A volte ritornano… i porti “chiusi”.

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Il neo-ministro delle infrastrutture Salvini, prima ancora che fosse votata la fiducia dal Parlamento, e senza una esatta atribuzione delle deleghe al Ministero di cui è titolare, ha lanciato dagli schermi televisivi il suo lugubre urlo di guerra contro i soccorsi in mare, mentre nelle acque di Lampedusa prosegue la strage infinita di migranti abbandonati al proprio destino, in assenza di mezzi di soccorso statali che intervengano in acque internazionali. Nel bersaglio continuano a rimanere le ONG, attualmente due navi umanitarie sono al limite della zona SAR libica, ed hanno a bordo centinaia di naufraghi. Ma sono soprattutto le persone che annegano in alto mare, dopo essere fuggite dalla Libia, dall’Egitto e dalla Tunisia, che pagano il prezzo più alto di una politica di contrasto dei soccorsi in mare che dal 2017 non si è mai interrotta davvero. Un contrasto dei soccorsi in mare che invece sembra attenuarsi quando si tratta di migranti in arrivo dalla Turchia sulla rotta orientale, perchè in questo caso, mentre i maltesi arrivano ad ordinare respingimenri collettivi in Egitto, gli obblighi di soccorso delle autorità italiane sono più chiari, per la attribuzione di responsabilità precise in base alla suddivisione delle zone di ricerca e salvataggio a nord di Malta. Almeno fino a quando gli allarmi raccolti dalle ONG vengono ritenuti credibili e seguiti dall’avvio di immediate attività di soccorso nel mare Ionio. Ma tutto questo viene nascosto all’opinione pubblica, Riprende così, subito dopo le elezioni, la strumentalizzazione politica per riaffermare il protagonismo della Lega, nel nuovo governo, e di fronte all’Unione Europea. Una linea di attacco contro i soccorsi umanitari, che anticipa le dichiarazioni della premier Meloni in Parlamento, e che non sembra neppure tanto condivisa dal prefetto Piantedosi adesso a capo del Ministero dell’interno. Una differenza di toni comunque tra due ministri che in passato hanno collaborato strettamente nella politica e nelle prassi dei porti chiusi. Cambia la forma, si evocano corridoi umanitari che nessuno poi garantisce per numeri consistenti di persone, tali da costituire una reale alternativa alle rotte di fuga attraverso il Mediterraneo. Rimane la sostanza, e si convocano gli organi di intelligence dello Stato, non certo per conoscere la situazione in Libia, che al Viminale conoscono benissimo, ma per rilanciare la colaborazione con Frontex ed affilare le armi contro chiunque si opponga alla politica di criminalizzazione dei socorsi umanitari.

In una giornata di frenetico attivismo, mentre la neo-presidente del Consiglio preparava il suo intervento davanti alle Camere, Salvini ha subito individuato il primo obiettivo da colpire per “difendere i confini italiani”, incontrando il comandante della Guardia costiera Ammiraglio Nicola Carlone, con il quale ha avuto “un lungo e proficuo incontro per fare il punto della situazione anche a proposito di immigrazione” al termine del quale ha dichiarato che, “in questo momento in acque Sar libiche ci sono due imbarcazioni ong”. Questi i target da bloccare immediatamente, senza neanche una parola sulla situazione in LIbia, e sulle decine di migliaia di persone intercettate in acque internazionali dalla sedicente Guardia costiera “libica”, alla quale si stanno fornendo altre unità navali. Silenzio anche sui corpi in decomposizione che affiorano dalle acque del Mediterraneo, proprio davanti le coste di Lampedusa, dunque nella zona di ricerca e salvataggio (SAR) italiana.

Nel corso della sua intervista a senso unico a “Porta a Porta” Salvini ha minacciato: “Fermeremo le navi delle ong. E’l’unico modo. Andranno a cercare rifugio nei porti di nazionalità delle navi che fanno soccorso”. Tesi sostenuta in passato anche dal neo-ministro della Giustizia Nordio. Un intervento a gamba tesa, quello di Salvini, con possibili ricadute anche a livello internazionale, che sembra preludere ad un nuovo “decreto sicurezza”, ma che nell’immediato ripropone una sua assunzione diretta di responsabilità, nell’imposizione di divieti che la legge e le normative europee ed internazionali non prevedono, esattamente la stessa serie di decisioni per cui il ministro delle infrastrutture è ancora sotto processo a Palermo per il caso Open Arms. Secondo le memorie difensive del senatore Salvini nel processo Open Arms a Palermo, per il quale è stato rinviato a giudizio, “l’Italia non era lo stato competente ad indicare il Pos” (ovvero il cosiddetto “Place of safety”) per Open Arms, in quanto “secondo il diritto internazionale” sarebbe dovuta essere responsabile la Spagna “quale stato di bandiera della nave Open Arms, e, limitatamente al terzo episodio, Malta”. E già subito dopo il suo primo insediamento al Viminale, nel giugno del 2018, i divieti di ingresso adottati da Salvini, dopo avere innescato uno scontro con Malta, costringevano la nave Aquarius a dirigere verso il porto spagnolo di Valencia,nonostante il soccorso fosse stato coordinato direttamente da Roma e il porto sicuro più vicino alle coste libiche non fosse quello spagnolo. per fare sbarcare i naufraghi che erano bloccati a bordo da giorni. Un precedente che non si è ripetuto nel tempo, perchè gli Stati di bandiera delle navi umanitarie hanno generalmente rifiutato la indicazione di un porto sicuro di sbarco.

Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms,“deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. A pag. 46 della richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei ministri si afferma che “…nella vicenda in esame due sono gli Stati che devono individuarsi come autorità di primo contatto: l’Italia e Malta, in quanto entrambi contestualmente contattati e informati delle prime due operazioni di salvataggio, almeno sin dal 2.8.2019…”.

2. Sembra che il Vimnale, con il nuovo ministro Piantedosi, già braccio destro di Salvini, voglia ripristinare per via amministrativa i divieti di ingresso previsti dal Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, normativa che non può essere applicata in contrasto con le successive modifiche introdotte dal Decreto n.130 del 2020, che tutttavia all’art. 1, comma 2, riconosce ancora le autorità libiche competenti per la ricerca e soccorso in mare nella ampia zona SAR loro riconosciuta, e mantiene la previgente previsione del potere del Ministro dell’Interno di limitare o vietare il transito o la sosta di navi di soccorso nel mare territoriale, tutte le volte in cui queste ultime non si siano attenute alle indicazioni di quelle autorità. Anche se la Corte di Cassazione in una recente sentenza ha definito la Libia come un paese terzo non sicuro. Persiste dunque negli intendimenti del Viminale e di Salvini una scelta politica sui soccorsi in mare che contrasta con la interpretazione che ne ha fornito la Corte di Cassazione e la prevalente giurisprudenza dei Tribunali.

ll nuovo ministro dell’Interno, nel giorno del voto di ficucia al governo in Parlamento, ha emanato, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, una direttiva ai vertici delle Forze di polizia e della Capitaneria di porto “perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale“. Secondo la tesi aberrante del Viminale, le navi delle Ong, prima di operare i soccorsi, dovrebbero informare le centrali di coordinamento ed attendere l’assunzione del coordinamento da parte dello Stato responsabile della zona Sar nella quale si trovano, anche se si tratta di Stati che non garantiscono una effettiva organizzazione di soccorso, come Malta, oppure come nel caso della Libia, non garantiscono porti di sbarco sicuri. Il nuovo ministro dell’interno vuole così criminalizzare i cd. “soccorsi in autonomia”, quelli che sarebbero operati “senza avvertire gli Stati”, soccorsi cheinvece salvano con la massima rapidità, come impone il diritto internazionale, quelle persone che i ritardi, o i rifiuti, delle autorita’ statali condannano a morte. Per ottenere il risultato di criminalizzare di nuovo le attività SAR delle ONG, basta seguire la linea interpretativa, adottata anche dai precedenti governi, secondo cui sarebbero solo le autorita’ statali a decidere quando ricorre un evento di soccorso Sar con persone in stato di pericolo (distress) e quando invece ricorre soltanto un evento di immigrazione irregolare. Una distinzione arbitraria, perché tutte le imbarcazioni sovraccariche, in alto mare, e senza dotazioni di sicurezza, contengono persone in stato di pericolo (distress), una distinzione che ha permesso continui rimpalli di responsabilita con ritardi che sono costati la vita di centinaia di persone, come si verificò in occasione del “naufragio dei bambini” dell’11 ottobre 2013.

Rimane poi da dimostrare da parte del Viminale che le autorità marittime competenti non siano state avvertite tempestivamente delle attività di soccorso, perché in molti processi simili argomentazioni, sostenute dalle forze di polizia per criminalizzare gli interventi SAR delle ONG, sono state smentite dalla minuziosa documentazione raccolta dai comandanti delle navi umanitarie. In ogni caso, in base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altri Trattati internazionali di diritto marittimo, i più importanti dei quali sono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar) del 1979.

La Convenzione SOLAS obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione” … [Capitolo V, Regola 33)

L’art. 10, par 1, della Convenzione SAR di Amburgo del 1979 prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare.  Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo.

La Convenzione SAR definisce la “fase di emergenza” (distress) come una “situazione in cui vi è la ragionevole certezza che una persona, nave o altra imbarcazione è minacciata da un pericolo grave e imminente e necessita di assistenza immediata” : In questi termini l’ Allegato alla Convenzione, paragrafo 1.3.13. Un elenco di fattori da prendere in considerazione, al fine di determinare se una nave è in una fase di incertezza, allerta o pericolo è inclusa nell’articolo 9, paragrafo 2, lettera f), del Regolamento UE 656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, che stabilisce norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nell’ambito del cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia Europea per la Gestione della Cooperazione Operativa presso il Frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (“regolamento UE sulle frontiere marittime”). Questi criteri di valutazione che si impongono alle autorità nazionali che pure adottano un Piano SAR nazionale in conformità a questi strumenti di diritto internazionale, come raccolti nel Manuale IAMSAR, includono: navigabilità e probabilità di raggiungere la destinazione finale; numero di persone a bordo in relazione alla tipologia e condizioni della nave; disponibilità di attrezzature e forniture necessarie; presenza di un equipaggio qualificato; presenza a bordo di donne in gravidanza, bambini o persone che necessitano urgentemente di assistenza medica; presenza a bordo di persone decedute; e le condizioni meteorologiche e marine prevalenti o previste.

Il Piano nazionale SAR 2020, in linea con le Convenzioni internazionali, distingue diversi livelli di pericolo per ciascuna operazione di ricerca e salvataggio, affermando il principio che in caso di pericolo per la vita umana in mare, comunque siano pervenute le informazioni, in base ad una presunzione di generale credibilità, si devono disporre i primi interventi operativi ed informativi, avviando le operazioni di soccorso con tutti i mezzi nella propria disponibilità.  Si ribadisce l’immediata responsabilità di coordinamento del Comando centrale della Guardia costiera (IMRCC)  tenuto a coordinare direttamente il soccorso se si verifica un disastro in mare di notevoli proporzioni, oppure quando l’area di responsabilità sia particolarmente ampia, oppure ancora ,come previsto al punto  C del paragrafo 234, quando l’intervento avvenga ai limiti esterni della zona di competenza italiana e, dunque in particolare, si prevede lo sconfinamento in acque internazionali o di competenza di altri paesi al fine di garantire una effettiva salvaguardia della vita umana in mare.

Malgrado il chiaro tenore delle Convenzioni internazionali e degli allegati più recenti, continua la criminalizzazione dei soccorsi operati “sistematicamente” dalle ONG, in quelle acque internazionali che sono state abbandonate dagli Stati costieri e che si vorrebbero atribuire alla competenza esclusiva dele autorità libiche. Alle quali Malta concede pure il diritto di entrare nella propria zona SAR per intercettare barconi carichi di migranti, che poi vengono ricondotti nelle prigioni libiche. Di fronte a prassi illegali delle autorità statali, al limite dell’omissione di socorso, ancora una volta le attività di ricerca e salvataggio (Sar) operate dalle ONG vengono qualificate come “eventi di immigrazione illegale” al fine di utilizzare strumentalmente l’art. 19 della Convenzione UNCLOS. Che consente agli Stati costieri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali, qualificando il passaggio della nave come “non inoffensivo”, perchè da parte delle autorità statali si assume che sia in contrasto con le norme in materia di immigrazione. Una interpretazione fuorviante che in Italia è stata già demolita dalle corti e dalle procure che se ne sono occupate, archiviando i procedimenti contro le ONG, procedimenti penali che si basavano proprio sull’assunto, del carattere illegale delle atività SAR operate dalle Organizzazioni umanitarie. Adesso questa interpretazione travisata della normativa internazionale viene riproposta come primo segnale di svolta del nuovo governo sul fronte della difesa dei confini marittimi e della sovranità dell’Italia. E forse si spera che il nuovo ministro della Giustizia e le riforme che minacia, possano costituire ragione di un ripensamento dei giudici sul tema dei soccorsi in mare operati dalle Organizzazioni non governative.

Secondo Gianfranco Schiavone, “Per capire l’effettiva portata della citata Convenzione UNCLOS dobbiamo esaminare il comma 1 dell’art. 19 che stabilisce che “Il passaggio è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale”; mentre il successivo comma 2 afferma che “Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività:… g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

Schiavone avvverte a tale riguardo come occora inquadrare questa previsione nella normativa internazionale, europea ed interna che definisce gli obblighi di soccorso degli Stati. Si tratta di una materia che è stata ampiamente trattata dai tempi nei quali i divieti di ingresso lanciati da Salvini furono oggetto di denunce alla magistratura di Agrigento per il caso Open Arms nel 2019. In quell’occasione la sezione prima ter del TAR Lazio , nell’accogliere l’istanza cautelare avanzata da Open Arms , riconosceva che la decisione dell’Esecutivo era viziata da “ eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”. E’ evidente come questo primo attacco contro le ONG che stanno operando soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale sia mirato anche a fare saltare il principale presupposto del procedimento penale sul caso Open Arms ancora aperto a Palermo nei confronti del ministro Salvini.

Con riferimento all’art. 19 della Convenzione UNCLOS si è già osservato da parte della dottrina come “Questa previsione, a ben guardare, non può essere riferita ad imbarcazioni impegnate in attività di soccorso: detto altrimenti, non è applicabile al caso in cui le attività di «imbarco» consistano nel tirare a bordo persone che si trovino in situazione di pericolo («distress») ai sensi delle relative convenzioni (SOLAS, SAR); e quelle di «sbarco» consistano non genericamente nel farle scendere a terra, ma consegnarle in un luogo sicuro («place of safety»).

Secondo la stessa dottrina (Di Martino-Ricci) appena richiamata “L’illiceità dello sbarco, pertanto, non può dipendere dalla stessa fonte – il provvedimento di limitazione o divieto – che ne sanziona la violazione. Il carattere offensivo del passaggio dev’essere dunque precedente alla realizzazione della condotta, perché soltanto esso fonda il potere di emanare il provvedimento amministrativo.
Questa conclusione è confermata dalla stessa indicazione spaziale contenuta nell’art. 19(2)(g) UNCLOS. Le condotte connotate dal carattere “non inoffensivo” devono esser commesse nel mare territoriale. Ciò che dev’essere contrario alle leggi in materia di immigrazione, dunque, è l’imbarco o sbarco nel mare territoriale. Il problema centrale si sposta dunque sulla liceità delle operazioni di salvataggio: se queste devono esser considerate lecite alla stregua del diritto internazionale, il transito
e la sosta non possono esser considerati offensivi e dunque il provvedimento amministrativo non potrà essere emanato su questa base. Potrà solo esserlo adducendo ragioni di ordine pubblico e sicurezza pubblica, supportate da apposita motivazione”.

Su questi punti ci sono state dichiarazioni importanti di alti esponenti della Guardia costiera che non possono essere dimenticate, o modificate, per il mutato assetto politico del governo. Nel 2019, in una audizione alla Camera dei Deputati, l’Ammiraglio LIARDO affermava anche che “L’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia, “law enforcement”, al di fuori delle acque territoriali è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale. La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero è ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a POS delle persone soccorse. Lo stato costiero non può dunque qualificare come “evento di immigrazione clandestina” o “illegale” un attività di ricerca e salvataggio che si svolge al di fuori delle sue acque internazionali in conformità con gli obblighi di soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali e nel rispetto del principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Categoria che secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione prescinde dalla formale proposizione di una domanda di protezione, ma costituisce una qualità della persona che va considerata anche prima dell’ingresso nel territorio dello Stato.

Si puà quindi affermare, come ricorda Cataldi, che “Sul diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale va subito chiarito che l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in adempimento dell’obbligo internazionale di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Sul punto la giurisprudenza italiana è copiosa e pressoché unanime8. L’obbligo di salvare la vita umana in mare, infatti, vincola sia gli Stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 Unclos) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 Solas, nonché delle norme nazionali in materia, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.). Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro “nel più breve tempo possibile”. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa”.

Tra le tante decisioni della giurisprudenza richiamate da Cataldi possiamo ricordare le seguenti : Tribunale di Agrigento del 7 ottobre 2009, n. 954 nel caso Cap Anamur; richiesta di archiviazione della Procura di Palermo del 15 giugno 2018, nella vicenda che ha coinvolto la nave Golfo Azzurro della Ong Iuventa; decreto di rigetto di richiesta di sequestro preventivo del 16 aprile 2018 del Tribunale di Ragusa, ufficio per indagini preliminari, confermato dal Tribunale del riesame di Ragusa in data 11 maggio 2018 nel caso Open Arms; Cassazione, sez. I pen., sentenza del 27 marzo 2014, n. 14510 e Cassazione, sez. IV pen., sentenza del 30 marzo 2018, n. 14709, che in tema di sussistenza della giurisdizione italiana in relazione a condotte, alternativamente qualificabili come operazioni di soccorso umanitario o concorso in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, avvenute in alto mare, ha avuto modo di notare che «l’intervento di soccorso è doveroso ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare»; Tribunale di Catania, dicembre 2018, che con riferimento al caso Diciotti sottolinea che “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”; gip di Trapani del 3 giugno 2019 (cit.); Cassazione penale, Sez. I, 23 gennaio 2015, n. 3345, in tema di “autore mediato”, e cioè di operazioni di soccorso provocate dagli stessi scafisti che determinano la responsabilità di questi ultimi ma non certo di chi presta il soccorso in mare”.

A queste importanti decisioni si possono aggiungere poi le decisioni che hanno archiviato il caso Rackete sulla base di quanto deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.122 del 16-20 gennaio 2020. Secondo la Corte di Cassazione, “Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave.
L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la
cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve empo ragionevolmente possibile».
Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno.
Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12).
«Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.
Per gli stessi giudici :”Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave”. Secondo la Corte di Cassazione, dunque lo sbarco dei naufraghi deve avvenire “nel più breve empo ragionevolmente possibile” ed in un “porto sicuro” nel quale i naufraghi possano presentare una istanza di protezione, dunque certamente non in Libia, paese nel quale per unanime giurisprudenza, ed anche in base allla decisione della Corte europea sul caso Hirsi, questa possibilità deve ritenersi ancora oggi esclusa.

3. I precedenti governi Conte 2 e poi Draghi, e il ministro Lamorgese dal Viminale, hanno spianato la strada alla tesi, rilanciata adesso da Salvini, sulla competenza del paese di bandiera della nave soccorritrice che dovrebbe offrire anche il porto di sbarco sicuro. Già nel dicembre del 2019 il ministro dell’interno Lamorgese ribadiva questa strategia, in continuità con il precedente titolare del Viminale, lo stesso Salvini. Secondo la Lamorgese, “la sistematicità con cui i soggetti privati svolgono attività search and rescue, anche con il supporto di autonomi dispositivi di monitoraggio aereo e allertamento tramite centrale operativa apposita, impone di considerare anche altri profili quali quelli connessi alla sicurezza della navigazione. Servono dunque regole più sicure e norme di condotta valide per tutti gli Stati, compresi quelli di bandiera”.  Secondo la Lamorgese, che anticipava anche la linea di attacco per bloccare le ONG attraverso i fermi aministrativi, adesso ridimensionata dalla Corte di Giustizia UE, occorreva “una maggiore responsabilizzazione «sul piano delle certificazioni, sulla cooperazione nella fase di sbarco e sulla successiva redistribuzione dei migranti”. Addirittura, nel corso di un incontro con alcuni rappresentanti delle Ong nel mese di maggio del 2021, l’ex ministro dell’interno chiedeva ai rappresentanti delle stesse ONG di “fare pressione sugli Stati europei che, nonostante l’insistenza dell’Italia, continuano a non dare segni di concreta disponibilità nella condivisione delle responsabilità nella gestione dei flussi migratori, quantomeno nella relocation dei migranti che sbarcano nei Paesi costieri. Condivisione di cui c’è una ” esigenza immediata”. 

In realtà, in base al dirito internazionale ed al diritto dell’Unione europea, non si può affermare la responsabilità diretta dello stato di bandiera della nave per la indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) dei naufraghi, non solo per ragioni di natura geografica e politica, ma anche per quanto previsto dal Regolamento Dublino III, direttamente vincolante per le autorità italiane, che stabilisce la regola dello “Stato di primo approdo”. Stato che non può essere individuato in base alla nave sulla quale salgono i profughi soccorsi, che seppure costituisca territorio dello Stato di bandiera, non costituiisce certo un luogo di approdo. In base alla Risoluzione IMO 167(78) del 20 maggio 2004, al punto 6.13: “Una nave che presta assistenza non deve essere considerata un luogo sicuro esclusivamente sulla base del fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una nave che presta assistenza può non avere strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senza mettere in pericolo la propria sicurezza o per prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è in grado di ospitare in sicurezza i sopravvissuti e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, deve essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere stabiliti accordi alternativi”

Secondo l’Ammiraglio Fabio Caffio, “L’idea per cui salire su una nave equivale a entrare nel Paese di cui l’imbarcazione ha la bandiera si basa su un principio che deve essere richiamato dal regolamento di Dublino. Non risulta che l’accordo preveda questo richiamo: parla di territorio e di frontiere”. Secondo Caffio, “Certamente, lo Stato deve essere coinvolto per il principio del “genuine link’, il collegamento tra nave e Paese di cui è parte. Il problema è che la normativa è vaga. Si parla di informare lo Stato ma non dice che deve intervenire e prendersi i migranti”

Anche per la Marina militare italiana la tesi del “flag state” dunque non prevale sugli obblighi di sbarco nel porto sicuro più vicino. Secondo l’ammiraglio Caffio, “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”, e comunque “in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo. Le autorità dovrebbero obbligare una nave carica di migranti a rimanere in acque internazionali, attendere che vi siano accordi con il Paese di cui batte bandiera e aspettare che questi migranti siano mandati lì.” Ma sul trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, fino alla conclusione con gli Stati UE delle trattative per la relocation, si tratta di una tesi smentita dal diritto internazionale, dal Regolamento Dublino del 2013, e dalla più recente giurisprudenza italiana, oltre che dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, che prevede lo sbarco immediato delle persone soccorse in mare nei centri Hotspot, senza alcuna distinzione tra i soccorritori e senza richiami agli Stati di bandiera (Flag State) delle navi che sono intervenute. Nessuna nave di soccorso può essere considerata a tempo indeterminato come un “place of safety” ed evidenti considerazioni umanitarie, oltre che i principi del diritto internazionale del mare impongono lo sbarco tempestivo dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Come ha riconosciuto la Corte di cassazione con la sentenza sul caso Rackete del 16-20 febbraio 2020. Una sentenza che ormai ha fatto giurisprudenza.

Nelle Conclusioni di un “Quaderno della Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia” del 2020, dedicato al tema del “Contrasto all’immigrazione irregolare via mare”, si osserva correttamente come ” la ricognizione delle fonti normative sovranazionali non ha evidenziato l’esistenza di una norma espressa che obbliga lo stato di bandiera di una nave a far approdare sul suo territorio eventuali naufraghi recuperati al largo. del resto le norme internazionali vigenti, e di buon senso, chiedono che il soccorso venga completato in termini compatibili con le esigenze di salute, cioè non appena ragionevolmente praticabile, immaginando le convenzioni sul diritto del mare un luogo sicuro vicino al luogo del soccorso”. Si auspica quindi una maggiore collaborazione tra gli Stati di primo approdo e gli Stati di bandiera delle navi soccoritrici, ma solo nel quadro di una profonda revisione del Regolamento Dublino che, seppure auspicabile, non appare per il momento all’orizzonte. Rimane quindi il punto che il Regolamento Dublino III si applica solo dopo la fase dello sbarco in un porto sicuro, ma non è applicabile prima a bordo delle navi, come chiarisce anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi quando afferma che neppure unità militari dello Stato possono essere considerate come una “frontiera di ingresso”.

4. Non sappiamo quali posizioni abbia espresso, durante l’incontro con Salvini, l’ammiraglio Carlone, attuale capo della Guardia costiera, che in passato aveva assunto posizioni molto chiare sul tema dei soccorsi in mare. Già il Il 3 maggio 2017, quando si stava montando il primo furioso attacco mediatico-giudiziario contro le ONG, la commissione Schengen della Camera dei deputati aveva audito l’allora contrammiraglio Nicola Carlone. In quell’occasione lo stesso Carlone affermava che Risulta pertanto evidente che una nave con centinaia di persone a bordo non possa essere abbandonata alla deriva, per di più priva delle più elementari condizioni di sicurezza, sovraccarica, senza un equipaggio professionale, né idonee attrezzature e strumenti di navigazione. Un tale comportamento infatti metterebbe a rischio non solo la vita dei migranti, ma anche la sicurezza della navigazione in genere (vedasi in particolare, come in precedenza accennato, l’allarme generato negli anni a partire dal 2000, ma soprattutto tra il 2014 e l’inizio del 2015 con le navi provenienti dalla Turchia).
Ciò indipendentemente dal fatto che in una situazione di potenziale pericolo per la vita umana in mare si è in presenza di una situazione che impone di adempiere prioritariamente all’obbligo universalmente riconosciuto di prestare immediata assistenza e far sbarcare quanto prima dette persone in un luogo sicuro“.

Le imbarcazioni che trasportano i migranti nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la Convenzione SOLAS. Come osservano Leanza e Caffio, “da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente”distress potendosi anche presentare il caso che la richiesta sia avanzata in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia pervenga da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza. La nozione di “distress” è così stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.

Secondo quanto dichiarato nel 2017 di fronte alla Commisione parlamentare Schengen dal Contrammiraglio Carlone “La normativa SAR internazionale prevede che tutte le questioni che non riguardano il SAR in senso stretto relative allo stato giuridico delle persone soccorse, alla presenza o meno dei prescritti requisiti per il loro ingresso legittimo nel territorio dello Stato costiero interessato o per acquisire il diritto alla protezione internazionale debbano di norma essere affrontate e risolte solo a seguito dello sbarco in un luogo sicuro e non debbano causare indebiti ritardi allo sbarco delle persone soccorse e alla liberazione della nave soccorritrice dall’onere assunto”.

Secondo Carlone, e condividiamo l’assunto, “In realtà, la differenza risiede nel fatto che l’obbligo del SAR prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima dello Stato costiero, non è neppure limitato alla specifica area di responsabilità SAR, che comunque non è un’area di giurisdizione e pertanto si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua, mentre l’attività di polizia al di fuori delle acque territoriali, attività di low enforcement, è soggetta a ben precisi limiti stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale”.

5 La ripartizione delle acque internazionali in zone SAR di ricerca e salvataggio riconosciute ai singoli Stati , zone che sono aree di competenza per i soccorsi, ma non aree di giurisdizione statale nelle quali esercitare poteri di sovranità, è da tempo una questione politica che non corrisponde alle reali esigenze di soccorso in mare, quando è in gioco, magari nel breve arco di poche ore, la vita di centinaia di persone. Dopo i soccorsi, che vanno effettuati con la maggiore rapidità possibile, non ci sono basi normative, tanto nel diritto internazionale che nel diritto interno, che permettano di distinguere tra navi delle ONG e navi commerciali circa la successiva assegnazione di un porto di sbarco sicuro (POS), e non si possono adottare scelte discriminatorie basate sul carattere non occasionale dei soccorsi operati dalle navi umanitarie. Come non si possono declassare ad eventi di immigrazione irregolare eventi di ricerca e soccorso imposti dalle stesse normative quando le persone si trovano in situazioni di evidente rischio di perdere la vita in mare. Questa dequalificazione, operata dalle autorità statali di coordinamento dei soccorsi, ai fini di dimostrare che non ricorre una situazione di distress ( pericolo immediato), ma che si tratta soltanto di un tentativo di immigrazione “clandestina” via mare, in modo da non fare scattare immediati interventi SAR di ricerca e salvataggo, è vietata dal Regolamento Frontex n.656 del 2014, che individua molto bene la situazione di distress che obbliga ad immediati interventi di salvataggio.

Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo”. Tutte Convenzioni che contengono disposizioni relative alla tutela dei diritti fondamentali delle persone soccorse in mare, fino a comprendere il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, ed una tutela rafforzata per i minori, che avrebbero dovuto impedire l’assimilazione dell’attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali ad una attività di immigrazione irregolare, ad un mero “evento migratorio”.

Non vi sono dunque basi legali per affermare la competenza primaria dello Stato di bandiera nella indicazione di un porto di sbarco sicuro, fatti salvi eventuali accordi su base volontaria, come si è verificato talvolta tra le autorità italiane e quelle maltesi. Il Regolamento 656/2014 stabilisce soltanto che per luogo sicuro (place of safety) debba intendersi “un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento” [art. 2, comma primo, n. 12).

La stessa definizione di “porto sicuro” (POS- Place of safety) si ricava da una lettura coordinata delle Convenzioni internazionali di diritto del mare nella interpretazione generalmente accolta diffusa dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati , in particolare in base alla Convenzione SAR del 1979, che obbliga gli Stati parte “…that assistance [is] provided to any person in distress at sea … regardless of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found’ (Chapter 2.1.10) and to ‘… provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety’ (Chapter 1.3.2).
A place of safety is a location where rescue operations are considered to terminate, and where: the rescued persons’ safety of life is no longer threatened; basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met; and transportation arrangements can be made for the rescued persons’ next or final destination.
Disembarkation of rescued asylum-seekers and refugees in territories where their lives or freedoms would be threatened must be avoided
“.

6. Nel marzo del 2021 La Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa ha chiesto espressamente, agli Stati membri, con una Raccomandazione: di garantire una risposta immediata quando le ONG richiedono assistenza in mare e l’assegnazione di porti sicuri; di astenersi dall’utilizzare in modo improprio procedimenti penali e amministrativi e requisiti tecnici semplicemente per ostacolare l’operato vitale delle ONG; di garantire che le ONG abbiano accesso alle acque territoriali e ai porti e possano tornare rapidamente in mare, e aiutarle a soddisfare qualsiasi altra esigenza legata al loro lavoro o ai requisiti tecnici, anche durante la crisi sanitaria del Covid-19.

Non saranno certo i divieti del Viminale o le dichiarazioni minacciose del nuovo ministro delle infrastrutture, od altri ricatti nei confronti dei partner europei, dopo il fallimento dei diversi Pre-accordi di Malta, e la reazione risentita di Francia e Germania, a stravolgere le regole di funzionamento del vigente Regolamento Dublino III ed a legittimare la “chiusura” dei porti italiani rispetto ad unità delle ONG, come nei confronti di navi commerciali che abbiano operato soccorsi in acque internazionali, seppure coordinati inizialmente da paesi che, come la Libia, non possono garantire porti sicuri di sbarco, o come Malta, anche per ragioni geografiche, rifiutano sistematicamente lo sbarco delle persone soccorse al di fuori delle proprie acque territoriali.

Se si vorrà ripèrendere un serio confronto con gli altri Stati dell’Unione Europea ai fini della condivisione delle responsabilità di soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, anche ai fini della individuazione del Porto sicuro di sbarco, si dovrà innanzitutto pensare alla promozione di una missione di salvataggio europea sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia, e quindi ad una profonda revisione del Regolamento Dublino, superando il principio del primo paese di sbarco. Ma sempre con la garanzia di sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino, in conformità alle Convenzioni internazionali che, per effetto dell’art. 117 della Costituzione e del Regolamento Frontex n.656 del 2014, nessun ministro, e nessun governo, possono permettersi di violare, impartendo divieti di ingresso o di sbarco che sarebbero immediatamente oggetto di denuncia di fronte alla giustizia interna ed a livello europeo ed internazionale


Migranti:Piantedosi, 2 navi Ong non in linea norme Italia e Ue

(AGI) – Roma, 25 ott. – Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi – a quanto si apprende – ha emanato, in qualita’ di Autorita’ nazionale di pubblica sicurezza, una direttiva ai vertici delle forze di polizia e della Capitaneria di porto perche’ informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale”. Le condotte, sulla base dell’articolo 19 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite sul diritto del mare, saranno valutate ai fini dell’adozione da parte del titolare del Viminale, in qualita’ di Autorita’ nazionale di pubblica sicurezza, del divieto di ingresso nelle acque territoriali. (AGI) 251107 OCT 22

MARTEDÌ 25 OTTOBRE 2022 19.12.47

>>>ANSA/Stretta Piantedosi, navi ong non entrino in acque Italia Direttiva, ‘soccorsi senza avvertire Stati’. Morti altri 2 bimbi

(di Massimo Nestico’)

(ANSA) – ROMA, 25 OTT – Torna la stagione dei porti chiusi e della ‘guerra’ alle navi umanitarie, con un’azione concordata tra il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ed il collega dell’Interno, Matteo Piantedosi. Ieri il primo ha convocato il comandante della Guardia costiera, ammiraglio Nicola Carlone per farsi illustrare la situazione nel Canale di Sicilia, dove sono presenti due navi, la Ocean Viking e la Humanity One, con complessivi 326 migranti soccorsi a bordo.

Oggi il titolare del Viminale ha firmato una direttiva che definisce la condotta delle due imbarcazioni non “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale”, valutando pertanto di imporre loro il divieto di ingresso nelle acque territoriali. I flussi via mare, intanto, si intensificano, determinando ancora tragedie: i cadaveri di due gemellini di un mese sono stati trovati su un barcone soccorso dalla Guardia costiera al largo di Lampedusa.

Mentre due barconi con circa 1.300 persone a bordo sono statisegnalati da Alarm Phone in forte difficolta’ a est di Sicilia e Malta. Per il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, “c’e’un grido che sale dal Mediterraneo che non dobbiamo dimenticare, un grido che dice: salvami! La pace comincia nel salvare la vita e la speranza”.

Mentre il premier Giorgia Meloni evoca un ‘piano Mattei’ per far crescere l’Africa rimuovendo le cause della migrazione, il Governo di centrodestra si trova a dover fare i conti con una decisa impennata degli arrivi: 78mila quest’anno contro i 52mila del 2021, solo nell’ultima settimana sono 3mila. E la linea messa subito in campo e’ quella gia’ sperimentata da Salvini nelsuo periodo al Viminale. La direttiva di Piantedosi – all’epoca suo capo di Gabinetto al ministero dell’Interno – e’ infatti analoga a quella firmata dal leader leghista nel marzo 2019: si comunica ai vertici di Forze di polizia e Capitaneria di porto che il ministro degli Esteri ha inviato note verbali agli Stati di bandiera delle due navi, Norvegia (Ocean Viking) e Germania (Humanity One), per informarli che la loro condotta non e’ “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane”. In pratica hanno svolto le operazioni di soccorso “in piena autonomia e in modo sistematico senza ricevere indicazioni dall’Autorita’ statale responsabile di quell’area Sar, Libia e Malta, che e’ stata informata solo a operazioni avvenute”. Cosi’ come anche l’Italia. Piantedosi potrebbe quindi adottare il divieto di ingresso nelle acque territoriali, sulla base dell’articolo 19 della Convenzione Onu sul diritto del mare, secondo cui “le navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale”. Ma il passaggio e’ inoffensivo “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Queste ultime condizioni si verificanoinvece se la nave in questione e’ impegnata in alcune attivita’, tra cui: “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

L’intervento di Piantedosi – che aveva annunciato dal suo primo giorno l’intenzione di “governare i flussi”, contrastando “lo spontaneismo, sia pur umanitario” – riceve il plauso di Salvini: “come promesso, questo governo intende far rispettare regole e confini”.

Le ong non ci stanno. La tedesca Sos Humanity, che gestisce la Humanity One, fa sapere all’ANSA di non aver ricevuto al momento “alcuna diretta comunicazione dalle autorita’ italiane.

Come organizzazione di ricerca e soccorso seguiamo la legge internazionale del mare, salvando persone in difficolta'”. Si vedra’ nelle prossime ore se le due navi – che per ora incrociano nel Canale di Sicilia – sfideranno il divieto entrando nelle acque italiane. (ANSA).


=Migranti: Piantedosi, ”responsabilita” Stati bandiera navi”

”Ocean Viking e Humanity 1 non in linea con norme europee”

(ANSA) – ROMA, 26 OTT – “Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilita” degli Stati di bandiera di una nave”. Cosi” il ministro dell”Interno Matteo Piantedosi in un colloquio con la Stampa all”indomani della direttiva sulla condotta della Ocean Viking, battente bandiera edesca, e della Humanity 1, bandiera norvegese, ritenuta non “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all”immigrazione illegale”. Questo perche” “le operazioni di soccorso sono state svolte in modo sistematico in area Sar di Libia e Malta, informate solo a operazioni avvenute”. Il governo, tramite la Farnesina, ha coinvolto le ambasciate di Germania e Norvegia.

Gli sbarchi “non dipendono solo dalle Ong – osserva -. Pero” e” anche vero, pur se negano, che queste navi umanitarie sono un fattore di attrazione per i migranti, il cosiddetto ”pull factor”. Sempre nell”ambito del contrasto all”immigrazione illegale, in settimana “faremo un Comitato per la sicurezza con le agenzie di intelligence. Voglio capire la reale situazione in Libia e che cosa si puo” fare”. Non si puo” accettare “il principio che uno Stato non controlli i flussi di chi entra. Io credo molto nei corridoi umanitari di Sant” Egidio. Frenare le partenze significa anche limitare le morti in mare, che mi ripugnano e che vedo ormai quasi non fanno piu” notizia”. Da prefetto di Roma, “ho visto a Roma gente che era sbarcata 2-3-4 anni fa, ha fatto richiesta di asilo, e adesso sta gettata in strada senza speranza. Chi parla di integrazione, di ruolo dei Comuni e dello Stato, non sa di che parla. Come? Chi? Con quali soldi?”. Nella discussione “si tende a contrapporre gli aspetti umanitari con il governo dei flussi e il rispetto delle regole – conclude Piantedosi – in realta”, le due cose si fondono”.

(ANSA).

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