di Fulvio Vassallo Paleologo
Come riferisce Nello Scavo dopo una documentata inchiesta condotta sulle pagine de l’Avvenire, il Tribunale di Napoli ha condannato ad un anno di reclusione il comandante del rimorchiatore ASSO 28 , di servizio nel luglio del 2018 alla piattaforma petrolifera offshore Sabratha in acque internazionali, per avere riconsegnato ad una motovedetta libica al largo del porto di Tripoli oltre cento persone soccorse nei pressi della piattaforma, dunque al di fuori delle acque territoriali libiche. Si tratta di una sentenza di cui non si conoscono ancora le motivazioni, anche se è chiaro il principio di diritto che la caratterizza, i respingimenti collettivi in Libia sono illegali perché la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco. Rimane prevedibile anche un ricorso alla Corte di Appello che ne potrebbe modificare la portata.
Alcune considerazioni sono tuttavia doverose, sia perché sono ormai frequenti i casi di riconsegna di persone, inclusi donne e minori, alla sedicente Guardia costiera “libica”, sia per le condizioni sempre più terribili alle quali sono sottoposti i naufraghi intercettati in mare e riportati a terra dalle motovedette cedute e finanziate dai diversi governi italiani, con il sostegno ed il supporto operativo dell’Unione Europea e dell’agenzia Frontex. Costituisce un fatto certo, ma sul quale occorre accertare le diverse responsabilita’, quanto denunciato ancora di recente dall’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni, che la maggior parte dei migranti intercettati in mare e riportati in Libia non viene neppure trasferita nei centri di detenzione governativi, da sempre sovraffollati, ma finisce sequestrata nei cd. centri informali, in mano alle milizie, o viene costretta a lavorare sotto padroni libici in condizioni para-schiavistiche. Succedeva nel 2018 e succede ancora oggi.
Sorprende innanzitutto l’esiguità della pena, rispetto alla gravità dei fatti contestati, ma sorprende anche che a pagare sia soltanto il comandante del rimorchiatore ASSO 28, che non poteva non agire agli ordini dell’armatore e di qualche Centrale di coordinamento dei soccorsi in mare (MRCC), dal momento che, in base alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, il primo obbligo di un comandante che avvista una imbarcazione in difficoltà è quello di avvertire gli uffici marittimi competenti a coordinare le attività di soccorso ed a indicare il porto sicuro di sbarco. Nel luglio del 2018 era appena stata dichiarata dal governo di Tripoli una zona SAR ( Search and rescue) “libica”, ma non è stato mai chiarito, chi coordinasse a quel tempo le attività di salvataggio, dal momento che non esisteva una unica Centrale di coordinamento (MRCC) “libica”. Lo confermano i rapporti internazionali ONU e persino le relazioni dell’agenzia europea FRONTEX che nel 2018 escludevano che la Libia potesse garantire porti sicuri di sbarco.
Secondo quanto riportato in una registrazione audio pubblicata dalla stessa fonte giornalistica, dopo la denuncia dell’accaduto da parte dei rappresentanti della ONG Open Arms, il comandante del rimorchiatore ASSO 28, che batteva bandiera italiana, avrebbe deciso di fare rotta su Tripoli, con i naufraghi a bordo, su “indicazioni dalla piattaforma Sabratha”, dunque per effetto di un ordine provenuto da altri che a bordo della piattaforma avevano deciso autonomamente o su indicazioni di autorità non meglio identificate che i naufraghi fossero riportati a Tripoli. Sembra anche che, a bordo del rimorchiatore ASSO 28, battente bandiera italiana, sarebbe stato presente un esponente della sedicente Guardia costiera libica. Con quale ruolo, dal momento che si trattava di una nave che batteva bandiera italiana ?
Quali erano le autorità che avevano impartito l’ordine di respingimento dalla piattaforma Sabratha e con quali centrali di coordinamento (MRCC) erano in contatto ? Di certo la riconsegna dei naufraghi si verificò poco al di fuori del porto di Tripoli, con il trasbordo su una motovedetta libica, lontano da occhi indiscreti. Evidentemente nessuno doveva vedere o riferire quanto stava accadendo. Si deve infatti ricordare che nella stessa giornata del 30 luglio 2018 mentre il rimorchiatore ASSO 28 riconsegnava i naufraghi alla motovedetta libica appena fuori dal porto di Tripoli, venivano arrestati.quattro giornalisti della Reuters e dell’Associated Press che volevano documentare la riconsegna alle milizie libiche, proprio nel porto militare di Tripoli, ad Abu Sittah, dove fanno base anche le navi della missione militare italiana NAURAS,
A proposito delle responsabilità di coordinamento che rimangono sullo sfondo della sentenza del Tribunale di Napoli occorre anche ricordare quanto osservato nel caso Open Arms a marzo del 2018, dunque con riferimento ad un periodo anteriore a quello del caso ASSO 28, in un Decreto di convalida di sequestro emesso in quello stesso periodo dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania. Questo giudice osservava come di fatto la Guardia costiera libica fosse allora coordinata dalle autorità militari italiane, presenti nello stesso porto militare di Abu Sittah a Tripoli con la missione Nauras, facente parte della operazione Mare Sicuro della Marina militare italiana. Un coordinamento che è proseguito anche dopo la istituzione di una finta zona SAR “libica” nel mese di giugno del 2018, come è stato confermato fino allo scorso anno anche da autorevoli esponenti di governo italiani, coordinamento che, secondo quanto dichiarato dal ministro della difesa Guerini, sarebbe venuto meno soltanto nel mese di luglio del 2020. Da quando, dopo la stipula di un accordo tra la Turchia di Erdogan e il governo provvisorio di Tripoli le autorità turche hanno preso il controllo della maggior parte delle coste della Tripolitania, istituendo una base navale turca ad Al Khums (Khoms) e gestendo direttamente i rapporti con le milizie che controllavano in precedenza le diverse guardie costiere libiche, di fatto una per ogni città.
Il trasferimento dei naufraghi verso il porto di Tripoli, operato a luglio del 2018 dal rimorchiatore ASSO 28, fino al trasbordo al largo della base militare di Abu Sittah, luogo di attracco stabile della nave Caprera della missione italiana Nauras , indipendentemente dalle autorità che lo abbiano ordinato, costituisce un respingimento collettivo analogo a quello effettuato il 6 maggio 2009 dalla Guardia di finanza su ordine di Maroni. Che poi e’ costato all’Italia una denuncia e quindi nel 2012 una condanna definitiva dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ( caso Hirsi). Il rimorchiatore ASSO 28 batteva bandiera italiana e restava dunque sotto la giurisdizione delle autorità italiane, seppure in acque internazionali, come erano sotto giurisdizione italiana le persone presenti sulla nave. Non può essere soltanto il comandante del rimorchiatore che, in piena autonomia o su ordine di una autorità (libica?) non meglio identificata, presente a bordo della piattaforma Sabratha, o a bordo dello stesso rimorchiatore, avrebbe deciso la riconsegna ai libici, ad avere la esclusiva responsabilità del respingimento illegale. Come sembra evincersi anche dal caso, solo apparentemente simile, del “dirottamento” della Vos Thalassa, altro rimorchiatore alle piattaforme offshore, pure battete bandiera italiana, sul quale dopo contrastanti pronunce del tribunale di Trapani e della Corte di Appello di Palermo, si attende la pronuncia della Corte di Cassazione. In quest’ultimo caso, pure avvenuto nel luglio del 2018, dopo la proclamazione di una zona SAR “libica”, i giudici della Corte di appello di Palermo, ribaltando la sentenza del tribunale di Trapani che dichiarava nulli gli accordi con i libici, riconosceva che il comandante del rimorchiatore avrebbe comunque operato sulla base di un “ordine impartito da uno stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi”. Malgrado il contrastante punto di vista dei giudici di merito, restava fermo il riconoscimento che il comandante della Vos Thalassa aveva operato il soccorso sotto coordinamento di una autorità statale.Un accertamento di fatto che non potrà essere ribaltato neppure dalla Corte di Cassazione, che non potrà però trascurare il ruolo di coordinamento delle autorità militari italiane presenti a Tripoli, anche dopo la comunicazione di una zona SAR “libica”.
Nel diverso caso del rimorchiatore ASSO 28 non è dunque ipotizzabile che il comandante abbia deciso di riportare nelle acque territoriali libiche i naufraghi che aveva soccorso, per sua scelta esclusiva o sulla base di un ordine informale proveniente dal personale presente a bordo della piattaforma petrolifera offshore di Sabratha (Mellitah). Occorre indagare su chi abbia dato l’ordine di riconsegnare ai libici le persone soccorse in acque internazionali e a bordo di una nave battente bandiera italiana.
Appare evidente come risulti ancora necessario un supplemento di indagine, per verificare da chi partì effettivamente nel luglio del 2018 l’ordine di respingere indietro collettivamente le persone soccorse in mare dal rimorchiatore ASSO 28, e soprattutto per fare chiarezza su quanto accade ancora oggi in casi simili, dopo che i turchi hanno preso il controllo di una parte delle città portuali della Tripolitania. Chi controlla davvero le diverse guardie costiere libiche ? Cosa si nasconde davvero dietro la sigla dei GACS (General Administration for Coastal Security) ? Che tipo di coordinamento operativo garantiscono a queste forze l’Unione Europea e il governo italiano ? Sono peraltro noti a tutti i collegamenti tra la stessa sedicente “guardia costiera libica” e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalla Libia, e dalla Tripolitania, in particolare. Si tratta di rapporti che ormai appaiono istituzionalizzati, come emerge dalla nomina del noto trafficante Al Milad Bija a comandante dell’Accademia navale libica. Fino a quando gli Stati europei continueranno a collaborare con autorità marittime e militari che non garantiscono il rispetto dei diritti umani ?
Questa sentenza di condanna, scaturita dalla denuncia di una ONG, spiega bene perché si sia voluto allontanare le navi delle Organizzazioni non governative dalle acque internazionali del Mediterraneo centrale, prima con le attività dei servizi segreti e la disinformazione di massa attraverso i social, quindi con le denunce penali, e infine con i provvedimenti di fermo amministrativo. Il vuoto che si è creato allontanando le ONG e ritirando dalle acque internazionali i mezzi di pattugliamento ( e soccorso) europei e italiani prima presenti, ha comportato l’affidamento delle operazioni di Search and Rescue alle navi commerciali ed ai rimorchiatori di servizio delle piattaforme, che sono più inclini ad obbedire agli obblighi di riconsegna ai libici, oppure a non vedere affatto i naufraghi che chiedono di essere salvati.
Con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ormai sembra che la popolazione italiana ed europea si sia abituata a tutto, anche quando è impossibile non vedere e non sapere quello che accade quando i migranti sono abbandonati in mare, o vengono intercettati dalla Guardia costiera libica e sono riportati a terra. Sempre che ci siano sopravvissuti. Ma di tutte queste persone, oggi, sembra proprio non interessare nulla a nessuno, salvo che non siano utili per alimentare una qualche campagna elettorale basata sull’odio e sulla disinformazione. Anche i processi, per questa ragione possono risultare scomodi, e dunque non se ne parla affatto, almeno fino a quando non diventano occasione di legittimazione delle politiche di esclusione e di abbandono in mare. Per questo occorre continuare a raccontare ed a denunciare.
Occorre accertare tutte le responsabilità derivanti dalla riconsegna illegale dei naufraghi soccorsi dal rimorchiatore ASSO 28 nel luglio del 2018, poche settimane dopo la proclamazione unilaterale da parte del governo di Tripoli di una finta zona SAR libica, frutto del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2 febbraio 2017, ed oggi questo appare tanto più necessario per affermare la giurisdizione in un tratto di mare nel quale si continuano a verificare gravissime tragedie e che sembra sottratto a qualsiasi controllo di legalità. Come se i Memorandum d’intesa tra Stati stipulati all’esclusivo scopo di sbarrare le vie di fuga alle persone di diversa provenienza, intrappolate in Libia ed oggetto di abusi ed estorsioni diffuse, potessero prevalere sulle Convenzioni internazionali, che impongono lo sbarco in un porto sicuro, sul diritto di asilo, sul divieto di tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, e persino sul diritto alla vita.