di Giovanna Procacci
Che il processo Xenia, aperto a Locri nel giugno 2019 contro Lucano e altre 25 persone impegnate nel sistema di accoglienza a Riace, sarebbe stato un processo anomalo,era stato chiaro da subito, da quando cioè il GUP aveva rinviato a giudizio per tutti i capi di accusa richiesti dalla Procura sulla base dell’Informativa della GdF, nonostante fossero stati quasi tutti demoliti dal GIP. Eppure, due anni più tardi, la lettura del dispositivo di sentenza di primo grado ha sorpreso tutti. Quella sentenza è apparsa ai più, inclusi magistrati, giuristi ed esperti, abnorme, smisurata, lunare. “Una sentenza sconvolgente”, ha commentato a caldo l’ex- prefetto Morcone (1) , che l’esperienza di Riace e Lucano li conosce bene. Sconvolgente davvero: più di 80 anni di reclusione a 18 imputati, più di 13 anni a Lucano, l’esperienza di Riace condannata come associazione a delinquere, nessuna attenuante e nessun riconoscimento di finalità ideali di alto valore etico, né dello stato di necessità in cui il sindaco di Riace si era trovato ad agire.
La pubblicazione delle motivazioni non ha aiutato a superare lo sconcerto iniziale;anzi, si è aggiunto un ulteriore elemento scioccante, un inquietante linguaggio teso a demolire moralmente la persona del principale imputato. Non ho nessun titolo per sottoporre le motivazioni ad un esame esperto, che ne valuti implicazioni giuridiche e coerenza con la giurisprudenza. Ma processo e sentenza sono pur sempre atti pubblici; chiunque deve potercisi raccapezzare, riuscire a capire cosa si decide e perché, su cosa si regge una condanna così fuori proporzione. Come ho fatto per le udienze del processo, vorrei perciò proporre qualche filo di lettura delle motivazioni che ne restituisca il senso, o non senso, agli occhi di un’osservatrice comune.
La prima osservazione che mi viene da fare è che, a leggere le motivazioni, sembra che il processo non ci sia stato, talmente ricalcano la ricostruzione proposta dalla Procura sulla base dell’indagine investigativa della GdF; a tal punto che le considerazioni che avevo potuto fare sulle strategie della Procura suonano oggi attuali anche sulle motivazioni. La seconda, è che in queste motivazioni sembra sparito anche quel dilemma che il processo si era trascinato per più di due anni come un’ombra: la fragile distinzione fra illeciti amministrativi e reati penali. Non solo quel confine non è più incerto, ma non appare proprio più. Per questo credo possa essere utile leggere le motivazioni anche alla luce di quanto emerso nelle udienze.
Tutto il processo era stato travagliato da quel dilemma perché, a parte una denuncia per concussione poi caduta durante il procedimento, i reati penali su cui l’Investigativa della GdF aveva imbastito le ipotesi accusatorie erano in gran parte costruiti a partire dalle irregolarità amministrative rilevate nelle visite dei funzionari del CAS e dello SPRAR, che infatti sono stati i principali testimoni delle prime udienze. Il Comune di Riace lavorava nell’accoglienza pubblica dai suoi esordi nel 2001; solo a partire dalla metà del 2016, però, i suoi servizi di accoglienza diventano oggetto di monitoraggio da parte del Servizio centrale SPRAR o della Prefettura. Il momento non è certo casuale: l’emergenza rifugiati è al suo picco e sotto la pressione di arrivi massicci le normative dell’accoglienza si stanno trasformando.
Nelle udienze, i funzionari raccontano la pressione dell’emergenza di quegli anni, confermano il ruolo di Riace nell’accogliere tutti i rifugiati (da cui l’epiteto di “San Lucano” che gli avevano attribuito in Prefettura). Riferiscono poi le visite di monitoraggio, in cui avevano riscontrato carenze e irregolarità rispetto a Regolamenti e Linee guida, su data base, bonus, lungo permanenti, rendicontazione, carenze nei servizi, confusione fra CAS e SPRAR, ecc. Descrivono una situazione confusa; Enza Papa lamenta che non c’era organizzazione e le varie associazioni non dialogavano fra loro, il che era un problema per gli uffici. Durante le visite, i funzionari fanno obiezioni, rilevano criticità, chiedono correzioni. Si instaura un vero e proprio carteggio con il Comune, che risponde, si adegua su alcuni rilievi e resiste su altri, tutto all’interno di rapporti fra amministrazioni. Infatti i funzionari insistono sulla natura non ispettiva delle loro visite, che avvengono piuttosto in un rapporto di collaborazione con il Comune; anzi, proprio per le caratteristiche eccezionali di quel progetto di punta, verso Riace c’era un clima di comprensione.
C’è insomma una Riace descritta dai funzionari, che ha una sua logica, che risulta fatta di luci e di ombre, a tratti caotica, alle prese con le mille difficoltà di gestione di una popolazione di rifugiati numericamente importante, con esigenze particolari in quanto prevalentemente composta da gruppi familiari o donne sole con figli, da tanti minori, ecc. E’ una Riace riconoscibile, per quanto in difficoltà; si riconoscono le poste in gioco in questo confronto fra le spinte ideali del progetto e i freni imposti da una normativa, peraltro in continua trasformazione. Non è in discussione la natura del progetto, né si insinuano sospetti di reati penali; al centro delle contese appare piuttosto la tenacia con cui Lucano insiste nel voler privilegiare le storie delle persone rifugiate rispetto alle norme che regolano i servizi.
Beh, di questa Riace nelle motivazioni non c’è più traccia; anzi, la dimensione amministrativa delle irregolarità che erano state rimproverate al Comune di Riace viene completamente assorbita nei reati penali prospettati. Ciò nonostante, le deposizioni dei funzionari vengono citate insieme a quella di Sportelli quali “fonti di prova” di quei reati penali. Come si è potuto operare un tale slittamento? Grazie al racconto.
Quale Riace?
Tutto sta nel racconto. Già, questa sentenza non argomenta, non prova; racconta. Racconta e fa raccontare, per questo dà uno spazio così centrale alle intercettazioni, che occupano circa 2/3 delle 904 pagine di motivazioni e costituiscono la trama fondamentale del racconto. Racconta una storia che è già tutta imbastita sin dalle prime battute, non una storia che la sentenza ricostruirebbe col procedere delle prove; al contrario, si ha la netta impressione che proprio la storia raccontata dia senso ai singoli passaggi e li dipinga come gravi reati penali. La premessa chiarisce immediatamente il quadro.
“L’esito del giudizio ha comportato l’affermazione della penale responsabilità nei confronti del predetto LUCANO e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori, che hanno condiviso, assieme a lui, la logica predatoria delle risorse pubbliche provenienti dai progetti SPRAR, CAS e MSNA, sempre più asserviti ai loro appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti che, da obiettivo primario ed apprezzabile di quelle sovvenzioni, è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali, per come si avrà modo di dimostrare puntualmente più oltre. Il tutto comprovato da inequivoche intercettazioni ambientali, spesso videoregistrate e di natura autoaccusatoria, in cui erano gli stessi imputati che, per voce propria, davano conto delle loro rispettive distrazioni a scopi privati di quelle risorse pubbliche, rese possibili attraverso la falsificazione dei rendiconti presentati allo Stato, che includevano sovrafatturazioni e fatturazioni per operazioni inesistenti, tutte puntualmente documentate da una capillare ed encomiabile attività compiuta dalla Guardia di Finanza che, con estrema diligenza, qualità investigativa e aderenza al dato fattuale, ha “fotografato” le singole distrazioni di cui si diceva, seguendo il loro percorso in modo assolutamente incontestabile, cosi sconfessando la prospettazione che le Difese hanno tentato di accreditare, che faceva leva su un presunto disordine amministrativo e contabile posto in essere dai loro assistiti, ritenendo che esso fosse il frutto di loro inesperienza o dovuto alla presenza massiva di migranti in quel piccolo centro, ma sempre connotato- a loro dire- da assoluta buona fede” [p.59].
Per quanto lungo, ho voluto citare tutto il passaggio, sottolineature incluse, perché inquadra fin dalle prime battute delle motivazioni la ricostruzione dell’accoglienza a Riace sposata dal Tribunale, sulle orme di quella che aveva tracciato la Procura. In questa premessa, ci sono già tutti gli elementi su cui le motivazioni imbastiscono il loro racconto e che cercheranno di argomentare nelle centinaia di pagine successive. C’è il riconoscimento del lavoro investigativo svolto dalla GdF, che il GIP aveva invece giudicato raffazzonato, privo di prove credibili (“o presuntive e congetturali, o sfornite di precisi riscontri estrinseci” – aveva detto). E parallelamente, il disconoscimento del lavoro delle difese, che avrebbero addirittura tentato di rievocare l’emergenza rifugiati di quegli anni e di accreditare la buona fede degli imputati. I quali sono, al contrario, del tutto in cattiva fede: altro che mossi da ideali, sono schiavi in realtà dei loro biechi “appetiti di natura personale”, al punto da considerare l’accoglienza solo “un comodo paravento”. Ci sono “le vistose sottrazioni” di denaro pubblico a scopi privati, e persino la vaghezza del movente (interessi “spesso declinati in chiave politica”). E c’è già il ruolo chiave delle intercettazioni, in cui gli imputati si auto-accuserebbero in modo “inequivoco”, il tutto “puntualmente” confermato dalle prove documentali.
In qualsiasi testo le premesse sono decisive, e questo non fa eccezione. Se questa è la storia di Riace, non c’è scampo. Se l’accoglienza a Riace è stata un comodo paravento per lucrosi affari privati, se chi ha costruito quell’esperienza era mosso solo da avidità personale, da furbizia e logica smaccatamente predatoria, è chiaro che quell’esperienza è stata un’esperienza criminale. Lucano è stato il capo astuto di un’associazione a delinquere, messa al servizio del suo narcisismo politico; intorno a lui, solo fedeli servitori e complici prestanome, che hanno seguito pedissequamente i suoi ordini e i suoi interessi. Si è finto paladino dell’accoglienza, ma in realtà faceva di tutto per accaparrarsi il maggior numero possibile di rifugiati per ingrossare i profitti e per calcolo politico. È la Riace del Tribunale.
Tuttavia questo racconto su Riace non convince per tante ragioni. Intanto perché entra in contraddizione con troppi elementi, primo fra tutti quella disorganizzazione di cui si lamentavano i funzionari, che a chiunque abbia conosciuto Riace appare molto più realistica che non l’organizzazione ferrea prospettata dal Tribunale come associazione a delinquere. Poi, perché in 904 pagine le motivazioni non riescono a provare quei profitti personali, assenza questa particolarmente rilevante visto che i reati cui l’associazione a delinquere sarebbe stata dedita erano truffe e peculati. E anche perché non spiega come sia stato possibile che in tanti anni non se ne sia accorto nessuno. E non dico nessuno fra i tanti estimatori di Riace, che hanno scritto libri, fatto film, partecipato a spettacoli, raccolto fondi, visitato il borgo; ma che non se ne sia accorto il Servizio centrale dello SPRAR che invece, come dicono i funzionari, continuava ad essere benevolo verso Riace per il valore particolare di quell’esperienza. D’altronde, che a Riace si fosse messo in piedi un valido esempio di accoglienza lo hanno riconosciuto anche gli investigatori della GdF e la Procura, e lo ribadiscono le stesse motivazioni: “era diventato giustamente un modello e un simbolo di integrazione per tutto il mondo”.
Insomma, c’è a detta di tutti uno iato, uno scarto inaudito fra la Riace descritta dal Tribunale e quella dell’accoglienza, che le motivazioni non riescono a spiegare, né a risolvere. Il Tribunale ci prova, tenta di risolverlo in modo sommario come “il tradimento degli ideali di accoglienza e solidarietà che seppure all’inizio erano stati mirabilmente attuati in quel Comune, erano stati tuttavia successivamente soffocati da una sfrenata sete di visibilità politica da parte del Lucano medesimo” [p.73]. Ma questa è una affermazione, non una prova; anzi, è proprio quello che andrebbe provato, che quegli ideali siano stati effettivamente traditi. Come è successo che gli stessi soggetti che hanno mirabilmente attuato l’accoglienza si siano fatti soffocare da “ingordigia irrefrenabile e forte desiderio di visibilità” [p.400]? Che cosa ha trasformato soggetti dalle alte idealità in loschi personaggi, animati solo da “bieco utilitarismo nascosto dietro l’ipocrita bandiera della umanità solidale e integrata, che però veniva sventolata solo per coprire i gravi illeciti compiuti” [p.73]?
Le motivazioni preferiscono ignorare queste domande e spostare piuttosto l’attenzione dai soggetti a chi li guarda, suggerendo che si tratti in realtà soltanto di uno scarto di prospettiva: guardare Riace da lontano o da vicino. In molti hanno commentato la prosa che scaturisce da questa scelta, molto poco giuridica, piena di giudizi morali, denigratoria – “perversa”, osserva Luigi Manconi. Io vorrei porre l’attenzione su un altro aspetto, non meno inquietante: nelle motivazioni le due prospettive sono solo contrapposte, non hanno alcun punto di contatto che renda conto di una cesura, anche drammatica, che ne spieghi l’evoluzione – o involuzione, se si preferisce. Vista da ‘vicino’, cioè dal Tribunale di Locri, Riace appare come un’ininterrotta serie di distrazioni di risorse pubbliche, un insieme di manovre e raggiri truffaldini, di peculati per interesse personale, il tutto in un quadro criminale di associazione a delinquere che organizza, pianifica e realizza.
Anche se l’indagine della GdF fornisce una datazione a quelle distrazioni di fondi, le pratiche cui si riferiscono sono in continuità con pratiche esistenti da molto prima e sotto gli occhi di tutti. L’idea di investire quanto si riusciva a risparmiare in attività d’integrazione e di welfare locale è costitutiva del progetto Riace, non inizia tutt’a un tratto negli anni su cui la GdF ha indagato. Sennò non si spiegherebbe il riscatto del paese attraverso il recupero urbanistico, né le attività lavorative, né gli investimenti pubblici per sottrarre il paese ai condizionamenti della ‘ndrangheta, come l’acqua pubblica e la raccolta dei rifiuti. Il quadro interpretativo proposto dalle motivazioni non spiega affatto come e perché ad un certo punto Riace sia diventata “un mondo privo di idealità, soggiogato da calcoli politici, dalla sete di potere e da una diffusa avidità” [p.97].
Perché Riace non è stata apprezzata solo a livello internazionale, da chi forse ne leggeva a distanza. In tanti sono stati vicini a Riace, non ne hanno solo sentito parlare da lontano, ma hanno collaborato a titolo gratuito e partecipato in vario modo ad un progetto che rispondeva anche ai loro ideali. E proprio da molto vicino, cioè a chi ci è stato, Riace ha raccontato una storia molto diversa, nonostante le difficoltà evidenti, laconfusione percettibile, le carenze organizzative e una sensazione di affannosa corsa perennemente in avanti. La narrazione di Riace che fa il Tribunale non è la storia di una regressione, dall’ideale al reato; è solo un’altra storia. E’ una storia in cui si nega che le attività costruite negli anni per favorire la creazione di opportunità lavorative, per i rifugiati come per gli abitanti di Riace, avessero finalità d’integrazione. Tutte -dai servizi per l’accoglienza, al recupero edilizio, ai laboratori, al frantoio, alla raccolta differenziata, agli eventi culturali, al turismo solidale, alla fattoria didattica – diventano reati per il fatto di esser state alimentate anche con dei fondi pubblici dell’accoglienza (insieme a tanti fondi privati, dalle raccolte solidali ai premi che Lucano riceveva personalmente e metteva nell’accoglienza). La loro destinazione non conta.
Ora,negare le finalità d’integrazione era stata la principale strategia dell’accusa durante tutto il dibattimento, perché solo così si potevano ridurre quelle attività a mere distrazioni di fondi pubblici, affatto diverse da fondi distratti per arricchimento personale, anche se non si riusciva a dimostrare il vantaggio economico. Le motivazioni della sentenza però si spingono oltre: definiscono tutte quelle distrazioni come manovre di appropriazione a fini privati, truffe e peculati, e passano sotto silenzio per l’appunto il fatto clamoroso che il processo non sia riuscito a provare l’arricchimento personale. E qui il Tribunale si abbandona ad un sorprendente volo pindarico: se non c’è prova dell’arricchimento è solo per via della furbizia di Lucano, ben attento a non intestarsi nulla, a non versare nel proprio conto corrente, a non arredare nemmeno la sua casa “volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere” [p.619].
Il processo ha stabilito che Lucano è “senza un euro in tasca” ma, avverte il Tribunale, si tratta solo di “un falso mito che va sfatato” [p.723]. La sua povertà è solo mera apparenza, non ha nessuna importanza, dice solo “la sua furbizia, travestita da falsa innocenza” [p.724]. Perché, anche se è povero adesso, grazie a quelle appropriazioni si starebbe assicurando il suo avvenire. Sergio Bontempelli (2) ha già fatto notare come le affermazioni del Tribunale vengano contraddette dalle stesse intercettazioni, dove Lucano ragiona sul suo futuro dopo la fine del suo mandato di sindaco, con un possibile lavoro nella cooperazione per 1000-1200 euro al mese, tutt’altro insomma che il progetto di vivere di rendita. Ma qui le motivazioni fanno più che contraddirsi, tentano di fagocitare anche le possibili obiezioni nel confronto con la realtà: si vede e non si vede, quel che è non è quel che sarà. Ricalcano, così, un altro filone perseguito dall’accusa, il processo alle intenzioni, su cui la Procura aveva costruito per esempio l’ipotesi del movente politico di Lucano a partire da una conversazione con suo fratello in cui diceva di volersi candidare alle elezioni, cosa che poi non aveva fatto. Non a caso il giudizio del Tribunale, pur senza escludere il movente dell’arricchimento, fa propria anche la traballante ipotesi del movente politico-elettorale, che lo porta ad interpretare lo sviluppo e il welfare locale come costruzione di “odiose clientele” personali, per sete di potere e di visibilità.
Insomma, la storia raccontata dal giudizio di primo grado non è, come vorrebbe il Tribunale, una lettura ‘più intima’ delle attività messe in piedi a Riace intorno all’accoglienza; è semplicemente la Riace della Procura, e ne conserva tutte le inverosimiglianze. Inverosimiglianze sottolineate non solo dal GIP di Locri nel 2018, come ricordavo all’inizio, ma anche dalla sentenza di Cassazione (febbraio 2019) sulle misure cautelari, da quella del Consiglio di Stato (maggio 2020) sull’illegittima chiusura dello SPRAR di Riace da parte del Viminale, o quella del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria (luglio 2020) che, pur confermando l’esistenza di “prassi improntate alla superficialità e alla negligenza”, affermava che il reato di associazione non era suffragato perché non c’era nessuna prova di vantaggi patrimoniali privati. Per di più, questa storia non ha trovato conferme nel dibattimento e appare totalmente avulsa dalla storia di Riace come esperienza innovativa di accoglienza.
Se invece si guarda Riace da quest’ultimo punto di vista, non ‘più lontano’ ma diverso, allora tutto il racconto cambia, e cambia anche l’auto-racconto delle conversazioni intercettate, come vedremo. La Riace dell’accoglienza è, come dice sempre Lucano, una mission. Accogliere i rifugiati come persone, farsi carico dei loro bisogni, non trattarli da ospiti ma coinvolgerli nella comunità, energie nuove che, nel costruirsi una nuova vita, l’aiuteranno a riscattarsi dall’abbandono cui è destinata. Se questa è la missione, tutti sono ibenvenuti, nessuno viene respinto; e diventa decisivo costruire le condizioni per l’integrazione, lavorativa, sociale e culturale. “E’ questa l’idea che c’è a Riace”, rivendica Lucano [p.180].
E’ un’idea forte, di cui ha sempre parlato apertamente, perfino nelle sue dichiarazioni spontanee in Tribunale nel novembre 2019. In un contesto come quello di Riace, destinato all’abbandono e sotto il peso della criminalità organizzata – aveva dichiarato – non ci si poteva limitare a fare solo accoglienza, utilizzando i fondi pubblici solo a vantaggio dei richiedenti asilo, perché avrebbe innescato una guerra fra poveri; era indispensabile unire i destini dei riacesi e dei rifugiati, e a questo poteva contribuire l’integrazione creando lavoro e servizi. È stata un’idea talmente innovativa che ha ispirato molti altri progetti nella zona, e che addirittura nel 2009, con Agazio Lojero, si era tradotta nella Legge regionale n.18, non a caso intitolata: “Accoglienza dei richiedenti asilo e sviluppo sociale economico e culturale delle comunità locali”.
Lucano riconosce che le tante attività che a Riace si sono messe in moto sono state possibili anche grazie alle famose “economie” fatte sui fondi pubblici per l’accoglienza. Aveva sempre detto pubblicamente, sin dai Tavoli tecnici organizzati dall’ANCI, che con quei soldi si poteva fare molto di più, e in particolare che in piccoli centri come Riace vitto e alloggio costavano poco, mentre l’integrazione, in un contesto in cui il lavoro mancava per tutti, richiedeva molte risorse. Quelle economie erano state possibili proprio perché non ha approfittato dei fondi; l’integrazione a Riace è stata vista come la chiave di volta per costruire un’economia collettiva che si opponesse all’abbandono, alle ingerenze mafiose, e tenesse insieme tutta la comunità. Le botteghe, la fattoria didattica, il frantoio di comunità, il turismo solidale, gli eventi culturali, le borse lavoro, sono stati tutti strumenti di integrazione dei rifugiati, certo, ma anche di costruzione di una comunità coesa.
La scuola, l’acqua del Comune, la raccolta differenziata, l’ambulatorio medico gratuito, sono stati servizi di cui hanno beneficiato in primis gli abitanti di Riace, che così hanno potuto toccare con mano quanto l’arrivo dei nuovi abitanti poteva essere un vantaggio per tutti.
E qui viene la domanda che ricuce i fili fra le tante narrazioni diverse: come mai i funzionari nelle visite di monitoraggio non si sono occupati di queste attività? Come mai queste attività, e le “economie” che hanno permesso di avviarle, non figurano nelle criticità rilevate dal Servizio centrale, tradotte successivamente in quei 42 punti di penalità che avrebbero portato alla chiusura del progetto (chiusura poi dichiarata illegittima dal Consiglio di stato)? Il Riace Film Festival si teneva dal 2009; le case del turismo solidale ospitavano chi veniva per il festival, chi per vacanze solidali, chi per accompagnare il progetto; i laboratori erano aperti da anni. Eppure in quelle visite a partire dal 2016 i funzionari discutevano di come adeguare la situazione alle norme introdotte dalle Linee guida, indicavano le criticità, arrivavano finanche a quantificare le penalità, ma mai hanno messo in discussione le finalità di accoglienza e integrazione del progetto. Semplicemente perché queste attività erano possibili all’interno dello SPRAR, in quanto ne perseguivano gli obiettivi espliciti di accoglienza integrata, in particolare in tema di inserimento sociale e culturale. I funzionari, e lo stesso colonnello Sportelli lo hanno detto in aula. Certo, le Linee guida ponevano alcune condizioni; in particolare, richiedevano che si presentassero progetti ad hoc per ottenere l’autorizzazione. È questo che il Comune di Riace non ha fatto: non ha presentato domanda. Questo però non cancella la finalità d’integrazione delle attività messe in piedi, né le riconduce a vantaggi personali; costituisce semmai una mancanza dal punto di vista delle Linee guida dello SPRAR, un reato cioè di tipo amministrativo.
Insomma, sull’Investigativa della GdF avevano pesato in modo significativo le visite di monitoraggio e le carenze che avevano riscontrato a Riace. Nel processo poi la Procura si era concentrata soprattutto sulle “economie”, che aveva presentato come mere appropriazioni a scopo privato, negando che le attività messe in moto avessero mai avuto qualsiasi finalità d’integrazione. Facendo propria questa negazione, il Tribunale tenta di saltare a pie’ pari dall’irregolarità amministrativa al reato penale, scavalcando il vuoto aperto dalla confusione fra i due piani, e arriva a sentenziare che l’esperienza di Riace è stata un progetto criminale portato avanti da un’associazione a delinquere. Nel far questo però la sentenza perde il supporto dei funzionari, che su questo non sono più una fonte di prova, anzi; e si carica delle stesse debolezze dell’accusa, che non è riuscita a provare l’appropriazione di quei fondi pubblici a fini privati e ha dovuto limitarsi a suggerirla, cercandone disperatamente conferma nelle intercettazioni. Cosicché anche le motivazioni, che pure dovrebbero rivestire un carattere di sintesi, sono costrette a riproporre per pagine e pagine le intercettazioni cui si era affidata la Procura, cercando di attribuire loro un vero e proprio ruolo di prova, sebbene come vedremo siano lungi dall’essere “inequivoche” come sostiene il Tribunale.
Intercettando, intercettando…
Il racconto ha bisogno di parole, dialoghi, persone. Il racconto delle motivazioni si affida alle intercettazioni, che dovrebbero solo confermare dei reati documentati, ma in realtà sembrano essere la base della prova, nella sentenza come del resto durante tutto il processo. Non ho strumenti per discutere la legittimità o meno di questo uso delle intercettazioni. Certo, il dilagare delle intercettazioni nelle motivazioni non può non sorprendere; sembra che anche qui abbiano il compito di dar senso ad una documentazione fragile, poco chiara, carente di univocità nel determinare responsabilità e moventi individuali.
Già l’Investigativa della GdF aveva fatto un grande uso delle intercettazioni, personali, ambientali, anche video intercettazioni. E’ paradossale che in un’area ad alta densità di ‘ndrangheta come la Locride, in un paese dove praticamente quasi tutto si dice in piazza, e con un sindaco come Lucano che parla a ruota libera, e ad alta voce, in ogni tipo di situazione, la Procura abbia impegnato persone e risorse per intercettare molto attivamente per più di un anno il sindaco e le associazioni dell’accoglienza a Riace, come se si trattasse di cosche segrete che si muovono nell’oscurità e nell’omertà. Il risultato è stata una messe di conversazioni lette in aula con dovizia di particolari, anche quando vi si parlava di tutt’altro rispetto al reato sotto esame. D’altronde, non va dimenticato che anche in questo processo, come in altri che avevano a che fare con le attività di soccorso in mare, l’attività d’intercettazione è stata anomala, ha coinvolto in modo indebito giornalisti, avvocati e magistrati, come denunciato dall’inchiesta di Enrico Fierro su Domani (aprile 2021).
Anche nelle motivazioni ritroviamo pagine e pagine di intercettazioni citate per esteso, come se la descrizione del reato avesse bisogno delle parole stesse degli imputati per fissarne il significato. La strategia retorica consiste nel farle precedere da una sintesi, corredata di sottolineature e grassetti per mettere in evidenza dei passaggi, nel tentativo di orientarne l’interpretazione. Il Tribunale ne anticipa l’interpretazione e pretende fissarne il senso. Eppure, a rileggere quei dialoghi, si colgono continuamente contraddizioni, ambiguità, non rispondenze, quando non decisamente errate interpretazioni. A tal punto che molte affermazioni appaiono apodittiche, forzate, non collimano con la conversazione riportata. Insomma, nell’interpretazione delle intercettazioni ritroviamo lo scontro fra le diverse narrazioni di Riace.
Il racconto del Tribunale parte dall’assunto che Riace sia un progetto criminale fatto di “sottrazioni reiterate e mirate di denaro pubblico e creazioni di odiose clientele e atti di favoritismo per parenti e amici, in una logica di bieco utilitarismo, che veniva nascosto dietro l’ipocrita bandiera della umanità solidale e integrata, che però veniva sventolata solo per coprire i gravi illeciti compiuti” [p.73]. In questo quadro, ogni conversazione che tratti di soldi apparirà come un tentativo di manovrare a fini personali le risorse dell’accoglienza, anche se poi manca la prova dell’arricchimento personale. Le considerazioni amare che Lucano fa su alcuni collaboratori appariranno come il suo tentativo di sottomettere tutti al suo dominio, in una struttura criminale di cui tutti sono complici. E le considerazioni sul consenso che incontrano i progetti saranno presentate come l’ambizione smisurata di voler procrastinare il suo potere politico, o clientelare, come dice il Collegio. E via discorrendo.
Se invece si tiene conto di quello che abbiamo chiamato la mission di Riace, tutto il quadro interpretativo cambia. Intanto, anche il tono delle conversazioni, spesso enfatico, l’iperbole, l’imprecazione, assumono un significato diverso: qui sì che siamo ‘vicini’ a Riace, quasi nelle sue viscere. Una missione è una missione, si va per le spicce, a muso duro, la si spara anche grossa. In effetti in tanti riconoscono quel modo ruvido di parlare di Lucano, per averlo sempre sentito parlare ad alta voce in piazza. Le intercettazioni ci restituiscono la concitazione e la confusione in cui si prendono le decisioni necessarie per portare avanti l’idea di Riace. Non è l’avidità che parla, né l’organizzazione criminale. È il tono rustico, ispido, di chi si sente investito di una missione e va avanti come uno schiacciasassi pur di realizzarla, di non vederla tradita. Così, quando si sfoga contro il Presidente di Città Futura di cui dice di non potersi più fidare, esclama: “Per me è important un’idea qua, hai capito? Non voglio permettere…se fossimo sconfitti tutti, come se tradissi a Ilario Ammendolia, tradissi a Peppino Lavorato, tradissi a Chiara Sasso, a Emilio Sirianni, tutte le persone che hanno pensato a Riace come idea” [p.504].
Ecco, Riace è un’idea da cui Lucano si sente obbligato. Allora proviamo a mettere in fila qualche passaggio di questa contrapposizione di significati fra le due Riace. Se Lucano dice “lo sono obbligato a portare avanti un’idea di accoglienza che non è legata solo al fatto dei soldi, ma a chi ha diritto” [p.182], sta parlando per l’appunto dell’idea di Riace, centrata sui diritti delle persone, e non della necessità di produrre denaro (“che era una motivazione fondamentale per cui egli operava in quel senso”), come pretende il Tribunale. Quando Lucano rivendica “io devo avere uno sguardo più alto” [p.181], intende dire che l’idea di Riace richiede la capacità di guardare anche oltre la normativa (“limitarsi ad applicare una regola precisa”), cosa di cui gli sembra che altri si accontentino. Questo vale anche quando pretende che ci si faccia carico delle esigenze del “dopo progetto” [p.415], invece di abbandonare le persone a se stesse alla scadenza del progetto solo perché questa è la regola. O quando chiede ai collaboratori di “assecondare il lavoro generale” [p.183]: è l’idea di Riace che presuppone un progetto che si regge su un’azione comune, non è, come vorrebbe il Tribunale, “la prova evidente di un concertato agire comune”, l’imposizione di un legame criminale.
Nelle conversazioni c’è un continuo richiamo al progetto collettivo, che viene prima degli interessi individuali. Lucano è preoccupato che neanche un centesimo dei fondi pubblici destinati ai rifugiati vada sprecato per finalità estranee all’accoglienza e integrazione, ma teme che non tutti i collaboratori intendano sempre quel progetto come lo intende lui. Così quando parla dell’atteggiamento diverso di alcuni nel “futtimentu dei sordi” [p.242], Lucano sta inveendo contro collaboratori che gli sembrano più interessati ai soldi che non all’idea di Riace, e non sta, come vorrebbe la libera interpretazione del Tribunale, indicando loro “una diversa maniera per attuare il futtimentu dei soldi, che per il suo modo di vedere doveva sempre avere una certa connotazione di interesse pubblico e sociale”. Quando osserva “mi producono un danno a me queste persone … non a me, ma a tutta l’idea che c’è a Riace” [p.182], se la sta prendendo con chi nei progetti non si pone con la stessa idealità, e non si riferisce affatto come vorrebbe il Tribunale ai “funzionari prefettizi e SPRAR che riteneva avessero causato un danno enorme al sistema da lui creato”.
Lo stesso vale per le attività di integrazione che ha messo in piedi con le famose economie: insiste fino all’esasperazione sul fatto che si tratta di investimenti pubblici, che le finalità devono essere pubbliche, e se la prende con chi non gli sembra operare sempre con questa consapevolezza. “Quel frantoio a Città Futura, una volta scollegato da questo processo, non serve un cazzo! Anzi, se c’è qualcuno che ha intenzione privatistiche, allora sì che vai incontro ad un reato, perché ovviamente quel frantoio è stato realizzato con i soldi dell’accoglienza” [p.507]. Il frantoio è un altro punto chiave delle responsabilità penali che la sentenza di primo grado attribuisce a Lucano; unitamente alle case destinate al turismo solidale, rappresenta la ricchezza che Lucano starebbe accumulando grazie alla copertura dell’associazione Città Futura, e su cui conterebbe per vivere il resto dei suoi giorni in agiatezza. Lucano non ha mai nascosto che questi investimenti erano fatti anche con le economie dei fondi per l’accoglienza; e infatti lo dice anche al colonnello della GdF che indaga, perché è quello che ha sempre fatto, per costruire i laboratori, le botteghe, la fattoria didattica, il turismo solidale, il frantoio, ecc. “Gli ho detto: Ogni anno dalle attività sono nate opportunità” [p.476]. Lo SPRAR stabilisce che si deve operare per un’accoglienza integrata, ma poi non ti dà imezzi; Lucano si è sempre spinto oltre, con l’idea di creare le condizioni per l’integrazione e lo sviluppo. “Questo perché io istintivamente ho ragionato che non posso limitarmi… Questo è il modello Riace” [p.507]. Il modello Riace nasce con l’idea che le attività messe in piedi siano una valorizzazione del progetto, che rivendica alla luce del sole, perché la considera il valore aggiunto di Riace. “Ma se tu il valore in più me lo stai penalizzando, a livello penale addirittura…” [p.496].
Per il Tribunale invece queste attività non avevano alcuna finalità d’integrazione, e in particolare frantoio e case del turismo solidale rappresentavano solo appropriazioni patrimoniali a vantaggio privato. “Il frantoio non venne mai destinato ai migranti perché concretamente utilizzato o comunque immaginato al fine di assecondare ritorni economici di tipo esclusivamente privato” [p.426]. Di conseguenza, si tratta solo di “una meditata versione posticcia fatta circolare ad arte con bieco utilitarismo per dare una copertura di facciata ad un’attività predatoria compiuta in grande stile, che peraltro suona come una giustificazione ancora più urticante, non solo perché mendace, ma soprattutto perché compiuta con l’arroganza di rivoltare l’oggettività delle cose, stravolgendone il senso, senza un briciolo di pudore” [p.508]. Anche se per questo deve travisare il significato di quanto Lucano dice intercettato: “Secondo me rimangono tra i 700 e 800 mila euro” [p.311]. Lui intende che restano ancora da pagare, mentre l’interpretazione del Tribunale è che “gli sarebbe sempre rimasto il guadagno che aveva conseguito con le attività predatorie dell’accoglienza … che quantificava egli stesso in circa 800.000 euro, nei quali inglobava l’acquisto di case ed il frantoio” [p.305].
Come si vede, da un’intercettazione all’altra, il movente economico, smentito dal processo, continua a riemergere, senza che mai le motivazioni sentano il bisogno di approfondirlo per fornirne una prova, mai emersa nel dibattimento. D’altronde, osservazioni dello stesso genere si possono fare sulle interpretazioni del Tribunale che si riferiscono al movente politico elettorale. Va detto che già nel processo la Procura, non potendo provare il movente economico, aveva sostenuto l’ipotesi di un movente politico-elettorale basandosi su un’intercettazione di fine 2017, in cui Lucano diceva a suo fratello: quasi quasi mi candido alle politiche (del marzo 2018). Era rimasta però un’ipotesi fragile, anche perché Lucano non ne aveva fatto nulla, né si era candidato ad altre elezioni, nonostante in tanti lo avessero sollecitato; era insomma restata un’intenzione, su cui era difficile fondare il movente. Anche se il movente politico ha il vantaggio di non aver bisogno che si produca la prova come quello economico – che si trovi “il gruzzolo”, come lo chiamava il colonnello Sportelli. Basta semplicemente suggerirlo come intento occulto, senza doverlo dimostrare, infatti la Procura aveva continuato nonostante tutto ad evocarlo.
Abbiamo visto che fin dalla premessa le motivazioni adottano il movente politico (“spesso in chiave politica”). Anzi, il Tribunale gli dà molto credito: si tratta di “comprovare il forte movente politico che ha indotto LUCANO a commettere i vari delitti per cui si procede” [p.220], un movente fatto di ritorno elettorale e di ritorno d’immagine. Le motivazioni riproducono pagine e pagine di intercettazioni sul tema del vantaggio elettorale che Lucano inseguirebbe ossessivamente per perpetuare il proprio potere. Lucano ragiona con vari interlocutori sulle posizioni elettorali di persone che conosce, che lavorano nelle associazioni, o semplicemente nel paese. Il Tribunale vi legge con certezza “la brama di potere che possedeva LUCANO, tanto da calpestare ogni altro valore, pur di ottenere i voti tanto agognati” [p.243], e quindi interpreta quelle parole come prova del sistema clientelare, che sarebbe la vera finalità a cui Lucano destina i fondi dell’accoglienza.
Clientelismo? O forse la posta in gioco potrebbe essere un’altra: quella di dare ai progetti che hanno rivitalizzato il paese una chance di poter continuare oltre la sua ultima sindacatura. Quale sindaco non ragiona su come poter dare continuità al proprio progetto anche quando non sarà più sindaco? Tanto più nel caso di Riace, dove esistono da anni progetti di accoglienza di cui il Comune è responsabile, chi diventerà sindaco e quale sarà la maggioranza comunale sono questioni importanti per il destino dei progetti messi in piedi, e che hanno rivitalizzato il paese. Lucano si preoccupa di cosa può succedere al Comune dopo la fine del suo mandato, non del suo futuro politico. E si sa, in un piccolo paese tutti sanno chi vota chi, per cui il ragionamento sugli schieramenti alle comunali non può che passare attraverso una sorta di conta dei voti personali. “Devo vedere le elezioni comunali di Riace, l’integrazione dei rifugiati qua. Hai capito in quale ottica ragiono io? Per quello voglio numeri alti; hai capito? Sennò come le gestisco queste cose?” [p.230]. Il Tribunale invece interpreta questa frase come “la necessità di mantenere i numeri alti di migranti nei progetti, compresi i lungo permanenti … perché ciò era necessario per aumentare il suo prestigio politico, in vista delle prossime elezioni”. Siccome però Lucano non si candida a nulla, non fa carriera politica, come dimostrare che il movente sia il suo futuro politico e personale?
Potrei continuare a lungo a rilevare questo tipo di contraddizioni, incongruenze, controsensi, forzature, ma non aggiungerebbe molto. Il punto cruciale mi pare un altro. Perché l’abbondanza e ridondanza delle intercettazioni riportate nelle motivazioni della sentenza non è casuale, anzi; risponde, come abbiamo visto sin dalla premessa, al bisogno di fondare nelle parole stesse dei protagonisti l’interpretazione che il Tribunale ha dato dell’esperienza di Riace. Peccato che le parole vadano interpretate e che debbano tradursi in fatti dimostrabili, non possano restare a livello di commenti o di intenzioni. E qui casca l’asino. Piegate alla narrazione del Tribunale, quelle parole si rivelano incerte, come minimo ambigue, se non apertamente diverse dal significato che il Tribunale vuole attribuire loro. Resta dunque lo sconcerto di trovare nelle motivazioni di una sentenza non le prove di reati, ma parole, dialoghi, al tempo stesso presi nel loro quotidiano e estrapolati dal contesto sociale e culturale, oltre che operativo e fattuale, in cui si svolgono.
In fondo è la conferma che l’obiettivo principale di queste motivazioni è costruire un’altra narrazione di Riace: colpire la Riace dell’accoglienza, quello che Riace ha rappresentato e rappresenta, il contesto di un piccolo paese della Locride, depresso e svuotato dall’emigrazione, alle prese con il tentativo di costruirsi un’economia locale lontana dalle ingerenze della ‘ndrangheta e aperta alla sfida dell’integrazione dei nuovi arrivati. E sostituirla con la Riace del Tribunale, un’organizzazione a delinquere, un progetto criminale. La credibilità delle accuse non è data da prove, ma da un racconto diverso che sia in grado di sconfessare agli occhi dei più la narrazione consolidata su Riace. La sentenza non sembra tanto diretta a provare reati, quanto a smentire “la mendace versione di comodo che venne distribuita all’esterno e, soprattutto ai mezzi di informazione, per tentare di dare una “doratura” di superficie alle bieche condotte appropriative da tutti poste in essere in modo corposo” [402].
Per questo credo che prendere sul serio il testo delle motivazioni sia la strategia di lettura più efficace. E’ quello che dicono, o cercano di dire, che conta soprattutto. Il modo in cui imbastiscono l’altra storia. Perché anche se il Tribunale si sforza di respingere il sospetto di un processo politico, è proprio di questo che si tratta: e al cuore del processo politico c’è sempre uno scontro fra due visioni, uno scontro d’idee.
Il caso dei lungo-permanenti
Un caso esemplare di questo scontro fra due visioni lo offre, a mio avviso, il racconto sui lungo-permanenti. Si tratta di un esempio interessante. Innanzitutto, perché la questione dei lungo-permanenti ha assunto un grande peso nella narrazione del Tribunale. I lungo-permanenti sono l’oggetto del secondo capo d’imputazione, truffa aggravata contro lo Stato, ed occupano una cinquantina di pagine delle motivazioni. L’ingiusto profitto che Lucano e le associazioni avrebbero tratto da questo reato è calcolato dal Tribunale in oltre 2milioni 300mila euro. E poi perché permette di ragionare su quella scomparsa dell’ambiguità fra amministrativo e penale che avevo indicato all’inizio, risolta decisamente in chiave penale.
Si tratta in realtà di una categoria complessa: se è chiaro infatti che nessun progetto di accoglienza può durare all’infinito, le procedure per dichiararlo esaurito sono diverse e variano nel tempo. Nel CAS l’ottenimento della protezione fa uscire la persona dal CAS ma per inserirla nello SPRAR, cosa che però molto spesso non avviene. Quanto allo SPRAR, la norma che fissa il termine del progetto a 6 mesi, salvo proroghe specifiche, interviene solo nel 2016, evidentemente sotto il peso dell’emergenza rifugiati di quegli anni. Certo non stupisce che la norma susciti ribellione in Lucano, visto che la mission di Riace pretende mettere al primo posto diritti e bisogni delle persone rifugiate; in particolare, trattandosi di famiglie con bambini, gli sembra impossibile non tener conto dei tempi scolastici, oltre che di tante altre gravi vulnerabilità. “[C’è chi dice] ‘non hanno diritto, se ne devono andare’ e vogliono applicare una regola precisa … Io non posso fare questo, io devo avere uno sguardo più alto” [181]. E da quello sguardo più alto, vede l’ingiustizia di una norma che fissa un termine rigido all’accoglienza e taglia corto sui tempi per l’integrazione. Ma è lo stesso SPRAR che mette al centro l’accoglienza integrata delle persone “secondo le effettive esigenze personali”.
Detto questo, le motivazioni esordiscono con l’indicare gli elementi di prova quanto al capo d’imputazione sui lungo-permanenti: “le deposizioni dibattimentali delle dottoresse SURACE Antonia e FRUSTACI Giovanna, nonché del Ten. Col. SPORTELLI, oltre che numerosi documenti e intercettazioni ambientali” [p.149].
In aula, i funzionari hanno raccontato che, a partire dal 2016, inizia un carteggio fra la Prefettura e il Comune di Riace sul tema della fuoriuscita degli ospiti del CAS. Surace racconta che la Prefettura invia al Servizio centrale SPRAR una lista di nominativi che, avendo già ottenuto la protezione, devono uscire dal CAS e passare nel sistema SPRAR, ma non riceve risposta. Informa comunque Lucano che deve farli uscire dal CAS, altrimenti la Prefettura non riterrà ammissibili quelle spese. Lucano presenta richiesta di proroga per motivi di grave vulnerabilità; la Prefettura inoltra la richiesta allo SPRAR, che però di nuovo non risponde. Alla fine, la Prefettura invia a Lucano l’elenco dei nominativi che non verranno finanziati in quanto non aventi più diritto. Frustaci conferma che i fondi relativi a questi 37 nominativi furono decurtati. Ma allora, le chiedono in aula, il Comune li ha tenuti contro i suoi stessi interessi? Lei conferma, e aggiunge che spesso anche gli errori di rendicontazione andavano contro gli interessi del Comune, una volta per esempio aveva chiesto 5000 euro in meno di quanto avrebbe dovuto. Il PM vuole anche capire se Riace era il solo CAS a presentare queste problematiche, e lei risponde che in realtà ci sono in tutti i CAS. Aggiunge poi che a quell’epoca in provincia di Reggio Calabria c’erano solo due CAS, molto diversi tra loro: Riace aveva 140 posti, quello di Monasterace solo 20, e soprattutto ospitava maschi adulti, mentre a Riace c’erano famiglie con bambini che presentano problemi ben più complessi. Insomma, né Surace né Frustaci danno una prova, come pretendono le motivazioni, che ci sia stato indebito arricchimento sui lungo permanenti del CAS. Anzi, avendo decurtato i rimborsi dei 37 soggetti che a loro avviso non rientravano più nel CAS, confermano la natura amministrativa della questione dei lungo-permanenti.
Anche con lo SPRAR lo scambio sui lungo-permanenti avviene all’interno della logica amministrativa. Nell’ottobre 2017 il Comune di Riace invia un elenco dettagliato di 22 persone in uscita, spiegando i motivi di grave vulnerabilità che giustificano la richiesta di proroga per motivi umanitari; sono tutte famiglie con bambini, più una donna sola affetta da seria patologia e in cura presso un ospedale della zona. Il Servizio centrale (dicembre 2017) accoglie 15 richieste, mentre chiede per 6 nuclei familiari (su 165 posti dello SPRAR) che vengano allontanati entro 30 giorni. Il Comune termina l’accoglienza di quelle persone e li toglie dalla banca dati, ad eccezione di un nucleo familiare di due siriani con due bambini, detentori di status di rifugiato, cui permette di restare nella casa fino alla chiusura dell’anno scolastico, ma comunque fuori dalla banca dati e quindi fuori dal finanziamento. Invece il Servizio ritrova nella banca dati la donna sola gravemente ammalata e su questa base sembra disconoscere che siano state effettuate cancellazioni; peraltro proprio quella persona alla chiusura dello SPRAR di Riace sarà inserita in altro progetto SPRAR, a riprova del fatto che il suo stato di vulnerabilità giustificava il suo permanere nel sistema di accoglienza. Ancora nell’agosto 2018 comunque il Comune di Riace invia una lettera, in cui dichiara che tutti i 6 nuclei segnalati sono stati allontanati come richiesto, e che restano al momento solo quattro nuclei di lungo- permanenti per motivi di gravi vulnerabilità.
La situazione come si vede è confusa e controversa, ma si muove tutta all’interno di una logica di controlli, criticità, richieste di proroga e decurtamenti fra il Comune e le amministrazioni preposte all’accoglienza, sotto l’egida di Regolamenti e Linee guida. Finché nell’atto di chiusura dello SPRAR di Riace la presenza di “soggetti diversi”, che include i lungo-permanenti, comporterà 14 punti di penalità. Eppure non c’è traccia in questi carteggi di accuse di comportamenti fraudolenti tesi all’arricchimento personale sui lungo- permanenti. Come diventano un reato penale?
Innanzitutto, allargando i numeri. Nei conteggi dl Sportelli, ripresi nelle motivazioni, c’è di tutto: persone che restano qualche giorno in più, persone che restano anni, persone per cui è stata richiesta una proroga motivata dal Comune, persone che hanno presentato ricorso e ne attendono l’esito, e persone che pur fuori dai progetti hanno deciso di restare a Riace. Sportelli riconosce che se Lucano si rifiutava di mandarli via era per ragioni umanitarie; sostiene però che nel 2017 l’emergenza era ormai finita, gli arrivi diminuiti e mandarli via avrebbe determinato un ridimensionamento dei progetti.“ Se si fossero rispettate le regole
normativamente previste, il sistema Riace sarebbe stato quasi privo di stranieri”, il che avrebbe prodotto “un vero e proprio tracollo negli introiti” [p.158]. Ecco, allargare i numeri consente di far rientrare dalla finestra il tema economico, che prima si era escluso affermando il prevalere di ragioni umanitarie.
E infatti le motivazioni recitano: “la loro massiccia incidenza sul totale degli aventi diritto ed il loro trattenimento, nonostante le proroghe non ricevute (e solo in alcuni casi richieste), non avevano altra spiegazione se non il vantaggio economico che essi erano in grado di generare rimanendo su quei territori”[p.156]. Qui però entriamo in contrasto con le testimonianze dei funzionari, che avevano riferito di aver decurtato le spese relative ai lungo-permanenti, e che semmai era il Comune a pagare la loro permanenza. Insomma, gonfiare i numeri non basta, perché bisogna anche dimostrare che sui lungo-permanenti si siano effettivamente realizzate delle somme per vantaggi personali. Per questo le motivazioni devono ricorrere ad un ragionamento del tipo “non avevano altra spiegazione”, che però non prova nulla.
Comunque il dado è tratto: nel racconto del Tribunale i lungo-permanenti sono masse, non più i nuclei familiari di cui Lucano descriveva agli uffici le gravi vulnerabilità, ma masse indistinte trattenute intenzionalmente per mantenere alti livelli di introiti, in una situazione di carenza di rifugiati. Non solo, ma secondo il Tribunale Lucano fa e disfa a suo piacimento, sempre in preda alla sua avidità politica. Afferma per esempio che Lucano avrebbe trattenuto quei rifugiati che più gli davano visibilità politica, affermazione ripresa direttamente dalle parole del teste Valilà, senza nessun riscontro ulteriore [p.185]; giusto un passaggio veloce, ma rivelatore di come piccole vendette e meschinità di paese possano diventare “prove”.
Così che accogliere i lungo-permanenti non sarebbe più, come nelle relazioni dei funzionari, un atto di disordine amministrativo, peraltro dovuto a motivi di umanità, ma risponderebbe ad un interesse economico di fronte alla restrizione dei progetti di accoglienza. L’ipotesi però non regge a fronte della crescita dello SPRAR di Riace: il servizio è cresciuto in modo esponenziale, passando dai 30 posti del 2014 ai 180 del 2016, grazie all’incremento di posti aggiuntivi e ulteriori aggiuntivi. Almeno per quegli anni dunque, quando il reato era già pienamente in atto, i lungo-permanenti non possono essere ascritti a carenza di rifugiati; anche se nel 2017 le presenze calano, questo non basta di per sé a spiegare il fenomeno dei lungo-permanenti.
Dopodiché iniziano le intercettazioni sul tema. Lucano è intercettato (luglio 2017) mentre dice: “abbiamo 30-40 lungo-permanenti fuori dai progetti” [p.160]. Ma come, non avevano le motivazioni confermato poco prima i calcoli di Sportelli, secondo cui nel 2017 per la sola associazione Città Futura i lungo-permanenti erano diventanti ben 60 su 103 ospiti? E se Lucano aggiunge “io finché posso tirare tiro” [p.161], non è forse coerente con quanto attestato dal carteggio con CAS e SPRAR, sui suoi tentativi di far comunque prevalere i motivi umanitari sulla scadenze imposte dalla normativa?
Le motivazioni riportano poi un’intercettazione ambientale (01.08.2017) che, secondo il Tribunale, “comprova, oltre misura, la consapevolezza e l’intenzionalità di LUCANO di sfruttare economicamente la presenza dei lungo-permanenti” [p.161]. Si tratta in realtà di una conversazione interminabile, lunga 14 pagine, in cui si parla di tutto, l’unico riferimento ai lungo permanenti arriva dopo ben 8 pagine. In quel passaggio Lucano dice: “I lungo-permanenti li stiamo facendo rimanere. Li cacciamo dal progetto, no? Li facciamo rimanere e li facciamo lavorare sempre nell’ambito di questi 35 euro. Ci facciamo il conto e i soldi bastano” [p.168]. Sta dicendo che le persone non possono essere semplicemente espulse dal progetto, e che nei loro calcoli con i 35 euro dei rifugiati possono farsi carico anche di quelli che rimangono a Riace oltre la scadenza del progetto. Vuol dire che con i fondi per i rifugiati si riesce a mantenere anche chi non ha più titolo. Insomma, la questione è sempre la stessa: con le stesse cifre, a Riace si accoglie di più.
Invece per il Tribunale significa che Lucano trattiene volutamente i lungo-permanenti perché portano 35 euro a testa. E aggiunge che Lucano era “certo della pressione politica che egli, con astuto azzardo, riteneva di poter fare con il nostro Stato, minacciando di recedere dai progetti in corso su Riace, così disperdendo sul territorio nazionale centinaia di extracomunitari” [p.161]. Frase interessante, per almeno due aspetti. Intanto, perché sostiene che in pieno 2017 a Riace c’erano “centinaia di extracomunitari”, mentre come abbiamo visto Sportelli aveva affermato che il sistema di Riace era ormai quasi vuoto, e che proprio per questo Lucano tratteneva i lungo-permanenti, per evitare un tracollo degli introiti. Le contraddizioni nell’interpretazione delle intercettazioni non finiscono mai… E poi perché tenta un rovesciamento logico: non è più lo Stato che fa pressione sul Comune perché Riace accolga i rifugiati, ma Lucano che minaccia lo Stato di non accoglierli più. Sempre una questione di furbizia, l’astuto azzardo! E qui le motivazioni aggiungono un elemento ulteriore. Perché lacune e ritardi nell’aggiornare la banca dati rappresentano per il Tribunale un’aggravante del reato connesso ai lungo-permanenti: “si adoperarono fattivamente per raggirare i funzionari deputati all’approvazione dei rendiconti, tramite l’omesso aggiornamento di cui si diceva, il che ha avuto l’effetto di indurli in errore” [p.189]. Le lacune della banca dati non sono più effetto di disorganizzazione e confusione, ma intenzionale strategia di depistaggio. E grazie al raggiro, il Tribunale configura il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, che estende poi anche al caso del CAS, che pure non prevede banca dati.
Riassumiamo. Con i lungo-permanenti,Lucano ha apertamente messo sul tavolo la questione del dopo progetto, dell’opportunità di stabilire un termine rigido al progetto di accoglienza, della necessità di accompagnarel’integrazione. Lo spirito stesso dello SPRARriconosce che la questione esiste, tant’è vero che è possibileconcordare una proroga per motivi umanitari, per gravi vulnerabilità, ecc. Le norme prevedono che venga fatta richiesta per ottenere la proroga; se si trattengono le persone senza chiederla, o contro il parere degli uffici, è dunque un’irregolarità rispetto ai Regolamenti, che porta a decurtazioni e finanche a penalità. Però i servizi non hanno mai sollevato la questione dei profitti personali, dei raggiri, della truffa. Sulla base di quelle irregolarità, ampliandone a dismisura la portata, la Procura aveva costruito un’ipotesi di reato di abuso d’ufficio; pur riconoscendo che Lucano li teneva per motivi umanitari, sosteneva però che i lungo-permanenti erano trattenuti per evitare di perdere introiti. Il Tribunale dal canto suo riprende apoditticamente le ipotesi della Procura, senza scioglierne contraddizioni e carenze; ed aggiunge l’elemento del raggiro, combinando la presenza oltre i termini dei progetti con le mancanze nella gestione della banca dati, di modo che il reato diventi truffa aggravata. Effetto collaterale: le istituzioni vengono assolte, quelle stesse che non rispondevano alle richieste di proroga del Comune, e che non si rispondevano nemmeno fra di loro, come ha testimoniato Surace… Quelle stesse istituzioni delle cui carenze e incapacità di fronte all’emergenza rifugiati, come ha sottolineato Fulvio Vassallo Paleologo (3), il Comune di Riace ha dovuto farsi carico svolgendo un ruolo di supplenza. Perché parliamoci chiaro: se dopo 6 mesi tutti devono andar via, indipendentemente da quelle “effettive esigenze personali” che lo SPRAR si dava come metro di azione, sappiamo già che fine faranno molti di loro: la fine di Becky Moses che, un mese dopo aver lasciato Riace, muore in un incendio della baraccopoli di San Ferdinando.
E’ questa una sentenza?
Come ha osservato Simona Musco su Il Dubbio (4) , nella sentenza il Tribunale sembra soprattutto volersi difendere dall’accusa di aver fatto un processo politico. Già il procuratore capo Luigi D’Alessio aveva sentito il bisogno di respingerla al momento della requisitoria in aula, sostenendo che non si trattava di un processo all’accoglienza, ma alla mala gestio. In sede di sentenza di primo grado, il Tribunale fa sua questa preoccupazione, vuole allontanare ogni “traccia dei fantomatici reati di umanità evocati da più parti” [p.61], e precisa a più riprese che l’oggetto della sentenza sono soltanto le “vorticose sottrazioni” compiute, non per migliorare la qualità dell’integrazione dei migranti, ma “solo per trarre profitto”, e senza “alcunché di edificante”.
In sostanza, nel gioco fra le varie Riace, le motivazioni cercano di accreditare la Riace del Tribunale come unica narrazione oggettiva di quell’esperienza: Riace è stata un progetto criminale portato avanti da un gruppo di persone, Lucano la mente organizzativa. “La costituzione di un vero e proprio organismo passociativo, elevato a Sistema, che ruotava attorno all’illegale approvvigionamento di risorse pubbliche, e che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile, che si esercitava in forma padronale ed esclusiva” [720].
Come abbiamo visto la storia di questa Riace è di fatto in totale discontinuità con le altre narrazioni, ed appare fragile, non essendoci prova del vantaggio privato, né sul piano economico, né su quello politico. Per sostenerla, le motivazioni si dedicano a rovesciare il senso delle cose sotto almeno tre profili fondamentali. Intanto, come abbiamo visto, negano le finalità di integrazione delle attività messe in campo a Riace verso i rifugiati. Demoliscono poi moralmente la figura di Lucano. Infine, capovolgono la realtà dell’emergenza rifugiati.
Del primo rovesciamento abbiamo già parlato. Quanto alla demolizione della figura morale di Lucano, è stata sicuramente una delle peggiori sorprese di queste motivazioni, che ha aggravato il peso dell’anomala condanna, quasi un surplus di punizione, come ha osservato Luigi Ferrajoli (5) . E’ un simulatore, furbo, astuto, avido, un vanesio, soprattutto molto scaltro; fa di tutto per apparire all’esterno come “un uomo retto ed onesto”, mentre in realtà lucra sui fondi dell’accoglienza e soprattutto lascia ai migranti solo gli scarti. Riceve persino fondi oscuri da paradisi fiscali, osservazione buttata lì en passant, ma non senza intenzione. “In altre parole LUCANO Domenico, dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel cosiddetto Modello Riace, invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo, essendosi reso conto che gli importi che venivano elargiti dallo Stato per governare quel fenomeno erano più che sufficienti allo scopo, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva ben pensato di reinvestire in forma privata la gran parte di quelle risorse, con creazione di progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti (tra cui l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica) che costituivano, ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse” [720]. Come abbiamo visto, tutto questo è privo di prove oggettive, e non corrisponde nemmeno al vissuto soggettivo espresso nelle conversazioni intercettate.
Per quanto riguarda infine il terzo rovesciamento, sull’emergenza rifugiati, negare le pressioni da parte di Prefettura e Viminale sul Comune di Riace perché ospitasse richiedenti asilo in gran numero è un’operazione a dir poco scioccante, almeno altrettanto del vedere quelle due istituzioni costituirsi in parti civili all’avvio del processo, cosa che non avviene nemmeno nei processi di ‘ndrangheta. Nel dibattimento, in seguito, due punti sono emersi con chiarezza dalle dichiarazioni dei funzionari e di altri testimoni, come il prof. Tonino Perna: la pressione in cui vennero a trovarsi le istituzioni, in particolare negli anni dell’emergenza, che a loro volta le spingeva a premere sui Comuni perché accogliessero i rifugiati, e la collaborazione di Lucano che, come scriveva nella sua relazione Francesco Campolo, non si era mai sottratto, assicurando l‘ospitalità che altri rifiutavano. Ebbene, contro queste evidenze, le motivazioni sostengono, come abbiamo visto, che non furono le istituzioni ad inviargli numeri sempre più alti di migranti per far fronte all’emergenza, era invece lui stesso a chiederne continuamente altri per nutrire la sua associazione a delinquere.
Attività d’integrazione, figura morale di Lucano, incapacità delle amministrazioni: tre piani interconnessi di un capovolgimento della realtà che sconcerta nella lettura delle motivazioni. Eppure, come ebbe a dire Piero Calamandrei al processo del 1956 contro Danilo Dolci, un processo politico si caratterizza sempre per dei “rovesciamenti di senso”. Il giovane sociologo che aveva guidato i disoccupati di Partinico in uno “sciopero al rovescio” era sotto processo a Palermo per istigazione alla disobbedienza verso le leggi. La “spiccata capacità a delinquere” che la Procura attribuiva a Dolci spingeva Calamandrei a chiedersi: “Ma come può essere avvenuto un tale capovolgimento di senso, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?” (6). Ecco una domanda che queste motivazioni fanno insorgere con forza, e che lasciano del tutto senza risposta. È “il mondo all’incontrario”, scriveva Livio Pepino (7) : un uomo che ha sempre agito in nome di ideali umanitari e di solidarietà viene sottoposto a giudizio per gravi reati penali.
C’è un solo metodo, aggiungeva Calamandrei, per evitare di incorrere in siffatti rovesciamenti di senso:“Conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo”. Forse nulla come le politiche migratorie hanno bisogno oggi di questa contestualizzazione, data la sfida che rappresentano fenomeni migratori, la complessità che li caratterizza, le difficoltà delle risposte nazionali ed europee, le ncertezze, le contraddizioni, per non parlare delle continue mutazioni dovute ad implicazioni e congiunture politiche. È lo stesso metodo cui si riferisce Ferrajoli nell’articolo già citato: un giudizio equo richiede la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto e di ciascuna vicenda un caso irriducibilmente diverso da qualunque altro, anche se rientra nella stessa fattispecie legale.
La sentenza di Locri invece rivela una totale decontestualizzazione, come ho cercato di far emergere attraverso il gioco reciproco delle diverse narrazioni di Riace. L’emergenza rifugiati degli anni 2015-2017 non c’è mai stata, diventa un disegno di Lucano, non una situazione che ha messo in crisi il paese intero e le sue istituzioni. Riace non è un piccolo paese calabrese alle prese con un problema di portata nazionale, sotto pressione e costretto a svolgere un ruolo di supplenza delle incapacità delle istituzioni. Non è nemmeno un paese impoverito che deve ricostruire faticosamente un’economia locale distrutta dall’emigrazione. Non sembra neanche un paese della Locride, regione sotto il peso delle pressioni di ’ndrangheta, dove l’economia sommersa è diffusa, servizi come acqua e rifiuti sono controllati dalla ’ndrangheta, come del resto lo sviluppo edilizio, dove le discariche sono dietro ogni curva, dove non solo le casette della fattoria didattica di Riace, ma nemmeno il Tribunale di Locri ha l’agibilità… Ecco, la decontestualizzazione è tale, che in quel contesto economico, sociale e culturale, il Tribunale può indicare l’accoglienza a Riace come associazione a delinquere, mentre tutt’intorno prosperano i CARA di Mineo o di Isola di Capo Rizzuto, o i ghetti per braccianti della Piana di Gioia Tauro…
Riace era stata per anni un laboratorio di buone pratiche, utili a fornire indicazioni per la costruzione prima, e gli aggiornamenti poi, del sistema SPRAR nazionale e regionale. Se questa sinergia non si fosse spezzata, le sue pratiche innovative di integrazione, avrebbero potuto servire a mettere a fuoco delle carenze di sistema, e questo proprio perché a Riace l’azione pubblica per l’accoglienza si prefiggeva di andare oltre quelle carenze, anche sfidando le norme, in nome del principio superiore del rispetto dei diritti delle persone. Basti pensare ai lungo-permanenti, alla difficoltà d’imporre per norma lo stesso termine a tutte le persone accolte, all’incapacità di farsi carico dell’accompagnamento dopo il progetto, che Riace ha messo a tema con forza.Perché si è spezzata quella sinergia? cosa è cambiato negli anni dell’indagine, che ci aiuti a capire perché quelle attività possono essere presentate come reati penali e tradursi in pesanti condanne?
Beh, qualcosa è cambiato di certo: la politica migratoria, il cui paradigma dal 2017 in poi si orienta verso il rifiuto di soccorso in mare, i “porti chiusi”, i respingimenti, la criminalizzazione della solidarietà. Lo vediamo bene proprio in quel meccanismo di rovesciamento di uno Stato che chiede di accogliere, e poi abbandona e criminalizza chi accoglie. Perché rivela un’amministrazione che incespica, si contraddice, che tradisce i suoi stessi impegni e non si assume le sue responsabilità, che è succube dell’esecutivo di turno, e quindi incapace di progettazione e di lungimiranza. E’ lo stesso meccanismo per cui lo Stato per anni ha chiesto alle ONG di aiutarlo a soccorrere i naufraghi e poi ha cominciato ad incriminarle per aver continuato a farlo. Oppure che alle frontiere abbandona i profughi nelle sole mani delle persone solidali, che poi persegue per reato di solidarietà. Rivela il peso della congiuntura politica e il rapporto tutto strumentale che l’amministrazione intrattiene con chi “ingaggia” nella gestione dei problemi.
È per un effetto retroattivo di quel cambiamento di paradigma politico che le pratiche d’integrazione messe in atto a Riace sono diventate reato – sono cioè dei “reati ex-post”. La ricostruzione del Tribunale si porta appresso il peso di questa forzatura sugli atti, in nome di una diversa visione che pretende riscriverne il senso. Idee contro idee, dunque. Tocchiamo qui con mano il cuore di un processo politico, con buona pace della Procura e del Tribunale di Locri. Le motivazioni dimostrano che la sentenza di primo grado condanna proprio quelle idee di accoglienza e integrazione che avevano costruito a Riace una comunità in cui gli stranieri non sono ospiti, ma parte integrante della comunità, coinvolti negli stessi bisogni, negli stessi destini, e che nella congiuntura politica attuale appaiono invece da punire, da riscrivere come reati penali.
“A modello esemplare, sentenza esemplare”, aveva commentato Ferrajoli. Ma esemplare di che, il modello Riace? Esemplare di un’accoglienza non ghettizzante, sempre in direzione contraria rispetto alle problematiche di quella terra difficile, sostengono i giuristi dell’ASGI (8) . Esemplare, aggiungerei, di un’azione di accoglienza e integrazione che si rifiuta di sottomettere i valori alle congiunture politiche – i valori della solidarietà, del rispetto dei diritti umani, del riconoscimento dell’altro come persona.
NOTE
4 Simona Musco,” Lucano, tutto ciò che non torna in una sentenza abnorme”, Il Dubbio, 3 ottobre 2021
5 Luigi Ferrajoli, “Diritti umani, diritto disumano”, Questione Giustizia, 25/10/2021
6 Piero Calamandrei, “In difesa di Danilo Dolci”, Il Ponte, XII, 4 (1956): 529-544
7 Livio Pepino, “L’arresto di Mimmo Lucano: il mondo al contrario”, Volere la luna, 02-10-2018
8 ASGI, “Criminalizzare la solidarietà significa tradire la Costituzione”, 02/10/21