Piantedosi ad Agrigento non giustifica i porti di destinazione “vessatori” e nasconde la crisi dei centri Hotspot, mentre la Meloni rimane bloccata sul fronte europeo

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Introduzione

Dopo la riunione del Comitato ordine e sicurezza pubblica ad Agrigento, alla quale ha partecipato anche il sindaco leghista di Lampedusa, il ministro dell’interno ricorre ancora una volta ad una mistificazione dei fatti e giustifica l’assegnazione, soltanto alle navi del soccorso civile, dunque discriminatoria, di porti di destinazione lontanissimi dalle aree di soccorso, costringendole a lunghe navigazioni mentre infuriano le burrasche invernali e poi, nelle comunicazioni alla stampa, facendo riferimento soltanto ai pochi naufraghi salvati dalle Ong. Un tentativo grossolano del capo del Viminale per negare il default dei centri Hotspot ubicati in Sicilia ed in Puglia, per nascondere all’opinione publica altre 3000 persone soccorse in alto mare da Guardia di finanza e Guardia costiera o arrivati in autonomia nei primi giorni dell’anno. Piantedosi ha così dichiarato: “facciamo le cose in modo responsabile Puntiamo ad un’equa distribuzione su tutti gli altri luoghi di possibile sbarco, con il compito di sgravare Sicilia e Calabria, che non devono essere condannate ad essere il campo profughi dell’Europa”. Di equo non si vede davvero nulla, mentre dal governo la Meloni lancia ancora accuse diffamanti di collusione con i trafficanti. Eppure sono proprio i dati ufficiali del Viminale che confermano come le ONG non costituiscano un fattore di attrazione delle partenze (pull factor), e documentano la percentuale sempre più ridotta dei naufraghi soccorsi dalle navi civili, rispetto alle persone soccorse dalla Guardia di finanza, dalla Guardia costiera, o arrivate sulle coste italiane con mezzi autonomi.

In realtà la Sicilia e la Calabria, se rischiano di diventare “il campo profughi dell’Europa”, lo rischiano per le politiche di contrasto dei soccorsi umanitari che hanno spezzato ogni possibilità di dialogo con l’Unione Europea e con i principali Stati europei in vista di una ricollocazione dei richiedenti asilo dopo lo sbarco in Italia. La situazione catastrofica che si registra nei centri hotspot siciliani e pugliesi è poi frutto della progressiva demolizione dei sistemi di prima accoglienza in Italia, avviata da Minniti e da Salvini,e proseguita, negli anni della pandemia, con l’esperienza, devastante per le persone che ne sono state oggetto, e dspendiosa per i contribuenti italiani, delle navi quarantena. Il regime giuridico dei centri Hotspot, al di là del limitato richiamo che ne fa ancora oggi l’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, rimane così sostanzialmente affidato alla discrezionalità delle autorità amministrative, e al vertice della catena decisionale rimane esclusivamente il ministero dell’interno, che poi opera attraverso le prefetture, senza alcun ruolo degli enti locali. Se tutta l’attenzione viene concentrata sugli sbarchi delle poche decine di naufraghi ancora soccorsi dalle ONG, rimangono nell’ombra gli abusi che si consumano dopo lo sbarco delle persone a terra, e le condizioni indegne in cui vengono accolte, più spesso trattenute, queste persone, che già hanno vissuto in Libia gli orrori inimmaginabili accertati dalle Nazioni Unite. Le condizioni di trattenimento appaiono poi altrettanto vessatorie ed arbitrarie per i cittadini di nazionalità tunisina, per i quali il passaggio nell’hotspot è spesso un tempo di attesa per successivo un internamento in un centro per i rimpatri (CPR), per un provvedimento di respingimento differito, o per l’accompagnamento forzato in frontiera. Eppure proprio per il trattenimento e il respingimento differito di cittadini tunisini l’Italia è stata condannata nel 2016 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.

2. La condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo in materia di trattenimento amministrativo nei centri di prima accoglienza

Nel 2016 la Corte europea dei diritti dell’Uomo adottava una importante sentenza di condanna dell’Italia per il caso Khlaifia, riguardante proprio la detenzione amministrativa di alcuni tunisini trattenuti nel 2011 nel Centro, allora definito di primo soccorso ed accoglienza (CPSA), ubicato a Contrada Imbriacola, nell’isola di Lampedusa. I principi affermati dai giudici della Corte di Strasburgo, anche se la sentenza riguardava casi particolari, che si erano verificati nel 2011 nel centro di Lampedusa, e poi a bordo di navi predisposte per il trattenimento dei migranti in attesa dell’accompagnamento forzato in frontiera, possono ritenersi di particolare interesse anche per valutare il quadro normativo e la situazione di fatto riguardo ai centri Hotspot aperti o riconvertiti dopo il 2015 ed ancora oggi in funzione. Secondo l’articolo 5 par. 1 della CEDU,“Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: … f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”

La Grande Camera, votando all’unanimità, ha riconosciuto la violazione dell’ art. 5 CEDU da parte dell’Italia, perché coloro che hanno fatto ricorso risultano essere stati illegalmente privati della libertà personale, prima nel  CPSA di Lampedusa e poi sulle navi attraccate a Palermo che, in maniera del tutto arbitraria, erano state adibite alle stesse funzioni dei centri di detenzione. Ma risulta violato anche l’art. 3 CEDU, in relazione all’art. 13 della stessa Convenzione, in quanto ai ricorrenti non era stato garantito l’accesso ad una effettiva procedura di ricorso per poter contestare eventuali (anche se non accertate) violazioni appunto dell’art. 3. Per i giudici di Strasburgo “La privazione della libertà deve essere anche «regolare». In materia di «regolarità» di una detenzione, ivi compresa l’osservazione delle «vie legali», la Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l’obbligo di osservarne sia le norme di merito che di procedura, ma in più esige la conformità di qualsiasi privazione della libertà allo scopo dell’articolo 5: proteggere l’individuo dall’arbitrio (Herczegfalvy c. Austria, 24 settembre 1992, § 63, serie A n. 244, e L.M. c. Slovenia, n. 32863/05, § 121, 12 giugno 2014). La Corte concludeva che la privazione della libertà contestata con riferimento ai fatti del 2011 era priva di base legale nel diritto italiano e violava l’art. 5.1 della Convenzione EDU.

Secondo la Corte di Strasburgo, Questa constatazione è avvalorata da quelle della commissione straordinaria del Senato, che, nel suo rapporto approvato il 6 marzo 2012 (paragrafo 31 supra), ha notato che la permanenza nel centro di Lampedusa inizialmente limitata al tempo strettamente necessario per accertare l’identità del migrante e la legalità della sua presenza sul territorio italiano, si protraeva talvolta per più di venti giorni «senza che fossero state adottate decisioni formali sullo status giuridico delle persone trattenute». Secondo la commissione straordinaria, questo trattenimento prolungato «senza alcuna misura giuridica o amministrativa» che lo prevedesse aveva generato «un clima di tensione molto forte». É anche opportuno ricordare che la sottocommissione ad hoc dell’APCE ha esplicitamente raccomandato alle autorità italiane di «chiarire lo status giuridico del trattenimento de facto nei centri di accoglienza di Lampedusa» e, soprattutto per quanto riguarda i Tunisini, di «mantenere in stato di trattenimento amministrativo i migranti in situazione irregolare soltanto secondo una procedura definita dalla legge, avallata da un organo giudiziario e oggetto di un controllo giudiziario periodico» (si veda il paragrafo 92 punti vi. e vii. del rapporto pubblicato il 30 settembre 2011 – paragrafo 34 supra).
Infine, anche supponendo che il trattenimento dei ricorrenti fosse previsto dall’accordo bilaterale con la Tunisia, la Corte rileva che l’accordo in questione non poteva dare al suddetto trattenimento una base legale sufficiente ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione. In effetti, il contenuto di tale accordo non è stato reso pubblico (paragrafo 29 supra) e non era dunque accessibile agli interessati, che non potevano pertanto prevedere le conseguenze della sua applicazione (si veda, in particolare, la giurisprudenza citata ai paragrafi 63-64 supra). Inoltre, non vi è nulla che indichi che il suddetto accordo prevedesse delle garanzie adeguate contro l’arbitrio (si veda, ad esempio e mutatis mutandis, Nasroulloïev c. Russia, n. 656/06, § 77, 11 ottobre 2007)”.

La Corte osservava poi che una semplice informazione sullo status giuridico di un migrante non soddisfa le esigenze dell’articolo 5 § 2 della Convenzione, che richiede che siano comunicati all’interessato i motivi giuridici e fattuali della sua privazione della libertà. La Corte riconosceva altresì una violazione dell’art. 5.4 della Convenzione, in quanto “ i decreti di respingimento non menzionavano il fondamento giuridico e fattuale del trattenimento dei ricorrenti (paragrafo 84 supra). Non si potevano dunque vedere in questi decreti le decisioni da cui derivava il trattenimento contestato. Inoltre, questi decreti sarebbero stati notificati ai ricorrenti soltanto il 27 e 29 settembre 2011 (paragrafi 14-15 supra), poco prima del loro rimpatrio con l’aereo, ossia quando la loro privazione di libertà stava per terminare. Ne consegue che, pur ammettendo che in alcuni casi sia possibile considerare che un ricorso dinanzi al giudice di pace avverso il decreto di respingimento possa offrire un controllo indiretto sulla legalità delle limitazioni della libertà imposte allo straniero interessato, nel caso di specie un controllo di questo tipo, se fosse stato richiesto, avrebbe potuto aver luogo soltanto dopo la liberazione dei ricorrenti e il loro ritorno in Tunisia”3.

Quanto rilevato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza di condanna dell’Italia nel caso Khalifia, per fatti che risalgono al 2011, può ritenersi valido ancora oggi, con riferimento alla condizione giuridica dei migranti trattenuti all’interno dei centri che operano in base al cd. Approccio Hotspot.

L’Italia non si è infatti adeguata alla sentenza di condanna inflitta dalla Corte europea, e come nel caso di altre condanne riportate a Strasburgo, il governo ha proseguito, anche per ragioni commerciali, nella sua politica di collaborazione con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, ma da questi paesi non si sono certo bloccate le partenze di barconi. La numerosità degli arrivi, solo apparentemente ridotta per un breve periodo dopo l’introduzione dei decreti sicurezza del 2018 e del 2019, e poi nel 2020 come conseguenza della pandemia, imponeva pratiche di prima identificazione e di selezione dei migranti sempre più sommarie.

L’esecuzione della decisione della Grande Camera da parte dell’Italia veniva quindi monitorata secondo una procedura rafforzata di controllo da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, durata oltre quattro anni, che pur ribadendo la necessità che l’Italia si dotasse di una disciplina più specifica in materia di trattenimento negli Hotspot, soprattutto sotto il profilo delle misure di convalida dei provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale, anche sotto il profilo dei mezzi di ricorso, concludeva per la chiusura dela fase di osservazione, senza altri rilievi. Con Comunicazione del 2 dicembre 2021, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, decideva così di chiudere la procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza Khlaifia affermando che il governo era intervenuto risarcendo le vittime ed operando riforme legislative ritenute sufficienti a garantire il rispetto dell’art.5, anche alla luce degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento italiano (art.700 c.p.c.). Se per riforme legislative si intendono gli interventi normativi del 2017 e del 2020, non sembra però che la situazione all’interno dei centri gestiti con l’approccio Hotspot sia sostanzialmente migliorata rispetto al tempo (2011) del caso dal quale era derivata la sentenza Khlaifia. Come ha osservato l’ASGI, “Le modifiche legislative introdotte dalla legge 132/2018 e confermate dal D.L. 130/2020 circa la possibilità di trattenere i richiedenti asilo in appositi locali negli hotspot per un periodo massimo di 30 giorni, al fine di verificarne o determinarne l’identità, e la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento in locali idonei in frontiera non hanno risolto il problema dell’assenza di base legale per la privazione della libertà all’interno di tali centri e continuano a sollevare numerose criticità circa la compatibilità con il dettato costituzionale e con la normativa comunitaria” 6.

Le conseguenze di questo disimpegno del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, evidentemente espressione dei governi che nominano i loro rappresentanti, sono state gravi e ben visibili, da Lampedusa a Messina ed a Taranto. Il ministero dell’interno, in una stagione in cui si era tentato, con l’ipocrisia delle definizioni, di nascondere la sostanza delle politiche migratorie del governo, arrivava alla creazione dal nulla dei cd. “centri di transito”, come quello aperto nei primi mesi del 2022 a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Centro che, in aggiunta all’Hub regionale di Siculiana, poco distante, sarebbe stato destinato a favorire il decongestionamento del centro di prima accoglienza/hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa, che già era operativo con un numero di “ospiti”, riscontrabile ancora oggi, superiore anche quattro-cinque volte rispetto alla sua capienza massima (250 persone). Altre strutture di transito venivano utilizzate ad Augusta (Siracusa) ed a Catania. Malgrado l’apertura di queste strutture di transito la situazione di collasso periodico del centro di Contrada Imbriacola a Lampedusa non mutava e si aggravava ancora una volta all’inizio del 2023, quando nell’isola, malgrado l’allontanamento delle ONG in soli tre giorni sono arrivate in autonomia, o per soccorsi effettuati dalla Guardia di finanza e dalla Guardia costiera, migliaia di persone.

3. Nuovi sviluppi politici per un Patto europeo sulla migrazione ?

L’incontro della Presidente del Consiglio Meloni con la Presidente della Commissione europea Von der Leyen ha riportato l’attenzione dei media sul nuovo Patto europeo sull’immigrazione, che la Presidenza svedese del Consiglio europeo ha deto che non potrà essere varato prima del 2014. Una riforma del Regolamento Dublino III n.604 del 2013 non sembra davvero in vista. Come non si vedono aiuti per supportare ulteriormente l’Italia nel cd. approccio Hotspot (punti di crisi), come si è fatto invece con la Grecia.

Con il Patto europeo sulle migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione nel settembre del 2020 la priorità della funzione Hotspot passava definitivamente dalla prima identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali per la redistribuzione dei richiedenti asilo nei diversi paesi europei, evitando movimenti secondari irregolari, alla realizzazione delle operazioni di respingimento e di rimpatrio, con una maggiore collaborazione con i paesi terzi in base ad accordi di riammissione 2, Secondo la proposta della Commissione,Per coloro la cui domanda è stata respinta nell’ambito della procedura di asilo alla frontiera, si applicherebbe immediatamente una procedura unionale di rimpatrio alla frontiera: ciò eliminerebbe i rischi di spostamenti non autorizzati e invierebbe un chiaro segnale ai trafficanti. Si tratterebbe di uno strumento particolarmente importante per le rotte sulle quali vi è un’elevata percentuale di richiedenti asilo provenienti da paesi con un basso tasso di riconoscimento”.

Si profila anche la possibilità di concludere accordi con i paesi terzi (esternalizzazione) per l’apertura di Hotspot al di fuori delle frontiere esterne dell’Unione europea, sempre allo scopo di ridurre le partenze e favorire i rimpatri verso i paesi di origine. Proposte già respinte ai mittenti da tutti i paesi nordafricani, che nel frattempo da paesi di emigrazione sono diventati a loro volta, paesi di transito. La proposta si inquadra peraltro nell’ambito di un nuovo Regolamento europeo sulle procedure di asilo che non è stato ancora adottato. E si collega direttamente alla riforma del sistema Dublino, che sembrava vicina ad una conclusione già nel 2020, ma che sino ad oggi rimane accantonata, come è stato confermato per tutto il 2023 dalla nuova Presidenza svedese del Consiglio dell’Unione Europea . Gli indirizzi maturati a livello europeo spingono oggi, nelle prassi applicate dalle autorità amministrative, verso “procedure accelerate” in frontiera con una ulteriore caratterizzazione dell’approccio Hotspot verso l’esecuzione di misure di rimpatrio (return).

Dal Viminale, con il nuovo governo Meloni, sono arrivate soltanto proposte di ripristino dei cd. Decreti sicurezza adottati nel 2018 e nel 2019, e fantomatici auspici, già oggetto di campagna elettorale, rivolti alla istituzione di centri Hotspot al di fuori dell’Unione Europea, nei paesi di transito, che però non hanno mai dato la loro disponibilità ad accettare nel loro territorio questo tipo di strutture detentive, e che peraltro non sono firmatari della Convenzione di Ginevra sui rifugiati ( come la Libia) o non vi danno una effettiva attuazione, come l’ Egitto, la Tunisia e l’Algeria. Adesso il governo Meloni, al di là delle decisioni in materia economica già concordate dal precedente governo Draghi, si trova in una situazione di stallo completo sui principali dossier che riguardano l’immigrazione e l’asilo, ed incontro dopo incontro, questo isolamento emerge sempre più evidente, a parte le foto con i sorrisi di convenienza opportunamente distribuite alla stampa.

4. Difendere i diritti e la dignità delle persone, qui e subito. Per un ritorno alla giurisdizione.

Nei diversi centri adibiti alla funzione Hotspot si continua intanto a verificare una situazione di costante lesione delle garanzie della libertà personale e della tutela dei minori, previste dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, oltre che dalla normativa europea, una situazione che si riproduce a macchia sul nostro territorio, dove si trovano ancora oggi luoghi che rimangono di fatto al di fuori del diritto nei quali dopo gli sbarchi vengono trattenute le persone migranti.. Dove adulti e minori sono anzi indotti ad una ulteriore clandestinizzazione, come si verifica nei numerosi casi in cui poi proseguono la loro fuga verso altri paesi europei. Il diritto di accedere ad una procedura di protezione internazionale, I diritti di difesa, ed i limiti alla detenzione amministrativa, vanno riconosciuti a tutti, anche ai migranti che si ritengono in transito e a quelli che risultano destinatari di una misura di allontanamento forzato. Ma per molti l’Italia è solo un paese di transito, la guerra ai soccorsi umanitari ed ai migranti, la deriva populista del nostro paese, la pesante discriminazione subita anche dai richiedenti asilo, induce molti a lasciare prima possibile il nostro paese, magari con un “foglio di via” in mano. Che poi non è un lasciapssare per l’Europa, ma un provedimento di respingimento differito che, se registrato nelle banche dati Eurodac (Regolamento UE n,603/2013,) pregiudica la possibilità di ottenere asilo in altri paesi europei. Manca una corretta informazione allo sbarco, e le autorità di polizia pensano solo di “liberarsi” dei migranti che non possono accogliere nei centri hotspot e nel sistema nazionale SAI ()ex SPRAR). Un disastro umanitario poco visibile, che va affrontato con una svolta decisa. Su questo occorre aprire vertenze, anche a livello locale, e promuovere azioni di denuncia,

Le procedure di identificazione e registrazione vanno svolte nel pieno rispetto dei diritti umani, senza alcuna forma di costrizione fisica e senza un trattenimento amminsitrativo prolungato, quando su renda necessario, oltre i limiti delle 48 ore per la comunicazione all’autorità giudiziaria e le successive 48 ore per la convalida. I centri hotspot più esposti agli sbarchi vanno svuotati al più presto con trasferimenti via terra verso centri di seconda accoglienza, preferibilmente quelli gestiti dagli enti locali, e non verso i Centri di accoglienza straordinaria (CAS) dati in gestione ai privati dalle prefetture. Nessun migrante deve essere respinto o espulso senza che il suo caso sia stato valutato singolarmente, considerato che nessuna norma attribuisce alle forze dell’ordine la facoltà di distinguere un richiedente protezione internazionale da un migrante cosiddetto economico. Nessuna persona può essere trattenuta nei centri di accoglienza a tempo indeterminato, al solo fine di essere identificato e vanno comunque garantiti specifici percorsi protetti destinati alle categorie più vulnerabili, come donne, minori e vittime di tortura. Gli attuali centri per il rimpatrio (CPR) vanno chiusi, anche se il governo Meloni pensa ancora oggi ad una loro moltiplicazione, ed in nessun caso devono diventare luoghi di trattenimento per chi è stato soccorso in mare.

Occorre ripristinare i controlli giurisdizionali sul trattenimento all’interno di tutte le strutture destinate al cd. Approccio Hotspot, fino ad oggi disciplinate esclusivamente in base alla normativa adottata in via amministrativa. Se i rappresentanti di governo parlano tanto di legalità, dovrebbero finalmente ripristinare, nelle varie forme di approccio Hotspot, prassi legittime e rispettose della dignità della persona, dopo lo sbarco e l’ingresso nel territorio italiano. Senza usare, ancora una volta, come uno strumento di distrazione di massa, qualche centinaio di persone soccorse dalle ONG, inviate verso porti di destinazione lontanissimi, all’esclusivo scopo di impedire che i soccorsi umanitari possano proseguire, evitando naufragi e respingimenti su delega/deportazioni in alto mare, operate dalle motovedette libiche.