Processi alla solidarietà e principio di separazione dei poteri

di Fulvio Vassallo Paleologo

La condanna contro Mimmo Lucano e contro gli altri imputati, ritenuti responsabili addirittura di “associazione per delinquere” per avere realizzato a Riace un sistema di accoglienza diffusa basato sulla solidarietà e sull’inclusione, al di là della portata della pena e per il carattere afflittivo che ha assunto il procedimento penale già prima dell’applicazione della condanna, induce a riflettere su altre vicende processuali nelle quali, per contrastare sulla base di determinazioni amministrative attività solidali, si è verificato la rottura del principio di separazione dei poteri, fondamento dello Stato democratico. Abbiamo assistito infatti ad uno scontro politico-istituzionale, a partire dai rapporti tra Prefettura, Sistema centrale asilo e Comune di Riace, che ha assunto rilievo penale dopo una serie di attività di indagine avviate a livello amministrativo. La configurazione dei reati, il loro stesso assortimento rispetto alla commisurazione della pena, ancora non definitiva, risentono fortemente di decisioni discrezionali della pubblica amministrazione, a livello di prefettura e di ministero dell’interno, che già prima dell’intervento della magistratura penale avevano “condannato” il sistema Riace perché ritenuto non conforme ai modelli di accoglienza che venivano proposti con i capitolati di appalto “tipo” e con la concessione di servizi quasi in regime di oligopolio agli operatori , spesso grandi raggruppamenti di associazioni, impegnati nel settore. Occorre riflettere anche sulla sequenza cronologica dei fatti, e su come tutto abbia avuto inizio tra la fine del 2016 ed i primi mesi del 2017, quando al governo c’era il centro-sinistra. con Minniti ministro dell’interno, esattamente lo stesso periodo nel quale partiva una offensiva mortale nei confronti delle Organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Nel caso di Riace si riscontra lo stesso connubio tra poteri amministrativi ed avvio dell’azione penale che si è verificato nel caso del sequestro della nave Iuventa a Lampedusa il 2 agosto del 2017, esattamente pochi giorni dopo l’adozione unilaterale da parte del ministero dell’interno del cd. Codice di condotta Minniti, che tendeva ad evitare che le navi delle ONG potessero soccorrere naufraghi in acque internazionali prima dell’arrivo delle motovedette libiche, allora coordinate da centrali operative italiane. Confusione tra poteri amministrativi e sanzioni penali che poi è stata alla base dei decreti sicurezza adottati dal primo governo Conte nel 2018 e nel 2019, con Salvini al Viminale, quando sulla base dei divieti di ingresso impartiti dal ministro dell’interno si vietava l’ingresso nei porti italiani alle navi civili che avevano effettuato soccorsi al di fuori delle acque territoriali italiane. Fino al punto di ritenere operativo, in contrasto con la legge, quel tipo di divieti anche nei confronti delle navi militari, come nei casi Diciotti e Gregoretti. Non sfugge a nessuno come l’avvio di questa fase risalga ai primi mesi del 2017, e come dopo la caduta del governo di centro-sinistra le destre abbiano utilizzato l’assortimento delle critiche al sistema di accoglienza con gli attacchi ai soccorsi umanitari, quasi a incrociare le responsabilità, per accrescerne la rilevanza penale e la conseguente ricaduta mediatica. Da una parte per criminalizzare l’operato delle ONG, dall’altra per sfumare le responsabilità del ministro dell’interno. Ancora in questi giorni lo snodo tra attività politica, responsabilità amministrative-ministeriali e soccorsi in mare rimane al centro del processo Open Arms che si apre con l’audizione dei primi testi, a Palermo, il prossimo 23 ottobre. Un processo nel quale, al di là delle responsabilità dell’imputato,e del clamore mediatico che si vuole innescare, sarà da verificare quanto regge ancora il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La commistione tra determinazioni amministrative “a fini politici”, la “difesa dei confini” dello Stato, con l’applicazione di norme penali, ha assunto dunque rilievo anche quando davanti ai giudici, sul banco degli imputati, potevano finirci i decisori politici. Ed ha quindi permesso di escludere la responsabilità penale prima ancora di accertare nel procedimento, chiuso con un “non luogo a procedere”, la ricorrenza degli elementi costitutivi delle fattispecie di reato contestate al ministro. Mentre nei confronti delle ONG, come nel caso Iuventa a Trapani, o nel caso Open Arms a Ragusa, sono rimasti aperti all’infinito procedimenti penali nei quali gli elementi probatori risultavano da atti di impulso amministrativo o da intercettazioni telefoniche dalle quali emerge soltanto, in materia di soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, il contrasto tra le attività di coordinamento, se non casi di mancato coordinamento, da parte delle autorità militari italiane, frutto di scelte dell’esecutivo, ed il disposto delle Convenzioni internazionali che stabiliscono obblighi di salvataggio e sbarco. Convenzioni che, unitamente alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, avrebbero dovuto avere un ruolo sovraordinato rispetto alle determinazioni politiche ed amministrative per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione italiana. Come ha confermato anche la Corte di cassazione nel caso Rackete/Sea watch.

Se poi si vanno a richiamare altri processi che hanno avuto ad oggetto casi di accoglienza dei migranti sul territorio nazionale, come nel caso del processo “Mafia Capitale”, vediamo come si sia verificato nel tempo un sostanziale ridimensionamento delle responsabilità dei soggetti gestori, che hanno potuto superare la vicenda processuale, malgrado la gravità delle condanne, senza vedere scalfite le loro posizioni economiche e politiche, anzi riproponendosi come operatori economici vincenti a livello di opinione pubblica. Eppure gli atti processuali e la documentazione raccolta dalla Commissione d’inchiesta della Camera sui centri per stranieri, attiva nel 2016 e nel 2017, dimostrano la gravità di abusi ed il loro carattere di sistema politico-clientelare, se non mafioso, che anche nei casi più eclatanti, come nel caso del CARA di Mineo, sono stati puniti con pene insignificanti che non hanno certamente avuto quella ricaduta mediatica e quegli effetti devastanti sugli imputati che si stanno adesso verificando nel caso delle condanne impartite dal Tribunale di Locri. Proprio in questi procedimenti sono emersi intenti fraudolenti e finalità di carattere politico elettorale che non si possono certo rinvenire nel comportamento di Mimmo Lucano.

Secondo la sentenza della Corte di cassazione del 26 febbraio 2019, che annullava il divieto di soggiorno a Riace, non ricorrevano indizi di «comportamenti» fraudolenti che Domenico Lucano, avrebbe «materialmente posto in essere» per assegnare alcuni servizi, come quello della raccolta di rifiuti, a due cooperative dato che le delibere e gli atti di affidamento sono stati adottati con «collegialità» e con i «prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato». I giudici del Tribunale di Locri non hanno evidentemente tenuto contro di quanto osservato dalla Cassazione, vedremo nelle motivazioni le loro argomentazioni, ma l’entità della pena, ben oltre le richieste della pubblica accusa, dimostra già la finalità perseguita.

Appare dunque evidente come al di là della solidarietà quotidiana che si deve assicurare a chi è stato condannato con pene gravissime sulla base di una vera e propria “presunzione di colpevolezza”, anticipata e configurata già nelle attività ispettive delle autorità amministrative, anche se nel caso di Mimmo Lucano messa in dubbio persino dalla Corte di cassazione, per atti che avrebbero semmai avuto rilievo a livello di responsabilità amministrativa e contabile, occorra affrontare la questione della separazione tra le valutazioni delle autorità amministrative e il giudizio penale e quindi il nodo della riforma delle regole operative del sistema di prima e seconda accoglienza in Italia. Un sistema che è uscito devastato nel 2018 dal primo decreto sicurezza Salvini, che ha abolito la protezione umanitaria ed ha stravolto la funzione dei centri di accoglienza. Una funzione mista di accoglienza/detenzione neppure rivalutata dal decreto immigrazione e sicurezza n.130 del dicembre 2020, e ulteriormente degradata con i provvedimenti adottati nel corso della pandemia, come il decreto interministeriale del 7 aprile 2020 ed il successivo decreto del Capo della Protezione civile del 12 aprile dello stesso anno, che istituiva il periodo di sorveglianza sanitaria a bordo delle navi quarantena. Altri appalti milionari affidati alla mera discrezionalità amministrativa sui quali nessuno sembra esercitare quelle funzioni di controllo che sono state adottate con tanto rigore nel caso di Riace. Perché quando il giudice penale si muove a seguito di determinazioni amministrative le indagini non partono se, in assenza di altre denunce, non provengono dagli stessi enti che dovrebbero poi essere oggetto del controllo di legalità.

Per questa ragione occorre rilanciare quelle iniziative indipendenti della società civile, come la Campagna LasciateCientrare che oggi incontrano difficoltà sempre maggiori per proseguire quell’attività di monitoraggio e visita dei centri per stranieri, inclusi i CPR ( centri per i rimpatri), che pure negli anni passati era stata possibile, con la denuncia di decine di casi di mala-gestione. Occorre rivedere poi le regole di funzionamento del Sistema nazionale di asilo, aumentando i controlli indipendenti, dando certezza alle regole di gestione senza margini per apprezzamenti discrezionali “mirati” a seconda dei rapporti tra il Ministero e gli enti gestori. Occorrono regole che non diano, come avviene oggi, un indebito vantaggio preferenziale agli operatori più grossi, nella negoziazione con il Sistema centrale ed anche nei pagamenti dovuti dal ministero dell’interno. Occorre garantire certezza, perché ogni ritardo va inequivocabilmente a vantaggio dei gruppi di associazioni più grandi che possono reggere sulla base di risorse economiche di cassa già accumulate nel tempo e di ampio spazio operativo concesso dagli enti creditizi, circostanze tutte che non si verificano nel caso degli operatori più piccoli, come è stato dimostrato proprio dal caso Riace.

La cattiva gestione del sistema di accoglienza produce vittime, come nel caso di Becky Moses a San Ferdinando (Rosarno) nel 2018, che si arriva persino a contestare a Mimmo Lucano, quando era un caso di morte “per diniego di permesso di soggiorno”, e come si verifica ancora oggi nei campi dove sono costretti ad alloggiare tanti lavoratori migranti in Italia, a cui pure si nega uno status legale, ed i risultati dell’ultima regolarizzazione parlano chiaro, come da ultimo nel caso del rogo di Castelvetrano. con un altra vittima innocente. Le inefficienze di un sistema burocratico e disumano non possono essere attribuite dalle autorità amministrative alle vittime, o a chi continua a prestare loro solidarietà. Se il sistema non consente la regolarizzazione e produce clandestinità le conseguenze non possono ricadere su chi si impegna per prestare solidarietà. Quando le relazioni degli ispettori ministeriali diventano carte processuali occorre accertare fatti senza limitarsi alle contestazioni amministrative ma andando ad indagare su fatti. Su tutti i fatti e su tutte le circostanze emerse nel processo, ben oltre un uso strumentale delle intercettazioni telefoniche. Come hanno sottolineato gli avvocati della difesa di Mimmo Lucano, “È difficile comprendere come il Tribunale di Locri non abbia preso nella giusta considerazione quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa”.

L’esercizio dell’azione penale deve rimanere indipendente e non può rivelarsi condizionato, se non preordinato ed indirizzato, dalle autorità amministrative, e quindi dai vertici dell’esecutivo e dal livello politico, e da come queste hanno qualificato i fatti, a seconda delle contingenze dei tempi. Per questa ragione i processi alla solidarietà sono processi nei quali non sono in discussione soltanto responsabilità penali individuali ma investono i cardini costituzionali dello Stato democratico, dal principio del giusto processo e dei diritti di difesa, al principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura. E’ in gioco in definitiva il principio di uguaglianza davanti alla legge, non solo l’esito di un processo penale. Dunque una questione che ci riguarda tutti e che richiama ad un impegno in prima persona, non solo per solidarietà agli imputati dei “crimini di solidarietà”, ma per salvaguardare le basi costituzionali dello Stato democratico.