la violazione dell’art. 5 paragrafo 1 della stessa Convenzione, per un trattenimento arbitrario “de facto” durato dieci giorni, in assenza di una esplicita previsione di legge, e di correlati provvedimenti amministrativi. Infatti ” In the light of the above considerations and bearing in mind that the applicants were placed at the Lampedusa hotspot by the Italian authorities and remained there for ten days without a clear and accessible legal basis and in the absence of a reasoned measure ordering their retention, before being removed to their country of origin, the Court finds that the applicants were arbitrarily deprived of their liberty, in breach of the first limb of Article 5 § 1 (f) of the Convention.”
Secondo la piu’ recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, CASE OF J.A. AND OTHERS v. ITALY (Application no. 21329/18)“ The Court considers that the nature and function of hotspots under the domestic law and the EU regulatory framework may have changed considerably over time (see, for example, paragraphs 33-35 above, where it appears that the aim of hotspots has become that of managing an existing or potential disproportionate migratory challenge, thus possibly not excluding deprivation of liberty, rather than the original aim of merely swiftly identifying, registering and fingerprinting incoming migrants – see, in particular, paragraph 32 above). Be that as it may, the Court notes that at the time of the facts, that is in 2017, the Italian regulatory framework did not allow for the use of the Lampedusa hotspot as a detention centre for aliens“.
Ancora oggi a Lampedusa ed in altri luoghi di sbarco o di primo trsferimento si verificano procedure e condizioni di trattenimento disumane analoghe a quelle che, dopo la condana sul caso Khlaifia, hanno comportato l’ulteriore condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Su questo la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha finora mantenuto una linea molto coerente, con diverse sentenze di condanna dell’Italia, come nel caso Richmond Yaw/Italia, un caso di alcuni anni fa, che è stato semplicemente nascosto e presto rimosso. Con la sentenza Richmond Yaw e altri contro Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art.5 par.1, lett.f e par. 5 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale. Quanto accertato dai giudici europei nei casi di ingisutificata privazione della libertà personale all’interno dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR) dove è prevista la convalida giurisdizionale e la difesa legale, anche d’ufficio, vale a maggior ragione nei casi in cui la privazione della libertà personale si verifica in strutture nelle quali non sono previste o non hanno alcuna effettività le procedure di convalida giurisdizionale e nelle quali sono negati del tutto i diritti di difesa.
All’interno dei centri Hotspot, o nelle altre strutture di prima accoglienza nelle quali si proceda con questo approccio, occorrerebbe stabilire criteri certi per i casi di temporanea limitazione della libertà personale, un ritorno al principio di legalità ed al rispetto dell’habeas corpus di tutte le persone “comunque presenti nel territorio nazionale”, base del riconoscimento dei diritti fondamentali ai quali fa espresso richiamo l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. Tutti i migranti, come stabilito dalla legge, dovrebbero ricevere tempestivamente informazioni circa i loro diritti, compreso quello di poter richiedere protezione internazionale, in forma e lingua per loro effettivamente comprensibili. Le procedure di identificazione e registrazione vanno svolte nel pieno rispetto dei diritti umani, senza alcuna forma di costrizione fisica e senza un trattenimento amministrativo prolungato, quando si renda necessario, oltre i limiti delle 48 ore per la comunicazione all’autorità giudiziaria e le successive 48 ore per la convalida. Nessun migrante deve essere respinto o espulso senza che il suo caso sia stato valutato singolarmente, considerato che nessuna norma attribuisce alle forze dell’ordine la facoltà di distinguere un richiedente protezione internazionale da un migrante cosiddetto economico. Nessuna persona può essere trattenuta nei centri di accoglienza a tempo indeterminato al solo fine di essere identificato e vanno comunque garantiti specifici percorsi protetti destinati alle categorie più vulnerabili, come donne, minori e vittime di tortura.
Occorre dunque ripristinare i controlli giurisdizionali sul trattenimento all’interno di tutte le strutture destinate al cd. Approcio Hotspot, fino ad oggi disciplinate esclusivamente in base alla normativa adottata in via amministrativa. Perché l’umanità indistinta che viene ammassata nei centri Hotspot non corrisponde esclusivamente a numeri da smaltire, ma contiene la somma di migliaia di vite spezzate e di sofferenze personali che vanno considerate con maggiore rispetto fin dal primo ingresso nel territorio italiano, non solo per quello che riguarda la loro attuale condizione giuridica e di fatto, ma anche nella prospettiva di un futuro dignitoso e nella legalità che non può essere negato per via amministrativa, qualora ne ricorrano i presupposti di legge ( da intendere anche come Carta costituzionale e Convenzioni internazionali).
La valenza applicativa generale dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, (secondo cui nessuno può essere privato della libertà se non nei casi e nei modi previsti dalla legge:) in tutti i casi in cui venga praticata una limitazione della libertà personale dello straniero “irregolare”, al di là delle definizione formale di trattenimento o di detenzione amministrativa, è confermata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La ratio della norma si può estendere a tutte le ipotesi di trattenimento amministrativo (dunque anche nei casi di limitazione della libertà personale all’interno di centri qualificati come centri di soccorso e prima accoglienza (CSPA e CPA), o in altre strutture di accoglienza “temporanea”, come è stato stabilito dalla sentenza della Corte di Strasburgo, sul caso Khlaifia.
Con riferimento al trattenimento amministrativo in un Centro di soccorso e di prima accoglienza, come quello di contrada Imbriacola a Lampedusa, assimilabile agli attuali centri Hotspot, la Grand Chambre, della Corte europea dei diritti dell’Uomo, con una decisione definitiva sul caso Khlaifia, votata su questo punto all’unanimità, ha riconosciuto la ricorrenza della violazione dell’ art. 5 CEDU da parte dell’Italia, perché i ricorrenti tunisini risultavano essere stati illegalmente privati della libertà personale, nel CPSA di Lampedusa, nel settembre del 2011. Da allora ad oggi la situazione nel centro Hotspot di Lampedusa non è sostanzialmente cambiata. Ma il 2 dicembre 2021 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia della Corte europea dei diritti umani. Un ennesimo esempio di come la giustizia europea si possa piegare ormai alle scelte politiche dei governi. Le conseguenze di questo disimpegno del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, evidentemente espressione dei governi che nominano i loro rappresentanti, sono già ben visibili anche nei richiami strumentali operati nella legge n.50 del 2023 alle previsioni di garanzia della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e, malgrado le condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, dalle prassi seguite nel tempo dalle autorità di polizia.
8. La disciplina delle “procedure accelerate” ed i nuovi casi di trattenimento amministrativo.
Le procedure accelerate, sono state espressamente previste con il decreto legislativo 18. agosto 2015, n. 142 che ha aggiunto l’art. 28-bis (procedure accelerate) al d.lgs. n. 25/2008 . Nel corso degli anni sono state oggetto di continue modifiche, con una tecnica legislativa di continui rinvii da un decreto all’altro, che ne rende ancora oggi difficile la piena comprensione e soprattutto il rispetto dovuto, in base agli articoli 10 e 117 della Costituzione, alle normative sovranazionali in materia di procedure di asilo. Le procedure accelerate sono state lo strumento tecnico con il quale si è cercato di afffrontare la questione, spesso oggetto di speculazione politica, della cd. natura strumentale delle domande di asilo. Un tema dominante nella competizione elettorale permanente tra i partiti che hanno affrontato questa materia incuranti dei principi costituzionali, ma anche internazionali e di fonte europea, che implicava. Si è così verificata una lenta erosione del diritto di asilo, attraverso la continua modifica delle regole procedimentali, con la riduzione dei diritti (e dei tempi) e delle garanzie di contraddittorio e difesa accordate ai richiedenti protezione.
Il Decreto legislativo n. 142/2015, aveva aggiunto l‘art. 28-bis, al decreto legislativo. n. 25/2008, prevedendo la procedura accelerata per tutti i richiedenti asilo sottoposti a trattenimento amministrativo. Lo stesso Decreto legislativo n.142 del 2015 ampliava poi i casi di procedure accelerate, prevedendole anche nel caso di domanda manifestamente infondata qualora richiedente avesse sollevato esclusivamente questioni prive di attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale. Si prevedeva la procedura accelerata anche nel caso di domanda reiterata ai sensi dell’art. 29, co. 1, lett. b) dello stesso d. lgs. n.25/2008, e nel caso di domanda presentata dopo che il richiedente fosse stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera, ovvero dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento..
Ma è con il governo Salvini-Conte che le procedure accelerate diventano uno strumento per negare il riconoscimento di un regime di protezione, proprio a causa della celerità del procedimento e della scarsa informazione garantita ai potenziali richiedenti asilo, per non parlare dello svuotamento sostanziale dei diritti di difesa.
Il decreto legge n.113 del 2018 (primo decreto sicurezza Salvini) prevedeva un esame mediante procedura accelerata delle domande di protezione presentate da cittadini di paesi terzi ritenuti sicuri, con l’art. 28-ter che si andava ad inserire nel d.lgs. n. 25/2008,
Con Decreto del ministro dell’ interno del 5 agosto 2019 si disciplinavano più specificamente le procedure accelerate di esame delle domande di protezione internazionale presentate nelle zone di transito o di frontiera. che fino ad allora non si applicavano alle domande di coloro che fossero stati recuperati attraverso operazioni di soccorso in mare (SAR) o che si fossero spontaneamente presentati per formalizzare la richiesta di protezione internazionale senza essere stati intercettati dalle forze di polizia all’atto dello sbarco. Il Decreto ministeriale individuava le “zone di frontiera” ( Trieste, Gorizia, Crotone, Cosenza, Matera, Taranto, Lecce, Brindisi, Caltanissetta, Ragusa, Siracusa, Catania, Messina, Trapani, Agrigento e Cagliari) e quindi le relative questure competenti. In qusti casi si prevedeva, per effettuare i colloqui con i richiedenti asilo,entro il termine di sette giorni, in capo alle Commissioni territoriali di Trieste, Crotone, Bari, Lecce, Siracusa, Catania e Cagliari e alle Sezioni di Agrigento e Trapani, la facoltà di spostarsi attraverso un «nucleo mobile», di fatto un rappresentante della Commissione, e gli eventuali interpreti, previa intesa con la competente questura. La circolare della Presidente della Commissione nazionale per il diritto d’asilo – prot. 0008864 del 28.10.2019 prevedeva poi un termine, per lo svolgimento dell’audizione, di 7 giorni (raddoppiabili ai sensi dell’art. 28-ter, co. 1, lett. a) in relazione dell’art. 28-bis, co. 2, lett. a) d.lgs. n. 25/2008), decorrenti dalla formalizzazione della domanda, oltre ai 2 giorni successivi per la decisione. La Commissione territoriale avrebbe dovuto quindi adottare la sua decisione entro i 2 giorni previsti dall’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008, con immediato inserimento nel sistema informatico Vestanet e contestuale comunicazione alla questura per i successivi adempimenti.
Se la domanda di protezione da parte di un cittadino straniero proveniente da un paese terzo sicuro è presentata in zona di frontiera o di transito l’esame può dunque svolgersi direttamente alla frontiera o nelle zone di transito (art. 28-bis, co. 1-ter, d.lgs. n. 25/2008); l’eventuale decisione di rigetto per manifesta infondatezza (in quanto presentata da cittadino di Paese designato come sicuro la cui domanda sia stata sin dall’origine considerata ed esaminata come tale) comporta il dimezzamento dei termini ordinari di impugnazione dinanzi alla autorità giudiziaria che, dagli ordinari 30 giorni, diventano qui 15 giorni (art. 35, co. 2, d.lgs. n. 25/2008). Alla scadenza del termine per l’impugnazione vi è l’obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, salvo che gli sia stato rilasciato un permesso di soggiorno ad altro titolo e l’adozione nei suoi confronti di un provvedimento amministrativo di espulsione da parte del prefetto (art. 32, co. 4, d.lgs. n. 25/2008).
Con il Decreto legge n.130 del 2020 si modificavano ancora una volta le procedure accelerate, già previste dalla normativa vigente nel caso di richiedenti provenienti da paesi terzi ritenuti sicuri, per le domande di protezione internazionale presentate da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle “zone di transito”, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli. In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle “zone di transito”, aggiungendo che tali zone sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Lo stesso decreto prevedeva una ulteriore integrazione dell’articolo 10-ter, comma 3, del T.U. n. 286 del 1998, aggiungendo la previsione secondo cui “lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facolta’ derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola”.
Lo steso D.L. 130 ha modificato l’art. 6 comma 6° del D. Lgs. 142/2015, eliminando ogni riferimento al 3° comma dell’art. 28 bis del D. Lgs. 25/0008 previgente (in precedenza richiamato dal citato art. 6 co. 6° del D. Lgs. 12/2015 sulla possibilità di prorogare il trattenimento) a norma del quale i termini di cui ai commi 1° e 2° dell’art. 28 bis del D. Lgs. 25/2008 – procedure accelerate – potevano essere superati “…ove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda, fatti salvi i termini massimi previsti dall’art. 27 co. 3 e 3bis del D. Lgs. 25/2008”.
I ritardi delle questure nell’istruzione delle domande di protezione e nella loro trasmissione alle Commissioni territoriali non possono comunque andare a danno dei richiedenti. A tale riguardo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2458 del 3 febbraio 2021 ha stabilito che “… il trattenimento del richiedente la protezione internazionale, se disposto ai sensi del combinato disposto dell’art. 6, sesto comma del d.lgs. n. 142 del 2015 e dell’art. 28-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, ovverosia in presenza di una delle ipotesi di cui al secondo comma del richiamato art. 28 bis, non può comunque eccedere la durata massima prevista per l’esame della domanda di protezione da quegli introdotta. (…)”
Secondo l’art.28 bis del decreto legislativo n.25 del 2008, in materia di “procedure accelerate”, la Questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni nei casi di:
a) domanda reiterata ai sensi dell’articolo 29, comma 1, lettera b);
b) domanda presentata da richiedente sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui agli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16, comma 1, lettera d-bis), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e quando ricorrono le condizioni di cui
all’articolo 6, comma 2, lettere a), b) e c), del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ((o il richiedente e’ stato condannato anche con sentenza non definitiva per uno dei predetti reati, previa audizione del richiedente.)
2. La Questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni, nei seguenti casi:
a) richiedente per il quale e’ stato disposto il trattenimento nelle strutture di cui all’articolo 10-ter del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ovvero nei centri di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, qualora non ricorrano le
condizioni di cui al comma 1, lettera b);
b) domanda di protezione internazionale presentata da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli. In tali casi la procedura puo’ essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito;
c) richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura, ai sensi dell’articolo 2-bis;
d) domanda manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 28-ter;
e) richiedente che presenti la domanda, dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento.
3. Lo Stato italiano puo’ dichiararsi competente all’esame delle domande di cui al comma 2, lettera a), ai sensi del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013.
4. Ai fini di cui al comma 2, lettera b), le zone di frontiera o di transito sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Con il medesimo decreto possono essere istituite fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali di cui all’articolo 4, comma
2, per l’esame delle domande di cui al suddetto comma.
5. I termini di cui al presente articolo possono essere superati ove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda, fatti salvi i termini massimi previsti dall’articolo 27, commi 3 e 3-bis. Nei casi di cui al comma 1, lettera b), e al comma 2, lettera a), i termini di cui all’articolo 27, commi 3 e 3-bis, sono ridotti ad un terzo.
6. Le procedure di cui al presente articolo non si applicano ai minori non accompagnati ((e agli stranieri portatori di esigenze particolari ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142)).
Come osservava l’UNHCR in un documento che sostanzialmente si riferiva, tra gli altri rilievi, ad una previsione simile contenuta nel primo Decreto sicurezza Salvini del 2018 (Decreto Legge 113/2018) “La categoria contemplata dalla legge, cioè coloro che hanno “eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera” è tuttavia problematica e può facilmente condurre all’applicazione di procedure di frontiera nei riguardi di persone che non dovrebbero esserne soggette”.
La legge n.50 del 2023, di conversione del decreto legge “Cutro”, con l’art.7 bis, dedicato alle procedure accelerate, integra gli articoli 28 bis e 29 del Decreto legislativo n.25 del 2008 con particolare riferimento ai casi di “procedure in frontiera” e di “domanda reiterata”.
La nuova norma dettata dall’art. 7 bis della legge 50/2023, prevede che “- 1. Fuori dei casi di cui all’articolo 6, commi 2 e 3-bis, del presente decreto e nel rispetto dei criteri definiti all’articolo 14, comma 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il richiedente puo’ essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura in frontiera di cui all’articolo 28-bis, comma 2, lettere b) e b-bis), del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, e fino alla decisione dell’istanza di sospensione di cui all’articolo 35-bis, comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 25 del 2008, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.
2. Il trattenimento di cui al comma 1 puo’ essere disposto qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validita’, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria. Entro novanta giorni dalla data di
entrata in vigore della presente disposizione, con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con i Ministeri della giustizia e dell’economia e delle finanze, sono individuati l’importo e le modalita’ di prestazione della predetta garanzia finanziaria.
3. Il trattenimento non puo’ protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per lo svolgimento della procedura in frontiera ai sensi dell’articolo 28-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. La convalida comporta il trattenimento nel centro per un periodo massimo, non prorogabile, di quattro settimane.
4. Nei casi di cui al comma 1, il richiedente e’ trattenuto in appositi locali presso le strutture di cui all’articolo 10-ter, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ovvero, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati, nei centri di cui all’articolo 14 del medesimo decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, situati in prossimita’ della frontiera o della zona di transito, per il tempo strettamente necessario all’accertamento del diritto ad
entrare nel territorio dello Stato. Si applica in quanto compatibile l’articolo 6, comma 5.
Una specifica disciplina del trattenimento amministrartivo è prevista anche nel caso dei richiedenti protezione sottoposti alla procedura Dublino.
Art. 6-ter (Trattenimento del richiedente sottoposto alla procedura Dublino di cui al regolamento (UE) n. 604/2013). – 1. In attesa del trasferimento previsto dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, lo
straniero puo’ essere trattenuto nei centri di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ove sussista un notevole rischio di fuga e sempre che non possano disporsi le misure di cui al medesimo articolo 14, comma 1-bis. La valutazione sul
notevole rischio di fuga e’ effettuata caso per caso.
2. Il notevole rischio di fuga sussiste quando il richiedente si sia sottratto a un primo tentativo di trasferimento, ovvero qualora ricorrano almeno due delle seguenti circostanze:
a) mancanza di un documento di viaggio;
b) mancanza di un indirizzo affidabile;
c) inadempimento all’obbligo di presentarsi alle autorita’ competenti;
d) mancanza di risorse finanziarie;
e) il richiedente ha fatto ricorso sistematicamente a dichiarazioni o attestazioni false sulle proprie generalita’ anche al solo fine di evitare l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione.
3. Il trattenimento non puo’ protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per l’esecuzione del trasferimento. La convalida comporta il trattenimento nel centro per un periodo complessivo di sei settimane. In presenza di gravi difficolta’ relative all’esecuzione del trasferimento il giudice, su richiesta del questore, puo’ prorogare il trattenimento per ulteriori trenta giorni, fino a un termine massimo di ulteriori sei settimane. Anche prima della scadenza di tale termine, il questore esegue il
trasferimento dandone comunicazione senza ritardo al giudice. Si applica in quanto compatibile l’articolo 6, comma 5″.
La nuova legge 50 del 2023 all’art.7 bis (Disposizioni urgenti in materia di procedure accelerate in frontiera) dispone al comma 2 l’introduzione di un nuovo articolo 6-bis nel decreto legislativo n. 142/2015. La nuova norma interviene sulla disciplina del trattenimento dello straniero durante lo svolgimento della procedura in frontiera di cui all’articolo 28-bis del decreto legislativo n. 25/2008, finalizzata al riconoscimento ed alla revoca dello status di rifugiato. Le norme introdotte stabiliscono che il richiedente può essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura accelerata in frontiera al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato. Il trattenimento, prosegue la norma, può essere disposto qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento in corso di validità, ovvero non presenti idonea garanzia finanziaria. Anche se per definire questo ulteriore requisito, peraltro di dubbia legittimità, si prevede un termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, per un ennesimo regolamento ministeriale.
Il trattenimento non può comunque protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per lo svolgimento della procedura in frontiera e la convalida del trattenimento comporta un periodo massimo di permanenza non prorogabile di quattro settimane. Il trattenimento è disposto in appositi locali presso le strutture di cui all’articolo 10-ter, comma 1 del decreto legislativo n. 286/1998 ovvero nei centri di cui all’articolo 14 del decreto legislativo n. 286/1998 [comma 2, lettera b), capoverso articolo 6-bis].
Si deve ricordare anche in questo caso quanto osservava l’UNHCR relativamente ai casi, di minore frequenza, di trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo, già previsti dal Decreto legge n.130 del 2020, fino all’entrata in vigore della legge n.50 del 2023.
Secondo le posizioni contenute nei documenti dell’’UNHCR , che valgono per tutti i potenziali richiedenti asilo, “la detenzione di richiedenti asilo non dovrebbe essere utilizzata in maniera automatica o obbligatoria per tutti, piuttosto dovrebbe rappresentare l’eccezione. Brevi periodi di trattenimento sono ammissibili nella fase iniziale di verifica dell’identità e durante i controlli di sicurezza quando l’identità è incerta o controversa o emergono elementi indicativi di rischi per la sicurezza. Quando una misura di detenzione è applicata per un fine legittimo, essa deve essere prevista dalla legge, deve fondarsi su di una decisione individuale, e deve risultare strettamente necessaria e proporzionale, avere un durata prestabilita ed essere sottoposta a revisione periodica . La detenzione non dev’essere applicata ai minori”.
In base all’art. 8 della Direttiva 2013/33/UE, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, “Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente ai sensi della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del iconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale“. In base a questa norma euro-unitaria,“ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, gli Stati membri possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. L’ordinamento dell’Unione Europea considera dunque il trattenimento amministrativo del richiedente asilo come una misura residuale.
Per la Direttiva 2013/33/UE, attuata in Italia con il Decreto legislativo n.142 del 2015, che adesso si modifica ancora una volta in senso restrittivo, un richiedente protezione può essere trattenuto soltanto:
a) per determinarne o verificarne l’identità o la cittadinanza;
b) per determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale che non potrebbero ottenersi senza il trattenimento, in particolare se sussiste il rischio di
fuga del richiedente;
c) per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio;
d) quando la persona è trattenuta nell’ambito di una procedura di rimpatrio ai sensi della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, al fine di preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento e lo Stato membro interessato può comprovare, in base a criteri obiettivi, tra cui il fatto che la persona in questione abbia già avuto l’opportunità di accedere alla procedura di asilo, che vi sono fondati motivi per ritenere che la persona abbia manifestato la volontà di presentare la domanda di protezione internazionale al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione della decisione di rimpatrio;
e) quando lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico“
La Corte di cassazione, sez. VI, 24.10.2016 n. 21423/16, con riferimento alla nozione di rischio di fuga afferma da tempo che questa deve essere interpretata non genericamente, ma in base a quanto previsto all’art. 6, co. 2, lett. d), d.lgs. 142/2015 (aver precedentemente fatto sistematico ricorso ad una falsa attestazione di identità al fine di evitare l’adozione o l’esecuzione di provvedimenti di espulsione, ovvero non avere ottemperato ai provvedimenti disposti dall’autorità tassativamente indicati dalla norma stessa).
Va ricordato che il “Il Tribunale di Milano ha sollevato, con ordinanza 11.12.2022 , questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, co. 5, d.lgs. 142/2015. con riguardo ai provvedimenti di trattenimento adottati dai questori nei confronti di richiedenti asilo e sui termini della successiva convalida, sulla base di una serie di considerazioni che potrebbero estendersi anche alle nuove disposizioni introdotte allo stesso riguardo dalla legge n.50 del 2023. La questione riguarda casi nei quali le autorità di polizia ritardino a trasmettere alla competente autorità la formalizzazione della richiesta di protezione dello straniero già trattenuto in un centro di detenzione amministrativa (non solo CPR), che come è noto può essere anche frutto di una prima espressione verbale del richiedente. Che acquista immediatamente la qualità di richiedente asilo, anche se si trova in un caso di trattenimento pre-espulsivo, tanto che di norma il giudice di pace non convalida la proroga del trattenimento.. Il rischio che si corre nella pratica è che malgrado questa espressione verbale della richiesta di protezione il richiedente, e la mancata convalida della proroga del trattenimento da parte del giudice di pace, venga accompagnato in frontiera prima che la sua volontà venga formalizzata e che il suo trattenimento, in assenza di una ulteriore convalida del giudice di pace, si possa protrarre per diversi giorni, nella pratica anche una settimana,e oltre. E dunque in violazione dell’art. 13 della Costituzione, secondo quanto già affermato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n.105 del 2001. Secondo il Tribunale di Milano, ricorre la “non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 c. 5 d.lgs. 142/2015 in rapporto all’art. 13 Cost. nella parte in cui, richiamando la disciplina di cui all’art. 14 d.lgs. 286/1998 per la convalida del provvedimento che dispone il trattenimento del soggetto richiedente già trattenuto ai sensi dell’art. 6 c.3 d.lgs. 142/2015, non prevede che il termine di quarantotto ore per investire l’autorità giudiziaria del controllo sul provvedimento di trattenimento decorra dalla acquisizione della qualità di “richiedente” del trattenuto, individuandosi in detto momento la potenziale lesione dei diritti fondamentali della persona sulla quale deve incentrarsi il controllo del giudice.”
9. La nuova disciplina delle “domande reiterate
La legge 132/2018 dettava una definizione di domanda reiterata (art. 2, comma 1, lett. b-bis), D. Lgs. 25/2008) secondo la quale costituisce domanda reiterata ogni ulteriore domanda presentata dopo che sia stata adottata una decisione definitiva su una precedente domanda, anche nel caso in cui il richiedente abbia esplicitamente ritirato la domanda o la Commissione territoriale l’abbia rigettata a seguito di una rinuncia implicita. Inoltre, ai sensi della Legge 132/2018, una domanda reiterata presentata durante
l’esecuzione di un provvedimento di espulsione (art. 29-bis, D. Lgs. 25/2008) era considerata inammissibile, senza alcun esame preliminare e senza beneficiare di effetto sospensivo in caso di ricorso. Secondo il Decreto n.130 del 2020, invece,qualora la domanda di protezione fosse stata reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento, questa non veniva più considerata automaticamente inammissibile e doveva essere comunque esaminata dalla commissione territoriale.
Nell’art. 28 bis del decreto lgs. 25 del 2008 si inserisce la previsione secondo cui, nel caso di una domanda reiterata, quindi di un’ulteriore domanda di protezione internazionale presentata dopo che e’ stata adottata una decisione definitiva negativa su una domanda precedente, la procedura puo’ essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito e la Commissione territoriale decide nel termine di sette giorni dalla ricezione della domanda.
In particolare, secondo l’art. 29 bis, comma 1, del Decreto n.25 del 2008,”(Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento) nella versione previgente al Decreto n.20 del 2023, dunque secondo quanto previsto dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173
1. Se lo straniero presenta una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda e’ trasmessa con immediatezza al presidente della Commissione territoriale competente, che procede all’esame preliminare entro tre giorni, valutati anche i rischi di respingimento diretti e indiretti, e contestualmente ne dichiara l’inammissibilita’ ove non siano stati addotti nuovi elementi, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, lettera b)”.
Adesso si coglie l’occasione del Decreto Cutro per ritornare nella sostanza a quanto previsto in precedenza dal primo Decreto sicurezza Salvini n.113 del 2018.
Secondo la modifica apportata dalla legge n.50/2023 al primo comma dell’art. 29 del decreto n.25 del 2008, la Commissione territoriale dichiara inammissibile la domanda e non procede all’esame, quando il richiedente ha reiterato identica domanda, dopo che sia stata presa una decisione da parte della Commissione stessa, senza addurre nuovi elementi o nuove prove, in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine, che rendano significativamente piu’ probabile che la persona possa beneficiare della protezione internazionale, salvo che il richiedente alleghi fondatamente di essere stato, non per sua colpa, impossibilitato a presentare tali elementi o prove in occasione della sua precedente domanda o del successivo ricorso giurisdizionale
Con un ulteriore modifica dell’art.29 comma 1 bis– Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento– del Decreto lgs. n.25 del 2008 si prevede che nei casi di cui al comma 1, la domanda e’ sottoposta a esame preliminare da parte del presidente della Commissione territoriale, diretto ad accertare se emergono o sono stati addotti, da parte del richiedente, nuovi elementi o nuove prove rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e che il ritardo nella presentazione di tali nuovi elementi o prove non e’ imputabile a colpa del ricorrente, su cui grava l’onere di allegazione specifica. Nell’ipotesi di cui al comma 1, lettera a), il presidente della Commissione procede anche all’audizione del richiedente sui motivi addotti a sostegno dell’ammissibilita’ della domanda nel suo caso specifico.
Nella valutazione delle domande reiterate nella fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale, sembrerebbe dunque scomparire il richiamo già previsto in precedenza, ai “rischi di respingimenti diretti, o indiretti” già previsti sotto la vigenza del Decreto legge (Lamorgese) n.132 del 2020. Questa mancata previsione appare gravemente lesiva dei diritti di difesa del ricorrente, anche alla luce del divieto di trattamenti inumani o degradanti, che si deve ritenere generalmente compreso nel richiamo agli obblighi costituzionali, che rientra ancora nell’ampia formulazione dell’art.5.6 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, che il legislatore, che ha approvato defintivamente la legge n.50 del 2023 (ex decreto Cutro), non ha abrogato.
10. La limitazione dei diriti di difesa, in particolare nelle procedure accelerate in frontiera e nel caso di domande reiterate
Le normativa introdotta dalla legge 50/2023 con l’art. 7 ter, apporta una serie di modifiche al decreto legislativo n. 25/2008, di attuazione della direttiva 2005/85/CE, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Tali modifiche intervengono sulla procedura di esame della domanda di protezione internazionale svolto dalle commissioni territoriali per il diritto di asilo. Esse dispongono, fra l’altro, che la commissione, nel caso in cui ritenga che non sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e non ricorrano neanche le condizioni per la trasmissione degli atti al questore ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale o per cure mediche, acquisisce dal questore elementi informativi circa la non sussistenza di una delle cause che impediscono il respingimento alla frontiera e l’espulsione (comma 1, lettera a)).
La limitazione dei diritti di ricorso contro i dinieghi della protezione, prevista dal nuovo articolo 7 ter della legge 50/2023 (Disposizioni in materia di decisioni sul riconoscimento della protezione internazionale), oggetto di un indegno rimbalzo tra Canera e Senato, soprattutto nel caso di decisioni di inammissibilità della domanda, sembra violare la garanzia di un diritto di difesa effettivo, davanti ad un organo giurisdizionale indipendente ed imparziale (art. 24 Cost e art. 6 CEDU). Il principio del contraddittorio e la possibilità per i difensori di acquisire la documentazione necessaria per l’espletamento del loro mandato, anche a fronte dei ridotti termini di tempo concessi dalla procedura, saranno ancora una volta negati dalle prassi amministrative e dalle nuove previsioni normative.
In base all’art. 7 ter del Decreto n.50 del 2023, viene sostituito l‘ articolo 32 comma 4 del decreto legislativo 25 del 2008,che riguarda la decisione sulle istanze di protezione già modificato dal decreto legge n.130 del 2020, che abrogava il comma 1 dell’articolo. Secondo la nuova formulazione in materia di decisioni di diniego, introdotta dal decreto n.50 del 2023:
«4. La decisione di cui al comma 1, lettere b), b-bis) e b-ter), del presente articolo e il verificarsi delle ipotesi previste dagli articoli 23, 29 e 29-bis comportano, alla scadenza del termine per l’impugnazione, l’obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, salvo che gli sia stato rilasciato un permesso di soggiorno ad altro titolo e salvo che la Commissione territoriale rilevi la sussistenza di una delle condizioni di cui ai commi 3.2 e 3-bis del presente articolo o di una delle cause impeditive di cui all’articolo 19, commi 1-bis e 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Nei casi di cui al periodo precedente, la decisione reca anche l’attestazione dell’obbligo di rimpatrio e del divieto di
reingresso di cui all’articolo 13, commi 13 e 14, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
All’art. 35 bis, comma 5 del decreto n.25/2008, nella nuova formulazione introdotta dalla legge 50/2023, si prevede che “La proposizione del ricorso o dell’istanza cautelare ai sensi del comma 4 non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento che respinge o dichiara inammissibile un’altra domanda reiterata a seguito di una decisione definitiva che respinge o dichiara inammissibile una prima domanda reiterata, ovvero dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale, ai sensi dell’articolo 29-bis»;
Nello stesso decreto 25 del 2008, modificato ed integrato nel tempo ad ogni cambio di governo, si potrebbe dire, si introduce pure un nuovo art. 35-ter, con riguardo ai casi di trattenimento amministrativo del richiedente denegato e di sospensione della decisione in materia di riconoscimento della protezione internazionale nella procedura in frontiera. Alla stregua della nuova nornativa introdotta dalla legge n.50 del 2023 (già Decreto legge “Cutro”!) ” 1. Quando il richiedente e’ trattenuto ai sensi dell’articolo 6-bis del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, contro la decisione della Commissione territoriale e’ ammesso ricorso nel termine di quattordici giorni dalla notifica del provvedimento e si applica l’articolo 35-bis, comma 3, del presente decreto (n.25/2008). L’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato e’ proposta, a pena di inammissibilita’, con il ricorso introduttivo. 2. Il ricorso e’ immediatamente notificato a cura della cancelleria al Ministero dell’interno presso la Commissione territoriale o la sezione che ha adottato l’atto impugnato e al pubblico ministero, che nei successivi due giorni possono depositare note difensive. Entro lo stesso termine, la Commissione che ha adottato l’atto impugnato e’ tenuta a rendere disponibili il verbale di audizione o, ove possibile, il verbale di trascrizione della videoregistrazione, nonche’ copia della domanda di protezione internazionale e di tutta la documentazione acquisita nel corso della procedura di esame. Alla scadenza del predetto termine il giudice in composizione monocratica provvede allo stato degli atti entro cinque giorni con decreto motivato non impugnabile. 3. Dal momento della proposizione dell’istanza e fino all’adozione del provvedimento previsto dal comma 2, ultimo periodo, il ricorrente non puo’ essere espulso o allontanato dal luogo nel quale e’ trattenuto. 4. Quando l’istanza di sospensione e’ accolta il ricorrente e’ ammesso nel territorio nazionale e gli e’ rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta di asilo. La sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, disposta ai sensi del comma 3, perde efficacia se il ricorso e’ rigettato, con decreto anche non definitivo”.
Si circoscrive così il diritto di ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria avverso la decisione della commissione territoriale esclusivamente nei confronti delle decisioni di rigetto (e non anche a quelle di inammissibilità) e viene precisato anche che è ammesso ricorso al giudice ordinario avverso i provvedimenti della Commissione nazionale di cui all’articolo 33 (revoca e cessazione dello status di protezione internazionale) (comma 1, lettera d)).
L’articolo 46 (Diritto a un ricorso effettivo) della Direttiva 2013/32/CE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione), attribuisce tuttavia, al richiedente la protezione internazionale, il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice anche nel caso in cui la domanda sia stata giudicata inammissibile. Una questione sulla quale potrebbe essere chiamata a pronunciarsi, anche con un rinvio pregiudiziale per una interpretazione conforme, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, intervenendo nell’aula della Camera, ha dato parere favorevole a un ordine del giorno che impegna il governo a una correzione dell’articolo 7 ter del Dl Cutro che riguarda le “disposizioni in materia di decisioni sul riconoscimento della protezione internazionale”. Come era emerso anche da un parere del Comitato per la legislazione, l’articolo, così com’è stato formulato, impedirebbe di fare ricorso nel caso in cui la richiesta di protezione internazionale venga rigettata per inammissibilità, comportando di fatto una violazione degli articoli 24 e 113 della Costituzione. Secondo l’ordine del giorno a firma Rotondi, poi approvato, “La Camera, tenuto conto del parere reso sul provvedimento in esame dal Comitato per la legislazione lo scorso 26 aprile, impegna il Governo a valutare gli effetti applicativi della disposizione di cui all’articolo 7-ter, comma 1, lettera d), allo scopo di adottare, in tempi rapidi, le opportune iniziative normative volte ad espungere dall’articolo 35, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo n. 25 del 2008 (come novellato dal provvedimento in esame) il riferimento all’articolo 32 del medesimo decreto legislativo”.
11. La convalida dei provvedimenti di acompagnamento immediato alla frontiera e di trattenimento amministrativo
Le disposizioni in materia di convalida dei provvedimenti di acompagnamento immediato alla frontiera e di trattenimento, previste dal nuovo articolo 7 quater della legge n.50 del 2023 vanno ben oltre l’abolizione dell’istituto della protezione speciale, ed incidono su diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali (in particolare CEDU) e dalle Direttive dell’Unione Europea, in particolare la Direttiva rimpatri n. 115 del 2008. Le garanzie procedurali vanno comunque applicate in modo non discriminatorio a tutti i richiedenti asilo, indipendentemente dal tipo di procedura e dal luogo in cui essa si svolge. Non sembra che con la nuova legge 50/2023 questo accada.
In base all’art. Art. 7 quater della legge 50/2023 (Disposizioni in materia di convalida dei provvedimenti di accompagnamento immediato alla frontiera e di trattenimento),
1. Al testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 13, dopo il comma 5 e’ inserito il seguente: «5-bis.1. La partecipazione del destinatario del provvedimento all’udienza per la convalida avviene, ove possibile, a distanza mediante collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il centro di cui all’articolo 14 del presente testo unico nel quale lo straniero e’ trattenuto, in conformita’ alle specifiche tecniche stabilite con decreto direttoriale adottato ai sensi dell’articolo 6, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e nel rispetto dei periodi dal quinto al decimo del comma 5 del predetto articolo 6»;
b) all’articolo 14, dopo il comma 4 e’ inserito il seguente:
«4-bis. La partecipazione del destinatario del provvedimento all’udienza per la convalida avviene, ove possibile, a distanza mediante collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il centro di cui al comma 1 nel quale lo straniero e’ trattenuto, in conformita’ alle specifiche tecniche stabilite con decreto direttoriale adottato ai sensi dell’articolo 6, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e nel rispetto dei periodi dal quinto al decimo del comma 5 del predetto articolo 6».
La più estesa restrizione della libertà personale dei richiedenti asilo, la eterogeneità dei luoghi di trattenimento e la loro stessa ubicazione, frutto di scelte discrezionali di autorità amministrative, e la conseguente difficoltà di contattare un difensore di fiducia, oltre alle modalità dell’audizione per via telematica e alle difficoltà per quest’ultimo di accedere alla documentazione e di articolare prove a sostegno del ricorso, rendono alquanto aleatorio l’effettivo esercizio dei diritti di difesa previsti, oltre che dalla normativa di settore, dall’art. 24 della Costituzione italiana. Più in generale, con riguardo alle disposizioni in materia di detenzione amministrativa nelle strutture più diverse, non solo nei CPR (Centri per i rimpatri), e di allontananamento forzato, e con particolare rferimento alla delicata fase della convalida giurisdizionale, occorrerebbe riflettere sulle procedure previste che si avviano verso lo svuotamento effettivo del principio dell’habeas corpus, affermato nel 2001 dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.105. In quell’occasione la Corte enunciava un importante principio di diritto che fino ad oggi non ha subito smentita.
“Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’articolo 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle “altre restrizioni della libertà personale”, di cui pure si fa menzione nell’articolo 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’articolo 14, secondo il quale il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata.
Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale.
Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.“
Le nuove disposizioni introdotte con la Legge n.50 del 2023 in materia di convalida delle misure di trattenimento, soprattutto nel caso di persone che abbiano precedenti penali, anche di minore rilevamza, non sembrano comprendere adeguate garanzie procedurali, come un tempo adeguato per l’esame della domanda e per l’esercizio di ricorsi di carattere effettivo. E di questo se ne dovrà occupare la Corte Costituzionale, che adesso, con riferimento a casi di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, ha stabilito che l’automatismo del diniego di rinnovo del permesso in caso di lieve condanna penale risulta “manifestamente irragionevole, sotto diverse prospettive: sia perché, per le stesse condanne, nell’ambito della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare, volta al medesimo scopo del rilascio del permesso di soggiorno, quest’ultimo non è automaticamente escluso, ma implica una valutazione in concreto della pericolosità dello straniero; sia perché l’automatismo del diniego, riferito a stranieri già presenti regolarmente sul territorio nazionale (e che hanno iniziato un processo di integrazione sociale), è in contrasto con il principio di proporzionalità, come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
12. L’inasprimento delle sanzioni penali e il nuovo reato di morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione “clandestina”.
L’articolo 8 della legge 50 del 2023,in Gazzetta Ufficiale, reca disposizioni penali volte, da un lato, a inasprire le pene per i delitti concernenti l’immigrazione “clandestina” e, dall’altro, a prevedere la nuova fattispecie di reato di morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione “clandestina“. La formulazione di questa nuova fattispecie di reato “universale” e la modalità assolutamente generica in cui il responsabile può commettere il reato, espressa attraverso una serie di termini dalla portata enormemente ampia ed indeterminata, se non lascia dubbi sulle intenzioni propagandistiche del governo Meloni, appare in contrasto con il principio di tipicità della sanzione penale (art.25 Cost.). Sono peraltro noti da tempo i dubbi ed i rischi degli interventi in materia penale attuali attraverso lo strumento del decreto legge, anche per la totale esclusione di un qualsiasi ruolo delle forze di opposizione, che sta diventando purtroppo la cifra di governo dell’attuale maggioranza. In quest’ultimo caso si corre persino il rischio che la enorme dilatazione della fattispecie penale, che sarà affidata nella sua prima applicazione ai poteri di inchiesta delle autorità di polizia, possa estendersi fino a iniziative di polizia che coinvolgano attività di vero e proprio soccorso umanitario, per le quali non si è voluta inserire una specifica previsione di copertura legislativa. Come è stato osservato nel corso dei lavori parlamentari, applicare questa nuova fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, e rischia di ammettere interpretazioni estensive che potrebbero giungere a punire anche chi interviene per garantire aiuti, soccorso e assistenza umanitaria.
L’aumento delle pene stabilito nella legge 50/2023 anche per reati colposi appare poi in contrasto con i principi di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e di proporzionalità della pena (art.27 della Costituzione), stabilendo la stessa pena per fattispecie assai diverse tra loro, e di differente gravità, senza arrivare ad incidere peraltro, come sarebbe vietato dalla Costituzione, sui poteri discrezionali del giudice nella determinazione effettiva della pena stabilita con la sentenza di condanna. Si rischia invece di impedire un corretto bilanciamento tra le possibili variazioni di gravità del fatto e si riducono gli spazi di quantificazione della sanzione penale riservati al giudice. Come ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza n.236 del 10 novembre 2016, può ricorrere la violazione del principio di proporzionalità della pena, in base agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, non solo quando una determinata pena prevista per un reato sia
ingiustificatamente più severa di quella prevista per un’altro reato, ma anche quando questa stessa sanzione penale risulti di per sè sproporzionatamente severa rispetto alla gravità dei fatti oggetto di condanna. In questa sentenza la Corte, infatti, “è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale in seguito a un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata e non già in forza di una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche”.
Nel caso dell’aggravamento delle sanzioni penali imposte nei confronti dei cd. “scafisti” rimangono da valutare nella graduazione della pena i nessi di causalità e la componente soggettiva, non potendosi certo sanzionare condotte colpose che producono la morte di una o più persone, più gravemente di condotte dolose che determinano gli stessi effetti.
Il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. affida le scelte sulla misura della pena alla
discrezionalità politica del legislatore, ma il risultato dell’esercizio di tale discrezionalità non è esente dal sindacato fondato sugli altri parametri costituzionali, tra cui quelli previsti dagli articoli 3 e 27 Cost. Emerge comunque, come in altri atti del governo, un orientamento che cancella la funzione rieducativa e si concentra sulla funzione afflittiva della sanzione penale. In una casistica nella quale ad essere coinvolti in questo tipo di reati sono spesso soggetti molto giovani che guidano le imbarcazioni, o collaborano alla loro conduzione, per non pagare il costo del passaggio e non perchè stabilmente inseriti in una organizzazione criminale.
Appare davvero dubbio che un inasprimento delle pene, già assai elevate, previste per i cd. scafisti, che spesso non appartengono neppure all’organizzazione criminale dei trafficanti che gestisce le partenze, possa comportare vantaggi in termini di sicurezza per i cittadini e di maggiore tutela della vita delle persone che, in assenza di altre vie di fuga, sono costrette a percorrere rotte di ingresso irregolare. Che comunque non possono essere bloccate con accordi con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, negando la possibilità di presentare una domanda di asilo o di altra forma di protezione, una volta giunti comunque in frontiera. Possibilità che la Convenzione di Ginevra del 1951 sui ridugiati tutela espressamente, stabilendo il diritto di chiedere protezione una volta raggiunta una frontiera anche se irregolarmente, come peraltro avviene storicamente in tutte le parti del mondo, nella quasi totalità delle richieste di asilo. Nessun potenziale richiedente asilo si può rivolgere infatti, tanto nel paese di origine dal quale deve fuggire, quanto nel paese di transito, nel quale sovente è altrettanto esposto a forme diverse di abusi e di persecuzione, anche generalizzata, ad una rappresentanza diplomatica o consolare per il rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari. Come pure sarebbe auspicabile che avvenisse almeno nei paesi di transito, ma in condizioni di sicurezza per le persone, e per le loro famiglie, che al momento non sembrano soddisfatte in nessuno dei paesi di transito dai quali si verificano generalmente le partenze verso l’Italia. Il caso più recente della Tunisia, nella quale si sta assistendo ad una vera e propria persecuzione delle persone in transito che provengono dall’Africa subsahariana, conferma come al momento la comunità internazionale nel suo complesso non riesca a garntire alcun canale legale di ingresso, o di ricollocazione su vasta scala, per coloro che sono portatori di istanze di protezione. Come la parte assolutamente prevalente delle persone costrette ad attraversare il Mediterraneo su rotte che diventano sempre più pericolose non solo per le scelte dei trafficanti e per la fragilità delle imbarcazioni, ma anche per i ritardi nei soccorsi ed il ritiro (o il mancato intervento) dei mezzi statali che dovrebbero presidiare le acque internazionali, al fine di consentire intercettazioni, anche in acque internazionali, alle motovedette cedute ai paesi terzi o assistite da assetti operativi europei ed italiani.
Se è vero che dopo la strage di Cutro i soccorsi della Guardia costiera italiana in acque internazionali, al di fuori della zona SAR italiana, dunque nella zona SAR maltese, sono più frequenti, appare evidente come in quella che si continua a definire come zona SAR “libica”, a sud del parallelo 34.20 nord, molte ONG non si spingano più e le attività di intercettazione rimangono appannaggio esclusivo dei guardiacoste in uso alle diverse milizie libiche, che a vario titolo ricevono sostegno ed assistenza da Malta, dall’Italia e da Frontex, con un ruolo complice e silenzioso dell’Operazione Eunavfor Med IRINI, e dunque della nostra Marina militare, presente sulla rotta libica anche con l’operazione Mediterraneo sicuro. Se si pensa che l’inasprimento delle pene sia un deterrente per scafisti e trafficanti, messi magari sullo stesso piano, e si nasconde questa realtà e le complicità diffuse che comprende, anche nel mondo dell’informazione, si rimane sul terreno delle operazioni di pura propaganda politica sulla pelle di chi comunque continuerà a tentare la traversata, in assenza di canali legali di ingresso realmente utilizzabili nei paesi di transito da persone che sono comunque a rischio di subire trattamenti inumani o degradanti, se non di perdere la vita. La morte in mare, per naufragio, o per disidratazione, dipende, più che dagli “scafisti”, o da trafficanti, invisibili, anche se tutti sanno magari dove si trovano, dal proibizionismo della frontiera, di fronte al quale le persone in fuga sono disposte a pagare un prezzo sempre più alto, anche con la vita. Il Decreto legge n.1 del 2023 (contro i soccorsi umanitari) ed adesso il Decreto legge n.20 del 2023, che è diventato una legge omnibus, come la legge n.50 del 2023 che qui commentiamo, sono espressione di una politica che antepone la difesa dei confini alla sicurezza delle persone.
Nei confronti delle condotte dirette a procurare l’ingresso irregolare nel territorio dello Stato, si prevede che il reato venga punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori di tale territorio. Addirittura la propaganda parla di un “reato universale“… Su tale estensione della giurisdizione italiana in acque internazionali si osserva come, con la sentenza Cass. Pen., Sez. I, n. 31652 del 2021 la Corte di Cassazione abbia già precisato che «il criterio di collegamento che rende incondizionatamente punibile la condotta commessa in “alto mare”, quando sia anticipatamente individuata dagli scafisti la sperata località di approdo nel territorio italiano, ma essa sia poi occasionalmente individuata dal soccorso prestato in ambito SAR, va ravvisato nella previsione dell’art. 7 c.p., comma 1, n. 5». Successive applicazioni giurisprudenziali hanno confermato questo indirizzo della Corte di Cassazione, motivo per il quale non si coglie l’esigenza di intervenire con la decretazione d’urgenza negli stessi termini già adottati dalla consolidata giurisprudenza alla quale comunque dovrà rimanere il compito di accertare tutte le circostanze di fatto, anche al di fuori dello spazio territoriale italiano, e la concreta quantificazione della pena. Sotto questo profilo non sembra possibile mettere sullo stesso piano gli organizzatori del traffico di esseri umani e coloro che a vario titolo, e spesso in condizione di costrizione, hanno contribuito alla condotta del mezzo con il quale si è realizzato, o tentato, il trasporto di persone verso i confini territoriali italiani. Chi “effettua il trasporto di stranieri”, e soprattutto chi ” compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato”, non può essere sottoposto allo stesso regime sanzionatorio di chi ” promuove, organizza, dirige, finanzia” il “trasporto” nel territorio dello Stato, Inoltre, la formulazione, adottata nel decreto, che questo tipo di trasporto sia attuato “con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità”, o “sottoponendole a trattamento inumano o degradante” ha una portata talmente generica da implicare seri dubbi sul rispetto del principio della riserva di legge in materia penale.
La formulazione dell’apparato sanzionatorio previsto dal nuovo Decreto legge risulta infatti tanto ampia, e per certi aspetti sovrapponibile a norme penali già esistenti, che appare dubbio il rispetto del principio di legalità del reato, che imporrebbe una precisa definizione delle diverse fatispecie penali. Sembra in sostanza che la confusione semantica tra la figura dello scafista e quella del trafficante si estenda anche nalla ricostruzione delle ipotesi di reato e delle conseguenti pene. Eppure la Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale distingue nettamente le due ipotesi, tracciando un percorso obbligato al legislatore nazionale, come emerge anche dai due distinti Protocolli aggiuntivi, contro la tratta di esseri umani e contro il traffico illecito di migranti.
La stessa Convenzione detta norme precise in materia di giurisdizione e di cooperazione tra gli Stati per il contrasto della criminalità transnazionale con specifico rifernimento ai diversi casi di organizzazione delle reti criminali e di movimentazione delle persone attraverso canali irregolari, puntando maggiormente sulla collaborazione, anche nelle forme della richiesta di rogatoria e dell’estradizione dei responsabili, piuttosto che su una generica estensione della giurisdizione nazionale al di fuori dei limiti territoriali dello Stato e sulla sovrapposizione della figura del trafficante con la figura dello scafista.
13. In particolare la convalida giurisdizionale delle misure di allontanamento forzato e l’abolizione dei casi di “volontario esodo”.
La particolare tecnica amministrativa dei rinvii da un decreto ad un altro nasconde l’inasprimento delle misure previste in caso di dinego del riconoscimento della protezione internazionale e di espulsioni. Come rileva Guido Savio, in un commento alla prima versione del Decreto legge n.20/2023 “Cutro” pubblicato su Questione Giustizia,“Il capo II del D.L. 20/2023 rubricato «Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare» prevede, all’art. 9, co. 2 e 3, due brevi disposizioni in materia di espulsioni che abrogano, rispettivamente, l’obbligo di convalida giurisdizionale dell’accompagnamento coattivo alla frontiera nei casi di espulsione disposta come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, e la previsione di cui all’art. 12, co. 2, d.P.R. 394/99 secondo cui il questore, in caso di rifiuto del permesso di soggiorno, concede(va) al denegato un termine, non superiore a 15 gg., per il volontario esodo dal territorio dello Stato, prima di procedere all’adozione del provvedimento di espulsione, in ipotesi di inottemperanza all’invito.
La prima disposizione modifica l’articolo 13, comma 5-bis, del T.U. Immigrazione, al fine di evitare di sottoporre a convalida del giudice di pace l’esecuzione del decreto di espulsione disposta da un’altra autorità giudiziaria, in forza degli articoli 15 (Espulsione a titolo di misura di sicurezza) e 16 (Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione) dello stesso T.U.
L’art.9 comma 2 della legge n.50 del 2023 sembra eliminare la necessità della convalida del giudice di pace per l’esecuzione con accompagnamento alla frontiera del decreto di espulsione disposta da un’altra autorità giudiziaria. A tale fine, modifica l’articolo 13, comma 5-bis, del T.U. immigrazione che, nella formulazione finora vigente, prevede l’obbligo della convalida da parte del giudice di pace in tutti i casi di espulsione eseguita dal questore con accompagnamento coattivo alla frontiera, i quali sono tassativamente elencati al comma 4 dell’articolo 13 del medesimo Testo unico. Con la nuova formulazione della legge n.50 del 2023, si abolisce l’obbligo di sottoporre a convalida l’esecuzione del decreto di espulsione disposta dal giudice a titolo di misura di sicurezza ovvero a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, ai sensi degli articoli 15 e 16 del Testo unico e le altre ipotesi di cui alla lettera f) dell’art, 13, co. 4, TU immigrazione n-286/98.
A tale proposito, Guido Savio ricorda come “Nel primo caso, qualora intercorra – come accade sovente – un significativo lasso temporale tra le due fasi, l’eventuale insorgenza, nelle more, di una condizione di inespellibilità non ha più una sede in cui poter essere valutata, mentre” La seconda previsione comporta che, contestualmente alla notificazione del diniego dell’istanza di rilascio/rinnovo di qualsiasi permesso di soggiorno, possa essere adottato ed eseguito un decreto di espulsione immediatamente esecutivo, anche se sottoposto ad impugnazione: ne deriva un grave ostacolo all’esercizio del diritto di difesa ed all’accesso ad un rimedio effettivo avverso i provvedimenti di diniego delle autorizzazioni al soggiorno, stante l’autonomia del giudizio avverso l’espulsione rispetto a quello avverso l’atto presupposto”.
Occorre anche ricordare, a proposito di persone che abbiano commesso reati, ma che abbiano avuto revocata una delle forme di protezione internazionale, o abbiano avuto respinto la richiesta, di protezione internazionale, la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia UE del 14 maggio 2019, cause riunite C-391/16, C-77/17, C-78/17, che fornisce una importante interpretazione della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria. Secondo i giudici di Lussemburgo, come osserva Donatella Loprieno,“fintanto che il cittadino di un Paese extra-UE o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere considerata come rifugiato ai sensi del diritto dell’UE, a prescindere che le sia stato formalmente riconosciuto lo status“. In particolare, “Ai sensi e nelle ipotesi di cui ai par. 4 e 5 dell’art. 14, della direttiva, uno Stato membro può certamente decidere di revocare (o non riconoscere) lo status di rifugiato al cittadino di Paese terzo e, in tali casi, questi finirebbe per versare in una situazione di depotenziamento dei diritti e dei benefici che il capo VII della direttiva associa a tale status. A fronte di tale revoca o diniego, però, queste persone non possono essere private di ogni garanzia (a nulla servendo in questo caso avere la qualità di rifugiato), ma come prevede il paragrafo 6, art. 14 della direttiva, godono, o continuano a godere, di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra45 e ciò a conferma della perdurante qualità di rifugiato ai sensi dell’art. 1, sez. A, di detta Convenzione”. In defintiva, dunque, la Cotrte di Giustizia rileva “come l’intera direttiva 2011/95 non possa, in alcun modo, essere interpretata in maniera tale da indurre gli Stati membri «a sottrarsi agli obblighi internazionali a loro incombenti, quali derivanti dalla Convenzione di Ginevra, limitando i diritti che tali soggetti traggono da questa Convenzione». Resta, peraltro, fermo l’obbligo per quegli Stati che ritengano di dover revocare (o non rilasciare) lo status di rifugiato, a tutela evidentemente della incolumità della propria comunità, di rispettare e garantire alcuni diritti fondamentali che scaturiscono direttamente dalla Carta come il rispetto della vita familiare e privata, la libertà professionale e il diritto di lavorare ma anche la previdenza, l’assistenza sociale e la protezione della salute“. La sentenza della Corte di Giustizia sembra così riconoscere l’obbligo degli Stati di riconoscere uno specifico titolo di soggiorno, come condizione per l’accesso ai diritti fondamentali della persona, anche al di fuori dei casi di protezione internazionale, e finisce così per riconoscere con la valenza normativa di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, non la possibilità ma l’obbligo a carico degli Stati membri di prevedere status di soggiorno legali più limitati, anche nel caso di persone che hanno commesso reati, fermo restando l’apprezzamento del giudice sulla loro gravità e sugli eventuali pericoli per la sicurezza nazionale. Non si può del resto tarscurare il consolidato orientamento della Corte europea dei diritti dell’Uomo che afferma la natura assoluta e inderogabile del divieto di trattamenti inumani o degradanti, previsto dall’art.3 della Convenzione EDU, anche nel caso in cui venga in discussione il respingimento o l’espulsione di una persona che ha commesso reati, o che magari è stato denunciato, ma non è stato ancora condannato con una sentenza definitiva. La Corte di Strasburgo ha affermato in diverse occasioni che gli Stati, nel valutare l’eventualità dell’adozione di un provvedimento di espulsione, non possono mettere in bilanciamento il rischio che il soggetto da espellere sia sottoposto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione con la pericolosità sociale del medesimo individuo. Sono questi gli obblighi di non respingimento e di non espulsione, previsti dall’art.19 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 nei primi due periodi del comma 1, che nel richiamo agli obblighi costituzionali ed internazionali stabilito dall’art.5.6 dello stesso Testo Unico, neppure il legislatore che ha sfornato la legge 50 del 2023 ha potuto abrogare.
Il comma 3 dell’art.9 della legge n.50 del 2023 abroga l’articolo 12, comma 2, del regolamento di attuazione del Testo Unico immigrazione (adottato con D.P.R. n. 394/1999), ai sensi del quale, nel caso in cui le autorità rifiutino la domanda di permesso di soggiorno, il questore, in occasione della notificazione del rifiuto, concede allo straniero un termine non superiore a quindici giorni lavorativi, per presentarsi al posto di polizia di frontiera indicato e lasciare volontariamente il territorio dello Stato. Con l’abbrogazione della norma che prevede il termine di 15 giorni per il rimpatrio volontario, allo scopo di accelerare l’espulsione del cittadino straniero, si sia significativamente ridotta la possibilità di difesa da parte della persona che riceve un qualsiasi provvedimento di diniego di permesso di soggiorno, se non un agravamento delle condizioni previste per lo stesso rimpatrio volontario, al punto da non renderlo materialmente possibile. Si profila dunque una estensione dei casi di espulsione dal territorio nazionale con accompagnamento forzato, in contrasto con il carattere residuale che tali espulsioni dovrebbero avere, in base alle Direttive dell’Unione europea in materia di rimpatri e di procedure per la protezione internazionale.
A fronte dell’abrogazione del termine di 15 giorni il cd. volontario esodo prima dell’espulsione, con riferimento alla Direttiva UE sui rimpatri n.115 del 2008, si osserva che “L’art. 6, § 1 della citata direttiva prescrive che «Gli stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi da 2 a 5». Ebbene, il paragrafo 4 indica un’importante deroga alla decisione rimpatrio prevedendo che «In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo … che conferisca il diritto di soggiorno a un cittadino di paese terzo il cui soggiorno è irregolare. In tal caso non è emessa la decisione di rimpatrio». Tale previsione è destinata a restare sulla carta in assenza di modalità concrete di attuazione come nell’ipotesi – ora prevista dal D.L. in esame – in cui non vi sia soluzione di continuità tra diniego del titolo autorizzatorio al soggiorno e l’espulsione immediatamente esecutiva anche se sottoposta ad impugnazione, e, con essa, si verrebbero a travolgere le possibilità di richiedere, prima ancora di rilasciare, il permesso di soggiorno per protezione speciale in presenza degli obblighi di cui all’art. 5, co. 6, d.lgs. 286/98, vincolanti per l’Italia ma anche, a maggior ragione, in caso di divieti inderogabili di espulsione o respingimento indicati nei commi 1 e 1.1. prima parte dell’art. 19, o, ancora in tutti i casi dell’art. 19, comma 2 del medesimo TU immigrazione. E’ bene ricordare al riguardo che la legge n. 50 del 2023 non ha abrogato “divieti inderogabili di espulsione o respingimento indicati nei commi 1 e 1.1. prima parte dell’art. 19“.
Secondo la Relazione allegata al Decreto legge n.20 del 2023, in questo modo si darebbe risposta ai rilievi contenuti nei punti 1 e 2 della raccomandazione relativa alla correzione delle carenze individuate nella valutazione 2021 dell’Italia sull’applicazione dell’acquis di Schengen in materia di rimpatrio di cui alla decisione di esecuzione del Consiglio, del 17 giugno 2022 (doc. 10402/22)”. Al contrario di quanto afferma la Relazione di accompagnamento al decreto legge n.20 del 2023, l’invito del questore previsto all’articolo 12 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, che si va ad abrogare, non confligge affatto con la Direttiva europea sui rimpatri (2008/115/CE).
In realtà la citata Decisione di esecuzione del Consiglio UE recante raccomandazione relativa alla correzione delle carenze individuate nella valutazione 2021 dell’Italia sull’applicazione dell’acquis di Schengen in materia di rimpatrio prevede testualmente che “sia emessa senza inutili ritardi una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di paese terzo la cui domanda di soggiorno regolare o di protezione internazionale sia stata rigettata, in linea con l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2008/115/CE, come indicato anche nella raccomandazione 1 della decisione di esecuzione 6358/17 del Consiglio”. Il richiamo fa quindi riferimento alle sole decisioni di rimpatrio con accompagnamento forzato che sono previste dall’art.6 della Direttiva 2008/115/CE e non alle decisioni di rimpatrio per cui si prevede la partenza volontaria, che sono disciplinate dal successivo articolo 7 della stessa Direttiva. La stessa Raccomandazione sollecita anzi gli Stati membri a “aumentare la promozione dei progetti di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione, tra l’altro attraverso attività di sensibilizzazione e consulenza proattive”.
Nella normativa euro-unitaria non si rinviene dunque alcuna norma che obblighi l’Italia a concedere un termine per il rimpatrio volontario inferiore ai 15 giorni già previsti dalla legislazione vigente, salvo i casi particolari ( domanda manifestamente infondata o fraudolenta, pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale), per cui gli Stati membri “possono”, non devono, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni.
La normativa eurounitaria prevede anzi (al Considerando 10 della Direttiva 2008/115/CE) che “Se non vi è motivo di ritenere che ciò possa compromettere la finalità della procedura di rimpatrio, si dovrebbe preferire il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato e concedere un termine per la partenza volontaria. Si dovrebbe prevedere una proroga del periodo per la partenza volontaria allorché lo si ritenga necessario in ragione delle circostanze specifiche del caso individuale”. E ancora, la stessa Direttiva all’art.7 stabilisce che ” La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 4″. Si prevede quindi la possibilità di proroga di questo termine (par.2), su richiesta del cittadino straniero interessato, “tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l’esistenza di bambini che frequentano la scuola e l’esistenza di altri legami familiari e sociali., Mentre al paragrafo 4 si stabilisce che “Se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza na zionale, gli Stati membri possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni”. La riduzione del termine stabilito per la partenza volontaria può quindi ammettersi solo in presenza di circostanze precise, che vanno provate caso per caso dall’amministrazione procedente, e non in maniera automatica per tutte le persone che ricevano la notifica del diniego di una richiesta di permesso di soggiorno.
14. Il potenziamento del sistema dei Centri per i rimpatri (CPR) e delle altre strutture di detenzione amministrativa: criticità
A partire dal 1998, con l’introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione italiana. In assenza di un’espressa previsione di reato la semplice presenza irregolare sul territorio o l’ingresso clandestino sono sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta ancora più limitativa della libertà personale. La stessa misura viene attuata indifferentemente nei confronti dei richiedenti asilo denegati e degli immigrati che escono dal carcere dopo la espiazione della pena o la liberazione anticipata, o ancora per il venir meno delle esigenze cautelari, se in carcerazione preventiva, o perché assolti in quanto i fatti contestati non sussistevano. Per tutti, senza alcuna considerazione della condizione personale dei singoli, sulla base della semplice mancanza di un valido permesso di soggiorno, in qualche caso perduto proprio a seguito di una ingiusta carcerazione preventiva, si dispone l’espulsione e la misura del trattenimento in un centro di permanenza temporanea al fine di eseguire l’accompagnamento forzato in frontiera in tutti i casi nei quali la misura dell’allontanamento non possa effettuarsi immediatamente.
Già nei lavori preparatori della legge Turco- Napolitano, al tempo dell’istituzione di queste strutture, si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che consentirebbe al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale “ se si tratta dell’arresto o della detenzione legali di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”. Solo che il legislatore del 1998 era riuscito a prevedere la detenzione amministrativa senza una convalida giurisdizionale, lacuna poi colmata nel 2001, anche a seguito della fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n.105/2001 citata in precedenza.
Il forte richiamo al principio di legalità contenuto nell’art. 13 della Costituzione italiana italiana e nell’art.5 della Convenzione EDU da allora, fino alla legge n.50 del 2023, tuttavia contraddetto da una frenetica attività normativa di contenuto assai generico, sovente anticipata da prassi amministrative derivanti da provvedimenti discrezionali del ministero dell’interno o delle sue articolazioni periferiche (Questori e Prefetti) destinati ad alimentare un diffuso contenzioso che si estendeva anche alla Corte di Cassazione ed alla Corte Costituzionale. In tempi più recenti anche con pronunciamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Dopo ogni pronuncia della giurisprudenza che cercava di ristabilire il principio di legalità, si registravano altri interventi legislativi e di nuovo prassi amministrative che se ne discostavano, rendendo incerta l’effettiva garanzia dei diritti fondamentali delle persone, garantiti a tutti gli immigrati, indipendentemente dal loro stato giuridico regolare o irregolare, dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98.Le particolari modalità di gestione dei centri di detenzione amministrativa per stranieri hanno avuto una ricaduta diretta sulla condizione giuridica degli “ospiti” che vi venivano internati. Quanto più frettolosa era l’istituzione di queste strutture detentive, come si è verificato sistematicamente a partire dall 2011 in occasione dell’emergenza nord-africa, e poi ancora negli anni successivi, tanto più opache risultavano le procedure individuali e venivano negati i diritti fondamentali della persona, e si moltiplicavano i rentativi di fuga ed i casi di ribellione. Basti pensare alla pratica dei fogli notizia ed alla distinzione arbitraria perchè operata dalle forze di polizia, tra potenziali richiedenti asilo e migranti economici.
L’ordinanza della Cass. civ., sez. VI, n. 5926/2015, ha ribadito “che l’attività di pre-
identificazione, inclusa l’attribuzione della nazionalità, non è in nessun caso idonea a
determinare l’attribuzione, in capo all’individuo, di uno status giuridico definitivo e non
preclude comunque l’esercizio del diritto di richiedere, anche successivamente a tale fase,
la protezione internazionale“. Il ricorso alla detenzione amministrativa adesso generalizzato oltre ad apparire in contrasto con la giurisprudenza italiana e con i principi in materia di garanzie della libertà personale riconosciuti a livello internazionale, appare di dubbia applicabilità.
Le disposizioni contenute nell’art.10 della legge 50 del 2023, relativo al “potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri”, contengono ampie deroghe alla disciplina per la realizzazione di queste strutture in materia di assegnazione di appalti pubblici previste a livello nazionale ed europeo, con una maggiore responsabilizzazione delle prefetture, Le stesse deroghe, che appaiono comunque di dubbia legittimità, anche tenendo conto del quadro normativo europeo sono motivate con “l’esigenza di celerità connesse all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”. Un esigenza che non sembra ricorrere nel caso di centri destinati all’allontanamento forzato delle persone e non alla prima accoglienza, soprattutto considerando che l’allontanamento forzato dipende, più che dal numero dei posti disponibili nei CPR, dalla disponibilità dei paesi di origine a effettuare i riconoscimenti individuali e accettare la riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di respingimento o di espulsione adottati dall’Italia, sempre che si tratti di “paesi terzi sicuri” e che il rimpatrio non avvenga in violazione da quanto previsto in materia di divieti di espulsione e di respingimento stabiliti dalla normativa italiana, euro-unitaria ed internazionale. Già il Decreto legge Minniti-Orlando n.13/2017, oltre a mutare la denominazione dei centri di identificazione ed espulsione (CIE) in centri di permanenza per i rimpatri (CPR), aveva disposto l’ampliamento della rete dei centri, in modo da realizzare un centro in ogni regione, con un raddoppio delle strutture detentive allora disponibili a livello nazionale. Attualmente i CPR sono dieci per una capienza complessiva di 1.378 posti e non sembra facile aumentarli fino a 20, per la forte resistenza dei territori e degli enti regionali di diverso segno politico. Rimane ancora operativa la previsione del Decreto sicurezza n.113, convertito nella legge n.132 del 2018, che introduceva la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di allontanamento in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” previsione che non veniva abrogata né modificata dal successivo Decreto Legge n. 130/2020, convertito con modifiche nella Legge n. 173/2020.
L’art.10 bis della legge n.50 del 2023 non sembra prevedere l’estensione della durata massima del trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio, distanziando maggiormente le proroghe nel tempo. Si prolunga invece il periodo durante il quale lo straniero può essere trattenuto presso il centro di permanenza per i rimpatri nell’ambito di una procedura di espulsione qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà. Rimane però inalterato il periodo massimo di trattenimento all’interno del centro di permanenza per i rimpatri, che non può essere superiore a novanta giorni ed è prorogabile per altri trenta giorni qualora lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri. I giudici che dovranno convalidare questi trattenimenti saranno tenuti a verificare rigorosamente tutte le condizioni che giustificano il trattenimento amministrativo, non solo alla luce della consolidata giurisprudenza italiana, ma anche tenendo conto della interpretazione e delle criticità contenute nei più recenti documenti delle Nazioni Unite.
All’articolo 14, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al quinto periodo, le parole: «prorogabile per altri trenta giorni» sono sostituite dalle seguenti: «prorogabile per altri quarantacinque giorni»;
b) al sesto periodo, le parole: «prorogabile per altri trenta giorni» sono sostituite dalle seguenti: «prorogabile per altri quarantacinque giorni».
Non si vede in che modo l’amplianento dei CPR, che sono soltanto centri di detenzione amministrativa, e il prolungamento del trattenimento, con il nuovo regime delle proroghe, possano significativamente contribuire a dotare di maggiore effettività i provvedimenti di allontanamento forzato, o fare fronte “all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”, che si può stimare già nel mese di maggio di questo anno a diverse decine di migliaia di persone, che non si possono certo respingere o espellere nei paesi di transito, come la Tunsia, la Libia, la Turchia, di cui non sono cittadini. Ancora si può esprimere una maggiore amarezza, se si pensa che questo provvedimento, nela sua formulazione originaria, che poi si è rivelata come un mero contenitore, è stato adottato nella giornata in cui il governo si è recato a Cutro per un Consiglio dei ministri straordinario, mentre poco distante, su una spiaggia, si continuavano a raccogliere cadaveri di persone che certamente non sarebbero mai rientrate tra i potenziali destinatari delle misure sanzionatorie, penali e amministrative che costituiscono il contenuto sostanziale della legge 50 del 2023. Un provvedimento evidentemente rivolto, oltre che ad abolire quasi del tutto la protezione speciale, a contrastare il soggiorno in Italia di qualunque “straniero”, non solo se “irregolare”, ed a facilitare le procedure di allontanamento forzato, piuttosto che dare maggiore efficienza ai soccorsi in mare, favorire gli ingressi per lavoro e creare nuovi canali legali per potenziali richiedenti asilo e profughi.
Se stiamo assistendo ad una ulteriore dilatazione dei poteri discrezionali delle autorità di polizia, e del ministero dell’interno, e dei suoi uffici periferici, non possiamo dimenticare, in chiusura, i limiti posti gli interventi delle auorità statali quando sono in gioco i diritti fondamemtali della persona, che l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione riconosce a qualunque persona, indipendentemente dal suo status giuridico, anche nei casi di ingresso o soggiorno irregolare,. Secondo una importante decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quando sia in gioco un diritto fondamentale della persona, “«nella misura in cui sia coinvolto il nucleo essenziale, direttamente tutelato dalla Costituzione, l’azione dell’amministrazione (come ancor prima quello del legislatore ordinario) difetta ab origine di discrezionalità e l’attività esercitata si prospetta come vincolata. Ciò poiché all’amministrazione (come al legislatore) non può essere riconosciuto il potere di comprimerlo ed anzi questa è tenuta a fare quanto necessario, di volta in volta, per garantirne la tutela».
Ed allo stesso riguardo non si può dimenticare quanto affermato da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (n.88 del 2023), che “dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui ricomprende, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e quelle definitive per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, del codice penale, senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente”.
Come si legge in questa sentenza, che contiene principi che potrebbero valere anche nella interpretazione della nuova legge 50/2023 nella parte in sembra acrescere i casi di “automatismo espulsivo“, ” La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che, in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del test di proporzionalità, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi (ex plurimis, sentenze n. 260 del 2021, n. 20 del 2019 e n. 137 del 2018).
Così, nel vagliare la complessiva ragionevolezza e proporzionalità delle previsioni che, come nel caso oggi in esame, implicano l’allontanamento dal territorio nazionale di uno straniero, questa Corte ha affermato la necessità di «un conveniente bilanciamento» tra le ragioni che giustificano la misura di volta in volta prescelta dal legislatore, tra le quali, segnatamente, la commissione di reati da parte dello straniero, «e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell’interessato, fondato appunto sull’art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi» (ordinanza n. 217 del 2021, di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE).
Se, dunque, per un verso, al legislatore va riconosciuta un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno di uno straniero nel territorio nazionale, in considerazione della pluralità degli interessi che tale regolazione riguarda (ex plurimis, sentenze n. 277 del 2014, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994), per altro verso occorre chiarire che tale discrezionalità «non è assoluta, dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disciplina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei confronti del cittadino e del non cittadino» (sentenza n. 202 del 2013; in precedenza, anche sentenze n. 172 del 2012, n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010, n. 78 del 2005).
Come pure questa Corte ha affermato, il legislatore, nell’esercizio di tale discrezionalità, «può anche prevedere casi in cui, di fronte alla commissione di reati di una certa gravità, ritenuti particolarmente pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, l’amministrazione sia tenuta a revocare o negare il permesso di soggiorno automaticamente e senza ulteriori considerazioni»: ciò, tuttavia, alla condizione che simile previsione sia il risultato «di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai sensi dell’art. 3 Cost., tra l’esigenza, da un lato, di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione» (sentenza n. 202 del 2013, che richiama la sentenza n. 172 del 2012).
La giurisprudenza di questa Corte, in applicazione di tali coordinate, è quindi giunta, in passato, a caducare disposizioni legislative che, nella materia dell’immigrazione, introducevano automatismi tali da incidere in modo sproporzionato e irragionevole sui diritti fondamentali degli stranieri, in quanto non rispecchiavano un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi e i diritti di rilievo costituzionale coinvolti (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010).
I descritti approdi giurisprudenziali sono in sintonia con gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, chiamata, con specifico riferimento all’espulsione dello straniero, a confrontarsi con la norma convenzionale − l’art. 8 CEDU, che, come si è visto, per i presenti giudizi, il rimettente assume a parametro interposto − volta a proteggere il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
In particolare, la Corte EDU, con la sentenza della grande camera, 18 ottobre 2006, Üner contro Olanda – nel ripercorrere propri precedenti arresti, concernenti i limiti dell’ingerenza dei pubblici poteri sui diritti tutelati dall’art. 8 CEDU, in chiave di proporzionalità – ha specificamente individuato i criteri che consentono di valutare se la misura dell’allontanamento di uno straniero possa considerarsi «necessaria», in una società democratica, e «proporzionata» allo scopo legittimo perseguito. Tali criteri, poi sostanzialmente ripresi anche dalla successiva giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo (da ultimo, sentenza della quarta sezione, 27 settembre 2022, Otite contro Regno Unito), sono, in sintesi, i seguenti: natura e serietà del reato commesso dallo straniero; lunghezza del suo soggiorno sul territorio nazionale; tempo trascorso dalla commissione del reato (considerando anche la condotta tenuta dallo straniero in tale frangente temporale); nazionalità delle persone coinvolte; situazione familiare dello straniero che dovrebbe essere allontanato (considerando le ripercussioni sul coniuge e sui figli, se ve ne siano, anche in considerazione delle difficoltà che costoro incontrerebbero nel Paese di allontanamento dello straniero).
I richiamati criteri, atti a orientare le decisioni dell’amministrazione, presuppongono la conoscenza e la valutazione ad ampio raggio della situazione individuale dello straniero colpito dal provvedimento restrittivo, rifuggendo dal meccanismo automatico tipico delle presunzioni assolute.
*Un estratto di questo articolo è stato pubblicato sabato 6 maggio 2023 da Il Manifesto
FATTI E MISFATTI
#Torino. La Prefettura ha iniziato a revocare l’accoglienza a decine di richiedenti asilo accolti nei #CAS. Le persone vengono cacciate con non più di 24 ore di preavviso.
Mercoledì 17 maggio un presidio di protesta alle 15.30 in Piazza Castello https://meltingpot.org/2023/05/torino
Valenti, raddoppieremo posti hotspot in Sicilia e Calabria
Commissario emergenza migranti, “almeno un migliaio in più”
(ANSA) – ROMA, 16 MAG – “Il nostro obiettivo è di raddoppiare in Sicilia e in Calabria i posti per i migranti degli hotspot.
Almeno un migliaio di posti in più”.
Lo ha detto il commissario dell’emergenza migranti, il prefetto Valerio Valenti, nel corso della conferenza stampa per illustrare la gestione dell’hotspot di Lampedusa da parte della Croce Rossa. (ANSA).
GIORNALE DI SICILIA 16 MAGGIO 2023
Mille posti in più negli hotspot in Sicilia e Calabria: ecco il protocollo con la Croce Rossa
…“I nuovi mille posti verranno reperiti in una decina di strutture a Vizzini, Pozzallo, Catania, Messina, Caltanissetta e Trapani – con l’utilizzo di due beni confiscati alla mafia – mentre in Calabria a Vibo, Roccella e Crotone. Potranno essere usate anche strutture della Protezione Civile della Sicilia e della Calabria come alloggi, fari, torri, moduli abitativi, mentre il ministero delle Infrastrutture si occuperà di intensificare i trasporti con navi, traghetti e aerei”…
Migranti: Valenti, aree negli hotspot dedicate ai rimpatri
(ANSA) – ROMA, 16 MAG – “La norma prevede che i fondi possono essere utilizzati non solo per realizzare i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma anche per realizzare le strutture di trattenimento finalizzate ai rimpatri all”interno degli hotspot che è uno degli impegni prioritari del Governo. Chi ha titolo a rimanere deve avere accoglienza, però chi non ha titolo deve essere rimpatriato, quindi coloro che provengono dai cosiddetti Paesi sicuri, tra cui c”è la Tunisia e la Costa d”Avorio. Oggi la maggior parte dei migranti arrivano dalla Costa d”Avorio e nei confronti di questi immigrati puntiamo a mettere in campo le procedure accelerate di frontiera. Negli stessi hotspot realizzeremo delle aree destinate a questi migranti poichè in quattro settimane bisogna chiudere le procedure accelerate di frontiera”. Lo ha annunciato il prefetto Valerio Valenti, commissario all”emergenza migranti a margine della conferenza stampa sull”affidamento della gestione dell”hotspot di Lampedusa alla Croce Rossa Italia.
“Al momento le aree non saranno realizzate a Lampedusa, dove la situazione è già complicata – ha spiegato – ma partiremo dalla Calabria e dalla Sicilia”. (ANSA).
2023-05-16 15:22
IL SOLE 24 ORE
Migranti, Valenti: “Governo impegnato, rimpatri si devono fare”
16 maggio 2023
(LaPresse) Il prefetto Valerio Valenti, commissario all’Emergenza migranti, è intervenuto nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’accordo di collaborazione con Croce Rossa Italiana per la gestione del sistema di accoglienza. “Il governo è fortemente impegnato sul tema dei rimpatri. Confidiamo sul fatto che i rimpatri si possano e si debbano fare. Chi non ha titolo a restare deve ritornare nel Paese di provenienza, dopo ovviamente le procedure legalmente esperite”, ha dichiarato Valenti. “Siamo inoltre al lavoro per attrezzare al meglio l’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale, implementandone così la capacità e i tempi di risposta”, ha aggiunto il commissario, annunciando inoltre che all’interno degli hotspot italiani “ci saranno degli spazi dedicati alle procedure accelerate di frontiera” perché “oltre che sul fronte dell’accoglienza, bisognerà anche organizzarsi per le procedure di rimpatrio”.
Corriere della Calabria
Mercoledì 17 maggio 2023
Gestione dei migranti, negli hotspot di Vibo, Roccella e Crotone i nuovi posti
Il commissario Valenti ha individuato i centri che saranno potenziati: «Puntiamo a migliorare l’accoglienza offerta dalle strutture»
ANSA
Mercoledì 17 maggio
Migranti: Valenti, si va verso un hotspot anche in Fvg
‘Regione è assimilabile per impatto flussi a Sicilia e Calabria’
U N H C R
18 maggio 2023
L’UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, ha condiviso oggi in un documento tecnico le proprie osservazioni sulle disposizioni in materia di asilo contenute nella Legge 5 maggio 2023 n. 50, recante disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.
Il documento è disponibile qui.
Legge 5 maggio 2023, n. 50 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 10 marzo
2023, n. 20, recante disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori
stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare
Nota tecnica dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
L’Ufficio delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, nello spirito di costante e fattiva collaborazione con le autorità italiane, con la presente nota intende condividere alcuni commenti e raccomandazioni in merito alle disposizioni in materia di asilo contenute nella Legge 5 maggio 2023, n. 50, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20, recante disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.
Le raccomandazioni dell’UNHCR sono elaborate sulla base del mandato conferito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di protezione internazionale dei rifugiati, e delle altre persone sotto la propria responsabilità, e di assistenza ai Governi nella ricerca di soluzioni durevoli. Come stabilito nel proprio Statuto, l’UNHCR adempie il proprio mandato, inter alia, “promuovendo la firma e la ratifica delle convenzioni internazionali per la protezione dei rifugiati, supervisionando la loro applicazione e proponendo le modifiche ad esse relative”. Inoltre, in base all’art. 35 della Convenzione di Ginevra, il quale reitera la responsabilità di supervisione dell’Alto Commissariato, gli Stati parte si impegnano a “cooperare con l’UNHCR ed in particolare a facilitare il suo compito di sorveglianza dell’applicazione delle disposizioni della presente Convenzione”. Lo stesso impegno è
previsto dall’Articolo II del Protocollo del 1967 relativo allo Status di Rifugiato.
(segue)
Per il documento integrale vedi qui
AVVENIRE
Migranti. Interrogazione a Piantedosi sulle raccomandazioni dell’Acnur
Vincenzo R. Spagnolo
giovedì 18 maggio 2023
Dopo la pubblicazione su Avvenire della “nota” in cui l’organismo Onu segnala al governo le “criticità” della legge Cutro, il deputato di Avs Zaratti chiede al ministro di riferire in Parlamento.
Fulvio Vassallo Paleologo
Stato di emergenza immigrazione: prove di democrazia autoritaria
26 Luglio 2008