di Fulvio Vassallo Paleologo
1. La prima udienza del processo al senatore Salvini, per il divieto di ingresso imposto alla nave umanitaria Open Arms nel mese di agosto del 2019, è stata caratterizzata da una cronaca che si è esaurita sull’ammissione come testimone del noto attore americano Richard Gere, mentre sono rimasti sullo sfondo le argomentazioni giuridiche e la documentazione dei fatti che dovrebbero caratterizzare un processo penale, al di là della notorietà di qualche testimone. In realtà da parte della difesa dell’imputato si è insistito su quella linea di politicizzazione del processo che ha portato al non luogo a procedere nel caso Gregoretti a Catania, quasi che l’audizione dei ministri, addirittura pure di quelli che all’epoca dei fatti oggetto del giudizio si occupavano di altro e non facevano parte del governo, potesse portare maggiori elementi di giudizio di quanto già documentato agli atti del processo e di quanto previsto in materia dalle leggi, dalle normative europee, dalle Convenzioni internazionali.
Le posizioni dei diversi ministri che all’epoca dei fatti (agosto 2019) sedevano sui banchi di governo assieme al senatore Salvini sono già documentate ed acquisite agli atti. Come riferiva l’ANSA, il 15 agosto 2019, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonché le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità” Si attende adesso che lo stesso ex ministro venga ad affermare cose diverse ?
In assenza di argomentazioni difensive direttamente riferibili ai fatti contestati sembra quasi che si voglia spacciare l’isolamento di Salvini in quei giorni dell’agosto del 2019, e dunque la reiterazione del divieto di sbarco senza la copertura di altri ministri, come frutto di una diversa prospettiva di governo che stava maturando a Roma , proprio nei giorni del blocco della Open Arms davanti al porto di Lampedusa. Un tema assai scivoloso perché adesso Salvini si ritrova impegnato con il suo partito nella stessa compagine di governo della quale fanno parte alcuni dei ministri chiamati a testimoniare anche nel caso Open Arms a Palermo. Si rischia evidentemente di permettere alla difesa ed allo stesso senatore Salvini di utilizzare il processo penale a suo carico come un tema di governo, e come una gigantesca cassa di risonanza, nei prossimi mesi che saranno caratterizzati da importanti scadenze elettorali. La sua difesa sta tentando ancora una volta di dimostrare che la responsabilità del divieto di ingresso, e dunque del prolungato trattenimento a bordo della Open Arms dei naufraghi soccorsi in acque internazionali, al di là di quanto emerge dai documenti, e soprattutto dall’ordinanza del Tar Lazio del 14 agosto 2019, fosse sostanzialmente condivisa anche da altri ministri, se non dall’intero governo, facendo dunque venir meno qualunque elemento soggettivo riconducibile al reato di sequestro di persona che viene contestato. A questo scopo la difesa ha richiesto l’acquisizione agli atti del processo di Palermo del procedimento Gregoretti che a Catania si è concluso con un “non luogo a procedere” nei confronti dell’ex ministro dell’interno, proprio sull’assunto della condivisione delle scelte adottate dall’ex ministro dell’interno.
Poco sembra importare se il caso Open Arms sia stato profondamento diverso dal caso Gregoretti, nave militare alla quale non era di certo applicabile il divieto di ingresso previsto dal Decreto sicurezza bis n.53 del 2019. Non si può dimenticare soprattutto come in numerose dichiarazioni lo stesso Salvini avesse riconosciuto che il trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms doveva costituire un’arma di pressione per vincere le resistenze di altri paesi europei nella redistribuzione dei migranti. Metodo di “persuasione”, o di “trattativa”, da sempre respinto dall’Unione Europea, anche con la bocciatura del cd. preaccordo di Malta del settembre 2019, evocato dalla difesa ma comunque successivo ai fatti oggetto del processo di Palermo, oggi del tutto superato dalle chiusure conseguenti alla diffusione della pandemia da COVID 19, e di fatto abbandonato sia dal secondo governo Conte che dal governo Draghi. Come è sotto gli occhi di tutti, si tratta di fatti notori incontestabili, al di là delle testimonianze che potranno rendere i singoli ministri.
2. Si deve purtroppo constatare come la politica della paura e della criminalizzazione delle attività umanitarie di soccorso ed assistenza ai migranti, sia in terra che a mare, oltre a produrre effetti devastanti sull’opinione pubblica, e dunque sul consenso elettorale, malgrado le ricorrenti smentite che provengono dalle aule giudiziarie, con l’archiviazione dei processi contro gli operatori umanitari, ritorni ancora nelle difese dell’ex ministro Salvini sotto processo a Palermo per il caso Open Arms verificatosi, è bene ricordare, nel mese di agosto del 2019. Già allora si arrivava a contestare la natura di eventi di soccorso (SAR) nei salvataggi operati dalle ONG, dopo il ritiro dei mezzi di soccorso stata. Al punto che le autorità di coordinamento italiane, dunque la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) rifiutavano di assumere responsabilità di coordinamento, e dunque si riteneva che non scattassero per questa sola ragione obblighi di indicazione di un porto sicuro di sbarco da parte delle autorità di governo italiane che si assumeva rientrare nella competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice. Una tesi ( del flag state) che occasionalmente è stata ripresa anche dalla ministro Lamorgese, anche se non si è mai arrivati alle conseguenze estreme dei divieti di ingresso adottati da Salvini, una tesi in contrasto con il diritto internaziinale e con i piani Sar adottati nel corso degli anni in Italia, che comunque non è stata mai accolta dai nostri partner internazionali, né tantomeno dall’Unione Europea.
Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. A pag. 46 della richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei ministri si afferma che “…nella vicenda in esame due sono gli Stati che devono individuarsi come autorità di primo contatto: l’Italia e Malta, in quanto entrambi contestualmente contattati e informati delle prime due operazioni di salvataggio, almeno sin dal 2.8.2019…”. La stessa tesi del “flag state” è stata ritenuta impraticabile nel febbraio del 2020 anche dalla Corte di Cassazione, Come riconosce anche l‘ammiraglio Caffio della Marina militare, “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”.
Secondo la difesa dell’imputato Salvini, invece, non vi sarebbe stata la “competenza italiana” e la nave Open Arms avrebbe dovuto dirigere, con i naufraghi a bordo, verso il paese di bandiera (flag state) la Spagna. La competenza italiana ad assegnare un porto di sbarco sicuro non può però essere esclusa dalla considerazione del tutto pretestuosa che, se l’Italia non avrebbe coordinato eventuali soccorsi, e quindi, se la nave soccorritrice non batte bandiera italiana, non avrebbe alcun obbligo di indicare un porto sicuro di sbarco. Appare singolare come si vorrebbe applicare tale principio prendendo ad esempio il procedimento di Catania sul caso Gregoretti ( con il non luogo a procedere nei confronti del senatore Salvini), nel quale il giudice dell’udienza preliminare (protratta per mesi) avrebbe considerato anche il caso Open Arms, ben diverso dal caso che doveva esaminare, trattandosi per la Gregoretti di nave militare che batteva bandiera italiana. Nave alla quale non si poteva certo vietare l’ingresso o lo sbarco in un porto italiano, anche alla luce della specifica previsione contenuta nell’art. 2 del decreto sicurezza bis n.53 del 2019, che esclude dal campo di applicazione proprio le navi militari.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo, già agli atti del processo nei confronti del senatore Salvini, emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”. Su questi atti dovrebbe concentrarsi l’attenzione dei giudici, piuttosto che sulla ennesima rassegna delle dichiarazioni dei politici che a distanza di anni possono solo cercare di inquadrare i loro comportamenti e le loro decisioni dentro gli equilibri elettorali del momento. Fatti documentati e fonti normative possono orientare meglio di valutazioni discrezionali personali che tengono conto soltanto del ruolo di governo o di opposizione esercitato nel tempo.
Se le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, infatti, un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, come afferma concordemente la Giurisprudenza dalla Corte di Cassazione fino ai giudici di Tribunale, non si vede come le autorità politiche possano violarle impunemente, al punto di ritenere possibile impartire un divieto di sbarco. considerando “non inoffensivo” il passaggio della nave soccorritrice attraverso le acque territoriali, oppure per ottenere a livello europeo “passi formali” da altri paesi che si impegnassero a ricevere una parte dei naufraghi. Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa al caso Sea Watch, poi confermata anche dalla Corte di Cassazione, riguardo l’art. 11 comma 1 ter del T.U. 286/98, si afferma che: ” il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
Si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionale di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare .”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.).
Se poi si vuole introdurre nel processo di Palermo quanto osservato dal giudice dell’Udienza preliminare di Catania sul caso Gregoretti, in merito ai soccorsi operati dalle ONG, ed in particolare dalla Open Arms, da cui, occorre ricordare, partì la denuncia che oggi ha portato Salvini sul banco degli imputati, si rischia di sollevare soltanto un gigantesco polverone mediatico. Che potrebbe risultare di sicuro effetto in prossimità di importanti scadenze elettorali, ma del tutto irrilevante in un diverso procedimento penale che è stato instaurato su fatti specifici dopo una richiesta del Tribunale dei Ministri, condivisa dal Parlamento, e dopo una richiesta di rinvio a giudizio condivisa dal Tribunale di Palermo.
Ancora più evidente la natura strumentale della richiesta della difesa di Salvini che vorrebbe introdurre nel processo di Palermo anche gli atti del voluminoso procedimento Iuventa che è aperto a Trapani dal 2017. Un procedimento che si è gonfiato a dismisura con una quantità impressionante di intercettazioni inserite negli atti processuali anche se irrilevanti, per le quali il Tribunale di Trapani sta adesso decidendo lo stralcio, con un conseguente ulteriore ritardo nella fissazione dell’udienza preliminare. Insomma, si vorrebbe aggiungere confusione, ed attaccare ancora le ONG, con la richiesta di inserimento di altro materiale probatorio sul quale non si è ancora pronunciato il giudice di Trapani, in un procedimento che il Tribunale dei ministri di Palermo aveva già istruito con una documentazione assai ampia, successivamente integrata dalla Procura di Palermo e condivisa dal giudice che ha disposto il rinvio a giudizio. Cerchiamo allora di andare ai fatti, ed alle normative che quei fatti avrebbero dovuto regolare, a partire dalla questione della competenza dello Stato italiano.
Se fosse vero poi che la mancata assunzione del coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio non comporterebbe alcuna competenza dello stato costiero che ne è richiesto nella indicazione di un porto di sbarco sicuro, anche in assenza di disponibilità riscontrata dal cd. Stato di bandiera della nave, si arriverebbe alla conclusione che persone soccorse in acque internazionali possano restare a tempo indeterminato in un limbo geografico e temporale sottratto a qualsiasi giurisdizione.Tesi del tutto priva di basi legali.
In contrasto con quella posizione che adesso viene ripresa dalla difesa del senatore Salvini nel processo Open Arms, nel caso Hirsi la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già affermato che “la natura particolare dell’ambiente marittimo non può giustificare un’area al di fuori della legge in cui gli individui non sono coperti da un ordinamento giuridico idoneo a consentire loro il godimento dei diritti e delle garanzie tutelati dalla Convenzione che gli Stati si sono impegnati a garantire a tutti coloro che rientrano nella loro giurisdizione”.
Quando un gruppo di naufraghi soccorsi in acque internazionali, dopo il mancato intervento degli altri Stati informati del soccorso, si avvicina alle acque territoriali, o si trova già al suo interno, e chiede un porto sicuro di sbarco, lo Stato richiesto si trova ad esercitare comunque una giurisdizione, non può ignorare o respingere tale richiesta, ferma restando l’adozione di tutti i provvedimenti, anche di respingimento individuale o di espulsione, che le autorità amministrative riterranno opportuno adottare. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare non permettono di considerare le persone soccorse in alto mare come se fossero sottratte a qualsiasi giurisdizione sulla base del mero rifiuto degli Stati ad assumere il coordinamento delle operazioni di soccorso, o nella indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS). Considerazione che assume un valore particolare se si pensa che la maggior parte delle persone che provengono dalla Libia sono potenziali richiedenti asilo, tanto che di recente la Corte di cassazione ha riconosciuto il diritto alla protezione speciale, analoga alla vecchia protezione umanitaria, ad un cittadino senegalese, non per il rischio di persecuzioni o di danno grave nel proprio paese, ma in virtù degli abusi sistemici che aveva subito durante il suo transito in Libia.
Appare del resto davvero fuorviante assegnare una qualsiasi valenza al cd. “preaccordo di Malta” del settembre 2019, che avrebbe autorizzato una fase di trattenimento a bordo della nave in attesa delle decisioni dei partners europei, “resuscitato” dalla difesa del senatore Salvini nel processo di Palermo anche se successivo ai fatti di causa. Un Patto tra quattro Stati UE, stipulato a livello di ministri dell’interno, non riconosciuto vincolante neppure dall’Unione Europea, che peraltro su questi temi è rimasta condannata ad uno stallo permanente per effetto delle divisioni interne. Come è del resto confermato dal fallimento dal Patto europeo sull’asilo e l’immigrazione del 23 settembre 2020, rimasto lettera morta, con la coeva Comunicazione della Commissione 2020/1365 “sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso”,
3. Sono invece numerose e concordanti le previsioni delle Convenzioni internazionali che, anche alla luce della giurisprudenza che si è formata con la archiviazione dei procedimenti contro le ONG, dettano le regole e indicano le responsabilità nelle operazione di ricerca e salvataggio in mare. Secondo le Convenzioni internazionali, per come richiamate nelle linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO),agenzia delle Nazioni unite, è riconosciute già nel Piano SAR nazionale del 1996, ed adesso anche nel nuovo Piano SAR nazionale del 2020, si prevede che il primo Comando centrale di Guardia costiera (MRCC) che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Questo stabiliscono le Convenzioni internazionali richiamate dalla giurisprudenza italiana nei diversi provvedimenti di archiviazione dei procedimenti penali contro le ONG avviati a partire dal 2017 per le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali prestati dalle navi civili inviate nel Mediterraneo centrale. Come rileva la Procura di Agrigento, sulla base del Diritto internazionale applicabile in questi casi, “La nave dei soccorsi non deve essere considerato un POS, anche se ha le attrezzature adeguate a prendersi cura dei sopravvissuti deve essere sollevata da questa responsabilità prima possibile (MSC 6.13); Le circostanze per la indicazione del POS includono diversi fattori, quali la situazione a bordo della nave dei soccorsi, le condizioni della scena, le esigenze mediche, la disponibilità di trasporlo. Ogni caso è unico; (MSC 6. 15).
Nelle difese del senatore Salvini sul caso Open Arms ritorna anche l’argomentazione che è ‘ stata addotta, con l’avvento del governo Conte 2, e con la ministro Lamorgese al Viminale, secondo cui l’attività di soccorso svolta “in modo sistematico” dalle Ong sarebbe stata consentita solo in possesso di una pretesa certificazione della nave come “nave di soccorso” . Tesi che ha portato a mesi di fermo delle navi umanitarie bloccate in porto dopo visite ispettive effettuate da squadre specializzate del Corpo delle Capitanerie di porto. Per svolgere una attività di soccorso in alto mare e per avere diritto a sbarcare i naufraghi nel porto sicuro più vicino non occorre però che le navi che effettuano i soccorsi abbiano particolari certificazioni. Nessuna convenzione internazionale o fonte kegislativa interna lo prescive. Lo esclude adesso anche la Procura di Agrigento nella richiesta di archiviazione sul caso Mare Jonio. Un caso che dovrebbe pesare non poco sulla prossima decisione in materia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Secondo la richiesta di archiviazione della Procura di Agrigento, “la Mare Jonio non era tenuta a dotarsi di alcuna certificazione SAR poiché non esiste nell’ordinamento italiano alcuna preventiva certificazione diretta alle imbarcazioni civili per lo svolgimento di tale attività”. Una considerazione a cui la Procura aggiunge che non è ammissibile l’idea di stabilire “un numero massimo di naufraghi imbarcabili” durante un’operazione di soccorso. Eppure, malgrado queste considerazioni basate sulle Convenzioni internazionali e sul diritto interno la difesa del senatore Salvini nel caso Open Arms non trova altre argomentazioni se non quelle che rilanciano contro le ONG accuse già definitivamente archiviate. Sono quelle stesse argomentazioni che hanno portato nel corso degli anni allo svuotamento sostanziale degli obblighi di soccorso e del diritto di accesso al territorio per chiedere protezione, E le conseguenze di queste politiche continuano ancora oggi ad influenzare le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, che le autorità italiane continuano a ridurre al minimo, soltanto per non subire l’accusa di omissione di soccorso. In questo modo le poche navi delle ONG ancora operative dopo quarantene per ragioni sanitarie, e fermi amministrativi di durata imprecisata, rimangono isolate e costrette ad operare senza il supporto delle autorità marittime degli Stati costieri che potrebbero offrire porti di sbarco sicuri. L’assenza dei mezzi militari e della Guardia costiera, che fino al 2018 operavano al limite delle acque territoriali libiche lascia campo libero alle motovedette delle varie guardie costiere delle città della Tripolitania ( Zuwara, Zawia, Sabratha, Tripoli) e migliaia di potenziali richiedenti asilo che potrebbero essere soccorsi in acque internazionali e sbarcati in un porto sicuro in Italia, vengono intercettati in mare e rigettati negli stessi campi di detenzione dai quali erano riusciti a fuggire, pagando un prezzo sempre più alto. Una situazione che negli anni si è ancora aggravata. Ancora pochi mesi fa l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha espresso “grave preoccupazione per la sorte di centinaia di migranti che quest’anno la Guardia Costiera libica ha riportato a terra e dei quali non si hanno più notizie”.
4. Il divieto di ingresso nelle acque territoriali e nei porti italiani non può essere giustificato da esigenze di negoziazione a livello europeo per ottenere la successiva redistribuzione delle persone soccorse in mare, che però può verificarsi solo dopo la presentazione di una domanda di protezione e non solo in base alla mera qualifica di “naufraghi”, tantomeno se le stesse persone vengono qualificate come “clandestini”. Almeno da questo punto di vista sembra che il governo in carica abbia preso le distanze dalle prassi arbitrarie adottate dal governo giallo-verde fino al mese di agosto del 2019. Ma il problema rimane aperto ancora oggi, e dalle aule giudiziarie ritorna ad inquinare il dibattito pubblico per la carica di falsificazione che lo caratterizza. Di certo non tocca all’Unione Europea od ai singoli Stati stabilire regole di sbarco dei naufraghi soccorsi in acque internazionali, modificando a portata delle Convenzioni internazionali e dei loro emendamenti ed annessi. I valori primari sono costituiti dal diritto alla vita e dal divieto di trattamenti inumani o degradanti, da saldare agli obblighi di soccorso a carico degli Stati. Questo dicono le Convenzioni internazionali, e questo conferma la giurisprudenza italiana che ne ha fatto applicazione, tenendo anche conto delle regole di soccorso in acque internazionali suggerite dell’Oim e dall’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.
Vero che la redistribuzione dei migranti in Europa è una procedura, prevista peraltro dal Regolamento Dublino III che riguarda soltanto i richiedenti asilo, ma il trattenimento nel corso della trattativa con le autorità di Bruxelles, o degli stati partners, non può tradursi in una limitazione della libertà personale sostanzialmente riconducibile ad un sequestro di persona. Qualsiasi prassi o decisione che incide sulla libertà personale deve essere conforme al principio di legalità. Come e’ imposto dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Non si può in altri termini giustificare una privazione della libertà a tempo indeterminato, all’esclusiva finalità di ottenere da altri Stati europei l’impegno a prestare accoglienza ad una parte più o meno consistente dei naufraghi soccorsi in acque internazionali. Nessuna legge italiana e nessuna Direttiva o nessun Regolamento europeo prevedono che nelle more delle trattative tra i singoli paesi, peraltro ancora non codificate, si possano trattenere a bordo della nave soccorritrice, con un divieto di sbarco impartito dal ministro dell’interno persone, anche donne, minori e soggetti vulnerabili, senza indicare loro un porto sicuro (POS) e permettere lo sbarco a terra.
Come si è osservato criticamente a margine del caso Gregoretti, se davvero si vuole richiamare anche questo caso nel processo di Palermo, “se poi il vero obiettivo del divieto fosse stato, come appare più che verosimile, non tanto la difesa dei sacri confini della patria, ma una forma malcelata di pressione nei confronti dell’UE perché disponesse la immediata redistribuzione dei migranti, come condizione preliminare per l’autorizzazione allo sbarco, si ricadrebbe nella ben più grave ipotesi di reato prevista dall’art. 289-ter del codice penale, secondo il quale: “Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. Si applicano i commi secondo, terzo, quarto e quinto dell’articolo 289-bis. Se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’articolo 605 aumentate dalla metà a due terzi.”
Il trattenimento dei migranti, come qualunque limitazione della libertà personale, deve essere in ogni caso conforme alla legge, come prescrivono l’art.13 Cost., l’art. 5 CEDU, e la Direttiva rimpatri 2008/115/CE. Ne vale sostenere che il comandante della nave poteva dirigere verso altri porti stranieri, una volta che si è stabilito, come si è potuto verificare in precedenza, che lo stato costiero richiesto dello sbarco in un porto sicuro dopo un salvataggio in acque internazionali non può declinare la propria competenza o trasferirla sullo Stato di bandiera della nave. Perché da quando la nave soccorritrice si trova dentro le acque territoriali, ma già prima quando fa una richiesta di assegnazione di un porto di sbarco sicuro, in base alle Convenzioni internazionali, questa si trova sotto la giurisdizione dello Stato richiesto, e con essa le persone che sono a bordo, e dunque, in caso di rifiuto illegittimo di sbarco, appare configurabile una privazione illegittima della libertà personale. Non si può infine dimenticare che la maggior parte dei naufraghi presenti a bordo della Open Arms aveva manifestato l’intenzione di chiedere asilo in Italia In base al “Considerando 26” della Direttiva 2013/32/UE, qualora i richiedenti asilo si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano trasferiti sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della stessa direttiva[. Per effetto del Regolamento UE Dublino III n.604/2013, attualmente in vigore, non si poteva distinguere tra i migranti soccorsi ancora a bordo della Open Arms tra migranti economici e richiedenti asilo. Questa distinzione può essere fatta solo dopo lo sbarco a terra. In base all’art. 3 del Regolamento n.604/2013/UE, gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Quanto previsto da direttive e regolamenti europei lo ribadisce anche l’art.10 ter del Testo Unico 286/1998 in materia di immigrazione, in base al quale “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi.” (cd. approccio Hotspot).
5. Al di là del clamore mediatico che sembra destinato a suscitare quando si avvicineranno le prossime scadenze elettorali, il processo di Palermo sul caso Salvini/Open Arms vede in gioco rilevanti valori costituzionali ed in qualche modo costituisce una spia della situazione attuale dello Stato di diritto in Italia. Il giudizio della magistratura su provvedimenti lesivi della libertà personale e degli obblighi di soccorso e sbarco imposti agli Stati non si puo arrestare davanti alla asserita natura politica del fine perseguito di difesa dei confini, o di fronte alla pretesa natura collegiale dell’atto politico. Si può quindi concludere con quanto rilevato da Tribunale dei ministri nella richiesta di procedimento a carico del capo della Lega: le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.
Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi, come i divieti di ingresso e sbarco, coperti dalla natura “politica” dell’atto, che intaccano i diritti fondamentali della persona, magari sulla base del mero sospetto che le Organizzazioni non governative siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attività dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety. Adesso è la Corte di Cassazione che, andando di contrario avviso da quanto ritenuto da Salvini quando occupava la poltrona di ministro dell’interno, ritiene i soccorsi in mare operati dalle ONG come adempimento di un dovere di soccorso imposto dalle Convenzioni internazionali. Una valutazione della quale non potranno non tenere contro anche i giudici nel processo di Palermo. Se esiste ancora il principio di uguaglianza davanti alla legge. Non si comprende come sia possibile che norme interne, Regolamenti europei e regole sui salvataggi in mare che scolpiscono come adempimento di un dovere la ricerca e il soccorso in acque internazionali valgano soltanto nei procedimenti penali avviati contro comandanti di navi umanitarie e rappresentanti delle ONG, e vengano poi ignorate quando sul banco degli imputati siede un ex ministro che ha imposto con i suoi divieti di ingresso e di sbarco una violazione sistematica di quella stessa normativa sopranazionale ed interna.