di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. Il processo penale come strumento di gestione dei controlli migratori. – 2. Il caso Cap Anamur nel 2004, esito del fallimento della trattativa politica. – 3. Il caso dei pescatori tunisini nel 2007, dissusione dei salvataggi ed omissione di soccorso. – 4. Il caso Iuventa nel 2017, dal “codice di condotta” per le ONG alle intercettazioni di massa . – 5. Il caso Libra: dalla “strage dei bambini” nel 2013 alla sentenza del Tribunale di Roma nel 2022. – 6. Il caso Open Arms nel 2018, archiviazioni e trasferimento delle indagini da Catania a Ragusa: fine processo mai? . – 7. Il caso Sea Watch nel 2019: dall’arresto a Lampedusa all’archiviazione per Carola Rackete: oggetto di una rimozione collettiva.- 8. Il caso Mare Ionio/Maersk nel 2020: oh Malta, oh Malta !. – 9. Dal processo penale ai fermi amministrativi; l’intervento della Corte di Giustizia UE (2019-2022), nessun responsabile – 10 Processo penale e rifiuto di sbarco. Il caso Open Arms nel 2019, un ministro a processo – 11 Naufraghi o dirottatori? Il caso Vos Thalassa nel 2018 davanti alla Corte di Cassazione: la Libia non è un paese terzo sicuro. -12. I divieti di sosta in porto e gli “sbarchi selettivi” della direttiva “Piantedosi” nel novembre del 2022: l’intervento correttivo del Tribunale di Catania. – 13. Il Decreto legge n. 1 del 2023 contro le ONG e i riflessi sul piano penale e amministrativo: ancora fermi amministrativi ? – 14. Il Decreto legge (Cutro) n. 20 del 2023 e l’inasprimento delle sanzioni contro gli scafisti: cosa cambia per il soccorso civile in mare.

8. Il caso Mare Ionio/Maersk nel 2020: oh Malta, oh Malta !
8.1 Un trasbordo che non si doveva fare. Una nave place of safety a tempo indeterminato?
Il caso riguarda il trasbordo sul rimorchiatore Mare Ionio di Migranti avvenuto l’11 settembre 2020 dalla nave mercantile Maersk Etienne tenuta in alto mare a sud di Malta, senza l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro, per oltre 38 giorni, con 27 persone a bordo. Il trasbordo, secondo la Procura di Ragusa, sarebbe avvenuto senza una preventiva autorizzazione delle autorità e in base ad un presunto accordo commerciale preventivo tra la compagnia danese e quella triestina, la Idra Social Shipping, proprietaria del rimrchiatore Mare Ionio, nei confronti della quale sarebbe stato effettuato un pagamento per la somma di 125.000 euro. Quella che era una donazione successiva all’epoca dei fatti è stata scambiata per un compenso pattuito in base ad un accordo anteriore al trasbordo ed allo sbarco dei naufraghi.
Vengono così contestati il reato di agevolazione aggravata dell’ingresso di “clandestini” e non meglio precisate violazioni del Codice della navigazione. Il tempo darà ragione a chi ha salvato vite umane, persone respinte da tutti gli Stati per oltre un mese e poi fatte sbarcare in Italia su ordine del Viminale per una incombente emergenza sanitaria.
Nessuno ricorda che, dopo un mese e oltre di blocco in alto mare sulla nave Maersk Etienne, alcuni naufraghi si erano gettati in acqua e altri minacciavano di farlo perché nessuno Stato e nessuna autorità marittima avevano indicato un porto sicuro di sbarco come imposto dalle Convenzioni internazionali. Forse le autorità statali volevano fare pagare alla compagnia di navigazione la decisione di fare puntare la loro nave su Malta, che però sembrava avere assunto il coordinamento iniziale delle attività SAR (ricerca e salvataggio), anche se poi rifiutava la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Forse si voleva punire la scelta del comandante della Maersk Etienne di non sbarcare i naufraghi in un porto africano, o una disobbedienza all’ordine implicito di riportare indietro i naufraghi, un ordine implicito contenuto anche nella richiesta di rivolgersi alla sedicente Guardia costiera “libica”. Non mancano i casi di navi commerciali che sono state costrette ad eseguire un respingimento collettivo, e nel caso del rimorcjiatore ASSO 28 un tribunale italiano ha affermato la responsabilità del comandante per un respingimento collettivo in Libia.. Di certo la vicenda Maersk Ethienne/Mare Ionio doveva servire come ammonimento per tutte le navi commerciali che incrociavano barconi carichi di migranti sulle rotte del Mediterraneo centrale. E in effetti sono numerose le testimonianze di naufraghi che da allora hanno visto sfilare, proseguendo sulla loro rotta, grandi navi che non si sono fermate per prestare soccorsi. E ancora nel 2023 diverse navi commerciali sono state abbandonate al coordinamento operativo delle autorità libiche, con la conseguenza che eventi di soccorso si sono rapidamente trasformati in respingimenti collettivi, come da ultimo nel caso della petroliera GRIMSTAD. La nota della Guardia costiera che esclude di avere ordinato alla nave di dirigere verso un porto libico non esclude, anzi ammette, di avere comunicato al comandante della nave di contattare le autorità libiche perchè competenti.
8.2 Le conseguenze del caso Maersk Ethienne
Toccherà ad altri accertare elementi soggettivi, fatti e nessi causali dell’azione di soccorso operata dalla nave Mare Jonio nel settembre del 2020, ma i risultati politici della nuova inchiesta aperta dalla Procura di Ragusa, che già aveva fatto ricorso contro il non luogo a procedere stabilito dal Tribunale di Ragusa sul caso Open Arms (marzo 2018), sono già sotto gli occhi di tutti. Nella maggior parte dei canali di comunicazione si è rilanciata una complessiva criminalizzazione degli interventi di soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. E le navi commerciali cercano di evitare in tutti i modi di restare coinvolte in eventi di ricerca e soccorso in acque internazionali. Ma per valutare quanto effettivamente successo durante i 40 giorni di blocco dei naufraghi soccorsi dalla Maersk Etienne occorre valutare i fatti e le condizioni estreme nelle quali erano stati ridotte 27 persone abbandonate su una nave portacontainer che veniva “rifiutata” tanto a lungo dai porti maltesi ed italiani. Non erano bastati a garantire lo sbarco in un porto sicuro neppure gli appelli dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) e le denunce di Amnesty International che documentavano come Malta negasse sistematicamente l’adempimento dei doveri di soccorso e sbarco stabiliti dalle Convenzioni internazionali.
In realtà la Mare Jonio aveva trasbordato e condotto i naufraghi nel porto di Pozzallo con l’autorizzazione del governo italiano, come riferito anche dalla stampa maltese, e sotto il coordinamento della Centrale di comando della Guardia costiera italiana (IMRCC). Successivamente quella azione di soccorso è stata considerata come agevolazione dell’immigrazione “clandestina” (art.12 del Testo Unico n.286/98) perché si sarebbe scoperto un trasferimento di denaro, ma in realtà si trattava di una donazione, tra le due società armatrici della Mare Ionio e della Maersk Etienne. Questa circostanza, ancora contestata, non incide comunque sulle regole di diritto internazionale e di diritto interno che disciplinano l’obbligo degli Stati di garantire la indicazione di un porto di sbarco sicuro. La nave soccorritrice non può costituire un Place of safety a tempo indeterminato, tutte le Convenzioni internazionali impongono lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto sicuro, e dopo decine di giorni di stand by con i naufraghi a bordo la situazione sulla Maersk Ethienne, nella totale inerzia delle autorità italiane e maltesi, era diventata tale da configurare uno stato di necessità per lo sbarco immediato. In quella occasione era mancata del tutto la collaborazione prevista dalle Convenzioni internazionali tra Stati costieri titolari da aree SAR limitrofe, sia in termini di coordinamento dei soccorsi che di assegnazione di un porto di sbarco sicuro, e il completamento delle operazioni di salvataggio con l’intervento del rimorchiatore Mare Ionio andava considerato alla stessa stregua dei trasbordi che caratterizzavano i soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale fino all’adozione del cd. Codice di condotta Minniti ( luglio 2017).
Il processo penale non può essere considerato come uno strumento di politica migratoria e le regole di soccorso stabilite dal diritto internazionale vanno rispettate dagli Stati che devono coordinare tempestivamente tutte le operazioni SAR di cui vengono a conoscenza, anche al di fuori delle aree di loro competenza, in modo da riportare le loro unità di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali e rispettare gli obblighi derivanti dalle Convenzioni di diritto del mare ( UNCLOS, SAR e SOLAS), oltre che le norme interne, come, nel caso dell’Italia, il recente regolamento sui soccorsi in mare (SAR) adottato come Piano SAR nazionale 2020 dal precedente ministro delle infrastrutture (De Micheli) il 4 febbraio 2021.
8.3 La sistematica omissione di soccorso da parte delle autorità maltesi
Il governo maltese conferma intanto la sua linea di non intervento ed addirittura è arrivato al punto di commettere una evidente omissione di soccorso, ordinando ad una nave commerciale in navigazione in acque internazionali, nella zona SAR di competenza maltese, di non procedere ad un soccorso che sarebbe stato imposto dalle Convenzioni internazionali. Malta non ha ancora ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo del 2004 che impone allo Stato titolare della zona SAR di concedere un porto di sbarco alle persone soccorse in quell’area, quale che sia la nave, militare o civile che opera i salvataggi. E’ quindi inutile che il governo italiano continui a tirare in ballo la competenza di Malta per la indicazione di un porto di sbarco sicuro, soprattutto dopo che il Tribunale di Roma ha riconosciuto la responsabilità delle principali autorità marittime italiane, nel caso Libra, per il mancato coordinamento tra queste autorità e quelle maltesi, che produsse poi ritardi fatali nei soccorsi e centinaia di vittime, in occasione della strage dell’11 ottobre 2013.
Secondo la Convenzione di Amburgo SAR del 1979, e l’Allegato che ne costituisce parte integrante, «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Il raggiungimento del porto di sbarco “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”, come stabilisce il paragrafo 3.1.9 dell’allegato alla Convenzione SAR del 1979 non è soltanto nell’interesse del comandante e dell’armatore della nave che deve raggiungere un porto come destinazione commerciale e non si può permettere deviazioni che lo facciano ritardare rispetto al raggiungimento del porto di destinazione.
Le autorità maltesi (e quelle italiane) non possono giocare attorno all’esclusione di una situazione di distress, rianciandosi a vicenda le responsabilità di intervento, soprattutto considerando che vi sono vasti spazi di acque internazionali che ricadono nelle due zone SAR “sovrapposte” tra Italia e Malta. Le stesse zone nelle quali si verificano spesso naufragi mortali. In base alla Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) «[…] ricorre una situazione di distress quando vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza»
L’allegato alla Convenzione di Amburgo (SAR), al par. 2.1.9, prevede che «[o]n receiving information that a person is in distress at sea in an area within which a Party provides for the overall co-ordination of search and rescue operations, the responsible authorities of that Party shall take urgent steps to provide the most appropriate assistance available». Se ricorre una situazione di distress in alto mare il comandante di qualsiasi nave, è dunque obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle competenti autorità marittime o politiche. Non si può ordinare ad un comandante che possa intervenire in una situazione di distress di “attendere istruzioni” o “di rivolgersi” ad un’altra autorità SAR competente. Gli interventi per salvare vite umane devono essere immediati e non sono dilazionabili per direttive politiche o per ordini militari.
La stessa Risoluzione IMO MSC 167/78 del 2004, che Malta non ha sottoscritto, individua altresì il principio del Centro di coordinamento di «primo contatto» stabilendo che (punto 6.7) «Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio, poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità». Lo stesso principio è ribadito dal paragrafo 3.6.1 del Manuale IAMSAR, Vol. 1, dove si prevede che un RCC (Rescue Coordination Center) dopo la ricezione di una chiamata di soccorso, diventa responsabile nella gestione delle relative operazioni SAR, fino a quando altra autorità competente non assuma il coordinamento. Ed è poi lo Stato che assume il coordinamento che, in base alle stesse Convenzioni internazionali, deve garantire lo sbarco in un place of safety (POS).
8.4 Un precedente importante di abbandono in mare: il caso della strage di Pasquetta 2020
Un rapporto diffuso da Alarm phone squarcia il velo di omertà e di disinformazione che ha nascosto le responsabilità dell’operazione di pushback (respingimento) verso la Libia posta in essere nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 aprile 2020, con il concorso delle autorità italiane, maltesi, libiche ed europee (della agenzia per il controllo delle frontiere esterne Frontex).
Una responsabilità tanto più grave in quanto non si è verificato soltanto un respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali verso un paese che secondo le Nazioni Unite non può definirsi sicuro, che non offre place of safety (POS), ma dodici persone hanno perso la vita, cinque prima, per i ritardi nell’azione di soccorso, poi altre sette nelle fasi concitate del trasbordo nella notte, mentre il mare era in tempesta, con onde alte più di due metri ed un vento che soffiava a 25-30 nodi.
Nella notte tra il 13 ed il 14 aprile 2020, 30 miglia a sud di Lampedusa era stata avviata una attività SAR (Search and rescue) mirata ad un target preciso, sembrerebbe su un tardivo impulso delle autorità maltesi, ma con la partecipazione delle autorità di coordinamento marittimo italiane. Che tuttavia non avevano fatto uscire alcuna motovedetta da Lampedusa, limitandosi ad inviare un elicottero, per delegare poi il primo intervento di soccorso ad una grossa nave commerciale la Ro-Ro Ivan che operava sulla linea Khoms- Genova. Intervenivano successivamente su ordine delle autorità maltesi due mezzi, tra cui uno il Maria Christiana, definito come “peschereccio”, ma che sembrava piuttosto una piccola nave destinata a scopi ben diversi dalla pesca e privo di segni di identificazione e di nominativo IMO internazionale. E’ rimasta misteriosa la natura e la nazionalità del secondo mezzo navale coordinato dai maltesi che sarebbe intervenuto nell’operazione di soccorso. Si trattava forse di una motovedetta militare maltese?
L’impegno della nave di bandiera portoghese durava solo qualche ora, perché non appena sopraggiungeva il “peschereccio” maltese Maria Christiana, verso le 4 di martedì mattina, si verificava il trasbordo dei naufraghi sul mezzo più piccolo e quindi la morte di alcuni migranti che tentavano di raggiungere la nave più grande che si allontanava in direzione della Sicilia. Sarebbe stata importante la testimonianza del comandante della nave portoghese Ivan ma non sembra che le autorità portuali di Genova, all’arrivo della nave in porto, giovedì 16 aprile, lo abbiano sottoposto ad una qualche indagine, e la nave è ripartita subito per un altro viaggio. Anche se in prossimità, e forse a vista della nave, avevano perso la vita alcune persone, poco prima che sopraggiungesse in soccorso il “peschereccio” maltese inviato dalle autorità di La Valletta.
Si deve aggiungere, come risulta dal report di Alarmphone, che le autorità italiane, come quelle maltesi, erano state allertate da giorni dell’esistenza di questo barcone in difficoltà, e che lo stesso era stato localizzato nel Canale di Sicilia con almeno 24 ore di anticipo rispetto al momento del tragico trasbordo nel corso del quale alcuni naufraghi annegavano. Se, come avveniva fino al 2017, da Lampedusa fossero uscite le motovedette veloci della Guardia costiera classe 300 o la motovedetta della Guardia di finanza ferme in porto per tutta la notte tra il 13 ed il 14 aprile scorso, avrebbero potuto soccorrere tutti i naufraghi già nella giornata del 13, anche prima che il mare si ingrossasse. L’impegno italiano si è limitato all’invio di un aereo e poi nella notte di un elicottero. Che cosa ha visto questo elicottero e che ruolo ha avuto nell’attività SAR a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, che ha portato al respingimento collettivo in Libia ed alla morte di alcuni naufraghi?
Evidentemente da parte delle autorità maltesi ed italiane si voleva che l’operazione si concludesse con il coinvolgimento dei libici ed il respingimento collettivo da parte dei naufraghi, come poi si è verificato. Si è utilizzato a questo fine il “peschereccio” maltese Maria Christiana, un mezzo non tracciato dai sistemi satellitari come Marine Traffic, che registra le rotte di tutti i veri pescherecci, un mezzo di natura alquanto sospetta, privo di segni di identificazione, che li ha poi riportati nel porto militare di Tripoli, in violazione di tutte le Convenzioni internazionali e delle Raccomandazioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa. “Nessuno può essere riportato in Libia mentre si trova in acque internazionali”, ha dichiarato Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato per i diritti dei rifugiati. “Non è la prima volta che accade: anche nell’altro episodio a coordinare il soccorso è stata Malta”. Sulla pagina Twitter di Unhcr Lybia si vede una foto del “peschereccio” maltese Maria Christiana fermo in banchina a Tripoli. Un peschereccio che assomiglia più ad una motovedetta che ha un mezzo da pesca, quasi del tutto privo dell’armamento che caratterizza i veri pescherecci.
E’ indubbio che si sia trattato di un respingimento collettivo, e le autorità de La Valletta se ne sono assunte le responsabilità, in quanto i massimi vertici politici maltesi se ne sono attribuiti il “merito”.I naufraghi sono stati riportati indietro da uno misterioso peschereccio maltese, privo di segni di riconoscimento e di nominativo internazionale, il Maria Christiana, che dopo essere stato ormeggiato nel porto de La Valletta, ha operato in acque internazionali con una vera e propria intercettazione, più che con un soccorso, e quindi è entrato nel porto di Tripoli riconsegnando direttamente i sopravvissuti alla Guardia costiera libica. Sopravvissuti che, malgrado l’intervento di prima assistenza in banchina di rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM, sono poi finiti rinchiusi nel famigerato campo di detenzione di Al Sikka, a Tripoli, per subire altri abusi, e dove sono stati abbandonati ai trafficanti. Se un dubbio si può sollevare sull’ingresso del “peschereccio” maltese nel porto militare di Abu Sittah riguarda il ruolo avuto nell’operazione di pushback dalla nave della Marina militare italiana Gorgona, presente a Tripoli per l’operazione Nauras. Sembra che la nave si sia dovuta allontanare dal porto per gli intensi bombardamenti in corso su Tripoli in quella città, ma erano mesi che la città veniva bombardata, e appare singolare che la nave sia rientrata in porto quasi “di scorta”, di poppa al peschereccio maltese. Che aveva recuperato i naufraghi nella notte a 30-40 miglia a sud di Lampedusa, nella zona SAR (ricerca e salvataggio) ancora controversa tra Italia e Malta, dopo il temporaneo rallentamento di una grossa nave cargo, la IVAN, che dopo qualche ora veniva fatta proseguire., evidentemente su precise istruzioni delle autorità marittime di coordinamento.
Questa vicenda appare esemplare perché svela la natura ingannevole della tesi ricorrente in molti procedimenti penali in materia di soccorsi in mare, secondo cui le navi delle ONG commetterebbero un illecito rivolgendosi alle autorità italiane per la indicazione di un porto di sbarco sicuro, anche se i soccorsi sono stati operati nelle acque internazionali ricadenti nella vastissima zona di ricerca e salvataggio che le autorità maltesi si sono attribuite da tempo. Come aveva già sostenuto il Tribunale di Agrigento nella sentenza Cap Anamur, il comandante della nave che riceve un rifiuto dalle autorità maltesi e che è a conoscenza della risposta generalmente negativa fornita da MRCC Malta alle richieste di indicazione di un porto sicuro di sbarco, correttamente si può, anzi deve, rivolgersi alle autorità italiane, che a differenza di quelle maltesi, sono vincolate a garantire il POS avendo ratificato gli emendamentidel 2014 alle Convenzioni SAR e SOLAS, sulla portata del concetto di Place of safety, che Malta non ha mai sottoscritto.
9. Dal processo penale ai fermi amministrativi : l’intervento della Corte di Giustizia UE (2019-2022). –
9.1. Una sentenza annunciata
Dopo la decisione della Corte di Cassazione che all’inizio del 2020 stabiliva la legittimità dellle attività di soccorso della Sea Watch nel caso Rackete, con il nuovo governo Conte 2 e con la nuova ministro dell’interno Lamorgese, la linea di attacco nei confronti dei soccorsi operati dalle ONG, che comunque si riteneva ancora di contrastare perchè ritenute responsabili degli sbarchi nel nostro paese, e soprattutto del mancato coinvolgimento dei paesi di bandiera, si spostava sul fronte delle misure amministrative di fermo. Misure adottate sulla base di una Direttiva dell’Unione europea e della normativa nazionale derivata, in occasione dei controlli nei porti di arrivo (PSC) operati da squadre di ispettori del Corpo delle Capitanerie di Porto. Una svolta che dimostrava subito la sua efficacia, dal punto di vista del ministero dell’interno, perchè mentre i giudici penali archiviavano i procdimenti contro le ONG e dissequestravano le navi umanitarie, i provvedimenti di fermo amministrativo adottati dale Capitanerie di porto portavano dal 2020 al 2021 al blocco contemporaneo di buona parte delle navi del soccorso civile.
A partire dal 2020 la misura del fermo amministrativo è diventata così lo strumento ordinario di contrasto delle attività di ricerca e soccorso che le navi delle ONG tentano ancora di operare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Tra il 9 ottobre e il 31 dicembre 2020 ben sei navi delle ONG risultavano bloccate in porto per effetto di provvedimenti di fermo amministrativo (Sea Watch 3, Sea Watch 4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel). Le informazioni su questi casi sono state sempre molto frammentarie. Ancora nel corso del 2021 le misure di fermo amministrativo avevano colpito in modo sistematico le navi delle ONG dopo l’ingresso in porto e lo sbarco dei naufraghi. A gennaio del 2021, la Ocean Viking di Sos Mediterranee veniva bloccata da un fermo amministrativo nel porto di Trapani. In questo caso gli ispettori rilevavano carenze nella “gestione della sicurezza” a bordo utilizzando il rilievo di alcune irregolarità nell’impianto elettrico e nello stoccaggio dei liquidi infiammabili a bordo.
Soltanto la ONG Sea Watch proponeva due ricorsi davanti ai Tribunali amministrativi, ottenendo un provvedimento cautelare di sospensione del fermo amministrativo, con rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e successivamente, dopo il ricorso dell’Avvocatura dello Stato, una pronuncia che confermava lo stesso fermo amministrativo da parte del Consiglio di Giustizia amministrativa (CGA) della Regione Sicilia.
Come avevamo immediatamente proposto già nel 2020, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (casi C-14/21 e C-15/21) dopo il parere dell’Avvocato generale, ha individuato limiti ben precisi all’utilizzo dei fermi amministrativi disposti dale autorità italiane, sulla base di una applicazione distorta della Direttiva 2009/16/CE. a carico delle navi delle ONG, impegnate nelle attività di soccorso in mare Dopo i provvedimenti illegittimi di chiusura dei porti adottati da Salvini quando occupava il Viminale,la gestione del ministro dell’interno Lamorgese, era caratterizzata proprio per l’adozione sistematica di provvedimenti di fermo amministrativo delle navi civili che operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale. Con l’evidente scopo di dissuadere e di criminalizzare i soccorsi umanitari in acque internazionali, in modo da lasciare spazio libero per gli interventi di sequestro in alto mare, spacciati per “soccorsi”, operati dalle unità della sedicente Guardia costiera libica, sostenuta dalle autorità italiane con finanziamenti e missioni militari in Libia.
9.2 L’acquiescenza di alcune ONG rispetto alla prassi dei fermi amministrativi
La Ong Sos Mediterranee con una nota replicava alle autorità marittime italiane: “Dopo il fermo della Ocean Viking nel luglio 2020, SOS MEDITERRANEE, in collaborazione con l’armatore della nave e delle autorità dello Stato di bandiera – la Norvegia – ha intrapreso sforzi amministrativi e tecnici per soddisfare i nuovi standard di sicurezza richiesti dalle autorità italiane. Nel dicembre 2020, un altro Port State Control – un’ispezione delle navi straniere nei porti nazionali – aveva confermato che tutti i requisiti erano stati soddisfatti, e tutte le carenze rilevate durante l’ispezione di luglio erano state corrette. Da allora, nel corso 2021, l’equipaggio della Ocean Viking ha soccorso e portato in salvo 2.832 persone in 33 operazioni di soccorso”.
Mancavano tuttavia denunce penali o altri ricorsi in sede amministrativa, una via che invece veniva esperita da altre ONG come Sea Watch. Il fronte delle Organizzazioni del soccorso civile si frantumava, e ad ogni provvedimento di fermo amministrativo mancava quella risposta colletiva che c’era stata ed aveva prodotto risultati quando erano stati avviati procedimenti penali con sequestro delle navi ed arresti dei comandanti.
9.3 Le motivazioni della Corte di Giustizi: un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l’ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire proprio da quell’anno, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4. Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021.
Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, e le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative. SEcondo la Corte di Giustizia gli Stati hanno il potere di effettuare controlli nei porti di arrivo ma nei limiti segnati dalla normativa eurounitaria.
Secondo la Corte UE di Lussemburgo, “lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”.
Dopo l’ingresso della nave soccorritrice in porto e lo sbarco dei naufraghi, lo Stato italiano “può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”.
Nel caso delle navi delle ONG il loro fermo amministrativo puà essere dunque disposto non in modo sistematico e con motivazioni “fotocopia”, ma soltanto quando le autorità competenti provino in concreto che la loro navigazione pone seri problemi di sicurezza. Dopo questi principi enunciati dalla Corte di Lussemburgo, che confermavano il precedente, derivante da una sentenza del Tribunale amministrativo di Palermo, da cui era scaturito il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, la pratica dei fermi amministrativi si diradava, fino a interrompersi quasi del tutto nel 2022, salvo un caso isolato nel mese di settembre, pochi giorni prima, guarda caso, delle elezioni politiche.
9.4 La posizione della Giurisprudenza amministrativa siciliana sui fermi amministrativi dopo i controlli nei porti di arrivo
Sarà comunque utile esaminare le motivazioni con cui il Consiglio di Giustizia amministrativa della Rgione Sicilia, su ricorso del Ministro delle infrastrutture del governo Draghi, aveva ribaltato la precedente decisione del Tribunale amministrativo di Palermo che sulla base di argomentazioni analoghe a quelle adesso adottate dai giudici di Lussemburgo, sospendeva due fermi amministrativi adottati nel 2020 dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti di navi della ONG tedesca Sea Watch. Questa decisione del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia spianava la strada ai successivi fermi amministrativi di navi umanitarie; considerate come “navi che svolgono continuativamente attività di soccorso”. Una categoria che non ha rilievo normativo nell’ordinamento italiano, come avrebbero dovuto ammettere le stesse autorità marittime italiane. E invece il carattere “non occasionale” delle attività di ricerca e salvataggio rimane alla base dei provvedimenti adottati dal ministro Piantedosi nel mese di novembre del 2022 nel porto di Catania contro la SOS Huamnity 1 e la Geo Barents di MSF, e del successivo Decreto legge n.1 del 2023 che ha fortemente limititato le attività di ricerca e salvataggio condotte da navi del soccorso civile.
Nella Convenzione SAR di Amburgo del 1979 e nei suoi emendamenti, come nelle altre Convenzioni internazionali di diritto del mare, non si rileva alcun richiamo alla natura continuativa o occasionale delle attività di soccorso che possano incidere sulla certificazione e sui requisiti di sicurezza delle navi, o sulle dotazioni di equipaggio o sui requisiti ambientali, perché queste attività SAR non sono gestite in base a scelte autonome del comandante della nave, ma costituiscono per gli stessi comandanti attività dovute che devono essere coordinate dalle Centrali di coordinamento nazionale (MRCC) informate degli eventi di soccorso. Salvo casi, purtroppo ancora frequenti,nei quali queste stesse Centrali (MRCC) omettano di prestare l’attività di coordinamento loro richiesta dalla legge internazionale e dalla normativa interna.
9.5 La normativa sui controlli nei porti di arrivo.
L’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha adottato nel 2019 la risoluzione A.1138(31) sulle Procedure relative al controllo di Stato d’approdo. Non sono mancati gli aggiornamenti, anche recenti. Le ispezioni devono essere svolte nel rispetto del principio di non discriminazione fra navi straniere, conformemente a quanto indicato anche dall’art. 227 della Convenzione sul diritto del mare. I principi contenuti nel cd. Memorandum d’intesa di Parigi (Paris MoU) e nei suoi più recenti emendamenti si riferiscono alle navi “commerciali” e rimangono al rango di norme di carattere amministrativo che non possono qualificarsi come un trattato o un accordo internazionale e che dunque non possono neppure introdurre nuove categorie normative vincolanti, requisiti specifici di registrazione navale, o derogare le norme vincolanti sui soccorsi in mare stabiliti dalle Convenzioni UNCLOS, SAR e SOLAS, ratificate in Italia con leggi dello Stato. Nell’ambito dei controlli previsti dal Protocollo, le Autorità impiegano tutti possibili sforzi per evitare l’immobilizzazione o il ritardo indebito di una nave. Nessun elemento del Memorandum incide sui diritti riconosciuti dalle disposizioni previste per la compensazione per tempi di inattività o per ritardi indebiti. In tutti i casi di presunta immobilizzazione o di indebito ritardo, il proprietario o l’armatore della nave potrà provare i danni subiti a causa del fermo amministrativo della nave. Il fermo amministrativo di una nave di una ONG, che avrebbe potuto operare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, può dunque configurare un danno grave ed irreparabile, tanto per le ONG coinvolte, costrette a tenere ferme in porto navi dai costi giornalieri comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della loro attività, basata sulla raccolta fondi tra i donatori e sul volontariato, e soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l’Agenzia europea Frontex hanno ritirato i loro assetti navali presenti in passato nelle acque internazionali tra il nord-africa, Malta e la Sicilia.
Nel 2020 l’IMO ha ulteriormente aggiornato i criteri di ispezione delle navi che fanno ingresso in porto, tenendo anche conto della pandemia, con un maggior numero di ispezioni a distanza, ma non sembra che abbia richiamato una categoria specifica di “navi da soccorso” da sottoporre a ispezioni con frequenza maggiore delle altre. Rimane comunque confermato il principio desumibile dalla Convenzione SOLAS e richiamato dall’art.2 della Direttiva 2009/16/CE, secondo cui l’idoneità al servizio per la quale la nave è “destinata” debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata, che potrebbe essere variamente apprezzata da ogni autorità portuale. Non esistono a livello internazionale parametri di classificazione delle navi impiegate in attività di ricerca e salvataggio che permettano di individuare requisiti specifici da verificare in sede di ispezioni portuali (PSC). L’art.94 della Convenzione UNCLOS esclude chiaramente la possibilità che in sede di controllo lo stato di approdo possa riqualificare diversamente una nave già certificata dal proprio Stato di bandiera o ritenere non sufficiente la certificazione rilasciata da questo Stato.
9.6 L’abuso dei controlli nei porti di arrivo (PSC)
In realtà, nelle attività ispettive dei controlli in porto (PSC)nei confronti delle navi delle ONG, e soltanto nei loro confronti, è prevalsa una totale discrezionalità nella valutazione dei requisiti tecnici e della natura della nave sottoposta ai controlli ordinari od occasionali di sicurezza, che in base alle Convenzioni internazionali doveva essere classificata e certificata esclusivamente dalle autorità dello Stato di bandiera, senza che autorità di altri Stati ne potessero operare una diversa classificazione. In questi termini si era espresso anche il Tribunale amministrativo della regione Sicilia- Sezione di Palermo) quando aveva sospeso l’efficacia del provvedimento di fermo amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti della Sea Watch 4, chiarendo che la sicurezza della navigazione è assicurata dallo Stato di bandiera e dal comandante della nave in caso di situazioni che richiedono un intervento di emergenza, sottolineando come – in ogni caso – il trasporto dei naufraghi a bordo è limitato al tempo strettamente necessario al loro sbarco in un luogo sicuro. Come riconosciuto anche dallo stesso Tribunale amministrativo siciliano che, nel caso di un’altra nave più piccola della stessa ONG, la Sea Watch 3, sospendeva la misura del fermo amministrativo, in quanto “la Germania, ossia lo Stato di bandiera, non ha all’interno del proprio ordinamento giuridico alcuna disposizione relativa alla classificazione di navi private svolgenti attività cd. SAR e, quindi, all’individuazione di apposite certificazioni o di specifici requisiti per lo svolgimento di attività cd. SAR da parte di navi private; tanto è vero che, come in precedenza rilevato, il competente organo amministrativo tedesco ha rilasciato a SW3 e trasmesso apposita certificazione in ordine al riconoscimento dell’intervenuto superamento di tutte le criticità indicate da parte della Capitaneria di porto in sede di fermo, con la specificazione di ritenere conformi e adeguate le certificazioni in possesso di SW3“
Dopo le pronunce di diversi tribunali amministrativi, contraddetti soltanto dalla isolata sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, gli stessi principi adottati adesso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea erano stati condivisi dalla Procura di Agrigento, nella richiesta di archiviazione sul caso Mare Jonio. Secondo la richiesta di archiviazione della Procura di Agrigento, “la Mare Jonio non era tenuta a dotarsi di alcuna certificazione SAR poiché non esiste nell’ordinamento italiano alcuna preventiva certificazione diretta alle imbarcazioni civili per lo svolgimento di tale attività”. Una considerazione a cui la Procura aggiunge che non è ammissibile l’idea di stabilire “un numero massimo di naufraghi imbarcabili” durante un’operazione di soccorso. Su qualsiasi direttiva che prevede i controlli nei porti da parte degli Stati (PSC) prevalgono dunque gli obblighi di ricerca e soccorso ribaditi dal Regolamento europeo n.656/2014.
10 Processo penale e rifiuto di sbarco. Il caso Open Arms/Salvini nel 2019
10.1 Il ribaltamento dei ruoli processuali e il ruolo delle parti civili
Si deve purtroppo constatare come la politica della paura e della criminalizzazione delle attività umanitarie di soccorso ed assistenza ai migranti, sia in terra che a mare, oltre a produrre effetti devastanti sull’opinione pubblica, e dunque sul consenso elettorale, malgrado le ricorrenti smentite che provengono dalle aule giudiziarie, con l’archiviazione dei processi contro gli operatori umanitari, ritorni ancora nelle difese dell’ex ministro Salvini sotto processo a Palermo per il caso Open Arms verificatosi, è bene ricordare, nel mese di agosto del 2019. Toccherà alle parti civili ammesse nel processo, fare valere le ragioni delle vittime di politiche che si sono tradotte in una sistematica elusione degli obblighi di ricerca e soccorso in mare stabiliti dalle Convenzioni interazionali, dai Regolamenti europei e dal diritto interno.
Sul processo Salvini a Palermo, videoregistrato da Radio Radicale, si è adesso allungata l’ombra delle vittime della strage di Cutro. In aula erano già risuonate le stesse tesi rilanciate dalle autortà italiane dopo il naufragio del caicco proveniente dalla Turchia. che distinguono gli interventi di soccorso (SAR) dagli interventi di sorveglianza delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). Tesi che si sono adesso riprese, e che si sono ripetute per affermare che il caicco proveniente dalla Turchia si avvicinava alle coste italiane “in buone condizioni di navigabilità“. E “in buone condizioni di navigabilità” sarebbe stato il barchino (o barcone) di dieci metri con 55 persone a bordo soccorso da OIpen Arms il primo agosto del 2019. Come se il soccorso forse stato solo uno strumento per il comandante e la ONG per mettere in crisi di sua iniziativa il sistema dei controlli di frontiera operato dalle autorità italiane, Ma non basta certo questa rilevazione per escludere una situazione di distress ( pericolo grave ed immediato) che imponeva un tempestivo intervento di soccorso, e che avrebbe pure imposto il coordinamento da parte della prima autorità statale che ne avesse avuto notizia, con una adeguata dotazione di mezzi per intervenire e salvare vite umane, in modo da sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (Place of safety- P.O.S.).
Gli obblighi di intervento in caso di distress (pericolo immediato per i naufraghi), stabiliti dalle Convenzioni internazionali non cambiano infatti a seconda della zona SAR nella quale avvengono i salvataggi o della natura della nave soccorritrice, del tipo di attività o di percorso che ha intrapreso o della attività che sta operando, perchè prevale il principio della salvaguardia della vita umana in mare che non ammette discriminazioni a seconda della ubicazione in mare, della tipologia del mezzo che effettua il soccorso, o dello status dei naufraghi, che si trovino all’interno del mare territoriale o in acque internazionali. La ripartizione del mare in zone SAR (Search and rescue) di competenza di singoli Stati, sempre in base alle stesse Convenzioni di diritto del mare e dei relativi emendamenti, non modifica i criteri di valutazione di una situazione di distress a seconda dell’ubicazione dell’imbarcazione da soccorrere, o delle circostanze dell’intervento di soccorso, se interviene un mezzo militare in attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). Le zone SAR notificate dagli Stati all’IMO (Organizzazione matittima internazionale) sono zone di competenza non esclusiva per garantire la salvaguardia della vita umana in mare, non sono zone di giurisdizione nazionale o territoriale, nè tantomeno spazi stabiliti per escludere o rallentare attività di soccorso, quando è in gioco il valore superiore della vita umana in mare. Gli accordi bilaterali tra Stati non possono ridurre gli spazi di applicabilità delle norme e dei criteri di valutazione derivanti dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei, semmai sarebbero doverosi accordi di coordinamento tra gli Stati costieri, al fine di garantire il soccorso immediato dei naufraghi e lo sbarco in un porto sicuro. Le decisioni in materia di ricerca e soccorso in mare non possono essere condizionate in definitiva dall’esigenza di ridurre o gestire i “flussi migratori”, termine che si può applicare nel caso di ingressi con visti legali, ma non nel caso di attività di ricerca e salvataggio in mare. L’esigenza di contrastare l’immigrazione irregolare non deve prevalere sul rispetto della vita umana, del principio di non respingimento, e della dignità della persona.
Il Protocollo addizionale alla Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale stabilisce infatti all’art.16 che “Nell’applicazione del presente Protocollo, ogni Stato Parte prende, compatibimente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo, come riconosciuti ai sensi del diritto internazionale applicabile, in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti”. L’art. 19 dello stesso Protocolli stabilisce poi che: “Clausola di salvaguardia
(1) Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e
responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il
diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in
particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967
relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento.
(2) Le misure di cui al presente Protocollo sono interpretate ed applicate in modo
non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono oggetto delle condotte
di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. L’interpretazione e l’applicazione di tali
misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discri-
minazione.
10.2 Il ruolo delle consulenze di parte : scontro tra ammiragli.
Secondo gli ammiragli scelti come consulenti della difesa di Salvini, acoltati in udienza a Palermo il 24 marzo 2023, il “REGOLAMENTO (UE) N. 656/2014 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 15 maggio 2014 recante norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne, che dichiarano di non prendere in considerazione, non sarebbe vincolante per le autorità degli Stati membri al di fuori delle acque territoriali e delle zone SAR dei paesi dell’Unione Europea. Inoltre, secondo gli stessi ammiragli, protagonisti dell’ultima udienza del processo Salvini a Palermo, nel caso della ricorrenza degli indici di distress (pericolo grave ed immediato) indicati dal Regolamento, che è direttamente vincolante per tutti gli Stati membri, sarebbe sufficiente un attività di “assistenza” e non invece un intervento di soccorso e l’assunzione del coordinamento da parte dell’autorità SAR comunque informata, in assenza del coordinamento dell’autorità SAR competente, in quanto responsabile di una determinata area. La linea di attacco contro Open Arms inventata dalla difesa di Salvini per sviare l’attenzione dei giudici dalle responsabilità dell’ex ministro dell’interno, sui giorni di blocco prima dello sbarco a Lampedusa, imposto alla fine dalla Procura di Agrigento che sequestrava la nave, frana su un cumulo di omissioni e di travisamento delle norme applicabili. Ma sul piano mediatico sembra prevalere la macchia che si lascia sul comportamento dei soccorritori, senza alcun riscontro fattuale, e questo potrebbe influenzare le decisioni del collegio.
10.3 Il sistema gerarchico delle fonti normative sui soccorsi in mare
Ancor meno rilevante nei resoconti dei media il rispetto del principio di legalità e del sistema gerarchico delle fonti normative. Secondo gli articoli 10 e 117 della Costituzione, le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, come le Convenzioni di Diritto marittimo e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati sono vincolanti per le autorità italiane, lo ribadisce la sentenza della Corte di Casazione n.6626 del 2020 sul caso di Carola Rackete. In base all’ordinamento dell’Unione Europea i Regolamenti europei sono direttamente vincolanti per le autorità italiane e prevalgono pure sulle norme di legge interne, ed a maggior ragione sulle scelte discrezionali di un singolo ministro, con la possibilità in caso di contrasto, di un intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Appare pacifico come il Regolamento europeo n.656 del 2014 non disciplini soltanto le attività delle unità Frontex impegnate in operazioni di law enforcement, e sia applicabile anche al di fuori delle frontiere esterne dell’Unione Europea. In questo senso, oltre alla sua espressa formulazione, i richiami che, in recenti provvedimenti adottati dalle autorità italiane proprio per regolamentare le attività delle ONG al di fuori della zona SAR italiana, si fanno ai Regolamenti Frontex, come il n.1624 del 2016, adesso abrogato, ma che richiamava il Regolamento n.656 del 2014 tuttora vigente. Come si può verificare da ultimo nei decreti interministeriali a firma del ministro dell’interno Piantedosi, adottati nei confronti dei comandanti delle navi delle Geo Barents e Humanity One a novembre dello scorso anno, per impedire lo sbarco del “carico residuo” dei naufraghi nel porto di Catania. Decreti che il Tribunale di Catania ha peraltro dichiarato illegittimi, affermando la piena legittimità delle attività di ricerca e salvataggio poste in essere dalle navi della società civile nella cosiddetta zona SAR “libica”e dunque il diritto allo sbarco in un porto sicuro italiano. Una zona SAR che ancora oggi, malgrado il riconoscimento da parte dell’IMO nel 2018, non presenta i requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali, come la presenza di porti di sbarco sicuri ed un coordinamento unificato su scala nazionale (che in Libia non esiste ancora) dei soccorsi (Maritime Rescue Coorination Center– MRCC). Ed anche questo è emerso nel corso dell’udienza del processo Salvini, svolta a Palermo il 24 marzo, quando sono stati sentiti i consulenti delle parti civili, gli Ammiragli Alessandro e Gallinelli.
10.4 Ritorna la distinzione tra eventi di immigrazione irregolare e le attività di ricerca e salvataggio.
Anche nel processo Salvini/Open Arms si è giocato molto sulla confusione tra “eventi di immigrazione irregolare” ed eventi di soccorso (SAR) per dare un fondamento al potere del ministro dell’interno di vietare l’ingresso nelle acque territoriali, oppure soltanto il transito e la sosta, come richiama il Decreto legge 130 del 2020 che per il resto ha mantenuto in vigore il Decreto sicurezza bis n.53 del 2019. Al quale adesso si vorebbe tornare con ulteriori inasprimenti, che codificava i poteri del ministro dell’interno, prima esercitati, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018 sulla base di mere direttive amministrative. La classificazione degli eventi di soccorso in acque internazionali come eventi di immigrazione irregolare, mantenuta con toni più sommessi anche dall‘ex ministro Lamorgese, dunque affidati di fatto ai poteri di veto del Ministro dell’interno, tramite la Centrale di coordinamento (NCC) ubicata presso la Direzione di polizia di frontiera del Viminale, ed alle attività di monitoraggio a distanza da parte della Guardia di finanza, è stata un passaggio fondamentale per vietare lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalle ONG nei porti italiani, ma anche per ritardare in generale gli interventi di salvataggio in acque internazionali, magari per imporre alle stesse ONG stand by prolungati in modo da permettere l’arrivo delle motovedette libiche e la sucecssiva riconduzione dei naufraghi negli stessi luoghi dai quali erano fuggiti. Queste prassi si sono così istituzionalizzate sulla rotta libica, a sud di Lampedusa e Malta, anche per ottenere un effetto dissuasivo delle partenze. Effetto che però non si è verificato, come dimostrano i dati di questi ultimi mesi, mentre sono aumentati esponenzialmente gli sbarchi autonomi a Lampedusa e le partenze di subsahariani dalla Tunisia e dall’Algeria, con un correlato incremento di morti e di dispersi. Che nessuno considera, come se si trattasse di vittime di incidenti stradali. Si ripete il richiamo alla necessità di un intervento dell’Unione Europea, ma si rimane nel solco delle prassi di respingimento delegato alle autorità libiche e di contrasto dei soccorsi umanitari, prassi che hanno isolato l’Italia in Europa per la sua aperta complicità con governi che non rispettano i diritti umani ed omettono i soccorsi in mare.
10.5 La valenza normativa del Regolamento europeo n.656 del 2014
Non sembra affatto possibile escludere che le unità della missione Eunavfor Med Sophia, all’epoca dei fatti relativi alla vicenda Open Arms oggetto del processo in corso a Palermo a carico di Matteo Salvini, si potessero esentare dal rigoroso rispetto dei Regolamenti europei previsti in materia di attività di contrasto dell’immigrazione irregolare alle frontiere marittime esterne. E la stessa considerazione vale per le unità militari italiane impegnate in attività di sorveglianza di frontiera in acque internazionali. L’esistenza di accordi con paesi terzi come la Libia non attenua il rispetto del diritto dell’Unione Europea da parte degli Stati membri. Secondo il Considerando n.5 del Regolamento n.656 del 2014, “La cooperazione con i paesi terzi limitrofi è essenziale per impedire l’attraversamento non autorizzato delle
frontiere, contrastare la criminalità transfrontaliera ed evitare la perdita di vite umane in mare. Conformemente al regolamento (CE) n. 2007/2004 e purché sia garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, l’Agenzia può cooperare con le autorità competenti di paesi terzi, in particolare per quanto riguarda l’analisi del rischio e la formazione, e dovrebbe agevolare la cooperazione operativa tra Stati membri e paesi terzi. Quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio o nelle acque territoriali di tali paesi, gli Stati membri e l’Agenzia dovrebbero osservare norme e standard almeno equivalenti a quelli stabiliti dal diritto dell’Unione”. Quanto affermato riguardo le acque territoriali di paesi terzi vale a maggior ragione nelle acque internazionali rientranti nella zona SAR di un paese terzo, nelle quali gli Stati membri hanno comunque l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita fino al diritto al soccorso ed allo sbarco in un luogo sicuro per presentare una istanza di protezione. La possibilità di cooperare con le autorità di paesi terzi in attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement), o in presunte attività SAR di ricerca e salvataggio, che di fatto si riducono a vere e proprie intercettazioni, talvolta anche con l’uso delle armi, viene meno quando non ci sia la possibilità effettiva di garantire la tutela dei diritti fondamentali.
Infatti, al Considerando n.8 del Regolamento si stabilisce che “Durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi
loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della
convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Secondo la Convenzione SAR di Amburgo del 1879, Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) «[…] una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza»
In base all’art.4 del Regolamento UE n.656 del 2014, (Protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento):
1. Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento. Questa previsione è di grande importanza, perchè oltre a rafforzare il dettato dell’art.33 della Convenzione di Ginevra e degli articoli 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
Secondo l’art. 9 del Regolamento UE n.656 del 2014 “se, nel corso di un’operazione marittima, le unità partecipanti hanno motivo di ritenere di trovarsi di fronte a una fase di incertezza, allarme o pericolo per un natante o qualunque persona a bordo, esse trasmettono tempestivamente tutte le informazioni disponibili al centro di coordinamento del soccorso competente per la regione di ricerca e soccorso in cui si è verificata la situazione e si mettono a disposizione di tale centro di coordinamento del soccorso;
b) le unità partecipanti informano quanto prima il centro internazionale di coordinamento di ogni contatto con il centro di coordinamento del soccorso e di quanto da esse eseguito; La stessa norma, in particolare, prevede che “si considera che un natante o le persone a bordo siano in una fase di pericolo, in particolare:
i) quando sono ricevute informazioni affermative secondo cui una persona o un natante è in pericolo e necessita di assistenza immediata; oppure
ii) quando in seguito a una fase di allarme, ulteriori tentativi falliti di stabilire un contatto con una persona o un natante e più estese richieste d’informazioni senza esito portano a pensare alla probabilità che esista una situazione
di pericolo; oppure
iii) quando sono ricevute informazioni secondo cui l’efficienza operativa del natante è stata compromessa al punto di rendere probabile una situazione di pericolo;
f) per valutare se un natante si trovi in una fase di incertezza, allarme o pericolo, le unità partecipanti tengono in conto, e trasmettono al centro di coordinamento del soccorso competente, tutte le informazioni e osservazioni pertinenti,
anche per quanto riguarda:
i) l’esistenza di una richiesta di assistenza, anche se tale richiesta non è l’unico fattore per determinare l’esistenza di una situazione di pericolo;
ii) la navigabilità del natante e la probabilità che questo non raggiunga la destinazione finale;
iii) il numero di persone a bordo rispetto al tipo di natante e alle condizioni in cui si trova;
iv) la disponibilità di scorte necessarie per raggiungere la costa, quali carburante, acqua e cibo;
v) la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante del natante;
vi) l’esistenza e la funzionalità di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di navigazione e comunicazione;
vii) la presenza a bordo di persone che necessitano di assistenza medica urgente;
viii) la presenza a bordo di persone decedute;
ix) la presenza a bordo di donne in stato di gravidanza o di bambini;
x) le condizioni e previsioni meteorologiche e marine
10.6 La nozione di distress nelle Convenzioni internazionali e nel Piano Sar nazionale
Secondo la Convenzione SAR di Amburgo del 1979, ricorre un caso di distress (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) «[…] quando si verifica una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza». Il termine di “assistenza” è dunque da intendere come intervento immediato con trasbordo dei naufraghi, non soltanto come mero monitoraggio o tracciamento a distanza, come invece sembravano ritenere i consulenti della difesa dell’ex ministro dell’interno. E’ il codice della navigazione che chiarisce come il termine assistenza non significhi monitoraggio a distanza o mera sorveglianza di polizia, ma comporti attività immediate per portare soccorso e mettere in salvo vite umane. L’art. 1158 del Codice della Navigazione, prevede che il comandante di una nave, nazionale o straniera, “che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio” nei casi in cui ne abbia l’obbligo (alla luce di quanto previsto dallo stesso Codice), debba essere punito con la reclusione fino a due anni (la pena sarà invece della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto sia derivata una lesione personale; da tre ad otto se ne sia derivata la morte).
In base al Piano Sar nazionale del 1996, vigente all’epoca dei fatti oggetto del processo di Palermo (2019), ed operante anche in acque internazionali in presenza di unità militari battenti bandiera italiana, come nel caso del sottomarino italiano presente il primo agosto del 2019 sulla scena dei soccorsi operati da Open Arms, “l’eventualità di un sinistro marittimo può configurare tre fasi di emergenza:
- INCERFA (incertezza): si apre un’inchiesta per stabilire lo stato di sicurezza di un’unità di cui non si hanno notizie, cercando di acquisire informazioni e testimonianze
- ALERFA (allarme): si estende l’inchiesta e vengono preallertati i mezzi e i servizi SAR
- DETRESFA (pericolo): scatta l’esecuzione delle operazioni di ricerca e soccorso in mare
10.7 La ricorrenza di un evento di soccorso e le condizioni di navigabilità dei barconi
Da questi requisiti che indicano quando dalla fase di allerta si doveva passare alla fase di distress e dunque ad un immediato intervento di soccorso, si rileva che nel caso del soccorso operato dalla Open Arms il primo agosto del 2019 ricorrevano almeno quattro dei punti elencati dal Regolamento Frontex n.656 del 2014. Si ricava dunque la ininfluenza della circostanza di fatto, approssimativamente riferita da una parte civile, che il barcone presentasse falle a prua tali da comportare un imbarco di acqua, che poteva ben verificarsi a seguito del moto del mezzo, ed in particolare del beccheggio prua-poppa, in quanto il barcone era sovraccarico e con un bordo libero sull’acqua di appena 60 centimetri. Se una motovedetta libica si fosse avvicinata a velocità elevata, magari tagliando di prua la rotta del barcone, come si è verificato in altri casi, il ribaltamento sarebbe stato più che probabile.
La nave Open Arms In occasione dell’evento di soccorso del primo agosto 2019, dopo una nottata passata a lento moto, nella prima mattina di quel giorno, quando si erano determinate le condizioni per l’avvistamento visivo delle imbarcazioni in difficoltà, accelerò per svolgere una legittima attività di ricerca e salvataggio, come imposto dalle Convenzioni internazionali e non per effettuare”consegne concordate”, non si comprende ancora con quali entità ed a quali condizioni. Come continua ad insinuare la difesa di Salvini senza alcun riscontro, ma solo per sviare l’attenzione dei giudici dai capi di imputazione per sequestro e abuso contestati dell’imputato che, malgrado la sospensiva del Tar Lazio del 14 agosto, con i decreti “sparati” dal Viminale impediva lo sbarco a terra dei naufraghi, dal 14 al 19 agosto 2019, quando questi si trovavano già da giorni davanti Lampedusa, in acque italiane. Dopo attività di ricerca e salvataggio (SAR) operate correttamente e doverosamente da Open Arms In acque internazionali, almeno secondo la Convenzione Unclos (Onu) che la Libia non ha mai ratificato, come non è mai riuscita ad attivare una Centrale unificata di coordinamento dei soccorsi a livello nazionale. Tanto che ancora oggi in Libia esistono diverse guardie costiere facenti capo alle milizie locali e non direttamente al governo provvisorio di Tripoli. Per non parlare delle collusioni dei vertici di queste guardie costiere con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico.
10.8 I poteri del ministro dell’interno nel divieto di ingresso nelle acque territoriali
L’ex ministro dell’interno, ed oggi titolare del ministero delle infrastrutture, non aveva alcun potere di vietare l’ingresso e lo sbarco a terra dei naufraghi soccorsi dalla Open Armsi, in base all’art.19 comma 2 della Convenzione UNCLOS, perchè lo sbarco a terra, che in quell’occasione si verificò solo il 20 agosto a seguito dell’intervento e del sequestro operato dalla Procura di Agrigento, costituiva effetto del passaggio inoffensivo di una nave che trasportava naufraghi, e non clandestini o pericolosi terroristi, come pure si era insinuato in quei giorni. Le attività di soccorso operate dalla Open Arms nella zona SAR libica si erano svolte infatti secondo i criteri di assoluta professionalità, come hanno dovuto riconoscere i periti sentiti dal Tribunale di Palermo, e seguendo le regole operative stabilite dalle Convenzioni internazionali (per le quali si rinvia al Manuale IAMSAR ed al Piano SAR nazionale del 1996, allora vigente) e le prescrizioni dei Regolamenti europei sulla sorveglianza alle frontiere marittime esterne dell’Unione. In ogni caso il comandante della nave umanitaria, in base all’art. 98 della stessa Convenzione UNCLOS, doveva procedere con la massima velocità al soccorso dei naufraghi, non solo per il rischio che sopraggiungesse una motovedetta libica che avrebbe riportato i naufraghi in un paese che non poteva garantire porti sicuri di sbarco, ma perchè nel lasso di tempo di oltre due ore, dall’avvio del trasbordo all’arrivo della motovedetta, si sarebbero potuti verificare eventi tragici, qualora il barcone si fosse ribaltato,al sopravvenire della motovedeta Fezzan, o qualche naufrago si fosse gettato in mare, magari per evitare di essere ripreso dai libici, come si era verificato in simili occasioni precedenti. Tutti dovrebbero ricordare le conseguenze mortali di un analogo intervento di una motovedeta libica il 6 novembre 2017 mentre era in corso il salvataggio di naufraghi da parte della nave umanitaria Sea Watch.
10.9 Per quanto tempo ancora un processo penale a parti invertite ?
A Palermo si può davvero parlare di un processo capovolto. Basta ascoltare le registrazioni audio delle udienze su Radio radicale.. La difesa di Salvini, subito sostenuta dai media più vicini, ha cercato di giustificare il rifiuto arbitrario nella indicazione del porto di sbarco e il prolungato trattenimento a bordo di Open Arms in acque nazionali, contestando le attività di ricerca e soccorso svolte al tempo dei fatti, nell’agosto del 2019, dalla nave umanitaria in acque internazionali. Da ultimo la difesa ha chiesto di utilizzare addirittura un filmato dei primi soccorsi in acque internazionali girato da un misterioso sommergibile italiano, spuntato fuori durante l’audizione del Capo dipartimento del ministero dell’interno Mancini, su circostanze del tutto ininfluenti sull’accertamento delle responsabilità dell’imputato, che aveva negato la indicazione di un porto di sbarco sicuro in contrasto con quanto previsto dal Diritto internazionale. Sembra svanire nel corso delle udienze dibattimentali quello che costituisce il principale capo di imputazione a carico dell’imputato, il senatore Salvini, che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e sequestro di persona. Un reato che, nella prospettazione dell’accusa, si sarebbe perfezionato quando la nave si trovava in acque territoriali. Si deve ricordare al riguardo che il reato di sequestro di persona non richiede un dolo specifico, essendo invero sufficiente il dolo generico “consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua ibertà fisica,intesa come libertà di locomozione”(Cass.Pen.,sez.V,n.19548/2013).
Il processo di Palermo nei confronti di Salvini si sta trasformando in un processo nel quale la difesa dell’imputato, di fatto, tenta di sostituirsi alternativamente al Presidente del Tribunale ed ai rappresentanti della Procura, mettendo sul banco di accusa gli operatori della Open Arms da cui erano arrivate le denunce che hanno portato all’apertura del procedimento penale. Un processo nel quale i consulenti della difesa dell’imputato vanno ben oltre i limiti della loro attività di consulenza, e si pronunciano come ufficiali di polizia giudiziaria, arrivando a tracciare su via meramente presuntiva e senza riscontri fattuali o documentali, profili di responsabilità nella ipotizzata collusione della Open Arms con non meglio identificati soggetti, scafisti o trafficanti, con cui avrebbe avuto una sorta di appuntamento in alto mare per effettuare il soccorso. La nota tesi delle “consegne concordate” smentita da anni di indagine delle procure siciliane, che ancora non ha trovato alcun riscontro in una sola sentenza di condanna. Si deve ricordare che la famosa informativa sul soccorso operato dalla Open Arms il primo agosto del 2019, trasmessa dalle autorità militari a diverse procure siciliane non era stata seguita dall’apertura di una qualsiasi indagine, evidentemente per la mancanza di elementi che costituissero una notizia di reato. Che adesso, a distanza di anni, si cerca di costruire sulla base di mere supposizioni, per ribaltare il piano dell’accertamento penale nei confronti dell’imputato Salvini.
Le varie ipotesi formulate in ordine all’apprezzamento delle capacità di percorrenza delle imbarcazione di cui alle dichiarazioni dei consulenti della difesa di Salvini introducono infatti elementi puramente presuntivi che nessuna certezza danno sulla mancanza di una situazione di emergenza a bordo della stessa al momento del soccorso operato da Open Arms. Appare veramente arbitrario ritenere che dall’altezza delle fiamme visibile in un filmato si possa stabilire che a bordo del barcone vi fosse una consistente quantità di carburante a bordo. Senza avere peraltro alcuna certezza sul materiale con il quale era costituita l’imbarcazione, a fronte della divergenza tra quanto rilevato dai periti (secondo cui si trattava di imbarcazione metallica) e quanto osservato da Eunavfor med nel suo rapporto di servizio ( che affermava trattarsi di un barcone di legno). Non è comunque possibile, in base a quanto rilevato dai periti della difesa dell’imputato alcuna stima in ordine al consumo e alla velocità dell’imbarcazione nel restante tratto per raggiungere un porto di sbarco. Sia che fosse ferma, sia che potesse continuare la navigazione, o avvicinarsi autonomamente alla Open Arms, gli indici di distress forniti con disposizioni vincolanti dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo n.656 del 2014 non sarebbero infatti venuti meno. Sfugge che una imbarcazione ferma in alto mare, sovraccarica di persone, può avere problemi di stabilità superiori a quelli che può incontrare quando procede a lento moto. Per i periti della difesa, appartenenti alla Guardia costiera, sembra irrilevante quanto affermato dal Tribunale di Roma nella sentenza che ha dichiarato la prescrizione sul procedimento relativo al naufragio dei bambini dell’11 otobre 2013, pure richiamato ieri nel corso dell’udienza di Palermo, pur accertando gravi profili di responsabilità a carico dei due imputati, rispettivamente coordinatori dela Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) e della omologa centrale della Marina militare (CINCNAV). In questa sentenza si afferma chiaramente che “In particolare, fuori delle acque territoriali e della zona SAR di competenza italiana, è imposto ad IMRCC – che assicura l’organizzazione generale dei servizi marittimi di ricerca e salvataggio – di tenere i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri stati (…) e di intervenire secondo la scelta dei mezzi più idonei al relativo svolgimento che è prerogativa del MRCC responsabile e richiedente. In tal caso alle Autorità italiane spetta, oltrechè trasmettere tutte le informazioni acquisite, il compito di fornire, a richiesta l’assistenza all’Autorità procedente ed in particolare mettere a disposizione navi, aeromobili, personale o materiale (art. 3.1.7 conv. SAR). Perciò stesso la “sicurezza pubblica” – che imponeva di agire altrimenti alla data dell’evento, salvaguardando l’incolumità dei migranti in pericolo conclamato – non è soltanto riferibile ad aree di pertinenza del nostro Paese ovvero rientranti nella nostra competenza SAR e da garantirsi all’interno dell’ambito territoriale (e giurisdizionale) italiano, ma rappresenta, piuttosto, il bene/interesse tutelato penalmente sia che si assuma il coordinamento delle operazioni di salvataggio, sia che si debba prestare assistenza ai coordinatori degli altri Stati richiedenti”. Allo stesso riguardo è molto importante tenere conto della pronuncia del 21 gennaio 2021 da parte del Comitato ONU per i Diritti Umani (OHCHR) che ha condannato l’Italia per la violazione degli artt. 2 (3) e 6 del Patto delle NU per i Diritti Civili e Politici, che proteggono il diritto alla vita di ogni persona. Nel settembre 2022, il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha dichiarato in un comunicato che, secondo la valutazione preliminare del suo ufficio, gli abusi contro i migranti in Libia “possono costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra”.
Ancora più arbitraria appare la conclusione dei periti secondo cui vi sarebbe stato “il tempo sufficiente per un intervento da parte della stessa unità libica” non considerando che nel momento in cui si accertano situazioni di distress, in base alle norme internazionali e segnatamente in base all’articolo 98 della Convenzione Unclos, e in base al Regolamento Europeo 656/2014, il comandante della nave deve raggiungere l’imbarcazione in pericolo nel tempo più breve possibile, senza attendere lo spiegamento, l’intervento o l’avvicinamento di altri mezzi militari appartenenti a guardie costiere di altri paesi.
10.10 I precedenti giurisprudenziali che pesano sul processo Open Arms/Salvini
Diverse sentenze dei giudici italiani hanno accertato la legittimità degli interventi di soccorso operati da navi appartenenti alle organizzazioni non governative pure in presenza di unità libiche in area. Così, ad esempio, nel caso del Procedimento penale nei confronti di Arturo Centore, GIP Agrigento, decreto di archiviazione 06.10.2021, relativamente al caso di soccorso operato da una nave umanitaria in zona SAR libica nel 2019, pochi mesi prima dei fatti oggetto del processo di Palermo, nella richiesta di archviazione presentata dalla Procura si rilevava che “non risulta che le Autorità libiche, per le attività di ricerca e soccorso nella propria area SAR, abbiano mai assegnato un place of safety (POS) sut territorio libico ad organizzazioni non governativa” ONG.”. Ed ancora, secondo la Procura di Agrigento, “Il pericolo attuale di danno grave alla persona che determina lo stato di necessità, secondo quanto indicato nelle Raccomandazioni emanate dal Consiglio europeo nel giugno 2019, sussiste sin dal momento della partenza dalle coste nordafricane delle imbarcazioni, che devono essere considerate sin da subito in distress in considerazione deI fatto che sono sovraccariche e inadeguate a percorrere la traversaIa. prive di strumentazione e di oersonale competente (p,.23)“.
Ricorre poi una evidente contraddizione tra le diverse tesi difensive a discarico dell’imputato Salvini, sostenute per dimostrare la irregolarità delle modalità operative dei soccorsi della Open Arms, come se questa potesse valere a giustificare il prolungato divieto di sbarco imposto dal Viminale quando la nave si trovava da giorni davanti al porto di Lampedusa. Secondo il Tar Lazio invece il divieto d’ingresso risutava in violazione delle norme internazionali e, di conseguenza, della Costituzione italiana. Il Tribunale amministrativo rilevava che “la stessa amministrazione intimata (ovvero il Ministero dell’Interno) riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà” e “per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo”.
I periti della difesa di Salvini, inoltre, ignorando la portata di questa decisione, qualificano come attività Sar, di ricerca e salvataggio, quelle operate dal pattugliatore della Guardia Costiera libica Fezzan in prossimità della Open Arms In circostanze assolutamente analoghe a quelle delle quali veniva operato l’intervento di salvataggio da parte della nave umanitaria, che invece, secondo la stessa relazione, non avrebbe avuto alcuna caratteristica di urgenza, e dunque natura di evento Sar. Gli stessi periti della difesa ignorano inoltre la circostanza decisiva che, dopo due intercettazioni la motovedetta libica Fezzan era visibilmente stracarica, avendo pieno di naufraghi tutto il ponte di prua, come risulta anche dai rilievi fotografici, e ben difficilmente avrebbe potuto imbarcare anche i naufraghi soccorsi da Open Arms.
Dalla cronologia riportata dai periti non emergono elementi di responsabilità o di violazioni di regole operative da parte della Open Arms. Si rileva invece l’omissione di qualsiasi attività di monitoraggio o di assistenza da parte di unità navali italiane, incluso il fantomatico sottomarino, presenti in zona, come pure l’assenza di coordinamento da parte delle autorità libiche, maltesi e italiane, pure informate tempestivamente dell’evento di soccorso. Inoltre emerge che la motovedetta Libica Fezzan raggiunge il luogo del soccorso alle 18:25 del primo agosto 2019, quando le operazioni di salvataggio erano terminate alle 17:31, quindi quasi un’ora dopo il termine delle stesse operazioni, iniziate quello stesso giorno alle 16:01. Quindi, se si fosse dovuto attendere l’arrivo della motovedetta libica Fezzan, le operazioni di trasbordo avrebbero avuto avvio non meno di due ore più tardi di quando invece si erano verificate, con grave pericolo per la vita delle persone a bordo della imbarcazione, Per non parlare del rischio che avrebbero corso le persone una volta ricondotte in Libia, e qui giova richiamare la sentenza della Corte di Cassazione sul caso Vos Thalassa. Il 16 dicembre 2021 la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza della Corte di Appello di Palermo, che ribaltava il primo giudizio del Tribunale di Trapani, stabilendo che “è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare, facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo Stato libico”.
10.11 La ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità.
Appare arbitrario, sulla base dei dati ricostruiti dai periti della difesa di Salvini, mettere in dubbio la ricostruzione offerta nel libro di bordo Open Arms nel quale si riportava che l’imbarcazione si inclinava pericolosamente sul bordo di dritta, perché questo poteva essere conseguenza di un movimento delle persone a bordo e la supposta assenza di vie d’acqua, che non risulterebbe agli accertamenti peritali, non è un argomento per sostenere che l’imbarcazione non potesse risultare, sia pure temporaneanente, pericolosamente sbandata, o che non imbarcasse acqua a seguito del movimento delle persone a bordo o per altre vie d’acqua, pure presenti nella maggior parte dei casi in questi battelli assai fatiscenti, generalmente privi di doppio fondo e di pompe di svuotamento. Risulta quindi irrilevante accertare se l’imbarcazione avesse una falla in prossimità della prua, o meno.
Rispetto a quanto rilevato visivamente e confermato dai rilievi fotografici e dalla documentazione visiva prodotta dal collegio di periti della difesa di Salvini risulta assolutamente ininfluente la eventuale mancata corrispondenza tra le posizioni accertate dall’organizzazione Alarm Phone e quanto rilevato nel libro di bordo di Open Arms, risultando evidente, come riconosciuto anche dai periti, che in quella giornata, nelle stesse ore e nella stessa zona, erano in corso più eventi di ricerca e salvataggio. E in ogni caso tale elemento puramente indiziario non dà adito all’accertamento di alcuna malafede, o peggio collusione con terzi, nel comportamento del comandante e dell’equipaggio della nave umanitaria, anche con riferimento alle comunicazioni radio intercorse in spagnolo tra i componenti della ONG, in particolare per coordinare le attività di salvataggio dei due gommoni messi in acqua, per garantire immediata sicurezza al barcone che si stava soccorrendo, secondo le prassi generalmente seguite in questi casi dalle Organizzazioni non governative.
La Convenzione SOLAS, in particolare, obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutto rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione… ” (Capitolo V, Regola 33). In assenza di coordinamento degli Stati costieri, il comandante della nave soccorritrice non può essere obbligato a mantenere un assetto di stand by di fronte ad una imbarcazione che appare in modo inequivoco in una situazione di distress,
10.12 Il ruolo dell’Unione Europea e gli obblighi di ricerca e salvataggio delle autorità italiane
L’argomento che il Consiglio Europeo del 28 e 29 giugno del 2018 avrebbe deciso che le ONG avrebbero dovuto attendere l’intervento delle motovedette libiche nella zona SAR comunicata dal governo di Tripoli all’IMO il 27 giugno del 2018, non si ritrova nelle decisioni dello stesso Consiglio negli anni successivi, e non è di per sé conducente a modificare la portata vincolante delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei, di valenza normativa superiore rispetto a quella degli atti non legislativi del Consiglio europeo.
Si osserva anzi come tutti i successivi atti delle istituzioni europee prendano atto che la Libia non è, anche fino ad oggi, in grado di garantire porti sicuri di sbarco, e sono state inviate indagini sulla collaborazione di Frontex con le autorità libiche, in quelli che si configurano come veri e propri respingimenti collettivi illegali su delega alle autorità tripoline, rispetto a persone intercettate in acque internazionali e riportate in territorio libico.
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei impongono comunque ai comandanti delle navi (ed alle Centrali di coordinamento- MRCC) di intervenire con la massima tempestività possibile non appena abbiano acquisito notizie che facciano presumere la possibile ricorrenza di un caso di distress. Anche all’interno della zona SAR libica, l’intervento di salvataggio spetta alla nave più vicina, soprattutto in assenza dell’assunzione della responsabilità di coordinamento da parte di una autorità statale, se la Centrale di coordinamento libica (JRCC), in atto neppure costituita a livello nazionale, non assume il coordinamento e non riesce a garantire lo sbarco in un porto sicuro. Per l’accertamento di una situazione di distress (pericolo grave ed attuale) non occorre certo attendere che le persone finiscano in acqua, come non si può ritenere che la semplice consegna dei giubbetti salvagente ai naufraghi che si trovano sul barcone soccorso, faccia venire meno gli elementi indicatori di distress minuziosamente descritti, con carattere vincolante, nel Regolamento europeo n.656 del 2014. Una volta iniziate, le attività di soccorso vanno risolte e concluse bel tempo più breve possibile e un caso di distress non si può declassare ad una situazione di mera “assistenza”, in attesa che i soccorsi vengano completati da altre unità navali non ancora presenti sulla scena nella quale si verifica un caso di pericolo immediato (distress) per le persone ancora a bordo del mezzo da soccorrere. Non si possono attendere per ore i soccorsi portati da altri assetti navali di paesi terzi, se sono operati da autorità che non possono garantire un porto sicuro di sbarco. Come afferma la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella condanna dell’Italia nel caso Hirsi, “D’altra parte, la Corte osserva che l’Italia non può liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la Libia. Infatti, anche ammesso che tali accordi prevedessero espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare, gli Stati membri rimangono responsabili anche quando, successivamente all’entrata in vigore della Convenzione e dei suoi Protocolli nei loro confronti, essi abbiano assunto impegni derivanti da trattati (PrincipeHans-Adam II di Liechtenstein c. Germania [GC], n. 42527/98, §47, CEDU 2001‑VIII; e Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, n.61498/08, § 128, 2 marzo 2010)”. In conclusione per la Corte EDU, “Al riguardo, la Corte osserva che nessuna delle disposizioni di diritto internazionale citate dal Governo giustificava il rinvio dei ricorrenti verso la Libia, nella misura in cui tanto le norme in materia di soccorso alle persone in mare quanto quelle relative al contrasto alla tratta di esseri umani impongono agli Stati il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di rifugiati, tra i quali il «principio di non respingimento» Per i giudici di Strasburgo dunque “la Corte considera che gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.”.
Nel 2019, dopo che Salvini aveva invitato i vertici delle forze dell’ordine, della Marina e della guardia costiera “a garantire alle autorità libiche il legittimo esercizio delle proprie responsabilità nella gestione delle procedure di ricerca e soccorso”, la Commissione europea rispondeva che “Per quello che riguarda gli sbarchi si applica il diritto internazionale e la Commissione ha sempre detto che al momento in Libia non ci sono le condizioni di sicurezza”. Come si legge nella richiesta di archiviazione del caso CENTORE, avanzata dalla Procura di Agrigento, proprio con riferimento al 2019, “L’UNCHR rispondeva in data 03.10.2019 §ota prot. NV/29l2019) allegando un rapporto nel quale, dopo aver ripercorso i conflitti in corso in Libia nell’anno 2019, esaminava la situazione di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in quei territori, evidenziando come alcune migliaia di loro si trovano in condizione di detenzione arbitraria e sottoposti a violazioni dei loro diritti umani. Veniva rappresentato, inoltre, che in data 21.07.2019, in una lettera al Ministro dell’Intemo Libico, l’Unione Europea, I’Unione Africana, UNSMIL, UNHCR, OIM, OHCHR, i maggiori Paesi donatori coinvolti nella situazione della migrazione in Libia (Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Regno Unito, Olanda, Svezia, Spagna, Germania e Svizzera) e il Forum INGO chiedevano la fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti in Libia e la chiusura dei centri di detenzione. L’UNCHR concludeva affermando che, alla luce delle descritte circostanze, dell’instabile situazione di sicurezza, degli abusi nei confronti di richiedenti asilo, migranti e rifugiati,dell’assenza di protezione da tali abusi e dell’assenza di soluzioni durevoli, la Libia si ritiene non soddisfi i reouisiti per poter essere considerata come un luogo sicuro ai fini dello sbarco all’esito di soccorso in mare. Nella medesima nota, l’UNCHR aggiungeva che:. “ai comandanti, che si trovano ad assistere persone in siluazioni di emergenza in mare, non può essere chiesto, ordinato, e gli stessi non possono sentirsi costretti, a sbarcare in Lihia le persone soccorse, per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro.” (V. pag. 4 Rapporto UNHCR “Situazione in Libia (settembre 2019)” del 20, 09, 2019 allegato alla Nota prot. NV /29/2019 del 03. 10. 2019).
10.13 Le tesi dell’accusa dalla richiesta di autorizzazione a procedere fino al dibattimento
Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. A pag. 46 della richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei ministri si afferma che “…nella vicenda in esame due sono gli Stati che devono individuarsi come autorità di primo contatto: l’Italia e Malta, in quanto entrambi contestualmente contattati e informati delle prime due operazioni di salvataggio, almeno sin dal 2.8.2019…”. La stessa tesi del “flag state” è stata ritenuta impraticabile nel febbraio del 2020 anche dalla Corte di Cassazione, Come riconosce anche l‘ammiraglio Caffio della Marina militare, “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”.
Secondo la difesa dell’imputato, invece, non vi sarebbe stata la “competenza italiana” e la nave Open Arms avrebbe dovuto dirigere, con i naufraghi a bordo, verso il paese di bandiera (flag state) la Spagna. La competenza italiana ad assegnare un porto di sbarco sicuro non può però essere esclusa dalla considerazione del tutto pretestuosa che, se l’Italia non avrebbe coordinato eventuali soccorsi, e quindi, se la nave soccorritrice non batte bandiera italiana, non avrebbe alcun obbligo di indicare un porto sicuro di sbarco. Appare singolare come si vorrebbe applicare tale principio prendendo ad esempio il procedimento di Catania sul caso Gregoretti (con il non luogo a procedere nei confronti del senatore Salvini), nel quale il giudice dell’udienza preliminare (protratta per mesi) avrebbe considerato anche il caso Open Arms, ben diverso dal caso che doveva esaminare, trattandosi per la Gregoretti di nave militare che batteva bandiera italiana. Nave alla quale non si poteva certo vietare l’ingresso o lo sbarco in un porto italiano, anche alla luce della specifica previsione contenuta nell’art. 2 del decreto sicurezza bis n.53 del 2019, che esclude dal campo di applicazione proprio le navi militari.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo, già agli atti del processo nei confronti del senatore Salvini, emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”. Su questi atti dovrebbe concentrarsi l’attenzione dei giudici, piuttosto che sulla ennesima rassegna delle dichiarazioni dei politici che a distanza di anni possono solo cercare di inquadrare i loro comportamenti e le loro decisioni dentro gli equilibri elettorali del momento. Fatti documentati e fonti normative possono orientare meglio di valutazioni discrezionali personali che tengono conto soltanto del ruolo di governo o di opposizione esercitato nel tempo.
Se le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, infatti, un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, come afferma concordemente la Giurisprudenza, dalla Corte di Cassazione fino ai giudici di Tribunale, non si vede come le autorità politiche possano violarle impunemente, al punto di ritenere possibile impartire un divieto di sbarco. considerando “non inoffensivo” il passaggio della nave soccorritrice attraverso le acque territoriali, oppure per ottenere a livello europeo “passi formali” da altri paesi che si impegnassero a ricevere una parte dei naufraghi
Il principio di non refoulement sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. Come ha ribadito l’UNHCR ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in acque internazionali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale. Secondo l’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro». Come afferma l’UNHCR, nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato. Nei suoi documenti ” l’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.
10.14 . La falsa giustificazione del Tavolo tecnico interministeriale del 2019
Un “Tavolo tecnico interministeriale” non puo’ modificare gli obblighi di tempestiva indicazione di un porto di sbarco sicuro(POS- Place of safety) a carico degli Stati.e in Itslia al ministro dell’interno. Almeno se si continua a riconoscere che gli atti aventi forza di legge, e le norme di diritto internazionale, valgono ancora più di atti discrezionali del potere esecutivo, come sancisce la Costituzione italiana (art.117) . L’art. 10 ter, comma 1, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto con d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017 n. 46), esclude qualsiasi ipotesi di trattenimento dei naufraghi a bordo delle navi coinvolte in eventi di soccorso (SAR), ai quali viene garantito l’immediato trasferimento in appositi centri di accoglienza (Hotspot), per i rilievi foto-dattiloscopico e segnaletico, e per le eventuali richieste di protezione internazionale.
Il comma 9-quinquies dell’art.12 del Testo unico 286/98, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Bossi-Fini), stabiliva, poi, che le modalità di intervento delle Unità della Marina militare, e di collaborazione con altre unità navali, dovevano essere definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti. In attuazione degli articoli 11 e 12 della stessa legge Bossi-Fini veniva quindi adottato il decreto interministeriale del 14 luglio 2003 (pubblicato sulla G.U. Serie generale n. 220 del 22 settembre 2003) che dettava le regole di comportamento per gli assetti aero-navali della Marina militare, delle Capitanerie di Porto e delle Forze di Polizia impegnate nelle attività di controllo delle frontiere marittime, stabilendo che «l’azione di contrasto deve essere sempre improntata alla salvaguardia della vita umana e al rispetto della dignità della persona» (art. 7, co. 1). Nel quadro dei vasti poteri di indirizzo attribuiti al Ministero dell’interno, l’art. 5, comma 4 del decreto individuava, per quanto concerne le acque internazionali, nel Comando in capo della squadra navale (CINCNAV), il «raccordo delle fasi di pianificazione» dell’attività di prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina via mare, mentre rimanevano confermate le competenze prevalenti della Guardia di finanza nella zona contigua e della Guardia costiera nelle acque territoriali.L’aumento dei soccorsi operati in acque internazionali o al limite delle acque territoriali, le controversie insorte tra autorità SAR di Stati diversi, e i casi di naufragio che già si registravano allora, rendevano necessario un continuo adeguamento delle linee operative previste per le attività di ricerca e salvataggio in alto mare. A tale riguardo, nel mese di ottobre del 2009, venivano adottate, dal Comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, le «Linee Guida per l’impiego delle risorse SAR nelle aree situate al di fuori della SRR Italiana nel corso di eventi riguardanti il controllo del flusso dei migranti»16. In base a tali linee guida, a seguito di segnalazione all’IMRCC dell’avvistamento di un’unità navale non identificata in navigazione oltre i limiti della SRR Italiana, che verosimilmente trasportava migranti in direzione delle coste nazionali, lo stesso IMRCC provvedeva alla diffusione delle informazioni relative all’evento stesso secondo le previsioni dell’accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, di cui al decreto interministeriale 14 luglio 2003. A questo punto la Centrale operativa, ai sensi del punto 4.2.4 della Convenzione SAR del 1979, nella sua veste di IMRCC, procedeva immediatamente all’acquisizione delle informazioni necessarie e valutava l’evento sotto il profilo della salvaguardia della vita umana in mare, onde determinare se vi fossero condizioni di pericolo grave e imminente e necessità di immediata assistenza per gli occupanti dell’unità.
In base alle “Linee Guida” adottate nel 2009 dal Corpo delle Capitanerie di porto, atti che non hanno natura legislativa, e che dunque non possono anteporsi alle norme aventi forza di legge come le Convenzioni internazionali ratificate con legge dello Stato, “a seguito di segnalazione all’I.M.R.C.C. ( Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana) dell’avvistamento di un’unità navale non identificata in navigazione oltre i limiti della S.R.R. Italiana, che verosimilmente trasporta migranti in direzione delle coste nazionali, lo stesso I.M.R.C.C. provvede alla diffusione delle informazioni relative all’evento stesso secondo le previsioni dell’accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, di cui al Decreto Interministeriale 14.7.2003; a questo punto la Centrale Operativa, ai sensi del punto 4.2.4 della Convenzione S.A.R. del 1979, nella sua veste di I.M.R.C.C., procede immediatamente all’acquisizione delle informazioni necessarie e valuta l’evento sotto il profilo della salvaguardia della vita umana in mare, onde determinare se vi siano condizioni di pericolo grave e imminente e necessità di immediata assistenza per gli occupanti dell’unità. A tal fine le unità aeronavali eventualmente presenti nella scena d’azione provvederanno ad acquisire e trasmettere, con il mezzo di comunicazione più idoneo, secondo quanto previsto dal punto 4.4 della Convenzione S.A.R.’del 1979, all’I.M.R.C.C. i seguenti elementi per la classificazione dell’evento (S.A.R. – non S.A.R.): posizione geografica, ora dell’avvistamento, condizioni meteo-marine, dimensioni e tipologia dell’unità, suo bordo libero (galleggiamento), numero delle persone a bordo e loro condizioni fisiche, eventuale presenza tra essi di donne in stato di gravidanza, bambini, malati, traumatizzati, presenza di cadaveri nei pressi dell’unità; dotazioni di sicurezza presenti a bordo, elementi del moto, altri elementi utili a discrezione del rapportante.
Le linee guida del 2009 sono state sostituite dalla Direttiva SOP 009/15 adottata nel 2015 dal Corpo delle capitanerie di porto – Guardia costiera, nelle quali si precisava che “le richieste di assegnazione di un POS vengono trasmesse dalla Centrale IMRCC al Dipartimento libertà civili del ministero dell’interno e che tale Dipartimento terrà in considerazione l’esigenza di “limitare per quanto possibile la permanenza a bordo delle persone soccorse e di far subire alle navi soccorritrici la minima deviazione possibile dal viaggio programmato”.
Non si può adesso ritenere che a seguito del “Tavolo tecnico” tenutosi presso il Ministero dell’interno del 12/2/2019, a differenza di quanto previsto in passato, il rilascio di un porto sicuro di sbarco, per cui si indicava la competenza del ministero dell’interno, fosse consentito “soltanto dopo che si fossero attivate le interlocuzioni con la Commissione Europea per la redistribuzione dei migranti tra i vari paesi dell’UE”. Non si può dimenticare, a questo proposito, come in numerose dichiarazioni lo stesso Salvini avesse riconosciuto che il trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms avrebbe dovuto costituire un’arma di pressione per vincere le resistenze di altri paesi europei nella redistribuzione dei migranti. Metodo di “persuasione”, o di “trattativa”, da sempre respinto dall’Unione Europea, anche con la bocciatura del cd. preaccordo di Malta del settembre 2019, evocato dalla difesa ma comunque successivo ai fatti oggetto del processo di Palermo. Mentre , il Ministro dell’interno, nello stesso tavolo tecnico di coordinamento del contrasto all’immigrazione illegale via mare, il 12 febbraio 2019 stabiliva di togliere al capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione la competenza per l’assegnazione del cd. POS (place of safety) dopo i soccorsi in acque internazionali, e affidarla al capo di gabinetto del Ministro, a quel tempo alle dirette dipendenze dello stesso Salvini. Non si può dimenticare , a questo proposito, come in numerose dichiarazioni lo stesso Salvini avesse riconosciuto che il trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms avrebbe dovuto costituire un’arma di pressione per vincere le resistenze di altri paesi europei nella redistribuzione dei migranti. Metodo di “persuasione”, o di “trattativa”, da sempre respinto dall’Unione Europea, come si vedrà meglio più avanti, anche con la bocciatura del cd. preaccordo di Malta del settembre 2019, evocato dalla difesa ma comunque successivo ai fatti oggetto del processo di Palermo.
10.15. Perchè è falso affermare che le attività di soccorso svolte senza il coordinamento di uno Stato richiesto che non risponde giustificherebbero il divieto di sbarco nel porto sicuro più vicino
Secondo le linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), agenzia delle Nazioni unite, si prevede che il primo Comando centrale di Guardia costiera (MRCC) che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R.ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Secondo l’ Annesso alla Convenzione SAR del 1979 Paragrafo 3.1.9 – Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.
Secondo quanto rilevato più recentemente da autorevoli esponenti della Guardia costiera italiana, in linea con le posizioni adottate nel tempo dai diversi governi italiani, anche se «non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera,» comunque «in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo”.
In base al Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo”. Tutte Convenzioni che contengono disposizioni relative alla tutela dei diritti fondamentali delle persone soccorse in mare, fino a comprendere il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, ed una tutela rafforzata per i minori, che avrebbero dovuto impedire l’assimilazione dell’attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali ad una attività di immigrazione irregolare, ad un mero “evento migratorio”.
10.16. Perchè la Libia e la Tunisia non possono garantire “place of safety”(POS) dove sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali
La difesa di Salvini, andando fuori dal tema del processo, ma autorizzata dal presidente del Tribunale, ha lungamente insistito, nell’interrogatorio della Capo-missione di Open Arms, sulla circostanza che l’evento di soccorso del primo agosto 2019 non fosse “coordinato” dalle autorità italiane, che pure, anche in quella occasione, erano state tempestivamente avvertite. Occorre ricordare a tale riguardo che in base al diritto internazionale, a prescindere dall’assunzione o meno del coordinamento – lo Stato costiero non possa in ogni caso rifiutare lo sbarco in quanto, anche con specifico riferimento alla situazione in Libia e in Tunisia, che non sono qualificabili “paesi terzi sicuri”, come conferma recentemente la Corte di Cassaziine nel caso Vos Thalassa, ciò integrerebbe un respingimento collettivo vietato dall’art. 4 Protocollo n. 4 alla CEDU come interpretato dalla Corte EDU nella pronuncia Hirsi e altri c. Italia. Si dovrebbe dunque affermare in capo ai naufraghi soccorsi in acque internazionali un diritto allo sbarco in un place of safety (POS) almeno per consentire la presentazione delle domande di protezione internazionale in conformità alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Per riflesso lo stesso diritto allo sbarco dei naufraghi soccorsi in acque internazionali spetterebbe al comandante della nave soccorritrice nei confronti dello Staro costiero avvertito e richiesto del soccorso. L’eventuale rifiuto delle autorità competenti (nel caso Open Arms del ministro dell’interno) non cancella l’obbligo dello Stato richiesto di indicare un porto sicuro di sbarco dei naufraghi.
Come ricorda la Corte di cassazione con la sentenza n. 6626, 16/20 gennaio 2020, al fine della individuazione del cd. Place of safety (POS) “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina dunque la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.)
I divieti di ingresso nei porti italiani dopo azioni di ricerca e soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale sono dunque privi di fondamento giuridico,. Le navi di soccorso non possono essere considerate a tempo indeterminato come “place of safety” temporaneo, magari per trattative a livello UE o per la mancanza di posti nei sistemi di prima accoglienza. Ne si può utilizzare ancora il rituale argomento del cd. flag state (stato di bandiera). La competenza degli Stati di bandiera non si può anteporre alle competenze degli Stati costieri richiesti di un POS e in grado di indicare un porto di sbarco nel place of safetypiù vicino. Come risulta smentita dalle più recenti sentenze della Corte di cassazione, che ritengono che la Libia non offra porti di sbarco sicuri, la nota tesi della esistenza di una zona SAR ( ricerca e soccorso) “libica” e dunque della competenza esclusiva della Guardia costiera di quel paese, che ancora oggi ha di fatto due governi che si contrappongono e non ha una centrale di coordinamento dei soccorsi (MRCC) unificata. Due sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Napoli hanno condannato il comandante di un rimorchiatore italiano che aveva riportato delle persone soccorse in acque internazionali in un porto libico (caso Asso 28). In quest’ultimo caso il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante del rimorchiatore italiano che, dopo avere soccorso naufraghi nelle acque internazionali della pretesa zona SAR “libica”, li aveva ricondotti in un porto della Tripolitania. Una sentenza della Corte di Appello di Napoli del 18 gennaio di quest’anno ha confermato questa decisione, affermando che qualunque comandante è obbligato al rispetto del diritto internazionale, ed in particolare la necessità che i naufraghi siano condotti in un porto sicuro, quale non è garantito in alcuna parte della Libia. Conclusione opposta rispetto a quella adottata da Salvini nel 2019, a ridosso del caso Open Arms, e riproposta adesso dai consulenti della sua difesa nell’udienza del processo di Palermo, svoltasi il 24 marzo 2023.
10.17. Perchè è falso affermare che la mancata risposta alla richiesta di coordinamento dei soccorsi e di indicazione di un porto di sbarco escluderebbe la responsabilità dello Stato costiero rischiesto. La mancata adesione di Malta agli emendamenti alla Convenzione SAR del 2004.
Nelle sue linee applicative il Piano SAR italiano del 2009, come il successivo piano adottato nel 2020, fa riferimento alle metodologie tecnico-operative di ricerca e soccorso contenute nel manuale IAMSAR adottato dall’ Imo nel 1999 ed alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974( Convenzione SOLAS) che obbliga il“comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione…” [Capitolo V, Regola 33(1)]. Spetta poi ai governi ed alle relative autorità marittime e militari, in particolare ai Centri di Coordinamento del soccorso il completamento degli obblighi posti a carico dei comandanti delle navi in mare, assicurando nelle rispettive aree di responsabilità S.A.R.un’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e salvataggio (Marittime Rescue Coordination Centre o M.R.C.C.), in grado di gestire le comunicazioni di emergenza e di coordinare le operazioni in modo tale da garantire il salvataggio delle persone ed il loro sbarco in un luogo sicuro Lo stesso principio è poi specificato dal paragrafo 3.6.1 del Manuale IAMSAR, Vol. 1, dove si prevede che un RCC (Rescue Coordination Center) dopo la ricezione di una chiamata di soccorso, diventa responsabile nella gestione delle relative operazioni SAR, fino a quando altra autorità competente non assuma il coordinamento.
Come ricordava nel 2019 l’ Ammiraglio Liardo, in una audizione parlamentare, “Riguardo allo specifico scenario del Mediterraneo Centrale, occorre rilevare che ad oggi (2019) l’unico Stato che pur avendo provveduto a ratificare la convenzione SAR del 1979, non ha tuttavia dichiarato formalmente la sua specifica area di responsabilità SAR rimane solo la Tunisia; l’Egitto che invece non ha ratificato la Convenzione di Amburgo si è però dotata di una organizzazione SAR ed ha dichiarato una propria regione di responsabilità ai fini della ricerca e del soccorso marittimo. La Libia ha ratificato la Convenzione ed ha formalmente dichiarato la propria area di responsabilità SAR il 14 dicembre 2017. Tale area di responsabilità è stata riportata sul Global Integrated Shipping Information System (GISIS) dell’International Maritime Organization11 (IMO), il 27 giugno 2018” .In quell’occasione lo stesso LIARDO affermava che “Ovviamente, non avendo tutti gli Stati costieri ratificato la convenzione, né provveduto ad organizzare una propria specifica organizzazione S.A.R., allo scopo sempre di tutelare il principio di integrità dei servizi S.A.R., le discendenti linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) un’agenzia delle Nazioni unite, in base a quanto espressamente previsto dalle citate convenzioni, prevedono che il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Ciò determina la certezza, per ciascun navigante, di individuare l’Autorità responsabile per il soccorso della vita umana in mare”.L’Ammiraglio LIARDO aggiungeva poi che “L’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia, “law enforcement”, al di fuori delle acque territoriali è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale. La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero è ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a POS delle persone soccorse“.
Sembra dunque pretestuosa la ricorrente affermazione della difesa del senatore Salvini, secondo cui la Open Arms, anche dopo l’ingresso nelle acque territoriali italiane, avrebbe dovuto fare rotta verso la Spagna, in quanto questo paese, di cui la nave batteva bandiera, avrebbe indicato un porto di sbarco sicuro. La prima disponibilità ad indicare un POS dalla Spagna, altro tema su cui ha molto insistito la difesa di Salvini, arrivava solo il 18 agosto 2019, quando la Open Arms si trovava già in acque italiane, quattro giorni dopo che il Tribunale amministrativo del Lazio sospendeva il divieto di ingresso disposto dal Viminale e due giorni dopo l’apertura delle tutele dei minori stranieri non accompagnati, da parte del Tribunale dei minori di Palermo. Risultano inoltre agli atti del processo le dichiarazioni di altri esponenti della Guardia costiera italiana e della Guardia di finanza che confermano che la Open Arms in quegli stessi giorni non era in grado di spostarsi da Lampedusa ad un porto spagnolo, oltre che per le condizioni del mare, anche per la situazione di estremo disagio psico-fisico dei naufraghi. Condizioni che alla fine determinavano l’intervento della Procura di Agrigento, con l’ordine di sbarco immediato conseguente al provvedimento di sequestro preventivo della nave.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.
10.18. Perchè è falso affermare che le trattative in corso con altri paesi UE possono consentire il trattenimento dei migranti a bordo della nave soccorrirtice, anche quando questa è già entrata nelle axque territoriali in base ad una specifica autorizzazione per ragioni di soccorso
La difesa del senatore Salvini ha molto insistito sulla circostanza che la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) da parte del Viminale fosse giustificabile per le trattative in corso con la Spagna e con altri paesi per lo sbarco dei naufraghi o per la loro redistribuzione. In realta’ non esiste oggi, ne’ esisteva nel mese di agosto del 2019, alcun obbligo degli Stati europei, o della stessa Unione Europea, di garantire la redistribuzione dei naufraghi o ad assicurare lo sbarco in un paese diverso da quello immediatamente avvertito e richiesto dal comandante della nave. Che peraltro rimane l’unica autorità a stabilire velocità e rotta della nave in base alle mutevoli condizioni del mare ed alle eventuali chiamate di soccorso, a fronte delle quali si ha l’obbligo di intervento ( e lo stesso varrebbe per i sottomarini militari italiani che si limitavano senza intervenire in soccorso a spiare l’attivita’ delle Ong per raccogliere prove a loro carico). L’obbligo di soccorso costituisce un dovere vigente di intervento immediato a carico di tutti i comandanti in grado di intervenire, siano essi civili o militari. A fronte di questo obbligo di intervento immediato, penalmente sanzionato, gli Stati costieri che ne siano richiesti hanno l’obbligo di coordinare gli interventi di salvataggio e di indicare un porto sicuro di sbarco. Nessun ritardo, nesuna trattativa politica, nessuna mancata risposta possono compromettere la salvaguardia della vita umana in mare.
Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come “porto sicuro”, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).
E poi, quali trattative a livello europeo aveva realmente intenzione di intavolare il governo italiano in quell’estate del 2019? Occorre ricordare la mancata partecipazione del senatore Salvini alla riunione dei ministri dell’interno dell’Unione Europea, tenutasi a Parigi il 21 luglio 2019, pochi giorni prima del caso Open Arms. In quella sede il Presidente francese Macron aveva affermato: “Dobbiamo rispettare le regole umanitarie e del diritto marittimo internazionale. Quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare rifugio nel porto più vicino. È una necessità giuridica e pratica. Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”. Malgrado i risultati del vertice di Parigi avessero ottenuto l’adesione di 14 Stati europei Salvini lo definiva un flop ed innescava un confronto con i principali leader europei che comprometteva le possibilità di collaborazione ai fini della ricollocazione. Come veniva definitivamente provato dal successivo vertice di Malta del 23 settembre 2019, fortemente voluto dal governo italiano, nel quale si adottava una bozza di Piano di ricollocazione che raccoglieva soltanto l’adesione di sei paesi UE e restava successivamente del tutto privo di effetti, tanto da scontentare anche i consueti sostenitori dello stesso Salvini. La posizione della Commissione europea sulla individuazione dei porti di sbarco, del resto, era già nota da tempo.Come riferiva La Repubblica il 26 agosto 2018, in un articolo di Alberto d’Argenio, nei giorni del caso Diciotti, ” per il commissario Ue alle Migrazioni, Dimitri Avramopoulos,“I politici italiani devono mettere fine al gioco delle accuse, attaccare l’Ue significa spararsi nei piedi. Alcuni responsabili di governo per ragioni di politica e consenso interno si comportano in modo poco responsabile mentre sui migranti è necessario andare avanti tutti insieme, oppure il progetto europeo è a rischio”. Secondo Avramopoulos, “la priorità per tutti, Italia inclusa, dovrebbe essere quella di assicurare che le persone sulle navi siano sbarcate”. Lo stesso aggiungeva: “Non spetta alla Commissione dire dove vadano sbarcati, lo stabiliscono il diritto internazionale e la legge del mare, ma certamente bisogna trovare il modo di farli scendere subito a terra. Non sono nemici, non sono una minaccia per la sicurezza nazionale, sono solo persone vulnerabili e i governi hanno un imperativo umanitario ed etico da rispettare: bisogna sbarcarli e offrire loro assistenza e supporto”.
10.19 . Perchè non era legittimo il rifiuto della indicazione di un porto sicuro di sbarco dopo l’ordinanza del TAR Lazio e come ne derivava una ingiusta limitazione della libertà personale, anche con riferimento alla condizione dei minori non accompagnati
A fronte di quanto affermato nell’ultima udienza dal testimone Mancini Capo Dipartimento del Ministero dell’interno sulla “normale” durata del trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, anche per una settimana, occorre ricordare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, ove s’è ritenuta la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la limitazione della libertà personale, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno) in ipotesi di trattenimento forzoso presso i centri di soccorso e di prima accoglienza (di cui all’art. 10ter t.u.). Se questo vale all’interno degli Hotspot, lo stesso principio non può non valere a bordo di navi battenti bandiera straniera ma legittimamente presenti nelle acque territoriali italiane, nei casi di mancata indicazione di un porto di sbarco, anche con riferimento alla peculiare situazione dei minori stranieri non accompagnati, che in base al nostro ordinamento non sono respingibili in frontiera.
Quaunque forma di limitazione della libertà personale operata per effetto di atti amministrativi va prevista dalla legge (riserva di legge) e sottoposta a convalida giurisdizionale ( riserva di giurisdizione). Oltre alla limitazione della libertà personale (art.13) va considerata anche la libertà di circolazione (art.16) nelle diverse limitazioni che sono previste dalla legge riguardo alle persone migranti da sbarcare a terra dopo essere state soccorse in mare. Nel caso Open Arms questa ingiusta limitazione della libertà personale e della libertà di circolazione, a cui metteva fine soltanto il provvedimento di sequestro della nave adottato dalla Procura di Agrigento, si verificava a bordo della nave Open Arms nei cinque giorni successivi al provvedimento del Tar Lazio (del 14 agosto 2019), sospensivo del divieto di ingresso in acque territoriali. Già precedentemente il Tribunale per i Minorenni di Palermo aveva chiesto chiarimenti ai suddetti Ministri e, per loro, al Governo, sottolineando che “le convenzioni internazionali a cui l’Italia aderisce…impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati”. Diritti che “vengono elusi” nel momento in cui i minori non fossero stati autorizzati a sbarcare ed a rimanere a bordo della nave in condizioni di evidente disagio fisico e psichico. Anche in quella sede i magistrati minorili avevano argomentato come la situazione creata dalle autorità italiane equivaleva “ad un respingimento o diniego di ingresso ad un valico di frontiera” vietata dalla normativa italiana (si veda, al riguardo, l’art. 19, d.lgs. 286/98). Il decreto cautelare monocratico del Tar Lazio, Sezione Prima Ter, n. 5479/2019, sottolineava a sua volta, in merito al provvedimento governativo, il plausibile “travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”.
10.20 . Chi viola la legge impedendo la conclusione delle operazioni di ricerca e salvataggio, con lo sbarco nel porto sicuro più vicino. Perchè non si possono considerare come eventi di immigrazione clandestina le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.
In base all’art.11 comma i ter del D. Lgs. 286/1998 non si può vietare l’ingresso in porto di una nave che chieda di potere sbarcare naufraghi soccorsi in mare in quanto tale ipotesi configura un “passaggio inoffensivo” ai sensi dell’art.18 della Convenzione UNCLOS, e non già quella contemplata dall’art. 19 lettera g della stessa Convenzione, che deve riferirsi ai soli casi di immigrazione irregolare non connessi ad una operazione di soccorso in mare. La classificazione di un evento di ricerca e salvataggio (SAR) come evento di immigrazione clandestina, che poi è la sostanza della qualificazione come “evento migratorio” non può permettere agli Stati costieri, ed in particolare all’Italia, di eludere gli obblighi di ricerca e soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali. Obblighi che includono la indicazione di un porto di sbarco sicuro e il trasferimento finale dei naufraghi a terra nel più breve tempo ragionevolmente possibile. Come prefigura anche l’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998 con successive modificazioni.
Non sono state le Ong dunque a violare la normativa sui soccorsi in mare ma gli Stati ed i ministri competenti, che sono venuti meno ai correlati obblighi di soccorso e di sbarco in un “place of safety” (POS). Come osservava già il Tribunale dei ministri di Palermo, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019, avrebbe violato le convenzioni internazionali. Come affermano i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.”
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna anche in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale. Nessuna norma di diritto internazionale del mare autorizza uno Stato ad esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. Dopo le attività di soccorso le persone soccorse vanno considerate come naufraghi, non “immigrati clandestini”. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.
L’art. 19 della Convenzione Unclos prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale (passaggio inoffensivo), ma al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. A tale riguardo si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionaleassistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicementequello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia icomandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.).
Non si può quindi accettare che la difesa del senatore Salvini continui a deviare l’attenzione dalle responsabilità dell’imputato, cercando di dimostrare la natura arbitraria e illecita delle attività di soccorso operate dalla ONG Open Arms, arrivando a contestare che queste attività si sarebbero rivolte in favore di persone che si trovavano, con mare calmo, a bordo di barchini “in perfetta condizione di galleggiabilità” ed addirittura dotati di due motori.
In realtà, tutte le imbarcazioni che trasportano i migranti poi soccorsi da navi private delle ONG, sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità richiesti secondo la Convenzione SOLAS che nessuno ha richiamato durante l’udienza svoltasi con la testimonianza dei figure di vertice della Guardia costiera e della guardia di Finanza. Questa condizione delle imbarcazioni sulle quali i migranti tentano la traversata del Mediterraneo non può non incidere sulla verifica di una situazione di distress. La nozione di “distress” è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”. Si deve così ritenere che proprio per gli indicatori (tra i quali il carico, il bordo libero, la sicurezza del mezzo, il propulsore) già riportati nel Piano SAR nazionale del 1996, in conformità con il manuale IAMSAR e con la convenzione SOLAS, tutte le imbarcazioni sovraccariche di migranti che si trovano a navigare nelle acque internazionali (alto mare) del Mediterraneo centrale, tutte in condizioni di grave sovraccarico, siano da ritenere in una situazione di distress, ovvero di pericolo imminente, senza attendere che la situazione a bordo, come possibili vie d’acqua o il fermo del motore, o le condizioni meteo divengano talmente gravi da comportare la perdita di vite umane. perdite che infatti si sono verificate in diverse occasioni, nel corso delle “attività di valutazione” da parte delle autorità competenti.
Dalla responsabilità del soccorso e del coordinamento immediato, non appena pervenga una notizia di un evento di soccorso, che non si può derubricare ad “evento migratorio”, discende l’obbligo di indicare un porto di sbarco sicuro per la conclusione di una operazione di salvataggio. In base all’art. 19 comma 2 della stessa Convenzione Unclos“il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Nel caso della conclusione delle operazioni di salvataggio, con riferimento alla situazione normativa esistente al tempo dei fatti nell’agosto del 2019, non era certo configurabile un caso di passaggio “non inoffensivo” neppure inventando il rischio della presenza probabile di sospetti terroristi tra i naufraghi. Come maldestramente suggerito, nel caso Open Arms e non solo, dai nostri servizi di informazione. Che adesso ritornano al centro dell’attenzione con lo scoppio della bolla mediatica del sottomarino italiano che avrebbe raccolto filmati sui soccorsi della Open Arms nell’agosto del 2019, mai trasmessi al Tribunale dei Ministri ed alla Procura di Palermo. Sembra davvero che in questo procedimento penale si possa parlare di tutto, ma non della contestata responsabilità penale dell’imputato.
11 Naufraghi o dirottatori? Il caso Vos Thalassa davanti alla Corte di Cassazione: la Libia non è un paese terzo sicuro
11.1 Una pronuncia della Corte di Cassazione contro gli accordi conclusi con la Libia
Il 16 dicembre 2021 la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado sul caso Vos Thalassa, stabilendo che “è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare, facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo Stato libico”.
La precedente sentenza della Corte di Appello di Palermo che è stata cassata senza rinvio dalla Corte di Cassazione aveva “ribaltato” la decisione del Tribunale di Trapani che nel 2019 aveva assolto due migranti accusati nel 2018 di avere “dirottato” nel Canale di Sicilia un rimorchiatore battente bandiera italiana, il Vos Thalassa, al fine di evitare, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali, di essere ricondotti in Libia. La quarta sezione della Corte di Appello di Palermo aveva così stabilito una condanna a 3 anni e 6 mesi per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina, a carico di due dei 67 migranti raccolti a bordo della Vos Thalassa, in realtà naufraghi, e non “clandestini”, come li definisce la sentenza, che erano stati soccorsi l’8 luglio 2018 in zona Sar libica da questo rimorchiatore, e poi trasbordati sulla nave Diciotti della Guardia costiera italiana, con la quale erano giunti a Trapani. Dopo il diktat dell’allora ministro dell’interno Salvini, che richiedeva espressamente, prima il respingimento collettivo di tutti i naufraghi e poi l’arresto di coloro i quali, con la loro ribellione, si erano opposti alla prospettiva di essere riportati in Libia. Mentre la nave Diciotti della Guardia costiera italiana veniva bloccata all’ingresso del porto di Trapani, alcuni Ministri del governo da poco in carica, avevano definito come “facinorosi” i naufraghi, arrivando a chiedere che fossero sbarcati “in manette” dalla nave militare italiana (Diciotti) sulla quale erano stati trasbordati. Lo sbarco in porto aa Trapani vveniva soltanto dopo un intervento del Presidente della Repubblica. Si palesava in quella circostanza una evidente pressione delle autorità politiche sulla magistratura perchè assumesse iniziative penali funzionali alla politica dei “porti chiusi” adottata dal governo giallo.verde da poco in carica.
La sentenza emessa dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani il 23 maggio 2019, rilevava che «il potere della autorità libiche di impartire a quelle italiane direttive in vista del rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese…deriva dall’accordo stipulato tra Italia e Libia nel 2017», che però, in assenza di una approvazione parlamentare ai sensi dell’art.80 della Costituzione, sarebbe «giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa». La decisione del giudice trapanese, che, sulla base dei rapporti delle Nazioni Unite, rileva l’esposizione ad abusi dei migranti internati nei centri di detenzione libici, equipara le eventuali riconsegne di migranti alla Guardia costiera libica ad un «respingimento collettivo», vietato dalle Convenzioni internazionali. E infatti si osserva come. «se si riflette un momento sul fatto che i67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro (…)
La sentenza della Corte di Appello di Palermo “ribaltava” questa impostazione, e dopo essere stata pubblicata con ampi stralci dal Corriere della sera, che all’epoca dei fatti aveva seguito con particolare attenzione la vicenda, dando anche spazio alle dichiarazioni dell’armatore della nave, che escludeva qualsiasi “dirottamento“, è finita in mano alla propaganda sovranista. Che ha prontamente colto l’occasione per un ulteriore difesa della linea di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e di collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica”, politica perseguita dall’ex ministro dell’interno Salvini, ma in realtà avviata già in precedenza da governi diversi, a partire dal 2007, per efffetto degli accordi stipulati nel tempo con le autorità di Tripoli. Il 30 luglio 2018, ad esempio, un’altro rimorchiatore battente bandiera italiana,“in assistenza alla piattaforma di estrazione ‘Sabratah’ della Mellita Oli & Gas”, l’Asso 28, aveva riportato a Tripoli oltre cento naufraghi intercettati in acque internazionali. Ed ancora di recente, si sono confermati i finanziamenti alla sedicente Guardia costiera “libica”, ritenuta l’unica autorità competente ad operare in quella che si continua a definire come zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”. Anche se la Libia, in preda da anni alla guerra civile, non esiste più come stato con un governo che ne controlli l’intero territorio, e non dispone di un servizio SAR unico che, in conformità alle Convenzioni internazionali, garantisca la salvaguardia del diritto alla vita dei naufraghi. Le autorità europee, come l’agenzia FRONTEX, e gli stati che hanno concluso con Tripoli accordi di collaborazione per contrastare “l’Immigrazione clandestina”, come Malta e l‘Italia, continuano comunque a collaborare con la sedicente Guardia costiera libica e ne assistono i mezzi navali, per le operazioni di “law enforcement” ( contrasto dell’immigrazione “clandestina”), nel caso dell’Italia con la missione NAURAS della Marina militare italiana presente a Tripoli.
11, 2 Le motivazioni della Corte di appello di Palermo e le posizioni governative
Esamineremo qui le principali motivazioni della sentenza della Corte di Appello di Palermo, largamente anticipate sui media, per verificare se possa risultare’ “ideologico” richiamare il principio di gerarchia delle fonti e la valenza del diritto internazionale in base all’art.117 della Costituzione, mentre non sarebbe “ideologico” ritenere che i migranti che fuggono dalla Libia, ma anche dalla Tunisia, siano tutti migranti “volontari” o che sia possibile, e legittimo, disporre respingimenti collettivi in Libia sia pure a carico di persone sospettate di avere commesso reati. Come avviene purtroppo sempre più spesso in questi ultimi tempi, la qualifica di un giudizio come “ideologico” esclude una confutazione con argomenti di merito e gioca sull’alternativa secca tra “vero” e “falso”, anche quando i fatti non sono riducibili a categorie ben delimitate e sono stati oggetto di valutazioni di segno opposto. Come si è verificato nel tempo a proposito del Memorandum d’intesa concluso il 2 febbraio 2017 tra il governo italiano e le autorità di Tripoli, e come è confermato dal dibattito, ancora in corso, sul sostegno offerto dall’Italia alla sedicente Guardia costiera “libica”.
In sintonia con l’indirizzo giurisprudenziale adottato dalla Corte di Appello di Palermo, la politica sembra confermare che: gli accordi con i libici non si toccano, anche se, dopo le agenzie delle Nazioni Unite, il Papa avverte che il destino di chi rimane intrappolato in Libia è un destino di morte e di torture. Non si può certo parlare, neppure sul piano strettamente giuridico, di “partenze volontarie” dalla Libia, in tutti i casi si tratta di migranti forzati, che fuggono da un territorio in preda alla guerra civile e nel quale non sono garantiti da nessun governo i diritti fondamentali della persona, come avvertono l’UNHCR e lOIM, che invitano gli Stati a non respingere naufraghi verso quel paese.
Secondo quanto riferito dal Corriere della sera il 10 luglio 2020, “l”assoluzione dei due migranti dirottatori (definiti dai giudici di appello come «clandestini») deriverebbe da un «approccio ideologico», e costituirebbe una interpretazione addirittura «criminogena» del concetto di «legittima difesa applicata al diritto del mare», che potrebbe «creare pericolose scorciatoie”, ammetendo «condotte dotate di grande disvalore penale ai limiti dell’ammutinamento»: al punto che «chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare da una unità italiana, sicuro di potere minacciare impunemente l’equipaggio qualora esso dovesse disobbedire a un ordine impartito dalla Guardia Costiera di uno Stato» (la Libia) «che, piaccia o no, è riconosciuto internazionalmente».
Per la Corte di Appello di Palermo, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe dunque configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché «i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione».
La principale argomentazione offerta dai giudici della Corte di Appello di Palermo per escludere la ricorrenza di un caso di legittima difesa sembra poggiare sul principio, che si ritiene come consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui “la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell’ingiustizia dell’offesa, ma per difetto della necessità della difesa”. (Sez. I sentenza n. 2654 del 23 gennaio 2012). In altri termini, sempre secondo la Corte di Appello di Palermo, i migranti si sarebbero posti in stato di pericolo volontariamente, “sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio, di tal che l’intervento di soccorso non può in alcun modo essere considerato, nella dinamica causale che caratterizzò l’evento, come un fatto imprevedibile, bensì come l’ultimo di una serie di atti programmati, finalizzati a raggiungere il suolo europeo, con una serie di tappe prefissate”.
Secondo gli stessi giudici “venne dunque posta in essere una condotta da parte dell’organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità ( la partenza su un barcone di legno stipato di persone e chairamente inadatto alla traversata del Canale di Sicilia) atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale, e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti in suolo italiano”. Per questa ragione non sarebbe stato possibile ritenere operante la scriminante della legittima difesa, come aveva ritenuto invece il Tribunale di Trapani, in quanto le “azioni minacciose” poste in essere dai due migranti ribelli, asseritamente ai danni del Comandante, del primo Ufficiale e di un marinaio, non sarebbero state poste in essere per “la necessità di difendere il proprio diritto dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio ( per i migranti) di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte del Vos Thalassa di un ordine impartito da uno stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi”.
Sembra non assumere rilievo per i giudici della Corte di Appello di Palermo tanto la gravità e l’attualità del pericolo corso dai naufraghi raccolti a bordo della Vos Thalassa, quanto testimoniato nel processo di primo grado da alcuni migranti che avevano descritto con dettagli agghiaccianti le violenze subite in Libia prima della partenza, non certo volontaria, verso le coste italiane. Una donna, in particolare, aveva testimoniato, davanti al GUP di Trapani, di essere stata rinchiusa per giorni, prma dell’imbarco, all’interno di una casa adoperata dai trafficanti (probabilmente una connecting house) e di avere subito più volte violenze sessuali. Come sarebbe potuto avvenire di nuovo in caso di suo ritorno a terra, in base a quanto documentato dalle agenzie delle Nazioni Unite sulla sorte dei migranti riportati in Libia. La situazione di qiesta persona e delle altre soccorse dal rimorchiatore Vos Thalassa non era certo “volontariamente determinata”, ma era frutto di una condizione di grave e continuata violenza e di totale privazione dei diritti umani, ai quali neppure il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, riusciva a porre rimedio. Ma anche questo punto dela motivazione fornita dal Tribunale di Trapani, nel successivo giudizio di appello rimane privo di rilievo. La valutazione anticipata della situazione di pericolo nella quale si sarebbero messi i naufraghi soccorsi dalla Vos Thalassa, operata dai giudici della Corte di appello di Palermo al fine di escludere la ricorrenza della legittima difesa, sembrerebbe muovere da un presupposto, potremmo dire ideologico, e non giuridico, che se può avere un fondamento in qualche massima della Corte di Cassazione relativamente a vicende criminali avvenute in circostanze di fatto assai diverse, andrebbe attentamente rivalutato alla luce della normativa sovranazionale e delle specifiche circostanze di fatto verificatesi nel caso del soccorso in mare, in acque internazionali, da parte di un rimorchiatore battente bandiera italiana.
lSi aggiunga che il pericolo evidenziato dal gruppo di migranti che si era ribellato a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa quando questo, su indicazione aveva fatto rotta verso un porto libico , era determinato dal paventato ritorno negli stessi luoghi nei quali i migranti, nella migliore delle ipotesi, sarebbero stati rinchiusi in un centro di detenzione, alla mercè delle milizie e dei trafficanti.
La Corte di Cassazione afferma che l’accertamento della legittima difesa putativa, così come di quella reale, deve essere effettuato con giudizio ex ante – e non già ex post – delle circostanze di fatto, rapportato al momento della reazione e dimensionato nel contesto delle specifiche e peculiaricircostanze concrete al fine di apprezzare solo in quel momento l’esistenza dei canoni della proporzione e della necessità di difesa, costitutivi, ex articolo 52 del codice penale , dell’esimente della legittima difesa. Non si vede come questo principio di diritto possa essere affermato in favore di cittadini italiani, ed invece escluso quando si tratta di stranieri, che comunque si trovano a bordo di una imbarcazione battente bamdiera italiana, dunque in territorio italiano. Nella sentenza della Corte di Appello di Palermo sul caso Vos Thalassa, questo principio è completamente ribaltato, lasciando il giudizio ex ante non già al giudice, ma alla parte, e non nel momento in cui l’attualità del pericolo diviene attuale, bensì nell’atto genetico di una condotta neutra quale è quella di lasciare il Paese di origine, e poi quello di transito, in stato di guerra civile, per sottrarsi a conflitti, persecuzioni politiche e fame.
11.3. Caccia ai trafficanti, o guerra ai soccorritori ?
Non si rinviene peraltro traccia, nel processo di primo grado, e nella sentenza della Corte di appello, dell’organizzazione criminale che avrebbe fatto partire i migranti dalla Libia e dei nessi o dei patti che avrebbero legato i suoi componenti ai migranti imputati per essersi ribellati alla prospettiva di essere riportati in Libia. Peraltro, da anni, come si ricava da rapporti ben documentati, costituisce fatto notorio il trattamento dei naufraghi intercettati in mare dalla sedicente Guardia costiera “libica” e riportati a terra. Come del resto costituiva, e costituisce ancora oggi, fatto notorio la circostanza che il governo di Tripoli non riesce ad esercitare la sovranità sull’intero paese, in buona parte controllato dall’Esercito definito come Libyan National Army (LNA) del generale Haftar, al punto che deve la sua sopravvivenza ad accordi con le milizie che rappresentano le principali città costiere della Tripolitania, controllando altresì i porti e le relative autorità marrittime. In Libia non esiste una centrale di coordinamento unica della Guardia costiera –MRCC (che le Convenzioni internazionali imporrebbero), ma si ha soltanto una coordinamento tra le diverse guardie costiere che controllano singoli tratti delle acque territoriali libiche (JRRC) e assetti aerei stranieri . Sono peraltro accertati i rapporti tra i trafficanti e importanti rappresentanti della cosiddetta “Guardia costiera libica”. Tutti elementi di fatto già oggetto di indagine a livello internazionale anche da parte della Corte Penale internazionale, se non accertati nelle sentenze della giurisprudenza italiana, come risulta confermato il “sostanziale” coordinamento delle motovedette libiche da parte di assetti militari italiani, già rilevato dal giudice delle indagini di Catania nel marzo del 2018 sul caso Open Arms. Un coordinamento operativo che, dopo il riconoscimento di una zona SAR libica, nel giugno del 2018, ha assunto il carattere di una assistenza tecnica fornita dalla missione Nauras a Tripoli e di un tracciamento dei barconi, in collaborazione con Frontex, con ampia delega alle motovedette libiche di intervenire anche al di fuori delle proprie acque territoriali.
11.4 La giurisdizione italiana e la decisione della Corte di Cassazione sul caso Vos Thalassa.
Si deve rilevare che i naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana, si trovavano in territorio italiano sin dal momento in cui erano saliti a bordo di questa imbarcazione, e che se fossero stati ricondotti in Libia a bordo della stessa, avrebbero potuto subire trattamenti inumani o degradanti e si sarebbe configurato un respingimento collettivo, vietato dall’art. 4 del quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, analogo a quello disposto dal ministero dell’interno nel 2009, quando la motovedetta della Guardia di finanza Bovienzo riportò a Tripoli alcune decine di migranti, intercettati in acque internazionali. Per quel respingimento collettivo (caso Hirsi), e per i trattamenti inumani e degradanti che ne derivarono, l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con una sentenza che non può essere ignorata dai giudici italiani. Anche nel 2018 e ancora oggi sono migliaia i naufraghi intercettati in acque internazionali e riportati a terra dalla sedicente Guardia costiera “libica” ed a chiunque si trovi intrappolato in quei territori sono ben note le conseguenze di questi respingimenti collettivi. I naufraghi raccolti dalla Vos Thalassa potevano certo rappresentarsi cosa li avrebbe attesi al loro ritorno in Libia.
Come si è già osservato in dottrina, la sentenza del Tribunale di Trapani, che va riconsiderata dopo la Cassazione senza rinvio del giudizio della Corte di Appello di Palermo, fornisce infatti una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”.
Secondo quanto osservato nel rapporto dell’UNHCR riportato nella sentenza del Tribunale di Trapani, “Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’Uomo. Da tale excursus emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa – non solo i due soggetti identificati, ma anche tutti gli altri concorrenti nel reato, stavano vedendo violato il loro diritto ad essere ricondotti in un luogo sicuro e, specularmente, che l’ordine impartito dalle autorità Libiche alla Vos Thalassa fosse palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo”.
11,5 La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza di condanna della Corte di Appello di Palermo sul caso Vos Thalassa
Il 16 dicembre 2021 la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado, stabilendo che “è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare, facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo Stato libico”.
La Corte di Cassazione riprende in pieno il punto centrale della sentenza di condanna dell’Italia pronunciata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi. Si tratta di una questione su cui è il 23 febbraio 2012 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata, a seguito di un ricorso presentato da alcuni cittadini somali ed eritrei i quali, nel maggio 2009, avevano tentato di raggiungere le coste italiane; le loro imbarcazioni erano state intercettate dalla Guardia costiera italiana e i migranti, a bordo di navi militari italiane, erano stati ricondotti in Libia (da dove erano partiti alla volta dell’Italia) ed affidati alle autorità locali.
La Corte (europea, n.d.a.), ricostruito il quadro normativo, ha innanzitutto ribadito che, in virtù delle disposizioni riguardanti il diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera; si tratta di un principio di diritto internazionale che, da una parte, ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato, e, dall’altra, ad affermare la giurisdizione anche nelle operazioni di salvataggio in alto mare.
Pur nella consapevolezza da parte della Corte “che gli Stati situati alle frontiere
esterne dell’Unione europea incontrano attualmente notevoli difficoltà nel far fronte ad un crescente flusso di migranti e di richiedenti asilo”, della impossibilità di “sottovalutare il peso e la pressione imposti sui paesi interessati da questa situazione, tanto più pesanti in quanto inseriti in un contesto di crisi economica”, della consapevolezza “delle difficoltà legate al fenomeno delle migrazioni marittime, causa per gli Stati di ulteriori complicazioni nel controllo delle frontiere meridionali dell’Europa”, si è tuttavia chiarito come “stante l’assolutezza dei diritti sanciti dall’articolo 3, ciò non può esonerare uno Stato dagli obblighi derivanti da tale disposizione”.
Sulla base di tali presupposti la Corte europea dei diritti dell’Uomo aveva ritenuto nella specie violato l’art. 3 della Convenzione, da una parte, perché i ricorrenti erano stati riaccompagnati in Libia, benché fosse noto che in tale Paese essi sarebbero stati esposti al concreto rischio di subire trattamenti contrari alla Convenzione, in violazione dunque del principio di non – refoulement (§ 85-138), e, dall’altra, perché i ricorrenti, in seguito al loro riaccompagnamento in Libia, correvano il rischio di essere rimpatriati in Somalia o in Eritrea, dove sarebbero stati con ogni probabilità sottoposti a trattamenti anch’essi contrari a quanto disposto dalla Convenzione (§ 139-158). Ma la valutazione della Libia come paese non sicuro viene estesa dalla Corte di cassazione fino all’epoca dei fatti oggetto del processo Vos Thalassa (luglio 2018). Ben oltre quindi la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli ( febbraio 2017) ed anche dopo la auto-dichiarazione di una zona SAR “libica”, avvenuta alla fine di giugno del 2018.
La Corte di Cassazione conclude che “La Libia nel luglio dei 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento dunque non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti”. Interessante notare che questa considerazione si riferisce anche ad un tempo successivo al riconoscimento internazionale di una zona SAR “libica”.
Nell’annullare senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Palermo, la Corte di Cassazione osserva che “la Corte di appello, colora il proprio ragionamento giuridico
riportando, oltre ad alcune considerazioni generali, le dichiarazioni dei pubblici ufficiali che erano a bordo del rimorchiatore e che si trovarono a fronteggiare le condotte di resistenza compiute dai migranti quando questi appresero del respingimento in Libia.
Dopo aver descritto dette condotte, che pure erano state riportate dal Tribunale, la
Corte – a pag. 13- dedica poche righe alla valutazione delle dichiarazioni rese da
numerose persone diverse dagli imputati, assunte anche in sede di incidente
probatorio, che invece erano state esaminate dal Tribunale per spiegare come: a) la
reazione fu originata dalla prospettiva di essere ricondotti in Libia; b) le persone
minacciarono di gettarsi in mare e lasciarsi morire piuttosto che essere respinti in Libia; c) il significato di alcuni gesti obiettivamente minacciosi, come quello “di passarsi il dito intorno alla gola”, avesse una valenza non esclusivamente minacciosa nei riguardi del comandante di quella imbarcazione, ma evocasse uno condizione ed uno stato di disperazione delle persone, molte delle quali avevano lasciato intrapreso quel viaggio per allontanarsi da paesi di provenienza a loro volta non sicuri. Al riguardo, osservano ancora i giudici della cassazione, la Corte (di Appello), in violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata e di quello di rinnovazione della prova dichiarativa, ex art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen., si è limitata ad affermare che le dichiarazioni in questione fossero “sostanzialmente confermative delle azioni minacciose violente poste in essere dagli odierni imputati al fine di costringere il comandante del rimorchiatore a invertire la rotta già impostata
verso la Libia ed a puntare verso Nord, ossia versi l’Italia” (così a pag. 13).
Anche in questo caso una motivazione non conforme agli obblighi imposti dalla legge.Né, ancora, è stato spiegato, diversamente da quanto aveva fatto il Tribunale, se ed in che limiti la reazione fu sproporzionata; si tratta di un profilo nemmeno contestato dal Procuratore appellante, tenuto conto dei beni e dei diritti posti in pericolo a seguito di un respingimento che non poteva essere disposto e che causò la reazione delle persone a bordo di quella nave.
La Corte di Cassazione ha così deciso che la sentenza della Corte di appello di Palermo poi impugnata, risultava “viziata sul piano della motivazione e nell’applicazione della legge penale in ordine ad entrambe le imputazioni, ai temi fondanti relativi alla oggettiva configurabilità dei reati contestati, alla responsabilità degli imputati. Dunque, una sentenza che deve essere annullata senza rinvio perché i fatti non sussistono”.
12. I divieti di sosta in porto e gli “sbarchi selettivi” della direttiva “Piantedosi” nel novembre del 2022: l’intervento correttivo del Tribunale di Catania.
12.1.Quando le ONG presentano ricorsi tempestivi contro atti illegittimi delle autorità italiane.
Una importante ordinanza del Tribunale di Catania ha accertato l’illegittimità della mancata autorizzazione allo sbarco e dei provevdimenti su cui questa si basava, tra cui il Decreto interministeriale del 4 novembre 2022, con riferimento al diritto di alcuni naufraghi soccorsi dalla nave Humanity 1 e giunti nel porto di Catania di presentare domanda di asilo in Italia, mentre la Guardia di finanza, il 6 novembre dello scorso anno, notificava al comandante della nave, su ordine del ministro dell’interno Piantedosi, il divieto di sostare nelle acque territoriali, intimando l’immediata partenza, con il “carico residuo” a bordo.
Il comandante della nave si rifiutava allora di lasciare il porto con le 35 persone ancora rimaste a bordo della nave, fino a quando non fosse stato consentito a tutti i naufraghi, che nel frattempo avevano iniziato uno sciopero della fame, di scendere a terra. Dopo due giorni, l’8 novembre 2022 tutti i migranti sbarcavano dalla nave, a seguito della valutazione psichiatrica da parte dell’equipe medica del Servizio di salute mentale (USMAF). Anche se dopo lo sbarco di tutti i naufraghi veniva meno l’oggetto del ricorso cautelare, il Tribunale di Catania in composizione monocratica si pronuncia adesso sulla legittimità del divieto di sbarco imposto dal Ministro dell’interno, di concerto con i ministri delle Infrastrutture, e della Difesa, affermando la “soccombenza virtuale” dei ministri convenuti, condannati al risarcimento delle spese legali, alla luce delle violazioni accertate in materia di diritto internazionale dei soccorsi in mare e della normativa internazionale ed interna in materia di diritto alla protezione.
Le motivazioni che adotta il Tribunale di Catania appaiono in linea con quella giurisprudenza di merito, e di legittimità, in particolare con la sentenza della Corte di Cassazione n.6626 del 16/20 febbraio 2020 (caso Rackete) che ha stabilito la infondatezza delle accuse rivolte alla comandante della nave appartenente alla ONG Sea Watch per avere adempiuto ai doveri di soccorso in acque internazionali senza ricevere assistenza e coordinamento dalle autorità italiane, ed anche per questo motivo trovandosi costretta ad infrangere divieti di ingresso nelle acque territoriali.
Il Tribunale di Catania boccia quindi la prassi dei cd. “sbarchi selettivi”, imposta dal Viminale a novenbre dello scorso anno, ed oggi apparentemente abbandonata, affermando che la Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) vieta qualunque possibilità di distinguere al fine dello sbarco a terra, tra i diversi naufraghi in base alle condizioni di salute.
Si ricorda quindi la nota affermazione della Corte di Cassazione secondo cui non si può ritenere “che l’attività d isalvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
12.2 Rilievo delle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR,
Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13).
Il Tribunale di Catania conclude dunque per la illegittimità del decreto interministeriale del 4 novembre del 2022 perchè consentendo il salvataggio (comprensivo dell’approdo e sbarco in luogo sicuro) “solo a chi sia in precarie condizioni di salute”, contravviene il contenuto degli obblighi internazionali in materia di soccorso in mare.
12.3. Il diritto di accesso al territorio dello Stato per presentare una istanza di protezione
Il Tribunale di Catania individua poi un’altro profilo di illegittimità del decreto Piantedosi del 4 novembre 2022, con riferimento al diritto dei migranti di presentare domanda di protezione internazionale. Si richiama in proposito l’art.10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 secondo cui “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
Si richiama anche la normativa interna (decreti legislativi 25/2008 e 142/2015) ed eurounitaria (Direttiva 2013/32/UE) che non consentono alla Pubblica amministrazione, secondo quanto osserva il Tribunale di Catania, di discriminare fra i migranti in base a presupposti diversi da quelli indicati dalla legge, che impone tempi brevi per la presentazione della domanda di asilo, proprio in conisderazione della “particolare vulnerabilità di chi, socorso in mare, riesca ad approdare sul territorio di uno dei paesi membri dell’Unione”. A questa stregua, la violazione dell’obbligo di ricevere la domanda di protezione da parte di uno straniero comunque giunto alla frontiera italiana, per ragioni di soccorso, “si pone in contrasto anche con il divieto di trattamenti inumani o degradanti, previsto dall’art.3 CEDU e dell’art.4 Prot. n.4 Cedu,che sancisce il divieto di espulsioni collettive“, “nonchè integra violazione dell’art.3 CEDU per la mancanza di un rimedio effettivo riconosciuto ai ricorrenti in opposizione al respingimento automatico colletivo”. Si ricorda in proposito che l’Italia è stata condannata in precedenti occasioni dalla Corte europera dei diritti dell’Uomo, con le sentenze n. 16643 del 2014 (caso Sharifi) e n. 27765 del 2012 (caso Hirsi), per la violazione dell’art. 13 in combinato disposto con gli articoli 3 Cedu e 4 Protocollo n.4 Cedu, per non avere provveduto alla identificazione dello straniero soggetto alla sua giurisdizione ed alla sua valutazione individuale, non fornendo neppure informazione circa eventuali procedure da esperire. Alla luce di tutte queste considerazioni, il Tribunale di Catania conclude che “laddove non fosse cessata la materia del contendere, per l’avvenuto sbarco, il ricorso sarebbe stato accolto,con conseguente condanna dei Ministeri resistenti al pagamento delle spese di giudizio, da distrarsi ai difensori che hanno proposto rituale istanza”.
12.4. Le conseguenze della decisione del Tribunale di Catania sulla giurisprudenza e sulla legislazione
L’importanza della decisione del Tribunale di Catania va oltre la rilevanza del caso affrontato, per gli importanti principi di diritto, evidentemente ricavati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, e dunque di portata che può andare oltre il caso concreto, principi di diritto che andrebbero tenuti presenti tanto dal legislatore, che sta affrontando la conversione in legge del Decreto legge n.1 del 2023, impropriamente titolato “sulla gestione dei flussi migratori” ma in realtà rivolto esclusivamente contro le ONG che operano attività di soccorso in acque internazionali, quanto in procedimenti penali nei quali si discute di analoghi divieti di ingresso nelle acque territoriali o di sbarco in porto.
Per quanto riguarda il Decreto legge n.1 del 2023 in corso di conversione, che segna tra l’altro l’abbandono della prassi dei cd. “sbarchi selettivi”, il richiamo al diritto internazionale ed alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo dovrebbe impedire l’approvazione di norme che rimettono alla discrezionalità dei ministri la valutazione della legittimità dei soccorsi, e sembrerebbero quasi imporre di rivolgersi per il coordinamento ad “autorità competenti” in base alla sudivisione delle zone SAR del Mediterraneo, anche nel caso di paesi che non garantiscono alcun rispetto dei diritti umani, che non prevedono procedure eque e soggiorno legale per i rchiedenti asilo, e sono ancora caraterizzati da ampie aree di convergenza tra autorità statali ed organizzazioni criminali (come nel caso della Libia, ed in diversa misura della Tunisia).
Ma è sul processo Open Arms nei confronti dell’ex ministro dell’interno Salvini (adesso ministro delle infrastrutture) che i criteri interpretativi del sistema gerarchico delle fonti normative internazionali ed eurounitarie che disciplinano il soccorso in mare, lo sbarco dei naufraghi e la proposizione delle domande di asilo, potrebbero avere l’impatto maggiore. I principi di diritto affermati dal Tribunale di Catania, peraltro già ribaditi dalla Corte di casazione nella sentenza Rackete, contraddicono punto per punto la difesa dell’imputato Salvini nel processo a Palermo.
12.5 In particolare le conseguenze della decisione del Tribunale di Catania sul processo Open Arms/Salvini a Palermo
La difesa di Salvini, sostenuta dai media più vicini, ha cercato di giustificare il rifiuto arbitrario nella indicazione del porto di sbarco e il prolungato trattenimento a bordo di Open Arms in acque nazionali, di fronte a Lampedusa, contestando le attività di ricerca e soccorso svolte al tempo dei fatti, nell’agosto del 2019, dalla nave umanitaria in acque internazionali. Da ultimo la difesa ha chiesto di utilizzare addirittura un filmato dei primi soccorsi in acque internazionali girato da un misterioso sommergibile italiano, spuntato fuori durante l’audizione del Capo dipartimento del ministero dell’interno Mancini, su circostanze del tutto ininfluenti sull’accertamento delle responsabilità dell’imputato, che aveva negato la indicazione di un porto di sbarco sicuro, in contrasto con quanto previsto dal Diritto internazionale. Ma sull’omissione degli obblighi di coordinamento che spettavano in quella circostanza a qualunque unità navale militare in acque internazionali è stata recentemente presentata, da parte del team legale di Open Arms, una denuncia alla Procura del Tribunale di Roma. Le norme europee impongono del resto precisi obblighi di intervento, per la salvaguardia della vita umana in mare, alle unità militari presenti anche in acque internazionali, pure se impegnate in attività di “law enforcement” ( contrasto delle attività criminali).
Di certo, il provvedimento del Tribunale di Catania e lo stesso Decreto n.1 del 2023 cancellano la tesi della competenza primaria dello Stato di bandiera nella indicazione del Place of safety, una delle principali tesi difensivaa di Salvini nel processo Open Arms a Palermo. La competenza degli Stati di bandiera non si può anteporre alle competenze degli Stati costieri richiesti di un POS e in grado di indicare un porto di sbarco nel place of safetypiù vicino. La difesa del ministro Salvini non può giustificare i divieti di ingresso in porto, dove si sarebbe dovuta concludere l’operazione di soccorso, adducendo che sarebbe toccata alla Spagna, Stato di bandiera della nave, la tempestiva indicazione di un porto di sbarco. E non è certo un caso che i successivi decreti legge adottati nel 2023 dal governo Meloni abbandonino qualunque richiamo alla questione della cometenza dei paesi di bandiera delle navi soccorritrici per la indicazione di un porto di sbarco dopo soccorsi effettuati in acque internazionali.
Secondo quanto rilevato da autorevoli esponenti della Guardia costiera italiana, in linea con le posizioni adottate fino al 2017 dai diversi governi italiani, anche se “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”, comunque «in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo”. L’autorità SAR “competente” per il coordinamento dei soccorsi e quindi per l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro è soltanto l’autorità SAR ( dunque la Centrale di coordinamento- MRCC della Guardia costiera) di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri. Se per “autorità competenti” dalle quali si dovrebbe attendere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, fino alla indicazione del porto di sbarco sicuro, non si intendono le autorità bandiera o quelle di paesi che non possono garantire place of safety (POS) o si rifiutano di offrire porti di sbarco sicuri, l’Italia, come paese di primo contatto deve garantire il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio e la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Tanto nel caso Open Arms, come nel caso Humanity 1, dunque, tutti i naufraghi dovevano essere sbarcati in un porto italiano, nel tempo più veloce ragionevolmente possibile, ricevere informazioni adeguate sul loro stato giuridico ed avere accesso alle procedure di asilo e protezione speciale.
Anche per la Commissione Europea non esiste una competenza primaria dello Stato di bandiera nella individuazione di un porto sicuro di sbarco, che secondo le Convenzioni internazionali dovrebbe essere raggiunto “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”, e dunque non può certo trovarsi nel paese di bandiera della nave. Quanto asseriva il Viminale ancora di recente, sulla competenza dello stato di bandiera della nave soccorritrice, che l’operato delle ONG in acque internazionali non fosse “in linea con le norme europee”, è stato smentito frontalmente da tutti gli stati europei e dalle autorità di Bruxelles, dopo che i decreti rivolti da Piantedosi alle due navi delle ONG fatte entrare nel porto di Catania all’inizio di novembre dello scorso anno, citavano un Regolamento europeo (n.1624 sel 2016) che era stato abrogato nel 2020 e linee guida internazionali dell’IMO che affermavano l’esatto opposto. In passato la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e la Germania avevano respinto le richieste italiane di assumere la responsabilità di coordinamento dei soccorsi per garantire lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto indicato. dallo Stato di bandiera.
12.6 La posizione dell’Alto Commissariato delle zioni Unite per i rifugiati e ricaduta sui procedimenti penali in Italia
Un recente documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ribadisce che le procedure per la richiesta di protezione possono svolgersi soltanto dopo lo sbarco delle persone in un porto sicuro e che le richieste di asilo non possono essere inoltrate al comandante della nave, e per suo tramite allo Stato di bandiera, ma vanno indirizzate alle autorità del paese di sbarco. La questione della redistribuzione dei naufraghi, o meglio dei richiedenti asilo, verso altri paesi UE, secondo quanto previsto dal vigente Regolamento Dublino III (n.604 del 2013), o da eventuali accordi a livello europeo, non può avvenire che dopo lo sbarco a terra e la formalizzazione delle volontà individuali tendenti a richiedere uno status di protezione. Secondo quanto richiama nel suo ultimo documento l’UNHCR, al di là delle questioni legali e giurisdizionali, da un punto di vista politico e per mantenere il sostenibilità del sistema di ricerca e soccorso, “è indesiderabile a parità di tutto il resto localizzare responsabilità primaria per l’asilo senza riserve sugli Stati di bandiera. Gli Stati di bandiera dovrebbero, tuttavia, esserle pronti a partecipare a misure di ripartizione delle responsabilità insieme ad altri Stati per garantire un rapido sbarco e accesso all’asilo”.
In base alla Costituzione italiana (art.13) ed alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (art.5), qualunque forma di limitazione della libertà personale operata per effetto di atti amministrativi va prevista dalla legge (riserva di legge) e sottoposta a convalida giurisdizionale ( riserva di giurisdizione).E questo vale anche in tutti i casi nei quali si determina di fatto un respingimento collettivo, come adombrato nella sentenza del giudice di Catania, nel caso di rifiuto di sbarco di un gruppo di naufraghi neppure identificati, che dovrebero essere portati fuori dalle acque territoriali dal comandante della nave, che si trova però sottoposta, trovandosi in porto, o nell’immediata vicinanza di un porto, come nel caso Open Arms del 2019) sotto la piena giurisdizione italiana. E qui ricorre anche la sentenza n. 105 del 2001 della Corte Costituzionale, mai contraddetta da altre pronunce giusdizionali, nella quale si legge che “Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani.”
Deve ricordarsi al riguardo anche quanto osservava già il Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, quando, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro nell’agosto 2019, avrebbe violato le convenzioni internazionali. Secono i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.”
12.7. Gli obblighi di indicare un porto di sbarco sicuro a conclusione di una operazione di ricerca e salvataggio in acque internazionali
In base all’art.11 comma 1 ter del D. Lgs. 286/1998 non si può vietare l’ingresso in porto di una nave che chieda di potere sbarcare naufraghi soccorsi in mare in quanto tale ipotesi configura un “passaggio inoffensivo” ai sensi dell’art.18 della Convenzione UNCLOS, e non già quella contemplata dall’art. 19 lettera g della stessa Convenzione che, nel richiamo ai “passaggi non inoffensivi”, deve riferirsi ai soli casi di immigrazione irregolare non connessi ad una operazione di soccorso in alto mare. La classificazione di un evento di ricerca e salvataggio (SAR) come evento di immigrazione clandestina, che poi è la sostanza della qualificazione come “evento migratorio”, non può permettere agli Stati costieri, ed in particolare all’Italia, di eludere gli obblighi di ricerca e soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali. Obblighi che, come si è visto in precedenza, includono la indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) e il trasferimento finale dei naufraghi a terra nel più breve tempo ragionevolmente possibile. A partire dai decreti sicurezza di Salvini le autorità italiane hanno rifiutato di assegnare un Place of safety (POS) alle navi di soccorso della società civile, negando che si trattasse di veri eventi SAR (Search and Rescue), con riferimento a persone in situazione di distress, ed assegnando, nei casi in cui veniva consentito l’ingresso nelle acque territoriali, un porto di destinazione (POD) e non un porto di soccorso (POS). In modo da esporre la nave ed il suo equipaggio a successivi provvedimenti sanzionatori di natura penale ed amministrativa contestando la violazione di leggi in materia di soccorso in mare o di immigrazione.
Adesso questi divieti di sbarco risultano evidentemente illegittimi, ed anche per questa ragione il legislatore (con il Decreto n.1 del 2023) sembra orientato a diverse modalità di ostacolo delle operazioni di soccorso in acque internazionali svolte “in maniera non occasionale” dalle navi delle Organizzazioni non governative. Da qui deriva la più recente prassi di impedire soccorsi successivi e di indicare porti di sbarco più lontani possibile, in attesa che si formi in Europa una maggioranza di destra che disciplini ancora più restrittivamente le attività di ricerca e salvataggio (SAR) delle ONG. Ma queste aspettative italiane saranno deluse ancora una volta, anche se non si potrà evitare che la mistificazioni sui risultati del governo italiano in sede europea producano ulteriori vantaggi elettorali a chi si dimostra capace soltanto di inasprire la venatura identitaria delle politiche rivolte contro i migranti e chi li soccorre. Sia il Consiglio d’Europa che le Nazioni Unite hanno chiesto al governo italiano il ritiro del Decreto legge n.1 del 2023 e la sospensione degli accordi con i libici, a fronte della condizione di conclamata insicurezza nella quale vengono rigettati i naufraghi intercettati dala sedicente Guardia costiera libica, ma il governo Meloni sembra intenzionato a tirare dritto, in direzione della ulteriore violazione delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei. Con l’intervento del legislatore e con lo strumento del decreto legge si vorrebbe sovvertire l’ordine gerarchico delle fonti normative fissato dalla Costituzione e confermato da una consolidata giurisprudenza.
La tenuta della giurisdizione diventa a questo punto fondamentale, e questo vale per tutti i processi in corso, in materia di soccorsi in mare, per impedire una defintiva sconfitta del principio di realtà ed, in fondo, del carattere democratico dello Stato, basato sul rispetto degli obblighi internazionali (richiamati anche dall’art.117 della Costituzione) che garantiscono il diritto alla vita ed al soccorso. Senza distinzioni in base alle condizioni di salute dei naufraghi (salvo i casi di evacuazione medica – MEDEVAC) o alle modalità operative dei soccorsi operati dalle ONG.
Tocca anche alle Organizzazioni non governative ritrovare compatezza e capacità di risposta, attraverso ricorsi e denunce, nei confronti di ordini illegittimi dell’autorità, o in caso di applicazione di normative palesemente in contrasto con norme internazionali o con Regolamenti europei. Ogni ulteriore acquiescenza a direttive o ad ordini imposti dalle autorità italiane, che non siano conformi agli obblighi di ricerca e salvataggio stabiliti a livello sovranazionale,, fino allo sbarco nel porto sicuro più vicino, individuati anche dalla giurisprudenza penale italiana, come si è visto in precedenza, non potrà che comportare la definitiva sconfitta del soccorso umanitario nel Mediterraneo centrale e lo “svuotamento”, con l’allontanamento delle ONG, di questa vasta area di acque internazionali dove si incrociano numerose rotte migratorie, con un ulteriore aumento delle vittime.
13. Il Decreto legge (anti ONG)n. 1 del 2023 e i riflessi sul piano penale e amministrativo.
13.1 La disciplina dei soccorsi in mare non riguarda la “gestione dei flussi migratori”
Decreto legge n.1 del 2023, che nel titolo sembra rivolgersi alla “gestione dei flussi migratori”, ma che in realtà è tutto orientato ad impedire o a rallentare le attività di soccorso delle navi civili, integra e modifica, l’articolo 1 del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130, con- vertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173, che a sua volta modificava in parte la formulazione dei divieti introdotti nel Testo unico immigrazione (art. 11) dal decreto-legge n. 53 del 2019 (c.d. decreto sicurezza-bis). Questo ennesimo provvedimento urgente corrisponde in pieno, come previsione generale, a quanto previsto dal Decreto Lamorgese n.130 del 2020, secondo cui il provvedimento di limitazione o divieto adottato dal ministro dell’interno può riguar- dare il transito e la sosta delle navi, senza più fare riferimento invece a divieti di ingresso nelle acque territoriali. Il nuovo decreto legge si pone quindi su una linea di continuità con le misure di contrasto dei soccorsi umanitari sperimentate in passato, attraverso divieti di ingresso, di transito, di sosta o di sbarco imposti dal ministero dell’interno. Non si può definire però come un “codice di condotta” per le Ong, che non lo hanno sottoscritto, come si è voluto far credere, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi che pone il nuovo testo di legge. Problemi che risiedono soprattutto nel mancato coordinamento Sar degli Stati costieri e nella collaborazione operativa che sembra prevista anche con paesi che non rispettano i diritti umani, in particolare con il governo di Tripoli e con le autorità militari e politiche che lo supportano.
13.2 Il contenuto del decreto legge n. 1 del 2023.
Si riconferma il potere del ministro dell’interno di vietare il transito e la sosta nelle acque territoriali, alle navi umanitarie che abbiano soc- corso naufraghi in zone Sar di competenza di altri paesi, sulla base di una lettura distorta dell’art.19 della Convenzione Unclos di Montego Bay del 1982 e dunque arrivando a qualificare come “non inoffensivo” il transito e l’ingresso in porto delle navi che hanno a bordo naufraghi salvati in acque internazionali non rientranti nella zona Sar italiana. Ma solo nel caso che si tratti di Ong, come si evince dal richiamo contenuto nel decreto alle attività “non occasionali” di ricerca e soccorso. Perché il ministro dell’interno non adotti sanzioni nei casi di navi umanitarie che hanno soccorso naufraghi in acque internazionali, o nelle zone Sar di altri paesi, occorre riscontrare congiuntamente una serie di condizioni per ritenere “inoffensivo” il passaggio della nave civile straniera attraverso le acque territoriali italiane, al solo fine di sbarcare i naufraghi. I divieti di ingresso non sarebbero applicabili nel-e ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento Sar e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali in materia di diritto del mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali ed europee in materia di diritto di asilo.
Nel testo del Decreto legge n.1 del 2023 si richiama anche il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146 che pure prevede la priorità della salvaguardia della vita umana in mare rispetto alle esigenze di difesa dei confini e del “contrasto dell’immigrazione irre- golare”. La “difesa dei confini” e la “lotta ai trafficanti” devono cedere di fronte alleesigenze di salvaguardare la vita umana in mare. La Con venzione Solas stabilisce infatti che il «comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione…» (Capitolo V, Regolamento 33(1)). I comandanti delle navi, dunque, non possono essere costretti dalle autorità marittim degli Stati costieri ad attendere una qualsiasi autorizzazione governativa per operare un salvataggio.
13,3 Il richiamo rituale all’intervento delle autorità europee e le reazioni internazionali
Le responsabilità dei governi nazionali, e di quello italiano in particolare, non possono essere nascoste dietro generici rinvii all’auspicio che sulle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale intervenga l’Unione Europea. Dopo il parere di un panel di giuristi del Consiglio d’Europa, il 26 gennaio 2023, è stato reso noto il pronunciamento politico della Commissaria ai diritti umani Mijatović sul nuovo decreto legge. Nella lettera indirizzata al ministro dell’interno italiano, Matteo Piantedosi, la Commissaria invita il governo italiano a valutare la revoca o la revisione del Decreto legge n. 1/2023. Le disposizioni del decreto potrebbero infatti ostacolare le operazioni di ricerca e soccorso delle Ong e, quindi, essere in contrasto con gli obblighi di soccorso dell’Italia ai sensi dei diritti umani e del diritto internazionale. La posizione della Commissaria è molto chiara:
«Il decreto e la pratica di assegnare porti lontani per lo sbarco delle persone soccorse in mare rischiano di privare le persone in difficoltà dell’assistenza salvavita delle Ong sulla rotta migratoria più mortale del Mediterraneo». Inoltre si ribadisce l’invito alle autorità italiane a sospendere la cooperazione con il governo libico sulle intercettazioni in mare, come indicato nella sua precedente Raccomandazione sul Mediterraneo centrale.
La Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Mary Lawlor, in una dichiarazione presentata il 9 febbraio scorso, ha espresso preoccupazione anche per il Decreto legge n. 1/ del 2 gennaio 2023 soprattutto per le parti che vietano i “soccorsi mul- tipli”, e impongono alle Ong di dirigere, con la massima sollecitudine e senza deviazioni di rotta, verso porti di sbarco indicati dalle autorità nazionali a notevole distanza dal luogo dei soccorsi, anche se questo pone ostacoli alle attività di salvataggio e mette a rischio vite e diritti. Secondo la Relatrice, «la legislazione è incompatibile con gli obblighi dell’Italia ai sensi del diritto internazionale». Per Amnesty International, «le misure contenute nel provvedimento hanno l’evidente obiet- tivo di ostacolare le attività di soccorso delle Ong nel Mediterraneo centrale. Fanno parte del tentativo di assicurare che il maggior numero possibile di persone sia intercettato dai guardiacoste libici e riportato in Libia a subire detenzioni arbitrarie e torture». Queste critiche hanno prodotto soltanto una serie di reazioni stizzite del governo italiano che ha utilizzato immediatamente i poteri discrezionali previsti dal nuovo decreto legge per sanzionare una nave umanitaria, la Geo Ba-rents di Medici Senza Frontiere, che, dopo il primo soccorso avvenuto in acque internazionali, durante l’avvicinamento al porto di destinazione assegnato dalle autorità marittime italiane, aveva effettuato altri due (doverosi) interventi di salvataggio di persone in mare da giorni ed esposte al rischio di naufragio, e non avrebbe fornito le informazioni richieste dalle autorità marittime. In base alle Convenzioni interna- zionali ed al Regolamento europeo n. 656 del 2014, che abbiamo richiamato in precedenza, nessuno Stato costiero può comunque vietare i “soccorsi multipli”, soprattutto se le autorità marittime nazionali sono avvertite tempestivamente, come nel caso dell’Italia, delle attività di salvataggio in acque internazionali delle Ong, ma poi non comunicano immediatamente di assumere il coordinamento delle attività Sar, continuando a negare la ricorrenza di una situazione di distress o nascondendosi dietro i conflitti di competenza con Malta.
13.4 Verso la fine dei rapporti di comunicazione e di coordinamento operativo con le ONG e le navi del socccorso civile
A fronte delle comunicazioni inviate da sempre con la massima tempestività da tutte le Ong, e rimaste senza una tempestiva risposta e senza una imediata assunzione di coordinamento da parte degli Stati costieri, quanto previsto adesso dal decreto legge n.1 del 2023, e le prassi che sono state adottate dopo la sua entrata in vigore, confermano l’obbligo delle autorità italiane di coordinare i soccorsi anche nella zona Sar libica e nella zona Sar maltese, se richieste dal comandante dell’imbarcazione civile, che comunque, in base alle Convenzioni internazionali, deve procedere ad effettuare i salvataggi con la massima rapidità. Appare molto significativo come nel decreto legge approvato di recente sia caduto qualsiasi riferimento a richieste di asilo da inoltrare ad altri stati di bandiera delle navi, prima dello sbarco in Italia, o alla redistribuzione dei richiedenti asilo, non certo dei naufraghi, in quanto tali, tra diversi paesi europei, prima di autorizzarne lo sbarco in un porto in Italia. Punti di propaganda sui quali si era arroccato Salvini, quando da ministro dell’interno, nel 2018 e nel 2019, chiedeva i pieni poteri per bloccare con i divieti di sbarco le persone soccorse sulle navi umanitarie, e persino i naufraghi raccolti dalle navi militari, tenuti per giorni a bordo delle navi ormeggiate in porto, come nel caso Diciotti, per “negoziare”, prima dello sbarco in territorio italiano, la loro ricollocazione verso altri paesi europei.
In base al testo definitivo del decreto legge n.1 del 2023, le autorità marittime nazionali sono dunque costrette ad assumere il coordinamento dei soccorsi anche al di fuori della zona Sar italiana in tutti i casi in cui ricorre una situazione di distress, come prevede del resto il Piano Sar nazionale 2020 in conformità alle Convenzioni internazionali prima citate. Viene così smentita dalle nuove norme, e dai soccorsi operati in acque internazionali dalle navi civili, dopo la sua entrata in vigore, l’ulteriore tesi difensiva di Salvini nel processo Open Arms, in cui si insiste sulla “competenza esclusiva” del paese titolare di una zona Sar. Se maltesi, libici o tunisini non intervengono in acque internazionali, nelle zone di ricerca e salvataggio che sarebbero di loro competenza, deve comunque coordinare ile attività di ricerca e salvataggio il paese di primo contatto che può garantire un place of safety.
Dunque le autorità italiane, non appena a conoscenza dell’evento Sar devono avviare attività di coordinamento dei soccorsi che non possono essere degradati ad un comune “evento migratorio”, perchè è in gioco la vita di persone in difficoltà in alto mare, chiunque le abbia aiutate a partire, qualunque siano le condizioni meteo, si tratta di va- lori umani, superiori rispetto agli obiettivi di lotta ai trafficanti ed alla difesa dei confini marittimi.
14. Il Decreto legge (Cutro) n. 20 del 2023 e l’inasprimento delle sanzioni contro gli scafisti : cosa cambia per il soccorso in mare.
14.1 La caccia globale agli scafisti
Con il “Decreto Cutro” approvato dal Senato, malgrado la mancanza del parere della Commissione affari costituzionali, oltre alle norme oggetto di scontro in Parlamento e nei media, sull’abolizione sostanziale della protezione speciale, alla riduzione delle garanzie di difesa, al rafforzamento delle misure in materia di detenzione amministrativa, sono state approvate altre disposizioni che riguardano le procedure per chi vuole entrare “regolarmente” sul territorio italiano per lavoro o attraverso corridoi umanitari, previsioni queste ultime, che però rimangono senza previsioni numeriche. Come sembrano destinate a restare prive di attuazione le previsioni in materia di visti di ingresso “fuori quota” per coloro che frequentino nei paesi di origine “Corsi di istruzione e formazione professionale”. Si prevede al riguardo la “promozione della stipula di accordi di collaborazione e intese tecniche con soggetti pubblici e privati operanti nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi di interesse per la promozione di percorsi di qualificazione professionale e la selezione dei lavoratori direttamente nei Paesi di origine”. Il governo italiano, e la maggioranza parlamentare con la quale può imporre qualsiasi provvedimento al voto dell’aula, sembrano dimenticare che i flussi migratori per lavoro sono inaccessibili per la maggior parte delle persone che sono costrette a fuggire dal proprio paese, per guerre, disastri ambientali o estrema povertà, alle quali non rimane alcuna alternativa al tentativo di attraversare il Mediterraneo affidandosi agli scafisti.
Basta scorrere l’elenco delle vittime della strage di Cutro o la lista dei paesi di provenienza dai quali arriva la maggior parte delle persone sbarcate o soccorse in questi ultimi mesi, per cogliere la inutilità di questa previsione e la sua concreta irrealizzabilità in paesi nei quali non sono garantiti neppure il diritto alla vita e la libertà di circolazione. Per non parlare delle difficoltà che si incontrano nelle rappresentanze consolari italiane all’estero per il rilascio di un visto di ingresso, sia pure nei casi più frequenti e da tempo previsti dalla legge, di ricongiungimento familiare.
Dietro la parvenza di canali legali di ingresso previsti dal decreto legge approvato dal Senato si cela il rafforzamento dei procedimenti di espulsione e respingimento, con un ricorso più esteso alla detenzione amministrativa, anche dopo lo sbarco dei richiedenti asilo. Il Decreto Cutro diventa cosi l’ennesimo strumento di propaganda, un ulteriore esempio della politica della dissuasione, una politica fatta di annunci roboanti, fino all’aberrante teoria della “sostituzione etnica”, per tentare di dimostrare che non e’ poi tanto conveniente arrivare in Italia. Una politica che va contro il principio di realtà perche si nasconde che la protezione speciale ha riguardato nel 2022 non piu’ di diecimila persone di fronte ad oltre centomila arrivi, mentre le persone che vengono o verranno effettivamente espulse dal nostro paese sono appena qualche migliaio all’anno e che sono del tutto irrealizzabili i propositi di espulsioni di massa, al di là degli annunci di propaganda elettorale. Perchè i paesi di origine non sono disposti a collaborare nelle procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato, questi sono fatti oggettivi che nessuna trattativa diplomatica è finora riuscita a modificare. E dalla Libia, del resto, non arrivano cittadini libici ma persone provenienti da vari paesi, dal Bangladesh alla Siria ed all’Africa subsahariana, che non si potranno mai respingere o deportare in massa verso un paese di transito ancora diviso tra due governi e diverse milizie in conflitto tra loro. In tutti i provvedimenti adottati dal governo Meloni, incluso il Decreto che stabilisce una lista di “paesi terzi sicuri”, si sovrappongono finalità concorenti, dalla negazione sostanziale del diritto di asilo, da intendere anche come possibilità di accedere ad un porto sicuro per presentare una istanza di protezione, fino alla strategia dell’abbandono in mare, già attuata con l’allontanamento delle navi del soccorso civile, destinate a porti di sbarco sempre più distanti dall’area dei soccorsi nel Mediteraneo centrale.
In questo quadro l’inasprimento delle sanzioni nei confronti dei presunti scafisti e la rinnovata intensità degli arresti dopo gli sbarchi non sembra destinata a modificare sostanzialmente la situazione, anche perchè i rapporti di collaborazione con le forze di polizia e con le gardie costiere dei paesi dai quali partono i barconi diretti berso l’Italia rimangono condizionati da gravssime collusioni che legano organizzazioni criminali, milizie, fino alle autorità locali ed ai più alti livelli di governo. E non solo nel caso della Libia, paese che non ha ancora un governo unitario ed istituzioni centrali democraticamente elette e riconosciute da tutti i suoi cittadini. Anche in Tunisia si riscontrano situazioni di scarso controllo delle partenze, quanto interventi tanto repentini quando devastanti per i costi che possono comportare in termini di perdita di vite umane. E non sembra meno grave la situazione in Libano o in Turchia dove le persone migranti che hanno trovato rifugio da anni in quei paesi sono sottoposti ad oni tipo di abusi e di fatto costretti a tentare la via della fuga.
L’art. 8 Il comma 1, lettera b) del provedimento introduce nel Testo unico sull’immigrazione l’articolo 12-bis, volto a prevedere la nuova fattispecie di reato di morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina. Il comma 6 del nuovo art. 12-bis introduce a sua volta una norma sulla giurisdizione volta specificare che – fermo quanto disposto dall’articolo 6 c.p in tema di territorialità – ai fini della sussistenza della giurisdizione italiana, non assume rilievo la circostanza che l’evento della nuova fattispecie delittuosa (morte o lesioni) si sia verificato al di fuori del territorio dello Stato italiano ove si tratti di condotte finalizzate a procurare l’ingresso illegale nel territorio italiano.
Si afferma così il carattere “universale” del reato di agevolazione dell’ingresso irregolare, ma non sembra potenziato il sistema di sorveglianza marittima in acque internazionali, per il quale si volevano affidare alla Marina Militare nuove mansioni di monitoraggio, anche al fine di una crescente condivisione intergovernativa delle informazioni. Che comunque è già in atto per effetto dei Regolamenti europei FRONTEX e per la interconnessione tra le agenzie di sicurezza europee e quelle dei paesi di origine e di transito, già prevista a questo livello. La giurisdizione penale italiana che si afferma in acque internazionali non potrà più escludere una correlata giurisdizione qualora nelle stesse acque internazionali si verificassero altre prassi illecite penalmente rilevanti per l’ordinamento italiano, nei casi in cui le autorità italiane siano comunque obbligate ad assumere il coordinamento di attività di ricerca e salvataggio, o a intervenire direttamente, in caso di distress se altri Stati competenti non garantiscono interventi tempestivi e luoghi sicuri di sbarco.
Appare davvero dubbio che un inasprimento delle pene, già assai elevate, previste per i cd. scafisti, che spesso non appartengono neppure all’organizzazione criminale dei trafficanti che gestisce le partenze, possa comportare vantaggi in termini di sicurezza per i cittadini e di maggiore tutela della vita delle persone che, in assenza di altre vie di fuga, sono costrette a percorrere rotte di ingresso irregolare. Che comunque non possono essere bloccate con accordi con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, negando la possibilità di presentare una domanda di asilo o di altra forma di protezione, una volta giunti comunque in frontiera. Possibilità che la Convenzione di Ginevra del 1951 sui ridugiati tutela espressamente, stabilendo il diritto di chiedere protezione una volta raggiunta una frontiera anche se irregolarmente, come peraltro avviene storicamente in tutte le parti del mondo, nella quasi totalità delle richieste di asilo. Nessun potenziale richiedente asilo si può rivolgere infatti, tanto nel paese di origine dal quale deve fuggire, quanto nel paese di transito, nel quale sovente è altrettanto esposto a forme di verse di abusi e di persecuzione, anche generalizzata, ad una rapresentanza diplomatica o consolare per il rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari. Come pure sarebbe auspicabile che avvenisse almeno nei paesi di transito, ma in condizioni di sicurezza per le persone, e per le loro famiglie, che al momento non sembrano soddisfatte in nessuno dei paesi di transito dai quali si verificano generalmente le partenze verso l’Italia.
Il caso più recente della Tunisia, nella quale si sta assistendo ad una vera e propria perscuzione delle persone in transito che provengono dall’Africa subsahariana, conferma come al momento la comunità internazionale nel suo complesso non riesca a garntire alcun canale legale di ingresso, o di ricollocazione su vasta scala, per coloro che sono portatori di istanze di protezione. Come la parte assolutamente prevalente delle persone costrette ad attraversare il Mediterraneo su rotte ch diventano sempre più pericolose non solo per le scelte dei trafficanti e per la fragilità delle imbarcazioni, ma anche per i ritardi nei soccorsi ed il ritiro (o il mancato intervento) dei mezzi statali che dovrebbero presidiare le acque internazionali.
Nei confronti delle condotte dirette a procurare l’ingresso irregolare nel territorio dello Stato, si prevede che il reato venga punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori di tale territorio. Su tale estensione della giurisdizione italiana in acque internazionali si osserva come, con la sentenza Cass. Pen., Sez. I, n. 31652 del 2021 la Corte di Cassazione abbia precisato che «il criterio di collegamento che rende incondizionatamente punibile la condotta commessa in “alto mare”, quando sia anticipatamente individuata dagli scafisti la sperata località di approdo nel territorio italiano, ma essa sia poi occasionalmente individuata dal soccorso prestato in ambito SAR, va ravvisato nella previsione dell’art. 7 c.p., comma 1, n. 5». Successive applicazioni giurisprudenziali hanno confermato questo indirizzo della Corte di Cassazione, motivo per il quale non si coglie l’esigenza di intervenire con la decretazione d’urgenza negli stessi termini già adottati dalla consolidata giurisprudenza alla quale comunque dovrà rimanere il compito di accertare tutte le circostanze di fatto, anche al di fuori dello spazio territoriale italiano, e la concreta quantificazione della pena. Sotto questo profilo non sembra possibile mettere sullo stesso piano gli organizzatori del traffico di esseri umani e coloro che a vario titolo, e spesso in condizione di costrizione, hanno contribuito alla condotta del mezzo con il quale si è realizzato, o tentato, il trasporto di persone verso i confini territoriali italiani. Chi “effettua il trasporto di stranieri”, e soprattutto chi ” compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato”, non può essere sottoposto allo stesso regime sanzionatorio di chi ” promuove, organizza, dirige, finanzia” il “trasporto” nel territorio dello Stato, Inoltre, la formulazione, adottata nel decreto, che questo tipo di trasporto sia attuato “con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità”, o “sottoponendole a trattamento inumano o degradante” ha una portata talmente generica da implicare seri dubbi sul rispetto del principio della riserva di legge in materia penale.
La formulazione dell’apparato sanzionatorio previsto dal nuovo Decreto legge appare infatti tanto ampia, e per certi aspetti sovrapponibile a norme penali già esistenti, che appare dubbio il rispetto del principio di legalità della pena, che imporrebbe una precisa definizione delle diverse fatispecie penali. Sembra in sostanza che la confusione semantica tra la figura dello scafista e quella del trafficante si estenda anche nalla ricostruzione delle ipotesi di reato e delle conseguenti pene. Eppure la Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale distingue nettamente le due ipotesi, tracciando un percorso obbligato al legislatore nazionale, come emerge anche dai due distinti Protocolli aggiuntivi, contro la tratta di esseri umani e contro il traffico illecito di migranti.
La stessa Convenzione detta norme precise in materia di giurisdizione e di cooperazione tra gli Stati per il contrasto della criminalità transnazionale con specifico rifernimento ai diversi casi di organizzazione delle reti criminali e di movimentazione delle persone attraverso canali irregolari, puntando maggiormente sulla collaborazione, anche nelle forme della richiesta di rogatoria e dell’estradizione dei responsabili, piuttosto che su una generica estensione della giurisdizione nazionale al di fuori dei limiti territoriali dello Stato e sulla sovrapposizione della figura del trafficante con la figura dello scafista.
L’inasprimento delle pene per i cd. “scafisti” non sembra peraltro costituire quell’elemento di dissuasione che si auspica per ridurre le partenze e quindi ridurre il numero delle vittime dei naufragi, mentre l’estensione della giurisdizione italiana in acque internazionali era già prevista dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, e permetteva già ai giudici penali di sanzionare con pene assai gravi gli autori di reati connessi all’immigrazione irregolare che comportavano anche la morte come conseguenza del reato.
Come si è già ricordato, una consolidata giurisprudenza aveva già stabilito infatti che sussiste la giurisdizione dello Stato italiano nei confronti di coloro che, agendo al di fuori del territorio nazionale abbiano abbandonato in acque extraterritoriali dei migranti condotti su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che le persone trasportate siano accompagnate nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità (Cass. Pen., Sez. I, 28.2.2014, n.14510). Altre sentenze della Corte, come la sentenza della Cassazione n.20503 del 2015 (con la nota tesi dell’autore mediato) riconoscevano quanto adesso ribadito dal Decreto legge n.20 del 2023. Ed altre, citate nella Relazione illustrativa del decreto, affermavano già il principio secondo cui si può ritenere sussistente la giurisdizione dello Stato italiano per il delitto di omicidio doloso plurimo commesso in alto mare a bordo di imbarcazioni prive di bandiera in danno di migranti trasportati illegalmente in Italia, in forza del principio di universalità della legge penale italiana di cui all’art. 3, comma secondo cod. pen. e – in virtù del rinvio di cui all’art. 7, n. 5, cod. pen. – della diretta applicazione della Convenzione ONU di Palermo sul contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, trattandosi di reato grave, con effetti sostanziali nel territorio italiano, commesso da un gruppo criminale organizzato nell’ambito di una complessa condotta posta in essere allo scopo di commettere i reati previsti dalla Convenzione e dei Protocolli Addizionali, tra i quali rientra il traffico di migranti verso l’Italia (Cass. Pen.,Sez. I, n. 31652 del 2021).
L’aumento delle pene stabilito nel decreto anche per reati colposi appare poi in contrasto con i principi di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e di proporzionalità della pena (art.27 della Costituzione), stabilendo la stessa pena per fattispecie assai diverse tra loro, e di differente gravità, senza arrivare ad incidere peraltro, come sarebbe vietato dalla Costituzione, sui poteri discrezionali del giudice nella determinazione effettiva della pena stabilita con la sentenza di condanna. Si rischia invece di impedire un corretto bilanciamento tra le possibili variazioni di gravità del fatto e si riducono gli spazi di quantificazione della sanzione penale riservati al giudice.
Il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. affida le scelte sulla misura della pena alla discrezionalità politica del legislatore, ma il risultato dell’esercizio di tale discrezionalità non è esente dal sindacato fondato sugli altri parametri costituzionali, tra cui quelli previsti dagli articoli 3 e 27 Cost. Emerge un orientamento che cancella la funzione rieducativa e si concentra sulla funzione afflittiva della sanzione penale. In una casistica nella quale ad essere coinvolti in questo tipo di reati sono spesso soggetti molto giovani che assumono il ruolo di scafista per non pagare il costo del passaggio e non perchè stabilmente inseriti in una organizzazione criminale.
Come ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza n.236 del 10 novembre 2016, può ricorrere la violazione del principio di proporzionalità della pena, in base agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, non solo quando una determinata pena prevista per un reato sia ingiustificatamente più severa di quella prevista per un’altro reato, ma anche quando questa stessa sanzione penale risulti di per sè sproporzionatamente severa rispetto alla gravità dei fatti oggetto di condanna. In questa sentenza la Corte, infatti, “è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale in seguito a un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata e non già in forza di una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche”. Nel caso delle sanzioni imposte nei confronti dei cd. “scafisti” rimangono da valutare nella graduazione della pena i nessi di causalità e la componente soggettiva, non potendosi certo sanzionare condotte colpose che producono la morte di una o più persone, più gravemente di condotte dolose che determinano gli stessi effetti. Non si può arrivare in sostanza a prevedere per un reato colposo che comporta la morte di una o più persone come conseguenza del comportamento illecito che si intende sanzionare, una pena che nel suo massimo edittale può risultare più severa di quella prevista in casi di omicidio volontario,
14.2 Dalla lotta agli scafisti ed ai trafficanti alla sorveglianza di polizia contro le organizzazioni non governative e gli operatori dell’informazione indipendente.
Nel decreto Cutro si riscontra un ulteriore inasprimento degli strumenti di sorveglianza soprattutto sulle persone più direttamente coinvolte nei soccorsi e nell’assistenza ai migranti in pericolo in mare, con una preoccupante sinergia tra le agenzie di sicurezza europee e le guardie costiere dei paesi di transito, che non esitano ad aprire il fuoco quando devono allontanare le imbarcazioni delle Organizzazioni non governative dall’area dei soccorsi. Eventi che si ripetono spesso a ridosso dei ricorrenti tentativi di criminalizzazione degli operatori umanitari e dei difensori dei diritti umani, lungo un asse della disinformazione di Stato che unisce ormai Roma a La Valletta ed a Bengasi, come si verifica del resto dall’Italia verso la Tunisia o l’Egitto.
Lo sapevamo da tempo, che la sorveglianza di polizia si accaniva contro chi salvava vite in mare, basti pensare come sono partite in Italia le indagini sul caso Iuventa nel 2016, su segnalazioni generiche di Frontex, prontamente rilanciate dallo SCO del Ministero dell’interno, e poi al sottomarino fantasma della Marina militare italiana che la difesa di Salvini sta usando per intorbidare i fatti e capovolgere i ruoli processuali nel procedimento penale in corso a Palermo contro l’ex ministro. Adesso è arrivata la conferma che l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex , in collegamento con Europol, e possiamo agiungere anche Eurosur, opera sistematicamente schedature sulle persone che soccorrono ed assistono o migranti o i naufraghi, anche sulla base di interrogatori di persone appena soccorse, magari prima che queste siano informate della identità degli agenti che fanno le domande e dei diritti di difesa o di asilo che comunque potrebbero fare valere. E’ evidente che dopo l’utilizzo della figura dello scafista criminale si tenta di nascondere responsabilita istituzionali. Per completare questo ennesimo disegno dissuasivo si utilizzano prove raccolte al di fuori delle regole di procedura per eliminare tutti i soggetti che potrebbero ribaltare la narrazione dominante imposta dal governo. E dunque nel mirino dei servizi di sicurezza non finiscono i veri trafficanti, protetti dagli stessi governi con in quali si fanno accordi, ma le organizzazioni non governative e gli operatori dell’informazione indipendente.
Un collegamento multiagenzia era previsto dall’ultimo Regolamento europeo Frontex n. 1896/2019 di Frontex, che stabiliva un raccordo permanente tra tutte le agenzie di sicurezza europee e le polizie dei singoli Stati membri, ed anche questo era ampiamente noto, mentre emerge soltanto adesso come al centro delle attenzione delle forze di polizia non ci fossero i trafficanti, o i presunti scafisti, ma gli operatori umanitari delle ONG. Le finalità di questi controlli sono evidenti, ed anche i risultati. Nessun vero trafficante arrestato nei paesi di origine e transito a seguito di indagini condotte da Frontex, per le coperture offerte alle organizzazioni criminali dagli stessi governi con cui si stipulano Memorandum d’intesa contro l’immigrazione illegale, ed invece si moltiplicano i processi mediatici contro chi salva vite in mare e presta assistenza a terra, chiamato a rispondere dell’accusa di agevolazione dell’ingresso irregolare.
Il dossier sulle schedature di massa operate da Frontex ed Eurosur conferma come la sfida per la democrazia in Europa nei prossimi anni si giocherà sullo scontro tra i governi, ormai quasi tutti di destra, che dettano una linea anche al Consiglio ed alla Commissione europea, e le Organizzazioni non governative, dunque con i cittadini solidali, con quella che una volta si definiva “società civile”, ma che oggi appare dispersa in mille rivoli e priva di una rappresentanza politica in Parlamento che ne difenda le ragioni. A rischio le Carte dei diritti fondamentali e le Costituzioni nazionali, il principio di separazione dei poteri e dunque lo stato di diritto, base della democrazia europea. E’ in gioco anche la libertà di associazione, perchè appare chiaro l’intento del governo di “fare fuori” tutte le ONG che non si pieghino ai suoi ordini.
Conclusioni.
Al di là delle denuncie di una società civile verso cui il ministro dell’interno Piantedosi si dichiara insofferente, occorre impegnarsi perchè la magistratura italiana e la giurisdizione europea, operando davvero su scala “universale”, accertino e sanzionino tutti i casi di abusi finora impuniti e i crimini contro l’umanità che sono diventati ormai crimini di sistema. E su tutto questo occorre combattere il raggelante senso comune diffuso nella popolazione italiana, sempre più caratterizzato da assuefazione ed indifferenza rispetto alle tante vittime in mare, ed ancora in più verso coloro che sono inghiottiti dai campi lager in Libia, o che il governo tunisino si appresta a respingere o ad espellere al di fuori del proprio territorio.
Il ruolo della giurisdizione è fondamentale per accertare fatti e responsabilità individuali, ma si dovrà anche estendere all’accertamento del rispetto delle regole di procedura, a partire dal pieno esercizio dei diritti di difesa e comprensione linguistica, fino alla compatibilità delle norme applicate con il dettato costituzionale e con il diritto internazionale. Il carattere individuale dei procedimenti rischia però di nascondere la natura universale di crimini di sistema contro l’umanità. e le complicità dei governi europei con i paesi terzi, che nascondono dietro la “lotta globale agli scafisti” e la criminalizzazione del soccorso civile, una politica di abbandono in mare che continua a mietere vittime.
Il processo penale non sembra più in grado di restituire verità e giustizia. Prima di ricostruire nuove categorie giuridiche formali, o di ricorrere a fattispecie penali da utilizzare sul piano nazionale o internazionale, riteniamo che sia necessario restituire protagonismo alle vittime e rendere i migranti che sono riusciti ad arrivare in Italia, ma anche quelli che sono ancora intrappolati nei paesi di transito, dei soggetti attivi. Che, non solo a livello individuale, ma anche con organizzazioni da loro create, possano dare voce alle denunce, fornire testimonianze che inchiodino i responsabili delle politiche di dissuasione delle migrazioni e di abbandono in mare, in modo da contribuire anche a ribaltare le falsità di sistema rilanciate da un apparato mediatico, politico e poliziesco, che continua ancora oggi a capovolgere il principio di realtà e il sistema gerarchico delle fonti normative. Di fatto un vero e proprio attentato alla democrazia, attraverso la negazione dei principi che garantiscono i diritti fondamentali della persona, nella Costituzione, nei Regolamenti e nelle Direttive dell’Unione Europea, nelle Convenzioni internazionali. Su questo terreno occorre un cambio di prospettiva, per ricostruire nuovi percorsi di solidarietà su scala transnazionale, non solo in Europa, ma anche con quanti sono ancora in un paese di transito, o sono stati ricacciati indietro nei paesi di origine. In un momento in cui prevalgono logiche di conflitto armato, che stanno dilagando in tutte le parti del mondo dovunque vi sia una questione di spartizione di risorse, sembra questa l’unica strada percorribile per affrontare il fenomeno strutturale ed irreversibile delle migrazioni fuori da un ottica meramente securitaria, e profondamente disumana, per gli effetti che produce sulle persone, incluse quelle già cittadine dei paesi di destinazione, altrimenti abbandonate ad una logica deprimente di cupo individualismo e di paura dell’altro.
7 February 2023
Excellency,
We have the honour to address you in our capacities as Special Rapporteur on
the situation of human rights defenders; Special Rapporteur on the rights to freedom
of peaceful assembly and of association and Special Rapporteur on the human rights
of migrants, pursuant to Human Rights Council resolutions 43/16, 50/17 and 43/6.
In this connection, we would like to bring to the attention of your Excellency’s
Government information we have received concerning alleged due process
violations and other worrying developments related to the ongoing trial of
human rights defenders in Trapani and the regulation of civilian search and
rescue in Italy.
Ms. Kathrin Schmidt and Messrs. Dariush Beigui, Sascha Girke and Urich
Troeder are human rights defenders and members of the Iuventa search and rescue
crew. Between July 2016 and August 2017, the Iuventa was engaged in search and
rescue activities in the Central Mediterranean, rescuing over 14,000 persons in
distress at sea, with its missions involving approximately 200 volunteers.
Serious concern as to the impounding of the Iuventa ship in August 2017 and
the opening of a criminal investigation targeting several of its crew members, as well
as other human rights defenders involved in search and rescue operations in the
Central Mediterranean, were previously addressed to your Excellency’s Government
on 1 October 2020 (ITA 5/2020). While we appreciate the response received from
your Excellency’s Government to this communication, we renew our concern in
relation to the case and the broader context for defenders of the rights of migrants,
refugees and asylum seekers in Italy in light of the below-detailed information
received.
Since 2014 and as of the time of writing, the International Organization for
Migration (IOM), through its ‘Missing Migrant’ project, has recorded the deaths and
disappearances of 20,257 migrants along the Central Mediterranean route. IOM
highlights “gaps in search-and-rescue capacity and restrictions on the life-saving work
of NGOs” as one of the factors contributing to making the route the world’s deadliest
for migrants.1 The data on deaths and disappearances collected through the project
likely represents a significant undercount.
Aside from the above-referenced communication on the specific case at hand,
concerns related to the criminalization of human rights defenders working in support
of migrants, refugees and asylum seekers in Italy and at its borders have been raised
with your Excellency’s Government by multiple Special Procedures mandate holders
on several other previous occasions (see, most recently, ITA 1/2022, ITA 2/2021, ITA
PALAIS DES NATIONS • 1211 GENEVA 10, SWITZERLAND 1 https://missingmigrants.iom.int/region/mediterranean?region_incident=All&route=3861&month=All&incident _date%5Bmin%5D=&incident_date%5Bmax%5D=2
1/2021 and ITA 7/2020). We welcome your Excellency’s Government’s continued
engagement on this issue through its responses to these communications.
According to the information received: Concerning the trial of the Iuventa crew and others In early 2021, after an investigation of over four years examining the search and rescue activities of ships of non-governmental organisations (NGOs) in the Central Mediterranean between 2016 and 2017 (see ITA 5/2020), charges were pressed by Trapani prosecutors against Ms. Schmidt and Messers. Beigui, Girke and Troeder, along with 17 other individuals, including other search and rescue crew members, two NGOs and a shipping company, for aiding and abetting unauthorised immigration under article 12.3(a) and (d) and 12.3bis of Legislative Decree 286/1998. The prosecutors alleged aggravating factors in perpetration of the supposed crime, leaving those accused facing up to 20 years in prison if convicted, along with heavy fines. The prosecution’s case centres on alleged instances of collusion between the human rights defenders and supposed smugglers during missions to rescue persons in distress at sea between September 2016 and October 2017. Those accused deny the charges against them, with the supposed criminal activity imputed to
the Iuventa crew strongly contested, including on the basis of a detailed forensic reconstruction of the events in question.
On 21 May 2022, preliminary criminal proceedings in the case were opened at
the Court of Trapani, with the judge to examine the argument for the advancement of the proceedings to a full trial. Since this date, multiple hearings in the preliminary proceedings have taken place, with delays repeatedly ordered by the court in response to the prosecution’s failure to comply with due process guarantees designed to safeguard the defendants’ right to a fair trial, including their right to be properly informed about the
proceedings and served with adequate notice of the charges against them. Delays have also been required due to the failure of the authorities to provide adequate interpretation for foreign defendants in the case during police questioning and court proceedings. While the case file was left untranslated by the prosecution at the outset of proceedings, the presiding judge subsequently ordered the translation of its summary – a document prepared by the police.
The complete case file, including attachments laying out the evidence proposed by the prosecution, remain untranslated. Such issues are reportedly common in cases involving foreign defendants, and notably migrants, in Italy. On 19 December 2022, both the Prime Minister’s Office and the Ministry of Interior applied to the court to join the case as plaintiffs, seeking compensation for alleged moral and financial damage caused by crimes alleged by the prosecutors. This request is currently under consideration by the court. On the same date, the court ordered the provision of additional interpretation for foreign defendants in the trial.
The next date in the proceedings is set for 10 February 2023. Concerning new practices related to the indication of ports of disembarkation and the impact of Decree-Law 2 January 2023, n. 1 on civilian search and rescue activities.
Since late December 2022, a new practice has been observed in relation to the
indication of ports of disembarkation for persons in distress rescued by search
and rescue ships crewed by non-governmental organisations (NGOs). In a change from previous procedure, whereby NGO search and rescue ships were regularly instructed to navigate towards ports in southern Italy to disembark persons rescued in distress in the Central Mediterranean, such ships are now being uniformly instructed to navigate to ports in north and central Italy to disembark rescued persons, requiring them to embark on much longer journeys, with persons in distress left on board for much greater periods of time. Such practice was observed, for example, on six dates between 22 December 2022 and 25 January 2023, with NGO search and rescue ships complying with instructions on each occasion, including on at least one instance in which severe weather conditions forced a ship’s captain to request a new port of disembarkation – a request which was denied. A total of 542 persons in distress were involved in these six instances, including women and children. Ports indicated for disembarkation have included those in Ancona, Livorno and La Spezia, all at several days sailing further than ports in southern Italy. On at least one instance, a request to tranship rescued persons from one NGO ship to another, to avoid both being obliged to navigate to a distant assigned port, was rejected by the authorities.
The measures appear to have thus far been applied exclusively in situations in which NGO search and rescue ships request ports of disembarkation, with the Italian Coast Guard and Guardia di Finanza continuing to receive instructions to disembark rescued persons in ports in southern Italy. In a further development, on 2 January 2023, a new decree-law regulating the activities of civilian search and rescue organisations was adopted following signature by the President. The Decree, which modifies Decree-Law 21 October 2020, n.130, grants power to the Minister of Interior to limit or prohibit the transit or stay of civilian search and rescue ships in Italian territorial waters for reasons of public order and security, and lays out a set of requirements for ships to comply with in order to avoid such exclusion or restrictions. These requirements are as follows:
a) that any ship carrying out systematic search and rescue activities at sea ensure their operations conform with the requirements of the flag State, ncluding any required certifications, and comply with technical requirements related to safety of navigation;
b) that persons rescued by such ships be promptly informed of their right to seek international protection and that, where those rescued express a desire to exercise their right, that the crew members gather data relevant to their claim to be shared with the authorities;
c) that requests for the indication of a port of disembarkation will be requested immediately;
d) that the port indicated by the competent authorities will be reached without delay;
e) that the crew members will cooperate with the police and national search and rescue authorities so as they may reconstruct rescue operations carried out;
f) that search and rescue activities will not be carried out in a way that would create danger or interfere with reaching the indicated port of disembarkation promptly.
Failure to comply with these requirements may be subject to sanction through fines ranging from 10,000 to 50,000 Euro, while any violation may result in the seizure of the ship involved for a period of two months. Repeated violations may result in the confiscation of the ship.
Without wishing to prejudge the accuracy of the information received, we express our serious concern as to the alleged due process violations in the criminal proceedings against the Iuventa crew and others. In particular, we underline our concerns as to the failure to provide the defendants with crucial documents in the case in a language they understand and to ensure their full and effective participation in the court proceedings through the provision of suitable interpretation. We further express our concern that such failings may be systematic in court proceedings brought against non-Italian speaking defendants in Italy, and represent a much broader trend of impingement of the right to a fair trial.
We reiterate our concern, expressed in the above-cited communication to your
Excellency’s Government from October 2020, that the opening and pursuit of the case
against the human rights defenders amounts to the criminalisation of their legitimate human rights activities, namely, saving lives at sea. In this regard, we express our concern at the repeated use of article 12 of Legislative Decree 286/1998 to target human rights defenders working in the area of the human rights of migrants (see ITA 1/2022 and ITA 1/2021), and underline our concerns as to the compatibility of the legislation with international standards on people smuggling, and notably with the definition of smuggling provided in article 3(a) of the UN Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air.
We express profound regret at the Government’s decision to apply to join the case as a plaintiff, which would appear to signal a conviction on the part of the State to pursue the further conflation of the essential work of human rights defenders as criminal activity, and, in particular people smuggling. We underline that such an approach severely undermines Italy’s stated commitment to uphold human rights and actively support human rights defenders.
We believe the enactment of Decree-Law 2 January 2023, n.1 and the new practice relating to the indication of ports of disembarkation for NGO search and rescue ships not to be disconnected from the prosecution of human rights defenders engaged in search and rescue activities. With the Iuventa ship seized since 2017, and its crew members facing the threat of criminal prosecution since the same year, the search and rescue activities it had been carried out have been forced to a halt.
Similarly, the cumulative effect of the new practice of indicating ports of disembarkation in northern and central Italy and the new Decree-Law, in particular its imposition of an obligation on NGO captains to request ports of disembarkation immediately and to sail to them without delay, appears to be the removal of NGO search and rescue ships from the Central Mediterranean – the area in which their presence is required – with subsequent negative impacts on the human rights of migrants in distress at sea, impeding on their right to exercise their legitimate activities for the protection and promotion of human rights. The effective prohibition of multiple rescues on the same voyage would appear to further compound this impact. We express serious concern about the compatibility of the new Decree-Law and practice with international law, as detailed in the Annex below. In connection with the above alleged facts and concerns, please refer to the Annex on Reference to international human rights law attached to this letter which cites international human rights instruments and standards relevant to these allegations.
As it is our responsibility, under the mandates provided to us by the Human Rights Council, to seek to clarify all cases brought to our attention, we would be grateful for your observations on the following matters:
1. Please provide any additional information and/or comment(s) you may have on the above-mentioned allegations.
2. Please provide information as to the rationale and factual basis motivating the request of the Prime Minister’s Office and Ministry of Interior to join the case against the Iuventa crew and others as plaintiffs. In particular, please provide information as to the compatibility of this action with the State’s responsibility to create and maintain a safe and enabling environment for human rights defenders and NGOs and their work.
3. Please provide information as to the measures put in place to guarantee the right of the Iuventa crew members and others accused in the trial to a fair trial, in particular by ensuring adequate translation of documents relevant to the case and suitable interpretation during court proceedings.
4. Please provide information as to any assessment undertaken to assess the compatibility with Decree-Law 2 January 2023, n. 1 and the new policy on the indication of ports of disembarkation with Italy’s obligations under international human rights law, international
maritime law and the law of the sea, as referenced in the below Annex.
If such assessments have not been carried out in connection with either the Decree-Law or the policy, please provide detailed information as to their compatibility with the referenced standards.
We would appreciate receiving a response within 60 days. Past this delay, this communication and any response received from your Excellency’s Government will
be made public via the communications reporting website. They will also subsequently be made available in the usual report to be presented to the Human Rights Council.
While awaiting a reply, we urge that all necessary interim measures be taken to halt the alleged violations and prevent their re-occurrence and in the event that the investigations support or suggest the allegations to be correct, to ensure the accountability of any person(s) responsible for the alleged violations.
We may publicly express our concerns in the near future as, in our view, the information upon which the press release will be based is sufficiently reliable to indicate a matter warranting immediate attention. We also believe that the wider public should be alerted to the potential implications of the above-mentioned allegations. The press release will indicate that we have been in contact with your Excellency’s Government’s to clarify the issue/s in question.
Please accept, Excellency, the assurances of our highest consideration.
Mary Lawlor
Special Rapporteur on the situation of human rights defenders
Clement Nyaletsossi Voule
Special Rapporteur on the rights to freedom of peaceful assembly and of association
Felipe González Morales
Special Rapporteur on the human rights of migrants
MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS AND INTERNATIONAL COOPERATION
Inter-ministerial Committee for Human Rights
Comitato Interministeriale per i Diritti Umani
ITALY’S REMARKS
FOLLOWING JOINT COMMUNICATION FROM UN SPECIAL RAPPORTEUR ON THE SITUATION OF HUMAN RIGHTS DEFENDERS, UN SPECIAL RAPPORTEUR ON THE
RIGHTS TO FREEDOM OF PEACEFUL ASSEMBLY AND OF ASSOCIATION, AND THE SPECIAL RAPPORTEUR ON THE HUMAN RIGHTS OF MIGRANTS
(AL ITA 1/2023)
April 2023 ITALY’S REMARKS
Further to UN Special Rapporteurs’ joint communication (AL ITA 1/2023), dated February 7th , 2023, the Government of Italy is in a position to provide the following information, according to the UN questions formulated.
With regard to the relevant judicial proceedings As for the measures put in place to ensure the right to translation of procedural documents and interpreting services for the defendants in the criminal proceedings pending before the Tribunal of Trapani, the following observations have been made on the basis of the extensive information received from the competent judicial offices (Presidency of the Tribunal of Trapani and Office of the Preliminary Hearing Judge of the Tribunal of Trapani).
The penal proceeding to which the UN communication refers (p.p. No. 4060/2016 R.G.N.R. – No. 816/2017 R.G.I.P.) is pending against 19 defendants, for numerous alleged crimes of aiding and abetting illegal immigration (the charges formulated concern 29 alleged crimes).
At present, the proceeding is at the preliminary hearing stage in which the Judge is called upon to decide whether to grant the request of committal for trial formulated by the Public Prosecutor’s Office. The request for the setting of the preliminary hearing was filed by the Public Prosecutor’s Office on March 4, 2022; and the Judge set the preliminary hearing for the date of May 21, 2022, by a decree that was translated into English, French, German, and Spanish in relation to the language known by the alloglot defendants.
All hearings were held with the assistance of two German-speaking interpreters (as reflected in the hearing minutes) so that the German-speaking defendants present could participate. It should be noted that the other foreign defendants have remained absent.
Regarding the adjournments of the hearing mentioned in the UN communication, the Preliminary Hearing Judge (in Italian, GUP) was called upon to decide on numerous exceptions made by the defendants’ defenses. Moreover, several postponements were ordered by the Judge upon joint agreement of all parties concerned (public prosecutor and defendants’ counsels) to allow for the unified handling of the positions of all defendants (some of which had been separated due to the need to make new notifications of notices, as deemed previously irregularly made by the Judge). With regard to the translation of the acts of the proceedings (and, in particular, of the acts contained in the public prosecutor’s file concerning the investigations carried out), it is worth noting that already on April 14, 2021 – therefore, about a year before the filing of the request of committal for trial – the Judge for Preliminary Investigations (in Italian, GIP) ordered that in the forms of the expert report (perizia) the final notice of the Judicial Police dated June 10, 2020 be translated into English and German; and on May 28, 2021, the judicial authority informed the defendants that the translation had been deposited. It is necessary to point out that the full-bodied final report of the Judicial Police, the translation of which was ordered, is not a summary prepared by the Judicial Police for the purposes of the translation itself:
It is the complete and exhaustive exposition of all the evidence acquired in the course of the investigation regarding the alleged crimes and is intended to provide the public prosecutor with the elements to determine whether to prosecute. Consequently, it is an act of the proceedings that allows the defendants to have full knowledge of the charges against them and of all the evidence acquired in connection with the crimes under investigation.As for the translation of the documents attached to the Judicial Police report, by an order dated October 3, 2022, the Preliminary Hearing Judge (GUP) examined the exception raised by the defense concerning the failure to translate the above-mentioned documents (an exception previously raised also before the Preliminary Investigation Judge (GIP)). The Judge found this exception to be unfounded. In particular, the Judge pointed out that Article 143 of the Code of Penal Proceedings (right to an interpreter and translation of fundamental acts) prescribes in Paragraph 2 the (mandatory) translation of
a number of acts of the proceedings (including the notice of conclusion of the preliminary investigation, the decree of setting the preliminary hearing). Paragraph 3 of the same article provides that the judge, also at the request of a party, may order, by a reasoned act being appealable together with the judgment, the translation of additional acts (or parts thereof) as deemed essential to enable the defendant to know the charges against him/her. In the case at hand, the Judge ordered the translation of the final Judicial Police report as an essential act to enable the defendants to know fully the charges against them as well as the grounds for those charges.
By the order dated October 3, 2022, the Judge also pointed out that the provision of Article 143 of the Code of Penal Proceedings is fully consistent with the content of Article 3 of Directive 2010/64/EU on the translation of essential documents – and this is also in light of the provisions of Article 6 ECHR, Article 11 of the Universal Declaration of Human Rights, and Article 14 of the International Covenant in Civil and Political Rights. Indeed, Article 3(1) of the above-mentioned Directive provides that “Member States shall ensure that suspected persons or defendants who do not understand the language of the criminal proceedings receive, within a reasonable time, a written translation of all documents
which are essential to ensure that they are able to exercise their right of defense and to safeguard the fairness of the proceedings.” Article 3 of the above EU Directive also does not require the translation of all documents in criminal proceedings, but only those that are essential to enable the defendant to exercise his or her right of defense.
By the order dated October 3, 2022, the Judge gave ample reasons about the extent of the translation of the final information notice without the translation of the annexes (the most significant excerpts of which, however, are included in the same information notice): This document sets out in an ample and exhaustive manner the charges made against the defendants and the evidence on which they are based, so as to enable them to exercise their right of defense.
It is to be added that, with regard to the questionings of one of the German-speaking suspects before the Judicial Police and the public prosecutor (held on Oct. 29, November 12, and Dec. 2.2022) during which the suspect was assisted by a German-speaking interpreter, the defense objected before the Preliminary Hearing Judge (GUP) to the alleged inadequate competence of the interpreter (and the consequent invalidity of the questioning and subsequent acts).
The Preliminary Hearing Judge (GUP), notwithstanding the fact that the interpreters appointed by the public prosecutor had adequate qualifications and certificates of proficiency in German, also ordered the full transcription of the questionings (audio-recorded) with the help of two German-speaking translators and an English-speaking translator, in order to ascertain the quality of the translation provided by the interpreters appointed by the public prosecutor to perform the questionings; and also proceeded, once the transcription of the questionings was finished, to hear one of the translators.
By order dated February 10, 2023, the Judge with ample reasoning rejected the exception, pointing out that, based on the transcript of the questionings and the hearing of the expert, it had emerged that during the questionings the interpreters had ensured adequate interpretation services to the suspect.
The in-depth study carried out by the Judge, by a specific expert report (perizia), shows the great care of the Italian judicial authority for the safeguards aimed at ensuring the participation of the alloglot suspect/defendant in all stages of the criminal proceedings.Against this background, penal proceedings are pending before the Tribunal of Trapani against, among others, K.S., D.B, S.G., and U.T..
According to the accusatory hypothesis, supported by extensive investigative activity and relevant evidentiary material, the above individuals have allegedly violated, in complicity with each other and with other persons, the provisions provided for in Article 12, paragraph 3, letters a) and d), and paragraph 3-bis, of Legislative Decree No. 286/1998. Administrative liability dependent on crime, in accordance with Articles 5(1) and 24-bis of Legislative Decree No. 231 of 2001, is also configured against some NGOs and a shipping company.
In particular, the penal proceedings concern episodes of aiding and abetting illegal immigration and the illegal transportation of migrants in the territory of the State, which were allegedly committed, on different dates in 2016 and 2017, by a plurality of individuals, who held, at the time of the facts, command functions, or other roles of responsibility aboard naval assets belonging to or otherwise in the possession of various NGOs. These organizations would have obtained, for their part, greater public and media visibility, with a consequent increase in the participation, including economic type, of their supporters, while the shipping company, owner of the ships, in dependence of the crimes committed by the masters, would have collected greater income from the chartering of the vessels, in relation to their constant action in the numerous events under reference.
In connection with the aforementioned penal proceedings, the Public Prosecutor’s Office at the Tribunal of Trapani filed a request for committal for trial against the defendants; a request that was granted by the Judge for Preliminary Investigations (GIP) of the Tribunal of Trapani, with the preliminary hearing being set at the same time.
It is to be noted that the conducts of the defendants has caused damage specifically to the Ministry of the Interior correlated to their incidence, on the one hand, on the activity of countering the phenomenon of irregular immigration – that is, on a qualifying and central point of national policy on public order and security – as well as, on the other hand, on the exercise of further functions and tasks inherent to the management of migratory flows. Consequently, the above-mentioned Ministry of the Interior, upon authorization by the Presidency of the Council of Ministers, pursuant to Article 1, paragraph 4, of Law
No. 3/1991, through the State District Attorney’s Office in Palermo, submitted an application seeking to join civil action (dichiarazione di costituzione di parte civile) to the relevant penal proceedings, pursuant to Articles 76 et ff. c.p.p..
With regard to relevant newly introduced legislation With specific regard to the provisions introduced by Decree-Law No. 1 of January 2, 2023, converted with amendments by Law No.15 of February 24, 2023, mention has to be made of the following:
Contrary to what is briefly reported in the UN Joint Communication, Decree-Law No. 130 of October 21, 2020, converted with amendments by Law No.173 of December 18, 2020, already contained the provision of the power of the Minister of the Interior, in consultation with the Minister of Defense and the Minister of Infrastructure and Transportation, and after informing the President of the Council of Ministers, to restrict or prohibit the transit and stopover of vessels in the territorial sea, for reasons of public order and safety, except in the case of military vessels or vessels on non-commercial governmental service. This power, both in the original wording of DL. No.130/2020 and in the current wording following the amendments made by DL No.1/2023, is without prejudice to the provisions of Article 83 of the Navigation Code and the 1982 UN Convention on the Law of the Sea of Montego Bay.
Decree-Law No.1/23 continues to provide that the provisions on the power to prohibit transit or stopover in the territorial sea do not apply in the case of rescue operations immediately notified to the competent coordination center for maritime rescue and to the flag State and carried out in compliance with the instructions of the competent Authority for search and rescue at sea, issued on the basis of obligationsarising from international conventions on the law of the sea, the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, and national, international and European standards on
the right of asylum, without prejudice to the provisions of the Additional Protocol to the UN Convention against Transnational Organized Crime to Combat the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air.
The changes introduced by Decree-Law No.1/23 are aimed at balancing the need to ensure the safety of persons recovered at sea in compliance with the relevant international and national law, with that of protecting public order and safety, in accordance with the provisions of the 1982 UN Convention on the Law of the Sea of Montego Bay.
In this perspective, the conditions under which the activities carried out by vessels carrying out interventions to rescue people at sea can be deemed to comply with international conventions (1982 UN Convention on the Law of the Sea, UNCLOS Convention; 1974 Convention for the Safety of Life at Sea, SOLAS Convention; International Convention on Maritime Search and Rescue, adopted in Hamburg in 1979, SAR Convention with its associated “Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea” Resolution MSC 167 (78), of 2004) and national rules on the law of the sea.
A new sanction regulation has been then introduced, currently with the provision of penalties of an administrative nature, and no longer of a criminal nature, with the repeal of the former criminal penalties.
The conditions under which transit and stopover activities are deemed to comply with national and international law are as follows:
(a) The ship systematically conducting search and rescue activities at sea operates in accordance with the certificates and documents issued by the competent authorities of the flag State and is maintained in compliance with them for the purposes of safe navigation, prevention of pollution, certification and training of seafarers, and living and working conditions aboard;
b) Initiatives were taken in a promptly manner to inform persons taken aboard of the possibility of applying for international protection and, in case of interest, to collect relevant data to be made available to the Authorities;
(c) The assignment of the port of disembarkation has been requested in the immediacy of the event;
(d) The port of disembarkation assigned by the competent Authorities is reached without any delay for the completion of the rescue operation;
(e) The Italian Sea Search and Rescue Authorities, or, in the case of the assignment of the port of disembarkation, the Public Safety Authorities, are provided with the information required for the purposes of acquiring elements relating to the detailed reconstruction of the rescue operation put in place;
(f) The vessel’s modality of search and rescue at sea has not contributed to the creation of dangerous situations aboard or has not prevented the timely reaching of the port of disembarkation.
It is worth noting, with specific regard to the conditions under letters (c) and (d) above, that they are aimed at enabling the immediate coordination of rescue operations by the Italian Authorities, for the best success of the operations themselves, as well as to facilitate the identification of the boat drivers (scafisti), who are to be prosecuted.
Under the current system, there is no prohibition against multiple rescue operations, should an NGO on its way to its assigned port of disembarkation come across another vessel in distress. Instead, the provision aims to ensure that once the rescue operations at sea have been carried out, NGOs head to the assigned port without any delay for the completion of the rescue operation, so as to conclude the rescue in the shortest possible time, with a view to protecting and safeguarding the rights and safety of the rescued persons, without pausing at sea to wait for other future and only possible rescues.
Against this background, with regard to the issues raised in relation to Decree-Law No. 1/2023, mention has to be made of the following.This measure has intervened on the activities carried out by private vessels, which carry out activities of recovery (recupero) of persons at sea, with the aim of preventing possible abuses of the relevant provisions referring to rescues operated occasionally – and not, instead, to activities of systematic and
non-occasional interception and recovery of migrants departing from the African coasts.
In this perspective, the requirements in the presence of which the intervention can be considered in compliance with international standards and national legislation are indicated, thus excluding the adoption of interdictory or sanctioning measures. These are functional conducts for the most promptly securing of recovered persons, constituting the protection of human life an absolute priority.
Contrary to the assertions made, the new provisions do not prevent NGOs from carrying out multiple interventions at sea, as evidenced, moreover, by the several recent events in which multiple rescues actions have taken place. Nor, much less, do these provisions oblige NGOs to ignore any further requests in the area if they have already taken people aboard. Such interventions are in fact, legitimate, if carried out in accordance with the rules of conduct enucleated by the legislator and with the indications by the competent maritime rescue coordination center.
As for the concerns regarding the assignment to NGO ships of places of safety other than those in southern Italy, it is to be pointed out, preliminarily, how the choice to diversify the ports of call is based on the inescapable need to operate a more equitable redistribution between the regions, not so much of migrants, usually transferred to reception facilities located throughout the national territory, as of the organizational and logistical burdens related to the management of landings.
The objective pursued is, in other words, to relieve the facilities of very first reception, first of all, the Lampedusa hotspot, at which, as is well known, there are frequent situations of serious overcrowding, and the burdens weighing on the mechanisms and Corps in charge of the management of migrant arrivals in the regions of southern Italy and, in particular, in Sicily and Calabria, subjected for months to the growing pressure also of the so-called “autonomous landings”.
Moreover, the assertion that NGO ships would be assigned only ports in central and northern Italy does not correspond to the truth, since, on the contrary, the aforementioned ships on the basis of an overall assessment of the circumstances of the case, also result in having been assigned the ports of Salerno, Gioia Tauro, Taranto, Naples, Brindisi, Lampedusa and Bari.
Finally, it should be added that the ships that have so far been assigned a POS (place of safety) in more distant locations are large assets and as such being suitable for safe long crossings, and that the assignment of the POS always presupposes a preliminary discussion with technical bodies, in order to verify the absence of possible situations of risk to the safety of persons on board.
CONCLUSION
We take this opportunity to reiterate our firm willingness to continue cooperating fully with all UN Special Procedures