28 marzo 1997 – 28 marzo 2023 : la strage del Venerdì Santo, quando il governo “amico” decise il blocco navale con l’Albania

di Fulvio Vassallo Paleologo

Ci sono voluti diciassette anni e tre gradi di giudizio perchè la Corte di Cassazione facesse almeno una parvenza di giustizia, sia pure riducendo al minimo le pene, sulla strage del Venerdì Santo del 1997, quando il primo governo Prodi, in carica quell’anno, ordinò alla corvetta Sibilla della Marina militare di eseguire “manovre cinematiche di interposizione” per impedire la prosecuzione della traversata verso le coste italiane di un barcone partito dall’Albania, da poco libera dalla dittatura ed in preda ad una devastante crisi economica. Un termine tecnico che, ritorna ancora oggi, e che corrisponde alla prassi del “blocco navale” frutto di un accordo tra il governo italiano allora in carica e le autorità albanesi. Dopo quel tragico 28 marzo 1997 vennero recuperati i corpi di 83 persone, anche se la stima ufficiale alla fine risultò di 108 vittime (in gran parte donne e bambini). I superstiti furono solo 37, soccorsi dall’equipaggio della corvetta italiana.

Pochi mesi prima, la “linea della fermezza” inaugurata dal governo Prodi aveva negato persino l’esistenza di un naufragio, la Strage di Natale del 1996, che solo le denunce degli antirazzisti, un giornalista testardo ed indipendente, ed il coraggio di un pescatore di Porto Palo, consegnarono alla storia. Ancora una volta le autorità negavano l’evidenza, ed il processo non servì a rendere giustizia alle vittime. Nel caso dello speronamento della Kater Y Rades però le prove del misfatto erano ben visibili, scolpite sulla prua della corvetta italiana che aveva speronato il barcone partito dall’Albania. Ed il relitto della Kater Y Rades, una volta recuperato, costituiva una prova di accusa inoppugnabile.

Come ricorda oggi il sito Globalist, Il 19 marzo del 1997 venne adottato dal Consiglio dei ministri un decreto legge che regolamentava i respingimenti; il 25 marzo venne firmato un accordo con l’Albania per il contenimento del “traffico clandestino” di profughi. Come scriveva lo stessso giorno Repubblica, a proposito degli albanesi che cercavano di raggiungere l’Italia, «Non sono più profughi, ma immigrati non in regola. E quindi vanno respinti» L’accordo parlava ufficialmente di un «efficace pattugliamento» delle coste dell’Adriatico e dava alla Marina disposizioni per fare «opera di convincimento» nei confronti delle barche di migranti provenienti dall’Albania: in pratica però fu un vero e proprio “blocco navale”, criticato apertamente dall’Onu.

Secondo le disposizioni del Governo Prodi vigenti in quei giorni (trasmesse il 25 marzo ma ratificate dal Parlamento solo il 2 aprile), la nave della Marina militare Sibilla doveva svolgere delle “manovre cinematiche di interposizione”. Le responsabilità dell’affondamento della Kater Y Rades, una vecchia chiatta albanese usata per traversare lo Ionio furono subito chiare, soprattutto per chi era andato a Brindisi, subito dopo lo speronamento per protestare contro la politica omicida di un governo che in campagna elettorale si era proposto come un governo aperto al riconoscimento dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali. Un governo che dopo la strage faceva approvare la legge n.40/98 Turco-Napolitano e stipulava i primi accordi con la Tunisia per la costruzione di centri di detenzione per migranti irregolari respinti in quel paese. Era l’inizio della “lotta” all’immigrazione “illegale”, che si concretizzava anche con la istituzione dei centri di permanenza temporanea (CPT) e con una disciplina delle espulsioni e dei repingimenti che violava le garanzie costituzionali, disciplina che poi fu ulteriormente aggravata dalla legge Bossi-Fini nel 2002, che si inserì perfettamente nell’impianto originario della Turco-Napolitano.

Durante tutto il processo per la strage del Venerdì Santo il Ministero della Difesa e la Marina militare non hanno mai ammesso le proprie responsabilità, ed attraverso l’Avvocatura dello Stato hanno impugnato tutte le sentenze di condanna in primo grado ed in appello, rifiutandosi di fornire documentazione e mantenendo un atteggiamento che ricorre ancora oggi, tendente ad attribuire tutte le responsabilità del naufragio al rimoniere del barcone poi affondato, per nascondere le responsabilità del comandante della nave militare Sibilla, che con una serie di manovre spericolate aveva cercato di tagliare la rotta al barcone partito dall’Albania, per costringerlo a ritornare indietro. Ma sul banco degli imputati c’era solo il comandante della Sibilla, unico rappresentante dello Stato italiano sotto accusa, oltre al capobarca della Kater Y Rades. A saldare i conti con la giustizia per le gravissime responsabilità di governo che avevano determinato le condizioni per quella strage c’era soltanto un ufficiale della Marina militare, come si verificherà anni dopo anche nel caso della “strage dei bambini”, a sud di Malta, dell’11 ottobre 2013, che rimane ancora un caso aperto, dopo l’impugnazione della sentenza del Tribunale di Roma del 15 dicembre 2022 che, pur dichiarando la prescrizione dei reati, affermava la responsabilità delle autorità italiane coinvolte nella vicenda.

Come denunciava nel 2011 la Rete antirazzista di Brindisi, con riferimento alla strage del Venerdì Santo, erano”Spariti dai processi di primo grado i ministri dell’allora governo Prodi e gli ammiragli competenti che avevano dato ordine alle due navi italiane , la Zefiro e la Sibilla, di intercettare e respingere le carrette del mare albanesi; nel frattempo rese introvabili, distrutte, lacunose e tali da non essere utilizzabili come prova cardine di quelle responsabilità, le comunicazioni, radio, telefoniche, dispacci diplomatici, ecc”.

Gli eredi delle vittime non sono neppure riusciti ad ottenere dal Ministero della difesa il risarcimento stabilito dalla Corte di Cassazione. Il 3 gennaio 2019, il Tribunale amministrativo della Puglia, sezione di Lecce, ha respinto il loro ricorso per nullità dell’atto introduttivo,accogliendo la tesi del Ministero secondo cui non risultavano facilmente identificabili i ricorrenti (per alcuni ci sono date di nascita diverse, per altri anni nomi o cognomi diversi e quindi, mancando un elemento essenziale del ricorso, questo è stato considerato nullo. Dopo 22 anni il caso dell’affondamento della Kater Y Rades da parte della corvetta Sibilla era ufficialmente chiuso. Almeno nelle sedi giudiziarie.

Vogliamo ricordare due grandi compagni di lotta, oggi scomparsi, che si batterono in tutti i modi per fare emergere la verità e rendere giustizia alle vittime.

Alessandro Leogrande ha raccolto tutto il suo immenso lavoro, di giornalista d’inchiesta e scrittore sulla strage del Venerdì Santo nel libro Il naufragio. Come scriveva Alessandro, “Il naufragio della Kater i Rades costituisce una pietra di paragone per tutti gli altri naufragi a venire, non solo perché è stato l’esito delle politiche di respingimento e dell’isteria istituzionale che le ha prodotte. (…) a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo.”

Dino Frisullo denunciò, dopo le responsabilità nascoste per il naufragio della notte di Natale del 1996, le politiche di morte che avevano prodotto il blocco navale e la strage del Venerdì Santo del 1997. Nel 2001, in un suo scritto, osservava lucidamente: “Ora gli scheletri riemergono. Ciascuno guardi nel suo armadio. Se quei corpi saranno affidati a coloro che si sono battuti in questi anni per la verità e la giustizia, se si darà la parola a loro e non solo all’effimero sensazionalismo delle immagini, se saremo capaci di memoria e di rispetto – forse il loro sacrificio non sarà stato vano. Forse siamo in tempo a cambiare strada, ciascuno per la sua parte. Forse”. Ancora oggi i corpi delle vittime di strage, una strage negata, riemergono davanti alla spiaggia di Cutro. E non sappiamo davvero se siamo ancora in tempo per cambiare strada, Tutto farebbe pensare ad una perdita irreversibile di senso dei valori della vita e della solidarietà che non sono soltanto frutto di quest’ultimo gverno. Ma come non ci siamo tirati indietro allora, non arretreremo neppure oggi.

Quelle stragi sulle quali si vollero nascondere le responsabilità istituzionali e politiche, segnarono per molti una svolta di vita, con la piena consapevolezza delle responsabilità dei governi di centro-sinistra, che già allora anticipavano le scelte poi attuate dalle destre, con la trasformazione dell’Europa in fortezza e con la cancellazione del diritto all’asilo, del diritto alla vita ed ai socccorsi in mare. Nessuno prese in considerazione le denunce contro i trafficanti che, come oggi, operavano con la copertura dei governi con i quali si facevano accordi, e nessuno seppe trovare una rappresentanza politica alternativa che esprimesse quella domanda di giustizia che veniva dai cittadini solidali e dai parenti delle vittime.

Ancora non sappiamo quando i Tribunali condanneranno, se mai avverà, i responsabili politici di scelte di morte scambiate per “governo dei flussi migratori” e per “lotta all’immigrazione illegale”. Sono politiche che a distanza di 25 anni ed oltre da quelle stragi si ripropongono da parte dei governi in carica, mentre il senso comune viene piegato dalla disinformazione e dalla paura dell’invasione, spauracchi ormai consueti agitati da chi non riesce a trovare alcuna soluzione di salvataggio in mare, di ingresso legale, di accoglienza dignitosa, di convivenza sostenibile e di rispetto dei diritti fondamentali.

Il ministro del’interno Pantedosi arriva a prendersela con un “opinione pubblica” che sarebbe ancora troppo accogliente nei confronti dei migranti che sbarcano in Italia, un numero che aumenta ancora una volta, malgrado l’allontanamento delle navi umanitarie, e ritorna l’ennesimo attacco alla solidarietà di chi opera soccorso in mare, che si tradurrebbe in un appoggio oggettivo agli scafisti, se non ai trafficanti. Secondo il ministro, “«C’è anche il fattore attrattivo di un’opinione pubblica che annovera l’accettazione di questo fenomeno», e ancora «Altri Paesi sono intransigenti in maniera trasversale tra posizioni politiche diverse». Nessuna “trasversalità” è possibile con chi viola le Convenzioni internazionali e tradisce i principi di solidarietà e di accoglienza sanciti nella Costituzione italiana.

Siamo orgogliosi per quella parte di popolazione italiana che resiste attivamente alle politiche di morte e di esclusione praticate dal governo Meloni. Siamo solidali con le persone in fuga che chiedono protezione e futuro in Europa, nessuna solidarietà con chi sbarra tutte le vie di ingresso, che spesso sono soltanto vie di fuga, propaganda accordi con paesi che non rispettano i diritti umani, e condanna alla clandestinità quanti avrebbero diritto ad uno status legale di protezione. Alessandro Leogrande e Dino Frisullo ci indicano la strada.


Il DOVERE d’ASILO è rispetto di un diritto umano fondamentale

La recente riscoperta degli annegati della Johan, anche se assai tardiva, ha quantomeno suscitato la pietà tra alcune di quelle stesse autorità pubbliche e alcuni media che avevano ignorato questa tragedia e che continuano ad ignorarne tante altre simili. L’11 novembre 1998 sempre il manifesto aveva riportato la drammatica testimonianza del comandante del porto di Lampedusa che raccontava: “Dodici barche su cento affondano” e mostrava le foto dei resti umani trovati nelle reti di pescatori o in riva al mare e sepolti in fosse comuni dell’isola. Sporadicamente vari media hanno reso noti numerosi casi di morti durante il tentativo di arrivare in Italia e in Europa o trovati lungo le strade come avvenne per i sei Kurdi circa un anno fa. E fu nella notte del 28 marzo ’97, proprio dopo che si sapeva da tempo di questo genere di tragedie, che la Kater y Rades fu speronata dalla nostra marina militare, provocando così l’annegamento di circa 90 persone tra cui tanti bambini.

I migranti che quasi ogni giorno rischiano la vita per arrivare in Italia o nei paesi UE non sono diversi dei perseguitati che in varie epoche storiche e in particolare tra le due guerre mondiali hanno cercato di fuggire i totalitarismi. Ma mentre i perseguitati di ieri sono oggi più o meno riconosciuti come esempi di emancipazione sociale, politica e a volte anche religiosa, i kurdi, gli afgani, i somali e tutti i migranti che oggi cercano salvezza, spesso non riescono più neanche ad approdare nei territori dell’Unione Europea. La maggioranza delle persone che in questi ultimi anni hanno tentato di arrivarci o ci sono a volte arrivati sono migranti che avrebbero diritto all’asilo umanitario o politico. Ma solo lo 0,6 per cento dei permessi di soggiorno rilasciati in Italia riguarda i richiedenti asilo anche perché il nostro paese non ha neanche rispettato la direttiva comunitaria relativa all’adozione di una apposita legge sull’asilo. La pratica della politica migratoria attuale ha invece esasperato la lotta alla cosiddetta immigrazione clandestina e all’irregolarità vantando l’aumento continuo di respingimenti ed espulsioni e minacciando di reato chi aiuta irregolari e clandestini. La cittadinanza europea sembra quindi configurarsi come negazione dei diritti universali e in particolare come antagonista al dovere di asilo umanitario o politico previsto dalla carta costituzionale e dalla dichiarazione dei diritti universali. La stessa carta degli accordi di Nizza appare così cestinata dalla ragione di una fortezza Europa che sembra potersi affermare solo attraverso un proibizionismo delle migrazioni antagonista ai diritti umani, al pari delle logiche che dominano gli orientamenti delle otto potenze mondiali, producendo morte e disastri ambientali anche a nome delle guerre “umanitarie”.

Sottoscrivendo questo documento noi, come singoli o associati in ONG o sindacati, ci impegniamo ad affermare il DOVERE d’ASILO come fondamentale diritto umano sostenendo concretamente ogni sforzo per realizzarlo come pratica quotidiana di aiuto agli irregolari o clandestini che desiderano accedere ad una regolarità stabile, ossia alla certezza del diritto per chi oggi è respinto nella condizione di non-cittadinanza.  Chiediamo ai parlamentari democratici di impegnarsi a turno a visitare le carceri, i centri espellendi e i vari luoghi di detenzione provvisoria degli arrestati. Denunciamo e respingiamo la tendenza ad applicare l’intera legge 40/98 in chiave sempre più anti-immigrati. Chiediamo che il rilascio e la gestione dei rinnovi dei permessi di soggiorno siano affidati ad un’autorità indipendente che assicuri trasparenza e imparzialità e che siano eliminate le varie condizioni vessatorie attualmente in vigore, permettendo a tutti i senzapermesso che lo richiedono di essere regolarizzatisenza bisogno di nuove sanatorie e accordando a chi è in Italia regolarmente da più di 5 anni (e senza alcun altra condizione) di avere subito la carta di soggiorno definitiva. Chiediamo infine a tutti i democratici presenti negli enti locali a mobilitarsi per il diritto di voto degli immigrati.

Firme raccolte al 3 luglio 2001

Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Associazioni Liberi, CESTIM-Verona, CRIC-Milano, Movimento Cittadini del Mondo

Albano Enzo, Azamouz Abdelhak, Bandera Lia, Baratta Alessandro, Basso Piero, Bellina Lella, Bellini Alessio, Bendotti Angelo, Caffa Franca, Cavedon Marco, Cicarelli Roberto, Coccia Nicola, Colombo Enzo, Cusani Sergio, Dal Lago Alessandro, De Leonardis Ota, Di Piazza Elio, Dore Gianni, Doria Gianni, Escobar Roberto, Faure Roberto, Ferrajoli Luigi, Fiorini Elena, Fumagalli Andrea, Frisina Anna, Giannangeli Massimiliano, Giannangeli Ugo, Giasanti Alberto, Giovannetti Monia, Guareschi Massimiliano, Mantelli Brunello, Mari Giovanni, Maricos Ainom, Maneri Marcello, Mazzali Mirko, Meriggi Maria-Grazia, Merzagora Betsos Isabella, Mezzadra Sandro, Molinari Augusta, Morini Cristina, Mosconi Beppe, Mottalini Milena, Oddi Paolo, Padoan Daniela, Pagani Gilberto, Palidda Salvatore, Palma Mauro, Panaccione Andrea, Pastore Massimo, Pepino Livio, Peruzzi Walter, Petti Gabriella, Pitch Tamar, Polizzi Eugenio, Polizzi Rossella, Quassoli Fabio, Recupero Nino, Revelli Marco, Rinaldi Stanislao, Rotaris Maurizio, Ruspini Paolo, Scalia Vincenzo, Schiavone Gianfranco, Segio Sergio, Sossi Federica, Tonello Fabrizio, Trucco Lorenzo, Vassallo Fulvio, Verrani Marinella, Zipponi Maurizio


DINO FRISULLO

Loro malgrado, quei miseri naufraghi hanno scritto una pagina di storia

(Manifesto, mercoledì 20 giugno 2001)

Loro malgrado, quei miseri naufraghi hanno scritto una pagina di storia. Storia minore, scomoda e rimossa. Storia che rischia di scivolare via sull’onda dello scoop giornalistico, che rivestirà quei corpi di effimera carta nella doppia sepoltura del mare e del cinismo.

Vorrei raccontarla, quella storia, per chi non considera la memoria un lusso.

In quell’inverno del ’96 gli amici e i parenti dei naufraghi, anch’essi clandestini, erano in sciopero della fame “per il diritto di esistere” in piazza Colonna. La notizia del naufragio rimbalzò in un attimo fra due continenti a partire dalle frasi smozzicate dei superstiti, detenuti dai trafficanti in un’isola greca.

Nella comunità pakistana, a cui apparteneva la maggioranza delle vittime, andarono in corto circuito i mille fili di complice omertà che coprono chi specula sul proibizionismo di stato. Le famiglie si organizzarono. Il loro rappresentante, l’anziano Zabiullah che aveva perso un figlio su quella nave, a rischio della vita ricostruì insieme a noi, in Grecia e poi in Italia, la catena del traffico, fino alle squadre che in Italia recludono gli immigrati per ottenere sin l’ultimo spicciolo pattuito.

Ne emerse (e fu pubblicata anche su Narcomafie) la prima fotografia della catena imprenditorial-criminale, con testa turca, armatori greci e tentacoli protesi dai villaggi del Kurdistan e del subcontinente indiano fino alle coste italiane, che mercifica i fuggitivi dalla miseria dell’India e del Pakistan e dalle guerre del Kurdistan, dello Sri Lanka, del Kashmir.

Quei nomi, quelle mappe, insieme al rosario amoroso delle foto dei naufraghi, giunsero nelle mani del giudice Billet a Reggio Calabria, dov’era sotto sequestro (c’è ancora) la nave assassina Yohan, tornata come nulla fosse con un altro carico umano. Fu individuato con una certa precisione, con la deposizione del giovane superstite Shaqur, il luogo in cui oggi è sceso il batiscafo di Repubblica.

Prese avvio l’inchiesta, passata poi a Siracusa quando scovammo, in un angolo di cronaca nera, la notizia di un cadavere ripescato presso Gela. La nostra ricostruzione coincideva con quella fatta da Livio Quagliata sul Manifesto, anche lui in base ai resoconti della comunità srilankese a Milano.

L’ambasciata pakistana si mosse; quelle dell’India e dello Srilanka no, o almeno non subito, perché quei morti erano rispettivamente sikh e tamil, concittadini scomodi. Profughi, che avrebbero avuto diritto all’asilo – se esistesse in Italia una legge decente sull’asilo.

Alcuni dei naufraghi, come i due parenti del leader pakistano a Roma Shabir Khan, avevano in tasca la ricevuta della richiesta di soggiorno in base al “decreto Dini”, la semi-sanatoria di quegli anni. Stanchi di attendere, colpiti da lutti familiari, erano andati a casa e rifacevano il viaggio della speranza. Déja-vu, nevvero? penso ai trentamila che da tre anni ancora attendono il soggiorno, negato dall’ultimo governo di centrosinistra…

Fu alla porta del primo centrosinistra, in quell’inverno del ’97, che bussammo insieme a Zabiullah, a Shabir Khan e ai tamil giunti da Palermo. Forse ingenui (gli immigrati non avevano festeggiato anche loro, danzando in piazza Venezia, la fine del governo Berlusconi-Gasparri?), chiedevamo il recupero della nave e del suo carico umano, ma anche un ripensamento delle politiche di chiusura.

Restammo di sasso. Dal Viminale alla Farnesina, ad eccezione di pochi singoli parlamentari, trovammo una totale assenza non dico di solidarietà, ma di umana pietà. Ammettere la strage equivaleva a rimettere in discussione la linea della fermezza, che di lì a poco avrebbe colpito e affondato la Kater-i-Radesh.

Data da allora il disamore per l’esperienza governativa di centrosinistra, non certo condiviso da tutto quello che allora si definiva movimento antirazzista. Ci presero per pazzi e “acchiappafantasmi” non solo ministri e sottosegretari, ma anche i rappresentanti dell’associazionismo che affollava le anticamere del “governo amico” di Napolitano e Livia Turco. Ricordo sorrisi di compatimento anche nel tessuto della grande scommessa di quegli anni, la Rete antirazzista – e forse lì andrebbe ricercata una delle ragioni, poi, della sua crisi.

In quel momento, con i trafficanti messi in mora e denunciati dalle vittime, con un’opinione pubblica non ancora resa xenofoba, con un governo ai primi passi, quei poveri corpi riemergendo avrebbero potuto motivare una scelta coraggiosa: una nuova politica dell’immigrazione e dell’asilo, che sostituisse legalità e certezza del diritto all’illegalità, alla soggezione, alla morte.

Non fu così. Furono abbandonati al loro strazio quei corpi ed i loro parenti, come rimasero soli i loro amici appena più fortunati, nel gelo di piazza Colonna e nella marcia di Natale ’96, in diecimila a digiuno fino al Vaticano. L’inchiesta proseguì stancamente, senza risalire la catena assassina oltre gli ultimi esecutori, senza discendere nel mare di Sicilia.

Ora gli scheletri riemergono. Ciascuno guardi nel suo armadio. Se quei corpi saranno affidati a coloro che si sono battuti in questi anni per la verità e la giustizia, se si darà la parola a loro e non solo all’effimero sensazionalismo delle immagini, se saremo capaci di memoria e di rispetto – forse il loro sacrificio non sarà stato vano. Forse siamo in tempo a cambiare strada, ciascuno per la sua parte. Forse.


Il blocco navale: atto politico o delitto?
Volerelaluna.it

05/03/2021 di: Domenico Gallo
Chi ha un poco di esperienza di vita parlamentare sa che le leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali vengono approvate dal Parlamento a scatola chiusa, spesso nell’indifferenza generale. Per questo è curioso che martedì scorso ci sia stato un acceso dibattito alla Commissione esteri della Camera sul disegno di legge avente ad oggetto la ratifica degli emendamenti allo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale adottati a Kampala il 10 e 11 giugno 2010 dalla Conferenza dei paesi membri. Gli emendamenti mirano a risolvere un vuoto normativo dello Statuto che, pur includendo fra i crimini internazionali gli atti di aggressione, aveva demandato la definizione del crimine di aggressione a una successiva Conferenza di revisione da tenersi sette anni
dopo la sua entrata in vigore.
Il crimine di aggressione viene definito nell’art. 8 bis secondo il quale: per «atto di aggressione» si intende l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite. Quindi la norma specifica una serie di atti di uso della forza armata che integrano tale crimine: fra questi, «il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato».
Sul piano del diritto internazionale non v’è dubbio che il blocco dei porti o delle coste, se attuato al di fuori dell’art. 51 della Carta dell’ONU, costituisce un uso illecito della forza. In passato il blocco degli stretti di Tiran operato dall’Egitto il 22 maggio 1967 fu qualificato come un atto di aggressione contro lo Stato di Israele e diede origine alla guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967). La novità è che adesso il ricorso illecito alla forza diviene uncrimine internazionale e rientra – ricorrendo determinati presupposti – nella competenza della Corte penale internazionale.
Il disegno di legge era stato già approvato dal Senato nella seduta dell’8 gennaio 2020, contraria solo la Lega, favorevoli tutti gli altri gruppi. Sennonché nel passaggio alla Camera l’espressione «blocco navale» ha acceso una lampadina nella mente dei Fratelli d’Italia segnalando un pericolo: che il progetto dall’on. Meloni di attuare un blocco navale per i barconi in partenza dalle coste della Libia possa finire nel catalogo dei crimini internazionali. Per evitare questo rischio i Fratelli d’Italia in Commissione esteri hanno votato contro la ratifica. Nel riproporre questo suo obiettivo l’on. Meloni ha fatto riferimento a un precedente: il blocco navale operato dall’Italia nei confronti delle
imbarcazioni di profughi/migranti che partivano dalle coste dell’Albania nella primavera del 1997 (primo Governo Prodi), indicandolo come un modello da seguire.
Trattandosi di fatti ormai lontani nel tempo è bene rievocare cosa successe. Per arginare un forte flusso di profughi in fuga dall’Albania in preda al caos, il Governo italiano attivò la marina militare con l’obiettivo di attuare de facto un blocco navale intorno alle coste albanesi. Il 28 marzo (venerdì di Pasqua) la corvetta Sibilla della Marina militare italiana intervenne per costringere un’imbarcazione albanese, la Kater I Rades, carica di profughi e diretta in Italia, a invertire la rotta, finendo per speronarla. La nave colò a picco trascinando con sé il suo carico umano. 81 furono i corpi recuperati nel relitto (fra cui decine di bambini con le loro madri), 34 furono i sopravvissuti portati in Italia. Nel corso di una audizione tenuta dinanzi alle Commissioni Esteri e Difesa del Senato, il 1° aprile 1997, il Ministro della Difesa dell’epoca, on. Andreatta, ammise: «Le Unità del nostro dispositivo hanno ricevuto direttive di adottare regole di pattugliamento volte a dissuadere ilnaviglio clandestino dal raggiungere il nostro paese […]. Le norme di comportamento prevedevano anche la possibilità, da parte delle nostre unità, di manovrare in modo da scoraggiare il
proseguimento della navigazione dei natanti verso le coste italiane». Orbene, a parte l’illegalità di un blocco navale de facto in quanto contrario al principio del diritto internazionale generale (che sancisce la libertà dell’alto mare), la pretesa di ostacolare la navigazione di imbarcazioni di fortuna stracariche di persone non può avere altra conseguenza che quella di provocare il naufragio di quei mezzi navali in distress, che, invece, secondo il diritto del mare si ha l’obbligo di soccorrere.
I Fratelli d’Italia stiano tranquilli. Per sanzionare le condotte che attuano il blocco navale invocato dai sovranisti, il pericolo non viene dalla Corte penale internazionale. Queste condotte sono già sanzionate dal nostro codice penale che punisce il delitto di naufragio, salvo più gravi reati. Infatti il comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, fu condannato dal Tribunale di Brindisi alla pena di tre anni di reclusione (poi ridotta a due anni in Cassazione) e il Ministero della Difesa fu a sua volta condannato a risarcire le vittime.
Quello che è inaccettabile è che, per inseguire il consenso, la politica persegua progetti criminosi e criminogeni senza vergogna alcuna.


Strage del Venerdì Santo, condanna definitiva per il comandante della Sibilla