di Fulvio Vassallo Paleologo
Abbiamo denunciato fin dal 2017 come il sequestro della nave umanitaria Iuventa ed il successivo procedimento penale a carico di numerosi imputati, in parte poi archviato, fosse lo sbocco di una operazione mediatico-poliziesca per eliminare le navi del soccorso civile nel Mediterraneo centrale, dopo il Codice di condotta Miniti e gli accordi conclusi con la sedicente Guardia costiera libica. Per intercettare il maggior numero possibile di migranti in fuga dalla Libia e ricondurli nei centri lager, da anni oggetto di denunce molto documentate delle Nazioni Unite e delle principali agenzie umanitarie mondiali.
Una recente inchiesta pubblicata dall’agenzia giornalistica The Intercept, derivante dalla immensa mole di intercettazioni e documenti che i giornalisti hanno potuto visionare, ricostruisce l’intera vicenda IUVENTA, che fin dall’inizio ha visto al centro delle attività di indagine, e della formulazione della notizia di reato, personaggi non sempre attendibili, come hanno dimostrato i successivi accertamenti, operanti nei servizi ed in agenzie di security. Agenti “infiltrati” o sotto copertura che hanno confezionato i loro rapporti con l’indubbia finalità di fare emergere una collusione tra operatori umanitari e trafficanti (“consegne concordate” di migranti) che, è finora rimasta priva di riscontri e che, in altri spezzoni di indagine, è stata smentita persino dalla Procura di Palermo che nel 2018 ha archviato una indagine analoga. Semmai rimarrebbe da chiarire il ruolo di quella parte della sedicente Guardia costiera libica che allora, come in tempi più recenti, era presente in acque internazionali, talvolta senza intervenire, alle attività di ricerca e salvataggio (SAR) condotte dalle navi civili, al punto da esercitare un ruolo di connivenza con i trafficanti, un ruolo passivo dunque, che nel tempo, a seconda dell’andamento dei rapporti di cooperazione operativa con le autorità italiane, si è alternato a veri e propri interventi omicidi. Come si verificava nel caso Sea Watch del 6 novembre del 2017, per il quale è pendente un ricorso contro l’Italia ( S.S and Others/Italy) davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Pochi giorni dopo il sequestro della Iuventa a Lampedusa la sedicente Guardia costiera libica tentava di sequestrare un altra nave delle ONG, la Proactiva Open Arms. Questo il contesto all’origine dell’indagine sul caso Iuventa, che poi si estenderà ad altre navi delle Ong MSF e Save the Children. Imbarcazioni che operavano sotto il coordinamento diretto della Centrale IMRCC della Guardia costiera di Roma.
In quel periodo, come negli anni successivi, fino al 2020, le motovedette libiche, oltre ad essere emanazione delle milizie colluse con i trafficanti di Zawia e di Sabratha, e di altre località, intervenivano sotto il coordinamento delle autorità marittime italiane, che operavano anche attraverso una nave militare della nostra Marina militare, stabimente ormeggiata nel porto di Tripoli. Non è del resto un mistero che il principale esponente della sedicente Guardia costiera libica, che ha ricevuto assistenza, formazione, forniture e coordinamento dall’Italia è quel comandante Bija che dopo un breve periodo di arresto è stato rimesso in libertà, per il sostegno dato all’attuale governo provvisorio di Tripoli, ed è stato chiamato ad occupare un ruolo di vertice nell’Accademia navale libica. Lo stesso personaggio che continua ad esercitare gravissime minacce contro i giornalisti italiani che hanno denunciato il suo operato.
L’udienza preliminare “monstre” di Trapani sul caso IUVENTA,in corso da più di un anno, in un procedimento che si è ampliato fino a ricomprendere operatori e dirigenti di MSF e di Save The Children, si è finora caratterizzata per le decisioni equilibrate del GUP (Giudice dell’Udienza preliminare) che, malgrado le diverse posizioni della procura, stanno finalmente consentendo agli imputati stranieri la possibilità di avvalersi di interpreti indipendenti e di leggere in una lingua che comprendono gli atti a loro carico finora custoditi nei numerosi “faldoni” processuali, accumulati negli armadi del Tribunale di Trapani, e di esercitare quindi effettivamente i loro diritti di difesa. Faldoni ai quali lo scorso anno potevano accedere giornalisti che hanno utilizzato questo processo per criminalizzare le ONG e rilanciare nella macchina del fango le intercettazioni a valanga disposte dalla procura, anche nei confronti di giornalisti, avvocati e docenti universitari.
Lo stesso GUP, con ordinanza emessa mercoledì 7 dicembre, ha ordinato alla capitaneria di porto importanti lavori di manutenzione per riportare la Iuventa alle condizioni in cui si trovava prima del sequestro dell’agosto 2017. Anche se l’imbarcazione è in condizioni che appaiono irrecuperabili, la decisione sembra riaprire una possibilità di restituzione che potrebbe collegarsi al venir meno dei presupposti del sequestro, disposto a Lampedusa il 3 agosto del 2017, quando la Iuventa, che navigava in acque internazionali, veniva attirata in porto su richiesta di un trasbordo di tre naufraghi precedentemente soccorsi da unità militari italiane, un mero pretesto per bloccare la nave per la notifica di un provvedimento di sequestro che era già stampato e firmato, quando la nave entrava in porto. Dopo queste decisioni del GUP di Trapani è arrivata immediatamente una evidente ritorsione da parte del governo. Perchè al di là delle motivazioni addotte di questo si tratta.
Di fronte a questi provvedimenti del Giudice delle indagini preliminari, il governo ha deciso di giocare la carta della costituzione di parte civile contro gli operatori umanitari per sollecitare di fatto il loro rinvio a giudizio, ma anche, evidentemente per il timore che si consolidasse quell’orientamento giurisprudenziale, confermato anche dalla Cassazione, che qualifica le attività di ricerca e salvataggio operate dalle ONG come adempimento di un dovere di soccorso sancito dalle Convenzioni internazionali, attraverso il richiamo che ne fanno gli articoli 10, 11 e 117 della nostra Costituzione. Un principio ormai riconosciuto in tante sentenze di giudici di tribunale che hanno archiviato numerose inchieste avviate contro le odiate ONG negli anni del governo giallo verde, con Salvini al ministero dell’interno.
La chiusura dell’udienza prelimnare di Trapani senza un rinvio a giudizio degli imputati sarebbe un pessimo precedente per la difesa dello stesso Salvini nel processo Open Arms a Palermo, nel quale il diversivo imbastito dalla difesa dell’imputato è stato quello di ribaltare i ruoli processuali e mettere sul banco di accusa gli operatori umanitari, arrivando a chiedere l’acquisizione degli atti del processo Iuventa. Come se in entrambi i casi si fossero verificate “consegne concordate”di migranti. La stessa difesa dell’ex ministro del’interno, di recente, ha fatto ricorso ad un contributo inatteso, frutto di una relazione dei servizi militari che da un sottomarino avrebbero ripreso immagini ed audio del soccorso operato da Open Arms il 1 agosto del 2019. Prove di violazioni a carico del comandamte della nave che si rivelano già adesso del tutto inconsistenti e frutto dell’ennesima montatura, per difendere le scelte governative di chiusura dei porti. Che dovrebbero costituire il vero ogetto dell’accertamento del Tribunale di Palermo, chiamato a giudicare il ministro ( oggi delle infrastrutture) Salvini. Un altro processo nel quale sarà fondamentale garantire la indipendenza e la serenità del collegio giudicante di fronte al tentativo della difesa di utilizzare la vicenda processuale per legittimare, ora per allora, le scelte politiche di chiusura dei porti e, sulla base della discrezionalità politica del ministro, giustificare le violazoni delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei che prevedono gli obblighi di soccorso e stabiliscono a carico degli Stati costieri l’obbligo di sbarco nel porto sicuro “nel tempo più breve ragionevolmente possibile“. Procedimenti penali da seguire senza dimenticare l’appartenenza politica del ministro della giustizia e della Presidente della Commissione giustizia del Senato che difende Salvini nel processo di Palermo. A Trapani ed a Palermo non sono in gioco soltanto responsabilità personali di singoli imputati, che comunque dovrebbero essere messi sullo stesso piano di fronte alla legge, ma ritorna a rischio lo Stato di diritto, che costituisce l’intero tessuto di diritti fondamentali e di garanzie effettive tracciato con la Costituzione repubblicana, un quadro che potrebbe essere dissolto qualora le scelte della magistratura fossero influenzate dagli indirizzi politici del governo, rischio che adesso si appalesa in tutta la sua gravità, con la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’interno nel processo Iuventa.
Le regole del diritto in mare
LA STAMPA 11 Agosto 2017 alle 10:56
“I rischi di responsabilità internazionale per l’Italia emergono sotto almeno due aspetti. Essi riguardano ciò che avverrà concretamente in mare, indipendentemente da ciò che prudentemente si scrive nei documenti. Si tratta sia della natura effettiva dell’assistenza fornita dalla Marina italiana, sia del comportamento che terranno le autorità italiane nei confronti delle navi delle Ong che non hanno sottoscritto il codice di comportamento o che, avendolo accettato, in singole situazioni nel violino le disposizioni.
Per il primo aspetto rileva l’episodio che ho ricordato iniziando: responsabilità italiane esistono anche fuori delle sue acque territoriali. La Libia non ha ratificato alcuno dei trattati internazionali sui rifugiati e in generale sui diritti umani, ma l’Italia è vincolata a tutti i trattati in materia. In particolare l’Italia è parte della Convenzione europea dei diritti umani. Se le navi italiane dovessero imbarcare migranti, la Convenzione si applicherebbe integralmente e direttamente, poiché quelle navi sono territorio nazionale. Ma anche la collaborazione con le navi libiche potrebbe dar luogo a responsabilità italiana. Si dice che la Marina italiana assicura appoggio logistico, ma cosa vuol dire in pratica? Se in concreto i mezzi militari italiani dovessero «aiutare troppo» le autorità libiche, fino a fornire una vera partecipazione italiana, la responsabilità italiana non sarebbe esclusa dal fatto che l’attività si svolge in acque libiche. I campi in cui i migranti vengono riportati sono generalmente ritenuti orribili, inumani e nessuna cernita le autorità libiche faranno per identificare coloro che avrebbero diritto allo status di rifugiato in Italia o alla protezione umanitaria italiana. Ai libici ciò non interessa, ma all’Italia sì, poiché non può rendersi partecipe di violazioni delle norme sui rifugiati e sul divieto di trattamenti inumani.
Quanto al secondo aspetto, credo che il c.d. codice di comportamento delle navi delle Ong non entri di per sé in conflitto con regole che vincolano l’Italia. Il documento non impedisce in alcun modo alle navi delle Ong di soccorrere persone in pericolo. Le regole oggetto degli accordi tendono a impedire che le navi delle Ong intralcino l’attività delle motovedette libiche nelle acque libiche e che finiscano con il trasformare la loro presenza in mare a ridosso delle acque libiche in un’assicurazione agli scafisti che il loro viaggio sarà breve e sicuro. Ma il problema che non si può ignorare riguarda la condotta che l’Italia terrà nei confronti di navi di Ong che hanno rifiutato il codice di comportamento oppure in concreto non lo hanno osservato. Se una nave carica di migranti si presenta davanti a un porto italiano chiedendo di attraccare e dichiarando di avere malati a bordo o bambini o donne incinte prossime a partorire, l’Italia respingerà quella nave? È ipotesi che è stata lanciata troppo leggermente. Se lo facesse, quali sarebbero le conseguenze giuridiche internazionali e, prima ancora, quali le conseguenze politiche?
I rischi di responsabilità internazionale per l’Italia emergono sotto almeno due aspetti. Essi riguardano ciò che avverrà concretamente in mare, indipendentemente da ciò che prudentemente si scrive nei documenti. Si tratta sia della natura effettiva dell’assistenza fornita dalla Marina italiana, sia del comportamento che terranno le autorità italiane nei confronti delle navi delle Ong che non hanno sottoscritto il codice di comportamento o che, avendolo accettato, in singole situazioni nel violino le disposizioni.