di Fulvio Vassallo Paleologo
Il protrarsi senza un termine prevedibile del conflitto in Ucraina, la comunicazione violenta ed estremamente semplificata che si alimenta su entrambi i fronti, le cadenze della politica italiana con la disgregazione degli schieramenti tradizionali, in una campagna elettorale permanente in cui si sfrutta qualsiasi occasione per confondere fatti e responsabilità, magari per vestire i panni dei pacifisti dopo avere fatto affari con Putin, possono lasciare sgomenti coloro che ancora credono nel ragionamento sulla compessità e nel confronto tra opinione diverse.
Eppure sono evidenti i fallimenti della politica internazionale, incapace di restituire operatività al multilateralismo ed alle Nazioni Unite, e quindi una uscita dalla logica della guerra, nella quale si rimane con il rafforzamento della NATO, e con la subalternità dell’Unione Europea. Fallimenti ben visibili anche della politica interna, che sta trasferendo risorse crescenti verso l’industria delle armi e della sicurezza, accentuando la dipendenza dagli Stati Uniti ed abbandonando le prospettive di riconversione ambientale e le politiche sociali (dalla sanità all’istruzione) che sembravano potessero ritrovare una nuova linfa con il PNRR, che costringono a fare un bliancio. ed a progettare una svolta. Un compito che non spetta solo agli studiosi, ma che potrebbe costituire di questi tempi un utile esercizio ( anche di memoria) per tutti i cittadini, sui risultati che i governi dei paesi occidentali, ed in Italia il governo Draghi, hanno conseguito. a fronte della perenne emergenza di Stato che ieri si chiamava COVID ed oggi si definisce come “guerra.” In realtà una guerra “ibrida”, quella in Ucraina, prosecuzione di altre guerre ibride che sono ancora oggi combattute nello scacchiere mondiale, ma che vengono sistematicamente oscurate perchè non toccano gli interessi degli elettori dei paesi occidentali e anzi risultano funzionali alle politiche di devastazione ambientale ( basti pensare a vaste regioni del continente africano) e di sfruttamento indiscriminato delle risorse, su cui si basa la concorrenza nel mercato globale. Situazioni di conflitto che come effetto comune hanno avuto ovunque un ulteriore divaricazione della forbice tra ricchi e poveri. La riproposizione di un ritorno, che sarebbe ancora possibile, ai modelli di sviluppo (insostenibile) del passato si basa cosi’, in modo sempre più evidente, sulla falsificazione dei fatti e sull’utilizzo della guerra come strumento di pressione permanente nei rapporti tra paesi, ed all’interno di ciascun paese, per schiacciare le minoranze, controllare rigidamente l’informazione, e rendere impraticabili le alternative di governo.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, cosa hanno significato nei rapporti tra le grandi potenze, con l’esautoramento delle Nazioni Unite e l’affermazione dei nazionalismi, le guerre ibride ante litteram (perchè basate sulla falsificazione dei fatti, anche con strumenti informatici, e rivolte contro le popolazioni civili) combattute da Bush e da Blair in Iraq, e poi in Afghanistan. Conservatori americani e laburisti inglesi uniti su scelte devastanti per il futuro dell’umanità. Ed in Europa il modello Blair ha fatto scuola per anni, anche in Italia.
Sarebbe oggi assai utile riflettere sulle reali responsabilità occidentali nella crisi siriana e sull’affermazione di Erdogan in Turchia, che, dopo avere incassato miliardi di euro per chiudere tutte le vie di fuga dei profughi siriani, chiede oggi la testa dei curdi per negoziare l’ampliamento della Nato a Svezia e Finlandia. Per non parlare delle sciagurate politiche dei paesi occidentali in Africa, dove si sta realizzando, come conseguenza del supporto offerto ai peggiori regimi, in cambio di risorse, una infiltrazione generalizzata dell‘estremismo jihadista con un ulteriore abbattimento dei livelli di sopravvivenza delle popolazioni autoctone. A livello regionale, dunque in ambito europeo, si potrebbe vedere cosa ha lasciiato la guerra nella ex Jugoslavia, dal 1991 ad oggi, soprattutto dopo i bombardamenti sulla Serbia, giustificati dai principali esponenti della sinistra italiana di allora, e quindi avallati anche dalle Nazioni Unite. Il 1999 è stato per l’Europa un anno di svolta che non si può dimenticare e nei Balcani le tensioni covano ancora oggi sotto la cenere degli accordi di pace. Garantiti dalla presenza di truppe militari sotto l’egida delle Nazioni Unite e poi da diversi paesi europei, tra cui l’Italia. Anche in quella regione è poi subentrata una missione NATO, in Kosovo la KFOR, che fonda la sua legittimità sui compiti assegnati dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu 1.244 (12 giugno 1999) e sul Military Technical Agreement siglato con la Serbia (9 giugno 1999). Mentre la Serbia rimane saldamente schierata dalla parte della Russia di Putin. A novembre dello scorso anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha rinnovato per un altro anno il mandato della missione militare europea in Bosnia ed Erzegovina, nonostante l’opposizione di Mosca.
Tutte queste guerre, agite sul fronte militare, ma anche sul fronte della comunicazione, hanno visto convergere i rappresentanti degli schieramenti che in diversi paesi si contendevano il campo politico, i conservatori da una parte, i socialdemocratici ( come Blair, Obama e D’Alema, fino a Gentiloni e Minniti in Italia) dalla parte opposta. Il confronto tra forze politiche diverse è il cuore della democrazia. Ma quando da tutte le formazioni che controllano la parte maggioritaria degli elettorati provengono falsificazioni, e si riproducono nei fatti i modelli della guerra e dello sfruttamento delle persone, che poi è alla base del contrasto delle migrazioni, le conseguenze non possono essere che quelle che stiamo subendo oggi. Non solo con la caduta dei livelli di sopravvivenza economica per larghe fasce della popolazione, che non è certo conseguenza soltanto dell’ultima guerra in corso, ma anche, ed in modo duraturo, con lo svuotamento dei sistemi democratici, ridotti ad un simulacro dalla crescita dei partiti personali e dal ridimensionamento della rappresentanza parlamentare.
Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione, e del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale governi di segno diverso hanno progessivamente eroso il prncipio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza. Ed alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) ed hanno creato le premesse per la disciminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccoritori.
In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del paesi di origine, ed addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina.Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali ? Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini. Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni e milioni di persone, private del loro ambiente di vita. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa. Canali legali di ingresso non ne esistono ed il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul “contrasto dell’immigrazione clandestina”, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo. Anche in questo caso si falsificano i dati reali delle persone in movimento su scala globale determinando emergenze in situazioni che si potrebbero affrontare con strumenti ordinari. Come si è verificato in Italia, a scadenze periodiche, dal 1998 ad oggi. da quando nella legge Turco-Napolitano n.40 del 1998 venne stralciata la parte riguardante il diritto di asilo, o dopo che nel 1997 gli accordi con l’Albania del governo Prodi avevano consentito blocchi navali dalle conseguenze mortali. Queste scelte dei governi di centro-sinistra in Italia non si possono dimenticare. Come sarà una macchia indelebile sulle istituzioni italiane che li hanno autorizzati, e poi eseguiti, gli accordi con il governo di Tripoli e con la sedicente Guardia costiera “libica”, che ormai (dall’arrivo dei turchi in Tripolitania nel 2020) è sfuggita al controllo degli italiani, ma che si continua a foraggiare per “contenere” le partenze dei migranti in fuga dai lager libici. Nessuno in Italia racconta quello che sta succedendo in Libia, ed anche sulle tragedie che si continuano a ripetere nel Mediterraneo centrale è calata una fitta coltre di censura istituzionale. Le autorità marittime competenti non forniscono neppure le informazioni che sarebbero tenute a pubblicare per legge in base al Piano nazionale SAR ( ricerca e soccorso).
La politica della falsificazione è ormai prevalente ed è agevolata da una supina acquiescenza della maggior parte dei mezzi di informazione, soprattutto di quelli più grandi, che ripropongono una narrazione dei fatti che vede su fronti contrapposti esponenti di partito che condividono le medesime pratiche politiche, e che cercano però di sfruttare ogni minima occasione, magari avvalendosi dei sondaggi più recenti, per lucrare qualche miserabile vantaggio elettorale sulla pelle delle persone più esposte alla violenza dei conflitti ed al ricatto del bisogno economico. Come nel caso delle guerre ibride, anche nella guerra condotta contro i migranti la realtà distorta narrata da politici nazionalisti o populisti, veri e propri “imprenditori della paura”, continua a prevalere sulla concreta dimensione dei fatti.
La proposta di un “campo largo della sinistra”, ammesso che di “sinistra” si possa ancora parlare in Italia, e vengono in mente a proposito le lucide riflessioni di Alessandro Dal Lago, si scontra con i contenuti verificabili nelle politiche praticate nel tempo dai protagonsti che si candidano alla guida di questo ennesimo rassemblement. Manca ancora oggi a “sinistra” un progetto comune che dovrebbe mobilitare le persone, fare rivivere i territori, alimentare nuove speranze di vita. Piuttosto che di percentuali occorre discutere sui contenuti. Gli obiettivi non mancherebbero, da serie misure per affrontare la crisi climatica a politiche di redistribuzione per attenuare il divario sociale che, prima la emergenza della pandemia, ed adesso le conseguenze della guerra a tempo indeterminato, stanno aggravando. La questione della riduzione della spesa militare e la politica delle basi sono banco di prova per scelte ineludibili. Su scala internazionale si dovrebbe porre seriamente sul tavolo la questione dell’azzeramento del debito dei paesi più poveri.
Sul piano nazionale, ambiente, sanità, istruzione, lavoro, dovrebebro essere al centro di una discontinuità che in Italia non trova espressione nei partiti che si contendono il consenso elettorale. La leva fiscale non può essere utilizzata soltanto per fare cassa, accrescendo le disuguaglianze che già sono soffocanti per la maggior parte della popolazione. E non basterà certo rilanciare i rituali proclami contro l’evasione fiscale. Per costruire questo progetto comune occorre avere il coraggio di uscire dagli attuali schieramenti e di crearne nuovi, su progetti concreti, non su una accozzaglia di candidati per le elezioni. Di certo non basterà riproporre alleanze sconfitte dalla storia.
Di fronte al fallimento delle aggregazioni sin qui sperimentate, anche in una campagna elettorale permanente come quella che viviamo da anni, sarebbe tempo che si restituisca voce alle persone. Occorre rinnovare i meccanismi della rappresentanza, e non basteranno soltanto i rituali delle primarie. I candidati, anche quelli già in corsa in schieramenti diversi, se ne saranno capaci, dovranno farsi portatori delle istanze e dei progetti che possono raccogliere sui loro territori, confrontandosi con tutte le possibili contraddizioni fino a trovare punti di sintesi, piuttosto che allinearsi alle direttive ed all’omertà che piovono dai vertici di partito. I temi unificanti non mancano, come si è detto. Le aggregazioni vanno ricostruite sui progetti di vita. Occorre ritornare ad una politica che riscostruisca un agire collettivo, da praticare giorno dopo giorno, con i fatti concreti e con protagonisti credibili.
L’utopia della pace e della giustizia sociale, dal livello locale alla dimensione internazionale, potrebbe dimostrare maggiore concretezza, perchè basata sul rispetto più assoluto della verità dei fatti, rispetto agli effetti perversi delle menzogne che, su opposti schieramenti politici, si stanno contendendo il campo in nome di una “realpolitik” che non ha futuro. Potrebbe essere forse l’unico modo per battere almeno in parte un astensionismo che continua a crescere, e che potrebbe svuotare ulteriormente la democrazia nel nostro paese cancellando le prospettive di futuro per milioni di persone.