Immigrazione e propaganda elettorale a venti anni della legge Bossi Fini

di Fulvio Vassallo Paleologo

Immigrazione: propaganda, disinformazione e attività del legislatore
A partire dal Decreto Dini del 1995, e poi durante la faticosa elaborazione della legge 40 del 1998 (Turco-Napolitano), le politiche migratorie sono sempre state oggetto di campagne di disinformazione di massa e di palesi strumentalizzazioni, che si intensificano in occasione di ogni tornata elettorale. Anziché affrontare le questioni dell’immigrazione e dell’asilo con risposte efficaci e conformi al diritto internazionale e al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, sanciti nella Costituzione italiana e nelle norme europee, si è ricercato un facile consenso individuando negli immigrati potenziali pericoli per la sicurezza ed il benessere collettivo. Anche contro l’evidenza dei fatti, che a ogni crisi economica rendevano evidenti ben altre responsabilità, il senso comune è progressivamente scivolato verso posizioni discriminatorie e xenofobe, se non razziste. Una questione che non riguarda solo gl’immigrati ma che intacca il principio di uguaglianza e costituisce, per tutti, un grave rischio per la democrazia.

La legge Bossi-Fini e le misure restrittive della libertà personale
Con la legge Bossi-Fini n.189 del 2002 questo processo degenerativo conduceva all’adozione di una normativa che corrispondeva più a un manifesto elettorale che non ad un tentativo di soluzione dei problemi concreti a fronte dei quali si era allora costretti a periodiche regolarizzazioni di massa (anche attraverso l’estensione dei decreti flussi annuali). La legge modificava il Testo unico n.286 del 1998 nel quale era confluita la precedente legge 40 dello stesso anno, rendendo sempre più precaria la condizione degli immigrati residenti in Italia, introducendo, dopo l’abrogazione dell’istituto dello sponsor, condizioni di maggiore rigore per il loro ingresso legale e sanzioni penali rafforzate in materia di agevolazione dell’ingresso irregolare. Venivano previsti nuovi centri di detenzione e si prolungava la durata del trattenimento amministrativo. Si deve ricordare peraltro come già la legge Turco-Napolitano prevedesse ii centri di detenzione, allora chiamati Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) per facilitare il meccanismo delle espulsioni, senza rispettare il sistema di garanzie imposto dalla nostra Costituzione. E infatti nel 2001 doveva intervenire la Corte costituzionale, con la fondamentale sentenza n.105, per affermare, in base all’art.13 della Costituzione, il principio della necessaria convalida giurisdizionale in qualunque ipotesi di allontanamento forzato dello straniero irregolare dal territorio dello Stato. Con specifico riferimento alla tormentata attuazione della Bossi-Fini non si possono dimenticare i numerosi interventi della Corte Costituzionale, in particolare con le sentenze n. 222 e 224 del 2004 in materia di limitazioni della libertà personale e di mancata convalida giurisdizionale prima dell’accompagnamento forzato in frontiera.

La legge Bossi- Fini e la esternalizzazione dei controlli di frontiera
La legge Bossi Fini semplificava il regime degli allontanamenti forzati e avviava i processi di esternalizzazione dei controlli di frontiera con previsioni che rinviavano ad accordi di riammissione, ma anche di respingimento, con paesi terzi, anche quando questi paesi non rispettavano i diritti fondamentali della persona, come nel caso dell’Egitto e della Libia.
E infatti già nel 2004 venivano operati numerosi respingimenti collettivi da Lampedusa direttamente verso la Libia, prima con aerei militari italiani, poi con aerei civili di compagnie private. Con la breve interruzione del governo di centro-sinistra tra il 2006 è il 2008, appena insediato Maroni al ministero dell’interno, riprendeva una politica di intensa cooperazione operativa con le autorità libiche, fino al respingimento collettivo operato dalla motovedetta Bovienzo della Guardia di finanza, il 6 maggio del 2009, con la riconsegna diretta, nel porto di Tripoli, dei migranti intercettati in acque internazionali. A seguito di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (caso Hirsi Jamaa e altri), arrivava nel 2012 la condanna del nostro paese. Dopo quella condanna, i diversi governi che si sono avvicendati nel tempo hanno cercato di aggirare la decisione della Corte europea, concludendo accordi che di fatto hanno delegato alle autorità libiche e tunisine quei respingimenti collettivi che le autorità italiane non potevano più operare.

I tentativi falliti di riforma: dalla legge Bossi-Fini ai decreti sicurezza di Salvini
I tentativi di tornare ad una legislazione maggiormente equilibrata nella direzione di una salvaguardia dei diritti fondamentali della persona si infrangevano contro l’impossibilità di completare il percorso parlamentare in conseguenza del sistematico ostruzionismo da parte delle destre, ma anche per gravi contraddizioni interne, come avveniva nel 2007 con la legge di riforma  Amato -Ferrero che, dopo essere stata approvata da un ramo delle Camere, decadeva per la scioglimento anticipato della legislatura, che ne impediva l’approvazione definitiva.
Il Testo unico n.286 del 1998 veniva poi modificato con i pacchetti sicurezza Maroni del 2008 del 2009 e poi ancora negli anni più recenti con i decreti sicurezza di Salvini, nel 2018 e nel 2019. Il punto di attacco dei diversi provvedimenti si spostava progressivamente dalle misure di trattenimento amministrativo, in vista dell’allontanamento con accompagnamento forzato, verso l’abolizione della protezione umanitaria e gli accordi con i paesi terzi per collaborare contro l’immigrazione “illegale”. Si moltiplicavano le norme penali per i casi di ingresso o soggiorno irregolare con un aumento esponenziale delle persone immigrate internate nelle carceri ed escluse per sempre da qualunque regolarizzazione. Ed adesso, di fronte al fallimento dei decreti sicurezza ed alla bocciatura della politica dei porti chiusi da parte della Corte di Cassazione, il candidato Salvini, ancora sotto processo a Palermo per il caso Open Arms, rilancia quei decreti e si ripropone come futuro ministro dell’interno.

Il ruolo dell’Unione Europea ed il legislatore nazionale
Mentre in tema di immigrazione la potestà normativa è esercitata quasi esclusivamente dal legislatore nazionale, per quanto riguarda la materia dell’asilo l’attività del Parlamento è scandita delle Direttive dell’Unione Europea, alle quali occorre dare attuazione. Nel corso degli anni le capacità di intervento normativo da parte dell’Unione Europea si sono progressivamente svuotate, salvo un impegno crescente nella direzione dei respingimenti e delle attività di contrasto dell’immigrazione illegale, affidate all’Agenzia Frontex. Con i risultati che abbiamo visto in Egeo ed a sud di Lampedusa, e con le violazioni dei diritti umani che hanno portato alle dimissioni del suo Direttore Fabrice Legeri. La mancata riforma del Regolamento di Dublino sui criteri di distribuzione delle persone che fanno richieste di asilo dopo avere raggiunto le frontiere europee, non ha permesso di superare il principio del primo paese di ingresso come paese competente per la trattazione delle richieste di protezione. La conseguente clandestinizzazione dei cd. “movimenti secondari” ha incrementato il numero delle espulsioni e dei respingimenti alle frontiere interne dell’Unione Europea, anche a danno dei minori non accompagnati. Di fronte alle nuove emergenze climatiche ed energetiche, dopo essersi dimostrata incapace ad affrontare la crisi tra Russia ed Ucraina, l’Unione Europea appare oggi sostanzialmente paralizzata sul fronte delle politiche migratorie.

La guerra contro i soccorsi umanitari
La guerra “mediatica” e le campagne giudiziarie contro i soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale
hanno spesso oscurato le questioni legate alla riforma delle leggi in materia di immigrazione ed asilo. A partire dal 2016 nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale sì verificava sempre più frequentemente l’intervento di navi di soccorso delle organizzazioni non governative per salvare i naufraghi che partivano dalle coste libiche o tunisine. Di fronte a questa nuova “emergenza”, dopo una prima fase di leale collaborazione, a partire dall’estate del 2017, si interveniva con provvedimenti, prima di “soft law”, come il Codice di condotta Minniti per le ONG, quindi con decreti-legge, come i decreti “sicurezza” Salvini, che ponevano del mirino non soltanto l’immigrazione “clandestina” ma anche le attività di salvataggio svolte dalle organizzazioni non governative. Come si verificava soprattutto dopo la firma del Memorandum d’Intesa Gentiloni stipulato nel febbraio del 2017 con il governo di Tripoli e la conseguente creazione di una zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”. Ai provvedimenti amministrativi (direttive) di diniego di sbarco ed ai decreti sicurezza, che criminalizzavano le attività di soccorso in mare, seguivano procedimenti penali, utilizzati dai media per rafforzare nell’opinione pubblica la stigmatizzazione delle attività di soccorso in acque internazionali, attività peraltro imposte dalle Convenzioni internazionali. Si può rilevare però come nel corso degli anni la maggior parte di questi procedimenti penali sia stata archiviata, salvo due processi ancora aperti a Ragusa (Mare Jonio) ed a Trapani (caso Iuventa).

Come ricorda l’ANSA, per il ministro Lamorgese, “la scommessa, riguardo quest’ultimo punto, è varare una sorta di Codice per le ong: le navi dovranno avere dotazioni adeguate ed equipaggi formati, gli interventi devono essere coordinati dal Centro marittimo competente, nel caso anche quello libico; gli Stati di bandiera dovranno indicare il porto sicuro ed impegnarsi ad accogliere i migranti che sbarcano in un altri Paesi”

Gli eventi di soccorso in mare, normati dalle Convenzioni internazionali, come la Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il soccorso in mare (SAR), vengono così considerati come “eventi migratori”, come si legge nei comunicati della Centrale operativa della guardia costiera italiana (IMRCC). Le finalità di difesa dei confini nazionali sembrano prevalere sulla salvaguardia della vita umana in mare e della dignità della persona, ovunque essa si trovi e qualunque sia il suo stato giuridico. Per rendere esplicito questo capovolgimento di prospettiva, relativamente recente, se si pensa alle missioni di soccorso in acque internazionali seguite alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 tra Lampedusa e Malta, si fa ricorso alla esternalizzazione delle frontiere, definizione riassuntiva che rappresenta il coinvolgimento degli stati terzi (rispetto all’Unione Europea) nelle attività di blocco e di respingimento dei migranti che cercano di raggiungere le frontiere europee. Ma le politiche di esternalzzazione non possono arrivare alla negazione del diritto alla vita.

Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione con la sentenza n. 112, 16 gennaio 2020, “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività SAR, o attendere dopo i primi soccorsi l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi, come in diverse occasioni è stato affermato dal ministro dell’interno Lamorgese. Sono queste le posizioni che hanno spianato la strada alle folli proposte di un blocco navale, davanti alle coste libiche, con accordi con le milizie a terra, lanciate dalla Meloni.  

Ritenere che la Libia possa costituire un “luogo sicuro”, e che questa circostanza possa essere percepita dai migranti già prima dell’imbarco, o ancora in caso di respingimento o di ritorno su mezzi della sedicente Guardia costiera libica, contrasta ancora oggi, come contrastava già nel 2018, con la realtà dei fatti e con il combinato disposto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Prospettive di riforma e campagna elettorale

In tempi in cui la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno ridefinito il concetto di frontiera e di mobilità umana su scala globale, si continua a ragionare, ed a praticare scelte politiche e giuridiche, come se non fosse cambiato nulla, come se le attività di controllo o di limitazione della libertà personale e di circolazione, le prassi di respingimento, o di espulsione, fossero praticabili con le stesse modalità adottate negli anni passati. La collaborazione con i paesi terzi rimane ancora basata sul contrasto dell’immigrazione irregolare, che altri definiscono ancora come “clandestina”, piuttosto che sulla riduzione di quel divario sempre più ampio tra paesi ricchi e paesi poveri, sul sostegno nelle campagne sanitarie, sulla lotta alla corruzione e sul ripristino di condizioni minime di rispetto dei diritti umani. Sarebbe il tempo per un riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali delle persone, ma sembra invece che la cd. “ripartenza”, dopo il lockdown imposto dal COVID-19, ed il clima di “guerra permanente”, siano caratterizzati da un accresciuto disvalore della vita e della dignità di chi è costretto a mettersi in viaggio senza avere risorse e documenti regolari.
La campagna elettorale in corso sta riproponendo le peggiori politiche che hanno strumentalizzato le grandi questioni dell’immigrazione e dell’asilo. Da una parte si insiste su nuovi decreti sicurezza e su “blocchi navali” che in passato hanno fatto anche troppe vittime. Basti pensare all’affondamento della Kater Y Rades, nel 1997 ai tempi del primo governo Prodi ed al processo che ne è scaturito, durato ben diciassette anni fino alla condanna in Cassazione per naufragio colposo di un comandante della Marina militare italiana.
I partiti del governo uscente, peraltro, non si discostano dalla politica degli accordi bilaterali con paesi che non garantiscono i diritti umani, come è emerso dal più recente incontro tra Erdogan e Draghi e nel rinnovo delle missioni militari all’estero. Appare ancora lontana una vera svolta rispetto al passato, in direzione della regolarizzazione permanente, dell’apertura di realistici canali legali di ingresso per lavoro, e magari di vie di fuga da paesi nei quali, come in Libia, le persone migranti sono quotidianamente sottoposte a torture di ogni genere. Si continua a guardare l’immigrazione come una questione di sicurezza, senza una visione progettuale nella direzione di relazioni internazionali basate sulla pace e sul rispetto dei diritti umani, per una società più giusta e solidale che sia capace di includere gli immigrati senza fornire pretesti per fare esplodere lo guerra tra le componenti più deboli del corpo sociale.