di Fulvio Vassallo Paleologo
I. Introduzione.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cd. “clandestini”, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali,,associazioni di volontariato,e singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. E’ finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle Organizzazioni non governative che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari, salvo il caso isolato di rinvio a giudizio a Catania, per smaltimento illecito di rifiuti. In generale si è utilizzata l’ampia portata della previsione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’immigrazione, quando non si è fatto ricorso ad altri tipi di reato, come la violenza privata o la resistenza a pubblico ufficiale, per tentare di qualificare come condotte penalmente rilevanti atti che costituivano adempimento dei doveri di soccorso ed assistenza.
Da quello stesso anno, per contrastare quella che viene definita soltanto come “immigrazione illegale” e per dimostrare un effettivo controllo dei “flussi migratori”, si sono ritirati tutti gli assetti navali militari italiani ed europei che in passato garantivano sorveglianza e soccorso, e si è perfezionata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, per delegare alle motovedette di Tripoli o di Zawia respingimenti collettivi che sarebbero altrimenti sanzionabili se fossero effettuati sotto il coordinamento operativo di stati, come l’Italia, sottoposti alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Sono peraltro noti a tutti i collegamenti tra la stessa sedicente guardia costiera libica e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalla Libia, e dalla Tripolitania, in particolare. Si tratta di rapporti che ormai appaiono istituzionalizzati, come emerge oggi dalla nomina del noto trafficante Al Milad Bija a comandante dell’Accademia navale libica.
Una importante sentenza del Tribunale di Trapani sul caso dei “dirottatori” sulla nave Vos Thalassa (luglio 2018) aveva messo bene in evidenza la illiceità degli accordi stipulati nel tempo dall’Italia con le diverse autorità di governo libiche, ma una successiva sentenza della Corte di Appello di Palermo ne ha stravolto la portata, pur senza entrare nel merito della efficacia di questi accordi. In base a quegli accordi nel 2018 le autorità di Tripoli dichiaravano la loro zona SAR ( di ricerca e salvataggio) che nel tempo si è trasformata da area di responsabilità ( di soccorso) come dovrebbe essere in base alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, in area di sovranità, come è dimostrato dai sequestri operati dai libici anche a danno dei pescherecci italiani, e dalle freque8n8t8i minacce, anche armate, rivolte alle ONG che continuano ancora con mezzi assai limitati, ad operare attività di ricerca e salvataggio in quell’area. Si tratta di una zona SAR che non dovrebbe essere riconosciuta, perché i libici non hanno ad oggi una unica centrale di coordinamento effettivo delle operazioni SAR e non dispongono neppure delle attrezzature e dei mezzi per garantire una effettiva salvaguardia della vita umana in mare, ma che viene riconosciuta per combattere la “guerra” contro quella che si definisce “immigrazione illegale”, anche se le Convenzioni internazionali e la legge italiane impediscono di considerare come clandestini i migranti o i naufraghi che i trovano in acque internazionali, prevedendo l’ingresso per ragioni di soccorso con una netta distinzione dall’ingresso irregolare ( art. 10 ter T.U. 286/98).
Nelle inchieste, avviate nel 2017 e rilanciate da alcune procure siciliane nei primi mesi del 2021, è risultato centrale il riconoscimento di una zona SAR libica, anche prima che questa fosse comunicata dai libici all’IMO, per ipotizzare un sostanziale accordo tra i trafficanti, gli scafisti e componenti degli equipaggi delle ONG. Ed ancora oggi, nel procedimento Iuventa a Trapani, si giunge a configurare persino il coinvolgimento delle società armatrici, con il rilancio della tesi delle cd. “consegne concordate” (tra gli scafisti e gli operatori umanitari), una tesi finora smentita da numerosi provvedimenti di archiviazione in altre indagini contro le stesse ONG. Del resto, che la sedicente guardia costiera libica fosse coinvolta con organizzazioni criminali e condizionasse le attività di soccorso delle ONG sotto la minaccia delle armi era già noto dal 2017, almeno in base ai rapporti delle Nazioni Unite. Ma in quel periodo, come emerge da quanto osservato a Catania sul caso Open Arms nel marzo del 2018, era proprio la Marina e la Guardia costiera italiana che di fatto coordinavano la sedicente Guardia costiera libica dalla nave della missione italiana NAURAS presente nel porto militare di Tripoli.
In diversi procedimenti, già a partire dal caso Open Arms a Ragusa del marzo/aprile del 2018, è infatti emerso il livello di collaborazione operativa tra la sedicente Guardia costiera libica e le autorità marittime italiane, da sempre in stretto collegamento con i vertici del ministero dell’interno, prima ancora che la Libia dichiarasse unilateralmente una sua aria di competenza SAR (ricerca e salvataggio) e cominciasse a minacciare le navi delle ONG che si trovavano a prestare soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
In circostanze decisive (come nel caso Sea Watch/Rackete del 2019 su cui poi si è pronunciata la Corte di cassazione), però la Corte di Strasburgo non è riuscita ad accordare misure interinali d’urgenza, in situazioni che hanno legittimato la violazione degli obblighi di soccorso e di indicazione di un porto di sbarco sicuro. Nella maggior parte dei casi la “scomparsa” dei migranti intercettati in acque internazionali e riportati indietro dalla sedicente guardia costiera libica non ha permesso la proposizione di ricorsi individuali alle Corti internazionali, ed il ruolo di denuncia è rimasto affidato alle organizzazioni non governative ed alle principali agenzie umanitarie delle Nazioni Unite (OIM e UNHCR).
Si può tuttavia individuare già a livello nazionale una precisa linea di evoluzione giurisprudenziale che va dal caso Cap Anamur del 2004 al procedimento nei confronti di Carola Rackete nel 2019, che ribadisce come l’adempimento degli obblighi di soccorso in lto mare , e quindi l’ingresso nei porti italiani, non configurino alcuna responsabilità penale. La decisione del GIP di Agrigento è stata poi confermata da una importante decisione della Corte di Cassazione che ha dichiarato illegittimo l’arresto della comandante Rackete, avvenuto a Lampedusa il 29 giugno 2019 .
Secondo la Corte di Cassazione,“La verosimile esistenza della causa di giustificazione e stata congruamente argomentata. In questa ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per Ia salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata daii’Italia con Ia Iegge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con Ia Iegge n. 147 del 1989 e alia quale e stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sui diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel1982 e recepita daii’Italia dalla Iegge n. 689 del1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare Ia condotta di resistenza”.. “Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui 1all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere Ia ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale Ia citata causa di giustificazione era piu che “verosimilmente” esistente”.
Per la Corte di Cassazione,“L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). iI punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e Ia cooperazione necessari affinche i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente Ia salvaguardia della vita umana oin mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo Ia responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e Ia cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui e stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione Marittima Internazionale. In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve
tempo ragionevolmente possibile”.
Sono ancora lunghissimi i tempi dei procedimenti penali che riguardano i soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, anche per la scarsa collaborazione offerta dalle autorità marittime competenti. Come si è verificato nei casi dello speronamento da parte di una nave militare italiana, la Sibilla, durante un’azione di blocco navale davanti le coste albanesi (1997)e più di recente della strage del’11 ottobre 2013, oggetto di un processo ancora aperto davanti al Tribunale di Roma. Il 27 gennaio 2021 il Comitato per i Diritti Umani dell’ONU (“Comitato”) ha pubblicato una storica decisione con la quale ha stabilito la responsabilità dell’Italia per violazione del diritto alla vita di cittadini stranieri naufragati in acque internazionali. Il caso riguarda il tragico naufragio dell’11 ottobre 2013, noto anche come “la strage dei bambini” in cui a sud di Malta morirono circa 200 persone, tra cui almeno 60 bambini. Il caso è stato portato all’attenzione del Comitato ONU per i diritti umani da tre cittadini siriani ed uno palestinese, sopravvissuti all’incidente.
Sotto il diverso profilo degli obblighi di soccorso, con specifico riferimento alla conclusione delle operazioni di salvataggio, con lo sbarco in un porto sicuro (place of safety,) se ne tratterà nel processo nei confronti del senatore Salvini, sul caso Open Arms, a partire dal prossimo 23 ottobre davanti al Tribunale di Palermo. In quest’ultimo processo la difesa dell’imputato ha chiesto l’inserimento degli atti del procedimento IUVENTA a Trapani, nel quale non è stata neppure fissata una udienza preliminare, a causa della necessità di procedere allo stralcio di una enorme mole di intercettazioni inserite negli atti di causa ma del tutto irrilevanti ai fini del procedimento.
Siamo purtroppo costretti a prendere atto come anche recenti sviluppi processuali, da Trapani a Ragusa ed a Catania, siano diventati così occasione per ulteriori gravi manipolazioni mediatiche, che hanno contribuito ad alimentare la campagna di criminalizzazione della solidarietà in mare in corso da anni. Si riscontrano anche orientamenti delle procure e dei giudici di merito ancora oscillanti, malgrado varie archiviazioni ed il chiaro pronunciamento della Corte di cassazione sul caso Rackete.
lI Tribunale civile di Ragusa , lo scorso giugno, ha intanto revocato la multa di 300.000 euro inflitta al comandante Claus Peter Reisch della ONG tedesca Lifeline dopo il salvataggio di migranti in mare e l’ingresso nel porto di Pozzallo,nel mese di settembre dello scorso anno. Anche il sequestro della nave “Eleonore” della stessa ONG Lifeline é stato revocato. Secondo il portavoce della ONG Lifeline,“la sentenza dimostra che il diritto internazionale è al di sopra della volontà di un singolo ministro. “Si può anche dire che il salvataggio in mare e l’umanità non sono mai un crimine”. Purtroppo però a livello mediatico e di senso comune ogni occasione sembra buona per colpire i soccorsi umanitari in mare, anche quando vengono revocate le misure di fermo amministrativo.
Il gip di Agrigento, a maggio di quest’anno, ha archiviato l’inchiesta su Carola Rackete, a due anni dall’ingresso a Lampedusa. La capitana della Sea Watch 3 aveva il “dovere di portare i migranti in un porto sicuro”, nonostante il divieto deciso dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. A maggio del 2019 la Procura di Catania aveva chiesto con il procuratore Zuccaro l’archiviazione del procedimento a carico di Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, comandante e capo missione della nave che a marzo del 2018 soccorse e salvò 218 migranti al largo della Libia per poi trasferirli nel porto di Pozzallo, in Sicilia, dove la nave veniva sequestrata. Una parte di quel procedimento penale rimane però aperta a Ragusa, dove la procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli imputati per il reato di violenza privata, facendo ricorso contro il proscioglimento deciso dal Tribunale di Ragusa, escludendo tanto la violenza privata quanto il reato di favoreggiamento.
2. Dati reali e narrazione distorta degli “sbarchi”in Italia
Gli sbarchi in Italia di persone fuggite dalla Libia non sono mai cessati, ed alle tradizionali rotte dalle coste della Tripolitania (Sabratha, Tripoli, Zuwara, Zawia) si sono adesso sommate le rotte già aperte da tempo, ma più battute, dalla Tunisia meridionale e dall’Egitto, al confine con la Cirenaica. E gli sbarchi per ragioni di soccorso sono aumentati non solo in Sicilia ed a Lampedusa, ma anche sulla fascia ionica della Calabria. Anche se poi alcuni sbarchi si sono conclusi in Sicilia. Dopo la fase più critica dell’emergenza COVID e con i nuovi equilibri che si sono creati in Libia dopo l’intervento militare turco, nell’estate del 2020, sembra che le partenze siano sempre più consistenti, malgrado il crescente impegno delle autorità anti-immigrazione. La situazione nel Sahel, e in genere in tutta l’Africa subs-ahariana rimane sempre assai confusa, e i progetti di sorveglianza delle frontiere meridionali della Libia, rimangono al tavolo delle conferenze internazionali che periodicamente le ripropongono.
Secondo quanto riferito lo scorso agosto dal ministro dell’interno, in occasione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dal primo agosto 2020 al 31 luglio 2021 sono sbarcate in Italia 49.280 persone. Nello stesso periodo, sono aumentati anche i cosiddetti sbarchi autonomi, che rappresentano ormai l’82,6% del totale, rispetto al 75,6% dell’anno precedente. Nel periodo di riferimento le persone soccorse in mare da organizzazioni non governative sono state soltanto 4239. Conseguenza evidente del blocco prolungato nei porti italiani imposto alle ONG con la prassi dei cd. fermi amministrativi.
In base a recenti dati dell’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni), il numero di persone intercettate in alto mare e riportate in Libia ha toccato quota 20.257, quasi il numero di migranti salvati in un anno intero, nel 2020. Appare sempre più evidente in questi casi il coinvolgimento di assetti aerei dell’operazione EunavforMed IRINI e dell’agenzia europea Frontex nella segnalazione alle autorità libiche delle imbarcazioni cariche di migranti, in difficoltà nelle acque internazionali del mediterraneo centrale.
L’8 gennaio 2020, Joseph Borrell, Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, ha negato che siano mai state fornite informazioni da Frontex alla Guardia costiera libica nell’ambito delle operazioni di sorveglianza previste dal Regolamento UE (n. 656/2014) ed effettuate dagli Stati membri alle loro frontiere esterne in cooperazione con l’Agenzia. “Ciò si è verificato tuttavia nell’ambito dell’“Eurosur Fusion Service — Multipurpose Aerial Surveillance (MAS)”, ha dovuto poi ammettere lo stesso Commissario Borrell.“durante l’attività di sorveglianza aerea MAS nell’area di pre-frontiera – dal 2017 sino al 20 novembre 2019, quando Frontex ha individuato situazioni di pericolo nella regione SAR libica, l’Agenzia ha informato in 42 casi il Centro di coordinamento delle ricerche dello Stato membro più vicino, Eunavfor MED così come le autorità libiche”.
Il 17 giugno 2020 quattro organizzazioni non governative (Alarm Phone, Borderline-Europe, Mediterranea Saving Humans e Sea-Watch) hanno presentato il rapporto “Remote control: the EU-Libya collaboration in mass interceptions of migrants in the Central Mediterranean” che evidenzia come le azioni intraprese dalle unità di sorveglianza aerea dell’UE, in collaborazione con le autorità libiche, abbiano facilitato le intercettazioni e i respingimenti collettivi dei migranti. Il rapporto ricostruisce in particolare alcuni eventi di ricerca e salvataggio conclusi con intercettazioni e respingimenti verso e dentro la zona SAR riconosciuta alla Libia, nei quali era risultato determinante il contributo di Frontex e delle autorità marittime italiane.
3. La distinzione tra “eventi migratori” da affrontare con gli strumenti di law enforcement ed attività di soccorso dovute dagli Stati
Per contrastare quella che viene definita soltanto come “immigrazione illegale” e per dimostrare un effettivo controllo dei “flussi migratori”, si sono ritirati tutti gli assetti navali militari italiani ed europei che in passato garantivano sorveglianza e soccorso, e si è perfezionata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, per delegare alle motovedette di Tripoli o di Zawia respingimenti collettivi che sarebbero altrimenti sanzionabili se fossero effettuati sotto il coordinamento operativo di stati, come l’Italia, sottoposti alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Nel mese di ottobre del 2009, un anno dopo il Trattato di amicizia con la Libia,( e dopo il Protocollo operativo del 2007) con il governo di Tripoli, venivano adottate, con atto di approvazione del Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, le “Linee Guida per l’impiego delle risorse S.A.R. nelle aree situate al di fuori della S.R.R. Italiana nel corso di eventi riguardanti il controllo del flusso dei migranti “. Da questo momento in poi si è codificata per via amministrativa la prevalenza delle attività di law enforcement sull’adempimento degli obblighi di soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali. I successivi accordi bilaterali tra gli Stati, ed il governo di Tripoli, supportati dalle attività di Frontex e dai finanziamenti europei hanno comportato il ritiro delle unità militari che potevano operare soccorsi nel Mediterraneo centrale e la pratica sempre più diffusa dei respingimenti delegati ai libici.
In base alle “Linee Guida” adottate nel 2009 dal Corpo delle Capitanerie di porto, atti che non hanno natura legislativa, e che dunque non possono anteporsi alle norme aventi forza di legge come le Convenzioni internazionali ratificate con legge dello Stato, “a seguito di segnalazione all’I.M.R.C.C. ( Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana) dell’avvistamento di un’unità navale non identificata in navigazione oltre i limiti della S.R.R. Italiana, che verosimilmente trasporta migranti in direzione delle coste nazionali, lo stesso I.M.R.C.C. provvede alla diffusione delle informazioni relative all’evento stesso secondo le previsioni dell’accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, di cui al Decreto Interministeriale 14.7.2003; a questo punto la Centrale Operativa, ai sensi del punto 4.2.4 della Convenzione S.A.R. del 1979, nella sua veste di I.M.R.C.C., procede immediatamente all’acquisizione delle informazioni necessarie e valuta l’evento sotto il profilo della salvaguardia della vita umana in mare, onde determinare se vi siano condizioni di pericolo grave e imminente e necessità di immediata assistenza per gli occupanti dell’unità. A tal fine le unità aeronavali eventualmente presenti nella scena d’azione provvederanno ad acquisire e trasmettere, con il mezzo di comunicazione più idoneo, secondo quanto previsto dal punto 4.4 della Convenzione S.A.R.’del 1979, all’I.M.R.C.C. i seguenti elementi per la classificazione dell’evento (S.A.R. – non S.A.R.): posizione geografica, ora dell’avvistamento, condizioni meteo-marine, dimensioni e tipologia dell’unità, suo bordo libero (galleggiamento), numero delle persone a bordo e loro condizioni fisiche, eventuale presenza tra essi di donne in stato di gravidanza, bambini, malati, traumatizzati, presenza di cadaveri nei pressi dell’unità; dotazioni di sicurezza presenti a bordo, elementi del moto, altri elementi utili a discrezione del rapportante. Soltanto quando la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) ritenesse sussistere pericolo immediato (distress) per la sicurezza delle persone a bordo si potrebbe classificare l’evento (destrefa) come evento “S.A.R.” (ricerca e soccorso) facendo scattare senza ulteriore dilazione di tempo tutte le attività di soccorso previste dal DPR 662/1994 e dal Piano Nazionale S.A.R.. In tutti gli altri casi invece la presenza dell’imbarcazione in acque internazionali si configura soltanto come un “evento migratorio” da affrontare con gli strumenti del cd. law enforcement, come mero contrasto dell’immigrazione irregolare, qundi con un tracciamento della navigazione, e la ricerca di eventuali “navi madre”, sia pure tenendo sotto attenzione la sorte dei migranti dal punto di vista della salvaguardia del diritto alla vita. Con le conseguenze che ne possono derivare sia nei rapporti di collaborazione con le guardie costiere dei paesi di partenza, principalmente l’Egitto, la Libia e la Tunisia, che sotto il profilo della repressione penale di qualunque comportamento potesse costituire “agevolazione dell’immigrazione irregolare” (law enforcement).
Le “linee guida” adottate nel 2009 risentivano evidentemente, oltre che di quanto previsto dalla legge Bossi-Fini del 2002, all’articolo 11 ( in base al quale “Il Ministro dell’interno, sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, emana le misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana”), dei Protocolli operativi (Amato-Manganelli) stipulati nel dicembre del 2007 tra l’Italia e la Libia, ai fini di regolamentare i soccorsi nelle acque internazionali, seguiti poi dalla conclusione del Trattato di amicizia tra Italia e Libia del 2008, e dalla prassi dei respingimenti collettivi, prima direttamente in Libia, come nel caso della motovedetta della Guardia di finanza Bovienzo, il 6 maggio del 2009, che poi è costata una condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirsi), che per i successivi respingimenti operati da unità italiane e proseguiti nel 2010, con trasbordo diretto dei naufraghi intercettati in mare in acque internazionali dalle unità italiane ad unità libiche, che quindi riportavano i fuggiaschi sulle stesse coste e negli stessi centri di detenzione dai quali erano fuggiti. Non considerare l’imbarcazione in difficoltà in stato di distress immediato e qualificare l’avvistamento o la segnalazione come “evento migratorio” permetteva ( e permette ancora oggi) di legittimare l’intervento della sedicente Guardia costiera libica, anche al di fuori delle acque di competenza, e di creare i presupposti per la criminalizzazione delle attività SAR delle ONG. Si potevano così aggirare i divieti di respingimento affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi, e delegare di fatto alle motovedette fornite nel frattempo ai libici le attività di push back che non si potevano più operare direttamente.
Con il Decreto Ministeriale numero 45 del 04/02/2021, in attuazione dell’articolo 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994 n.662, è stato pubblicato il nuovo “Piano nazionale per la ricerca e il salvataggio in mare”, edizione 2020. Il nuovo piano conferma tutti gli obblighi di salvataggio a carico degli Stati, che negli anni scorsi sono stati violati a più riprese. Già il precedente Piano nazionale per la ricerca ed il salvataggio in mare del 1996, seguito alla ratifica in Italia della Convenzione SAR (ricerca e salvataggio) di Amburgo del 1979, distingueva nell’ambito degli eventi di ricerca e salvataggio tra una fase di incertezza, una fase di allerta, e una fase di pericolo (distress), stabilendo a seconda delle diverse fasi, le responsabilità degli Stati e delle competenti autorità marittime, in linea con quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo del 1979 e dai suoi annessi, approvati successivamente.
Di particolare importanza, è vera novità, del nuovo Piano SAR italiano il paragrafo 240 relativo ad azioni all’esterno dell’area di interesse del IMRCC, secondo cui il Comando centrale del corpo della Guardia costiera italiana mantiene i contatti con i MRCC stranieri chiamati ad operare per la ricerca e soccorso nelle aree di rispettiva competenza. La previsione sembrerebbe tuttavia limitata ad operare soltanto in caso di soccorso da portare ad unità italiane. Più avanti si prevede però che il comando della Guardia Costiera italiana (IMRCC) coordina le azioni a favore di mezzi e persone in pericolo in tutti i casi cui agisca in qualità di primo Centro di coordinamento dei soccorsi (MRCC) informato dell’evento, fino a quando il centro di coordinamento competente o altro MRCC possa meglio assistere e assumere il coordinamento delle operazioni Sar. Si può ancora sostenere che rimangano applicabili gli accordi scaturiti dal Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato nel 2017 dal governo Gentiloni, che riprendono Protocolli operativi del dicembre 2007 anteriori, alla condanna dell’Italia da parte della CEDU sul caso Hirsi, senza che rispettino questi obblighi di intervento immediato in acque internazionali?
Appare assai importante come, nel rispetto della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sul caso Rackete, si faccia espresso riferimento, nelle operazioni di soccorso di massa “correlate al fenomeno migratorio via mare”, alle previsioni specifiche di cui all’articolo 10 ter del decreto legislativo 286/98 (Testo unico sull’immigrazione) che stabilisce le modalità di conclusione di tutte le operazioni di salvataggio con lo sbarco dei naufraghi a terra, da avviare poi verso il sistema dei cosiddetti centri hotspot. Sembra dunque da escludere, già in virtù di questo richiamo, che i naufraghi possano essere trattenuti a bordo delle navi soccorritrici per un tempo ulteriore rispetto all’ingresso nelle acque territoriali, e poi in porto, prima del loro sbarco a terra.
Sembra assai importante che, tra le definizioni adottate del Piano SAR, che per soccorso si intenda non solo l’operazione destinata al recupero delle persone in pericolo, con le prime cure mediche, ma anche quanto necessario al loro trasporto in un “luogo sicuro”. Il Piano contiene una precisa definizione di “luogo sicuro di sbarco” (POS o Place of safety), che è da intendere come quel luogo in cui le operazioni di soccorso si considerano terminate. E altresì un luogo ove la sicurezza relativa alla vita dei sopravvissuti non e più minacciata e dove i loro bisogni umani di base come cibo, riparo e necessità sanitarie, possano essere soddisfatte. E’inoltre un luogo da cui possono essere organizzati i trasporti verso la prossima destinazione o la destinazione finale dei sopravvissuti. Di certo una nave, sia essa una nave militare come la Gregoretti, o una nave mercantile, o ancora una imbarcazione appartenente ad una ONG, non può essere qualificata come luogo sicuro (POS-Place of safety).. Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi non determina dunque la conclusione delle operazioni S.A.R., perché tali operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro(place of safety o P.O.S.),.L’obbligo di individuare detto luogo sicuro, ricade sull’ MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, eventualmente in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. Tale obbligo va inquadrato nelle attività dovute, circa la indicazione del porto di sbarco sicuro, che la legislazione nazionale italiana assegna al ministro dell’interno, in base al decreto sicurezza bis del 2019, non modificato in questa parte dal recente “decreto immigrazione” n.130 del 2020, convertito in legge a dicembre.
4. A sud di Lampedusa, cosa succede in Libia . Occhio che non vede…
Il decreto emesso il 15 settembre 2019 dal Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale (GNA) libico con sede a Tripoli prevede che le organizzazioni non governative che operano soccorsi nel mediterraneo centrale, in quella che viene definita come “zona SAR libica”, che sarebbe coordinata da un fantomatico “centro di coordinamento”, devono “fornire periodicamente tutte le informazioni necessarie, anche tecniche relative al loro intervento, al Centro di coordinamento libico per il salvataggio”; “non bloccare le operazioni di ricerca e salvataggio” esercitate dalla guardia costiera locale e “lasciarle la precedenza d’intervento”; “informare preventivamente il Centro di coordinamento libico” di iniziative autonome, anche se ritenute “necessarie” e “urgenti”. Le Ong si dovrebbero limitare all’esecuzione delle istruzioni del centro e si impegnano a informarlo preventivamente su qualsiasi iniziativa anche se è considerata necessaria e urgente”. Secondo il nuovo codice di condotta libico, “il personale del dispositivo è autorizzato a salire a bordo delle unità marittime ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza, senza compromettere l’attività umana e professionale di competenza del paese di cui la nave porta la bandiera”. Si aggiunge inoltre che “tutte le navi che violano le disposizioni del presente regolamento verranno condotte al porto libico più vicino e sequestrate. E non verrà più concessa alcuna autorizzazione”.
Secondo l’art. 12 del Codice di condotta italo-libico, dunque, “i naufraghi salvati dalle organizzazioni non vengono rimandati nello stato libico tranne nei rari casi eccezionali e di emergenza”, ma il personale libico “è autorizzato a salire a bordo ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza”. Una ipotesi che va ben oltre il “diritto di visita”, che è previsto dalle convenzioni internazionali, che potrebbe legittimare veri e propri atti di pirateria internazionale. Nel decreto adottato a Tripoli è specificato che dopo il completamento delle operazioni di ricerca e soccorso, “le barche e i motori usati nelle operazioni di contrabbando saranno consegnati allo Stato libico”, mentre “salvo le comunicazioni necessarie nel contesto delle operazioni di salvataggio e per salvaguardare la sicurezza delle vite in mare, le unità marittime affiliate alle Organizzazioni s’impegnano a non mandare nessuna comunicazione o segnale di luce o altri effetti per facilitare l’arrivo d’imbarcazioni clandestine verso loro”.
Da un anno ormai i turchi controllano il porto di Khoms (Al Khums), come le aree portuali di Sirte, Misurata e Tripoli ed adesso anche quelle al limite del confine con la Tunisia. Una presenza che ha stravolto le regole di ingaggio in mare ed il ruolo di coordinamento delle attività della sedicente Guardia costiera “libica” che fino al mese di luglio del 2020 era svolto dalle autorità marittime italiane, presenti in Libia (missione Nauras) assistite dalla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma (IMRCC). Come ha ammesso il ministro della difesa Guerini in una recente audizione parlamentare. Si punta sempre e soltanto sul target costituito dalle vie di fuga dei migranti dagli orrori dei campi di detenzione in Libia, e non si comprende neppure, o non si fa sapere, quello che effettivamente sta accadendo in Libia ed adesso anche in Tunisia. Paesi con i quali si sono conclusi accordi per bloccare le partenze ed intercettare i migranti in mare, senza però fornire assistenza sanitaria contro il COVID e politiche di legalità e sviluppo economico, termini che gli attuali governanti evidentemente non riescono a conciliare.
5. Cosa rimane degli obblighi di ricerca e salvataggio imposti dalle Convenzioni internazionali ?
Secondo il manuale IAMSAR, adottato in esecuzione della legge di adesione alla Convenzione di Amburgo del 1979 n.147 del 1989, ed alla luce del Regolamento di attuazione contenuto nel D.P.R. 28 settembre 1994 n. 662, ogni stato al quale è riconosciuta una area SAR deve disporre di un centro di coordinamento dei soccorsi (MRCC). Per area SAR si intende “ una area di dimensioni definite, associata ad un centro di coordinamento del soccorso, all’interno della quale sono assicurati i servizi SAR”. Secondo lo stesso Manuale “ le SAR consentono di definire chi ha la responsabilità principale di coordinare la risposta a situazioni di pericolo in qualsiasi area del mondo, ma ciò non preclude la possibilità ad alcuno di fornire assistenza a persone in difficoltà”;La Convenzione di Amburgo 1979 non precisa quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR ma pone in risalto, in linea con l’Unclos, che deve esservi un rapporto tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile.
Come ricordava nel 2019 il contrammiraglio Liardo in una audizione parlamentare “Riguardo allo specifico scenario del Mediterraneo Centrale, occorre rilevare che ad oggi (2019) l’unico Stato che pur avendo provveduto a ratificare la convenzione SAR del 1979, non ha tuttavia dichiarato formalmente la sua specifica area di responsabilità SAR rimane solo la Tunisia; l’Egitto che invece non ha ratificato la Convenzione di Amburgo si è però dotata di una organizzazione SAR ed ha dichiarato una propria regione di responsabilità ai fini della ricerca e del soccorso marittimo. La Libia ha ratificato la Convenzione ed ha formalmente dichiarato la propria area di responsabilità SAR il 14 dicembre 2017. Tale area di responsabilità è stata riportata sul Global Integrated Shipping Information System (GISIS) dell’International Maritime Organization11 (IMO), il 27 giugno 2018” .
L’art. 17 della Convenzione di Montego Bay del 1982 (UNCLOS) prevede che le navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale. La Convenzione disciplina in modo tassativo le condizioni di esercizio di tale diritto. In particolare, il passaggio deve essere “continuo e spedito” (art. 18 UNCLOS). Tuttavia, “[i]l passaggio consente (…) la fermata el’ancoraggio, […] se questi […] sono finalizzati a prestare soccorso apersone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà”. Si osserva infatti che l’art. 18, par. 2, UNCLOS prevede espressamente che l’ingresso nel mare territoriale e il soffermarsi ivi per prestare attività di soccorso non fa venire meno il diritto di passaggio inoffensivo. Di conseguenza, se un’imbarcazione riceve una richiesta di soccorso da parte di un’altra imbarcazione che si trovi nel mare territoriale di uno Stato, la prima imbarcazione potrà (anzi, dovrà, in base a quanto previsto dall’art. 98, par. 1, della UNCLOS) entrare nel mare territoriale per prestare soccorso. Questa norma, inoltre, deve essere interpretata nel senso di escludere che lo Stato costiero possa impedire ad un’imbarcazione di entrare nelle sue acque territoriali per prestare soccorso a migranti in pericolo. Un’interpretazione diversa, infatti, non solo renderebbe inutile la previsione dell’art. 18, par. 2 CNUDM, ma sarebbe anche contraria all’obbligo che grava in capo a tutti gli Stati, compreso lo Stato costiero, di tutelare la vita umana in mare
L’art. 19. UNCLOS prevede esplicitamente che l’imbarco e lo sbarco di persone al solo fine di ottemperare agli obblighi di salvare la vita in mare sono attività ricomprese nella nozione di passaggio inoffensivo Qualora sia finalizzato ad attività di soccorso, persino il passaggio delle navi private, e dunque anche di quelle appartenenti alle ONG, attraverso il mare territoriale di qualunque Stato, non può essere considerato quale recante “pregiudizio alla pace, al buon ordine e allasicurezza dello Stato costiero” (art. 19.1 UNCLOS).
Le Convenzioni internazionali non definiscono con precisione il concetto di “luogo sicuro di sbarco” (place of safety), ma le linee guida dell’IMO (Organizzazione internazionale del mare) specificano ai paragrafi 6-12 e 6-15 che per tale luogo deve essere considerato quello “nel quale l’operazione di soccorso può ritenersi conclusa” e che la nave soccorritrice può essere considerata solo temporaneamente come place of safety. Concetti che la giurisprudenza di legittimità, seguita dalla prevalente opinione dei giudici di merito, ha ormai consolidato, malgrado alcune interpretazioni divergenti proposte nella sentenza di non luogo a procedere nel caso Gregoretti[1]. Ma in quel caso si trattava di una nave militare, che peraltro si trovava già all’interno di un’area portuale italiana, e dunque quanto osservato dal giudice in quell’occasione non può ritenersi applicabile ai soccorsi operati da navi civili in acque internazionali ed alla conseguente indicazione di un porto di sbarco sicuro.
La Risoluzione MSC.167(78) del 2004 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi di situazioni SAR. In base al punto 3.1.9 della Risoluzione che emenda la Convenzione di Amburgo del 1979, emendamento che Malta non ha mai ratificato, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro. tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
L’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione del 1998, prevede lo sbarco immediato delle persone soccorse in mare nei centri Hotspot, senza richiami agli Stati di bandiera delle navi che sono intervenute nelle attività di salvataggio in mare. Qualsiasi nave di soccorso non può essere considerata a tempo indeterminato come un“place of safety”ed evidenti considerazioni umanitarie, oltre che i principi del diritto internazionale del mare impongono lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino in tempi ragionevolmente brevi, tenuto conto della natura della nave soccorritrice e delle condizioni dei naufraghi a bordo. Come ha riconosciuto la Corte di cassazione con la sentenza sul caso Rackete del 16-20 febbraio 2020[.
Secondo la Corte di cassazione al fine della individuazione del cd. Place of safety (POS) “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina dunque la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). L’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate.
Secondo quanto rilevato più recentemente da autorevoli esponenti della Guardia costiera italiana, in linea con le posizioni adottate nel tempo dai diversi governi italiani, anche se «non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera,» comunque «in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo”. Le autorità dovrebbero obbligare quindi una nave carica di migranti a rimanere in acque internazionali, attendere che vi siano accordi con il Paese di cui batte bandiera e aspettare che questi migranti siano mandati lì». In base ad una considerazione isolata e parziale delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, dunque, se ricorre l’obbligo di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) questo non corrisponderebbe all’obbligo degli Stati di bandiera o di primo intervento a fare sbarcare le persone soccorse in mare nel proprio territorio. Ma abbiamo ricordato come le linee guida IMO e la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, oltre che i Regolamenti europei che disciplinano le attività dell’agenzia Frontex, richiamino ad una interpretazione più ampia ed integrata delle Convenzioni internazionali e delle fonti normative regionali e nazionali, come emerge dai documenti sul soccorso in mare adottati dalle principali agenzie delle Nazioni Unite impegnate nel campo delle migrazioni ( IMO ed UNHCR).
Sul punto del trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, fino alla conclusione delle trattative con gli Stati UE per la relocation, si tratta di una tesi che appare assai distante dal diritto internazionale, oltre che dal Regolamento Dublino del 2013, e dalla più recente giurisprudenza italiana.
Nel marzo del 2021 la Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa ha chiesto espressamente, agli Stati membri, con una Raccomandazione: «di garantire una risposta immediata quando le ONG richiedono assistenza in mare e l’assegnazione di porti sicuri; di astenersi dall’utilizzare in modo improprio procedimenti penali e amministrativi e requisiti tecnici semplicemente per ostacolare l’operato vitale delle ONG; di garantire che le ONG abbiano accesso alle acque territoriali e ai porti e possano tornare rapidamente in mare, e aiutarle a soddisfare qualsiasi altra esigenza legata al loro lavoro o ai requisiti tecnici, anche durante la crisi sanitaria del Covid-19»
La stessa Risoluzione individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto 6.7) «Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità». Lo stesso principio è ribadito dal paragrafo 3.6.1 del Manuale IAMSAR, Vol 1, dove si prevede che un RCC (Rescue Coordination Center) dopo la ricezione di una chiamata di soccorso, diventa responsabile nella gestione delle relative operazioni SAR. fino a quando altra autorità competente non assuma il coordinamento.
Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, dunque, «deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha rovveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile».
Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri
Al Considerando 13 lo stesso Regolamento europeo aggiunge : “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento”.
lI principio di non respingimento si applica ovunque uno Stato eserciti la giurisdizione, anche quando agisce al di fuori del suo territorio (anche al di fuori delle sue acque territoriali) nel contesto di operazioni di ricerca e soccorso o di intercettazione in mare, come ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi. Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.
In base all’art. 4 del Regolamento FRONTEX n.656/2014, tuttora vigente in quanto non è stato abrogato dal più recente Regolamento sulla Guardia di frontiera e costiera europea del 2019.“Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”. Inoltre, “In sede di esame della possibilità di uno sbarco in un paese terzo nell’ambito della pianificazione di un’operazione marittima, lo Stato membro ospitante, in coordinamento con gli Stati membri partecipanti e l’Agenzia, tiene conto della situazione generale di tale paese terzo”.
6. Le più recenti denunce dell’ONU, del Consiglio d’Europa e di Amnesty International
Il Rapporto dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite , dopo precedenti appelli rivolti anche al governo italiano, ha rilanciato la richiesta di una moratoria su tutte le intercettazioni e i respingimenti in Libia. Questo l’accorato appello: “In conformità con le nostre linee guida recentemente pubblicate su COVID-19 e sui migranti, ribadiamo che gli Stati devono sempre rispettare i loro obblighi ai sensi dei diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale e del diritto dei rifugiati”. Secondo le Nazioni Unite, nonostante il COVID-19, le operazioni SAR (ricerca e salvataggio) dovrebbero essere mantenute e lo sbarco rapido assicurato in un porto sicuro (place of safety), garantendo al contempo la compatibilità con le misure di sanità pubblica. Come si conciliano queste posizioni con il mantenimento di una zona SAR riservata alle autorità di Tripoli, che non controllano per intero neppure il loro territorio nazionale e che hanno dimostrato di non sapere garantire i soccorsi in mare e trattamenti dignitosi ai naufraghi riportati a terra? Non è ormai assodato che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali e politiche, ancora oggi, non può garantire alcun luogo di sbarco sicuro (place of safety)?
Malgrado i ricorrenti richiami dell’OIM e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e malgrado quanto previsto dal Regolamento Frontex n. 656 del 2014, la circostanza che la Libia non possa offrire porti sicuri di sbarco, come la reiterata violazione del principio di non respingimento, sono diventati oggetto di rimozione collettiva e di negazione della giurisdizione, con un continuo rimpallo di responsabilità tra autorità nazionali ed europee. Tocca anche alla giurisdizione interna tenere conto di queste posizioni dei maggiori esponenti delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di difendere i diritti umani nel mondo.
A febbraio di quest’anno, un documento di denuncia di Amnesty International, ribadiva la insostenibilità degli accordi con le autorità libiche, dopo che sono rimasti inascoltati tutti gli appelli del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite per evitare che le persone bloccate in alto mare fossero riportate in un paese come la Libia che non garantisce porti di sbarco sicuri.
Nel suo articolato documento Amnesty International denuncia “crimini di diritto internazionale”, dunque violazioni gravi del diritto internazionale che hanno comportato la morte di migliaia di persone, che sarebbero state commesse negli ultimi quattro anni, in piena continuità tra i diversi governi che si sono succeduti nel tempo. Ma questo non esclude che in alcune fasi particolari, come durante il governo giallo-verde ( 2018-2019), si siano verificati fatti, come la mancata indicazione del porto sicuro di sbarco, che anche sul piano del diritto interno possono assumere una precisa rilevanza, sotto il profilo della responsabilità penale ed amministrativa. Non si possono dunque confondere le responsabilità politiche con quelle penali, riferibili in ambito nazionale a fatti specifici ed a precisi connotati soggettivi degli autori, così come sul piano del diritto internazionale ed euro-unitario assume rilievo la violazione di norme cogenti e quindi può emergere una responsabilità degli agenti statali che ne sono responsabili sotto il profilo delle sanzioni che pure sono previste a livello internazionale ed europeo. Dei crimini perpetrati ai danni dei migranti in Libia se ne sta occupando anche la Corte penale internazionale, dopo precise denunce della società civile.
Non rimane davvero molto da aggiungere, malgrado la censura imposta dalle autorità statali i dati oggettivi sono chiari ed accessibili, come emerge da un recente rapporto di OXFAM, e ancora oggi non si vedono interlocutori per proposte di discontinuità rispetto al passato.
7. Emergenza da Covid 19 ed il ritorno alla strategia dei “porti chiusi”?
Con il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020, adottato per fare fronte all’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia COVID 19, si è previsto un nuovo caso di divieto di ingresso nelle acque territoriali, da far valere soltanto nei confronti delle navi battenti bandiera straniera che avessero soccorso naufraghi al di fuori della zona SAR italiana. Si tratta di un atto di natura amministrativa emanato in base ai poteri conferiti al governo e alla Protezione civile per fare fronte all’emergenza Covid-19 proclamata sull’intero territorio nazionale. Il Decreto prevede “per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale” che il divieto di ingresso possa scattare sulla base di una supposta qualificazione dei porti italiani come “non sicuri”.
Con successivo Decreto del 12 aprile 2020, adottato dal Capo Dipartimento della Protezione Civile, si chiariscono le nuove modalità operative degli sbarchi dopo il completamento delle operazioni di ricerca e salvataggio, attraverso il ricorso ad apposite “navi quarantena” sulle quali fare trascorrere ai naufraghi un determinato periodo di sorveglianza sanitaria, prima dell’avvio verso altre strutture di accoglienza a terra. Anche in questo caso il richiamo ad una Convenzione internazionale, non la Convenzione SAR di Amburgo del 1979, ma la Convenzione UNCLOS di Montego Bay del 1982 ( art.19), è stato utilizzato per capovolgere la portata degli obblighi di soccorso a mare, che comunque non consentono al legislatore nazionale o alle autorità amministrative, l’adozione di provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali della persona, come quelli che ne determinano il prolungato trattenimento a bordo delle navi soccorritrici. Obblighi internazionali e normative interne impongono comunque un temperamento tra le esigenze di sicurezza e di “difesa dei confini”, ed i diritti fondamentali delle persone soccorse in acque internazionali, dal diritto di chiedere asilo al diritto alla salute. Non appare proporzionale e ragionevole negare un porto di sbarco sicuro in nome di un emergenza sanitaria che non deriva certo dall’afflusso delle persone soccorse nel Mediterraneo centrale. Persone che non risultano avere messo a rischio la tenuta del sistema sanitario nazionale, come si paventava invece nel decreto del 7 aprile 2020, mantenuto in vigore con le successive proroghe dello stato di emergenza
8. Il nuovo Piano nazionale SAR 2020
Con il Decreto Ministeriale numero 45 del 04/02/2021, in attuazione dell’articolo 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994 n.662, ed è stato pubblicato il nuovo “Piano nazionale per la ricerca e il salvataggio in mare”, edizione 2020. Il nuovo piano contiene regole specifiche e moduli operativi per garantire l’effettivo rispetto di tutti gli obblighi di salvataggio a carico degli Stati, già richiamati nel Piano nazionale per la ricerca ed il salvataggio in mare del 1996, seguito alla ratifica in Italia della Convenzione SAR (ricerca e salvataggio) di Amburgo del 1979. Il piano nazionale Sar 2020 dà attuazione a quanto prescritto dalla regola 4.5 dell’Annesso alla Convenzione sulla ricerca di salvataggio in mare (SAR) adottata ad Amburgo nel 1979 con successivi emendamenti annessi, ratificata dall’Italia con legge 3 aprile 1989 numero 14. Si tratta quindi di un atto normativo di rango subordinato rispetto alle leggi dello Stato e alle Convenzioni internazionali alle quali comunque fa riferimento, richiamate nel manuale IAMSAR adottato dall’ Imo nel 1999, contenente linee guida per le organizzazioni S.A.R. nazionali, aventi lo scopo di “meglio chiarire gli obblighi assunti dagli Stati” che hanno ratificato la Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979.
Il Piano nazionale SAR 2020, in linea con le Convenzioni internazionali, distingue diversi livelli di pericolo per ciascuna operazione di ricerca e salvataggio, affermando il principio che in caso di pericolo per la vita umana in mare, comunque siano pervenute le informazioni, in base ad una presunzione di generale credibilità, si devono disporre i primi interventi operativi ed informativi, avviando le operazioni di soccorso con tutti i mezzi nella propria disponibilità. Si ribadisce l’immediata responsabilità di coordinamento del Comando centrale della Guardia costiera (IMRCC) tenuto a coordinare direttamente il soccorso se si verifica un disastro in mare di notevoli proporzioni, oppure quando l’area di responsabilità sia particolarmente ampia, oppure ancora ,come previsto al punto C del paragrafo 234, quando l’intervento avvenga ai limiti esterni della zona di competenza italiana e, dunque in particolare, si prevede lo sconfinamento in acque internazionali o di competenza di altri paesi.
Nelle sue linee applicative il Piano nazionale SAR italiano 2020 fa riferimento alle metodologie tecnico-operative di ricerca e soccorso contenute nel manuale IAMSAR adottato dall’ Imo nel 1999 contenente linee guida per le organizzazioni S.A.R. nazionali, aventi lo scopo di “meglio chiarire gli obblighi assunti dagli Stati” che hanno ratificato la Convenzione di Amburgo. La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974( Convenzione SOLAS) richiede agli Stati parte “…di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste. Tali accordi dovranno comprendere l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di tali strutture di ricerca e soccorso, quando esse vengano ritenute praticabili e necessarie…” (Capitolo V, Regola 7) . La stessa Convenzione SOLAS obbliga il“comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione…” [Capitolo V, Regola 33)
Vanno individuate con esattezza, in modo che possano intervenire con la massima rapidità le autorità competenti ad operare interventi di ricerca e salvataggio ( SAR) quando i paesi confinanti (per area SAR) come Malta e oggi la Libia, o quello che ne rimane, non siano in grado di garantire attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, e persino nelle loro acque territoriali, con modalità efficaci e tempestive. Fino al mese di giugno del 2020 sulla rotta del Mediterraneo centrale,erano soltanto le autorità italiane, in concorso con i residui mezzi delle missioni Frontex ed Eunavfor Med, che potevano svolgere questo compito di coordinamento. Adesso sono intervenuti assetti militari e navali turchi che hanno preso il controllo dei principali porti libici. Questo ha determinato un proliferare delle milizie armate che di volta in volta si qualificano come Guardia costiera “libica” e intercettano le imbarcazioni cariche di migranti, o minacciano con le armi le poche navi umanitarie impegnate nei soccorsi nelle acque internazionali a nord delle coste libiche. Malgrado un maggiore impegno del naviglio militare italiano in acque internazionali, soprattutto nello Ionio e a sud di Lampedusa, rimane irrisolto il problema degli interventi di soccorso nella vastissima zona SAR maltese,, e come in passato anche quest’anno si sono ripetute stragi da abbandono in mare. Come restava spesso senza adeguata copertura la zona SAR “libica” soprattutto quando peggioravano le condizioni meteo o l’autonomia delle motovedette impegnate nelle attività SAR risultava insufficiente.
E’ stato presentato un esposto alla Procura di Roma per il naufragio del 21/22 aprile 2021 in un caso nel quale dopo l’avvistamento da parte di un velivolo dell’agenzia europea Frontex nella zona SAR libica, gli interventi di soccorso venivano ritardati, e senza coinvolgimento dei mezzi statali, venivano alla fine portati a compimento da unità civili e dalla nave Ocean Viking della ONG SOS Mediterraneè.
9. Il rilancio dell “contrasto incrociato” dei soccorsi in acque internazionali tra Italia,Malta, Libia e Tunisia
Italia e Malta hanno intanto ritirato dalle acque internazionali tutti quegli assetti navali militari che potevano restare coinvolti in attività di soccorso, e le navi della Marina militare che pure sorvegliano le piattaforme petrolifere offshore, non intervengono quando i migranti in fuga riescono a raggiungere queste installazioni in acque internazionali.
I governi europei hanno lasciato sola la Tunisia, davanti al Covid ed alla crisi economica ed adesso i governanti europei, di fronte al loro ennesimo fallimento, ignorando le ragioni della fuga di tanti giovani tunisini, tentano di nascondere ai loro elettori quanto sta avvenendo in Tunisia e in tutto il Maghreb, infine rilanciando in ritardo la collaborazione con la Guardia costiera tunisina al fine di delegare operazioni di push back.. Con le conseguenze che stiamo vedendo a terra, ed in mare, con il moltiplicarsi dei naufragi.
Le autorità maltesi ritardano sistematicamente le risposte alle chiamate di soccorso, o le ignorano del tutto, contando sul fatto che i barconi carichi di migranti, se non vengono intercettati dai libici, anche all’interno della zona SAR che si continua a riconoscere al governo de la Valletta, proseguono la loro rotta verso le acque italiane. Non si comprende come si possa continuare a riconoscere a Malta una zona SAR tanto ampia, da estendersi quasi dalle coste greche alle cote tunisine. Anche in questo caso le ragioni economiche prevalgono sui principi affermati nelle Convenzioni internazionali e sulla tutela dei diritti umani, a partire dal diritto alla vita.
La Commissione europea e l’Alto rappresentante hanno presentato, il 9 febbraio 2021, una comunicazione congiunta nella quale si propone di avviare una nuova Agenda per il Mediterraneo, volta a delineare le priorità e il quadro della politica dell’UE nei confronti della regione nell’ottica di un partenariato rafforzato. La comunicazione è accompagnata da un piano di investimenti economici per stimolare la ripresa socioeconomica a lungo termine nel vicinato meridionale. Ma si deve prendere atto che sia il Piano europeo sulle migrazioni, che la Raccomandazione della Commissione sui soccorsi in mare operati da “soggetti privati”, del 23 settembre 2020, ad un anno di distanza, sono rimasti lettera morta, a riprova della impossibilità attuale per l’Unione europea di adottare una vera politica comune sulle migrazioni, o di adottare iniziative volte a salvaguardare la vita umana in mare.
Tutte le autorità di governo, in tutti i paesi delle due sponde del Mediterraneo, stanno sistematicamente violando gli obblighi di soccorso in mare imposti dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Neppure la missione europea a guida italiana Eunavfor Med IRINI riesce a garantire effettivamente gli obblighi di soccorso che pure deriverebbero a suo carico, da quando è collegata all’agenzia FRONTEX, dal Regolamento europeo n.656/2014. Di fronte alla presenza in mare di decine di imbarcazioni contemporaneamente, facilmente tracciabili dai mezzi militari presenti in zona, manca qualsiasi coordinamento mirato alla salvaguardia della vita umana in mare ed allo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, nel quale possano fare valere anche una richiesta di asilo, come sarebbe imposto anche dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Diritto negato a centinaia di naufraghi, soccorsi nei pressi delle piattaforme petrolifere offshore in acque internazionali al largo del confine tra la Libia e la Tunisia, e riportati in questi paesi senza alcun rispetto per il loro diritto ad essere sbarcati in un porto sicuro nel quale potere chiedere asilo, come si è ripetuto fino a pochi giorni fa.. Di fatto queste prassi illegali hanno cancellato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e le correlate Direttive europee in materia di protezione internazionale e di rimpatri.
Per quanto cerchino di classificare come “riservati” i documenti che confermano il grado di collaborazione dei vertici politici e militari europei con le milizie libiche a terra ed in mare, la verità dei fatti, che malgrado tutte le intimidazioni sta venendo fuori, costituirà la base per la condanna definitiva di ideatori ed esecutori di queste politiche di morte. Quale che sia l’esito dei passaggi elettorali. Gli osservatori indipendenti non si faranno ridurre al silenzio. Vediamo se continuano a propinarci la bufala sul nuovo Memorandum sui diritti umani in Libia. Bufala utilizzata lo scorso anno per ottenere l’approvazione dei finanziamenti alla guardia costiera libica ed ai torturatori in divisa che gestiscono i centri di detenzione.
Si prospetta adesso il trasferimento dei compiti di assistenza e coordinamento delle attività SAR nelle acque del Mediterraneo centrale dagli Stati direttamente responsabili, dall’Italia in particolare, alle missioni di fatto congiunte di Eunavfor Med IRINI e di Frontex. secondo un emendamento presentato dal PD ed approvato in Commissione, prima del voto finale, “con riferimento alla missione bilaterale di assistenza alla guardia costiera della Marina militare libica ed alla General administration for coastal security si propone di autorizzarla, impegnando il Governo ad una verifica per superare, nella prossima programmazione, la suddetta missione, proponendo di trasferire le funzioni della stessa alla missione bilaterale Miasit Libia e alla missione Irini”. E’ dubbio però che queste missioni, già fallimentari, possano aumentare la loro capacità operativa. La vera gestione “dei flussi migratori”, perché di questo si parla, nel Mediterraneo centrale, rimarrà ancora affidata per lungo tempo ai rapporti intergovernativi.ed appare sempre più lontana la prospettiva che l’Unione Europea organizzi una azione capace di combinare il controllo delle frontiere esterne con gli obblighi di soccorso e con l’esigenza di una pronta evacuazione dalla libia di tutte le persone esposte al rischio di subire abusi e torture tremende.
Le conseguenze di questa raffica di accordi operativi tra le autorità politiche e marittime degli Stati costieri che si affacciano sul Mediterraneo centrale sta avendo un peso crescente sulle navi commerciali che affollano numerose quel mare, determinando le condizioni per una diffusa pratica di omissione di soccorso, se non per veri e propri respingimenti collettivi su delega.
Dopo l’allontanamento prolungato della navi delle ONG, costrette a lunghe soste nei porti italiani per effetto dei provvedimenti di fermo amministrativo, nelle acque del Mediterraneo centrale, sono aumentati i naufragi in acque internazionali e soprattutto i casi di soccorsi delegati a navi commerciali. Navi che nella vasta zona di mare riconosciuta come zona SAR libica, sono state dirette verso porti libici, oppure hanno atteso l’intervento delle motovedette libiche, come è stato documentato in diverse occasioni dagli aerei inviati dalla società civile europea per mantenere comunque un costante monitoraggio sui soccorsi nel Mediterraneo centrale, malgrado il blocco delle navi delle ONG. Fino al 2017 erano stati decine gli interventi di soccorso operati da navi commerciali, poi, proprio dalla creazione di una zona SAR libica, nel mese di giugno del 2018, questi interventi si sono diradati e molte navi commerciali si sono rifiutate di partecipare ad attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
A tale riguardo dobbiamo ricordare come presso il Tribunale di Napoli sia aperto un procedimento penale per il caso ASSO 28 del 30 giugno 2018, quando i naufraghi presi a bordo del rimorchiatore battente bandiera italiana di servizio ad una piattaforma petrolifera offshore in acque internazionali, furono riconsegnati ad una motovedetta libica e quindi riportati contro la loro volontà nel porto di Tripoli.
Il 14 giugno 2021 sotto coordinamento della Centrale della Guardia costiera di Roma (IMRCC) si verificava un ennesimo atto di respingimento collettivo dopo il salvataggio di 170 naufraghi operato dal rimorchiatore VOS TRITON, battente bandiera di Gibilterra, della compagnia olandese VROON ( due rappresentanti della quale sono sotto inchiesta a Trapani nel procedimento IUVENTA). Un caso simile si era verificato il 2 maggio dello stesso anno.
10. . Oltre il processo penale, i controlli verticali dal cielo ed i respingimenti su delega. Quali prospettive per i soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale?
Il vuoto che si è voluto creare nel Mediterraneo centrale, per lasciare campo libero alle motovedette libiche, e per non fare assumere agli stati costieri europei le responsabilità di soccorso, e di conseguente indicazione di un porto di sbarco sicuro, ha comportato un aumento esponenziale delle vittime, oltre 1000 quest’anno. Si muore per annegamento nelle acque internazionali, ma si può morire anche quando la salvezza sembra ormai raggiunta, a poche miglia dalle coste italiane. Quando soccorsi operati prima, in acque internazionali, forse, avrebbero potuto salvare tante vite. Non si hanno notizie di interventi di soccorso operati dalle navi della Marina militare della missione Mare Sicuro, presenti ma invisibili nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Le attività della Guardia di finanza nelle stesse acque sembrano limitate al controllo della cd. immigrazione illegale (law enforcement), ma si tratta di assetti navali che non sono idonei ad operazioni SAR di ricerca e salvataggio.
Sono ancora in fondo al mare, a 90 metri di profondità, tra Lampedusa e Lampione, i corpi di nove persone annegate il 30 giugno scorso, per le autorità italiane che devono organizzare il loro recupero sembra che i costi siano troppo alti. Si sono rimosse rapidamente le notizie sulle conseguenze di questa situazione indotta dal ritiro del naviglio di soccorso italiano che prima operava nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, ed è ulteriormente accresciuta l’arroganza criminale dei guardiacoste libici ai quali è stato permesso di operare nella zona SAR maltese, fino a 45 miglia a sud di Lampedusa. Attendiamo l’esito delle indagini avviate dalla Procura di Agrigento. Rimangono ancora incerte le linee operative alle quali si attengono gli assetti militari italiani nei casi di attività SAR di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Dal 2018 non viene più pubblicato il Dossier annuale della Guardia costiera che riassumeva il contesto operativo ed i principali dati delle operazioni SAR che si svolgevano nel Mediterraneo centrale. Le informazioni che si ricavano dai social e dai siti ufficiali sono sempre più lacunose. Le richieste di informazioni per accesso civico vengono generalmente eluse con motivazioni che si richiamano alla sicurezza nazionale o alle relazioni diplomatiche con altri Stati.
Il rapporto poco chiaro tra la Direttiva Facilitazione del 2002, le normative interne in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, e la Convenzione di Palermo del 2000 sulla criminalità transnazionale, con il relativo Protocollo allegato, ha consentito ai singoli Stati un ampio margine di discrezionalità per perseguire le persone che entrano e risiedono illegalmente e coloro che le soccorrono e le assistono. Appare quindi molto probabile che ci sarà un’ulteriore spaccatura non solo tra le legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea, anche nel campo del diritto penale, ma nella pratica quotidiana della giurisdizione. Il rischio principale che può emergere in materia è rappresentato dal pericolo di rottura con il principio di legalità (o Stato di diritto) e dalla criminalizzazione della solidarietà per effetto di decisioni politiche o amministrative che rendano, magari retroattivamente, la condotta delle persone o delle ONG che svolgono attività di soccorso o prestano assistenza ai migranti passibili di procedimenti penali. L’involuzione normativa e giurisprudenziale mira dunque ad equiparare facilitazione all’ingresso e assistenza al soggiorno irregolare, tendendo ad escludere eventuali differenze tra i casi in cui tali atti sono commessi per trarne illegittimo profitto e quelli in cui l’assistenza è forniti esclusivamente per scopi umanitari.
In questo quadro, che muta di giorno in giorno, con un crescente ruolo dei sistemi di sorveglianza aerea ed una ulteriore dispersione delle unità di soccorso in mare, non si può ritenere che le ONG possano continuare a svolgere ancora per molto tempo quel ruolo di supplenza nelle attività SAR di ricerca e salvataggio, che di fatto è stato loro attribuito fino ad oggi anche dagli Stati che ne contrastano le attività, fermo restando che finché non si realizzi un intervento organico di autorità statali, come sarebbe imposto dalle Convenzioni internazionali, la loro presenza non può essere messa in discussione e va sottratta al linciaggio mediatico, ai fermi amministrativi ed agli attacchi giudiziari. Perchè di attacchi si deve parlare purtroppo, quando la dimensione mediatica, anche per le dichiarazioni di esponenti della magistratura che travalicano le ragioni di diritto alla base delle loro motivazioni. L’attività “mirata”di controllo ispettivo, con i PSC ( controlli di sicurezza in porto), affidata alle squadre del Corpo delle Capitanerie di porto ha prodotto periodi più lunghi di blocco delle attività di soccorso delle ONG, rispetto a quanto si verificava quando imperversavano le denunce penali ed i sequestri preventivi, con un danno economico incalcolabile, ed un danno ancora più rilevante in termini di vite umane che forse quelle navi, bloccate per mesi nei porti italiani, avrebbero potuto soccorrere..
Malgrado il “sofferto” rilascio di qualche nave delle ONG colpita dallla politica dei fermi amministrativi, “liberata” dopo settimane di quarantena e poi di ispezioni nei porti ( Port State Control-PSC) e fermi conseguenti, con motivazioni che non tengono contro delle clausole di esonero previste dalle Convenzioni internazionali nei casi di soccorso in mare, i soccorsi umanitari in mare sono sempre più a rischio. Si corre anche il rischio che di questa materia non se ne parli più, come politica dei soccorsi, e tutto rimanga affidato alla magistratura penale ed amministrativa, salvo sporadiche scadenze elettorali. Anche perché dopo la chiarissima sentenza della Corte di cassazione del 16 febbraio 2020 sul caso Rackete, sembra che i vertici esteri delle ONG abbiano scelto la strada di evitare la via dei ricorsi giurisdizionali contro atti palesemente illegittimi delle autorità amministrative. Dopo sentenze contraddittorie della giustizia amministrativa sui provvedimenti di fermo si dovrà ancora attendere mesi per la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla legittimità delle prassi ispettive adottate dalle autorità marittime italiane sulla base del Memorandum di Parigi e della Direttiva. Ed intanto i fermi amministrativi potrebbero proseguire sulla base dei criteri arbitrari adottati dalle autorità marittime italiane.
Alla vigilia del processo Open Arms che di fatto si aprirà a Palermo il 23 ottobre prossimo, la difesa del senatore Salvini ha cercato prima di imbrogliare le carte e di fare pesare nel procedimento, partito dopo le denunce della ONG, gli atti del procedimento Gregoretti, concluso a Catania con la decisione di non luogo a procedere adottata dal Giudice dell’udienza preliminare Come se le conclusioni adottate nel caso di una nave della Marina militare italiana, tuttora assai dubbie quanto al fondamento giuridico, potessero valere nel caso di divieto di ingresso in porto impartito ad una nave della società civile, bloccata per settimane in alto mare, senza l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro.
Si sta tentando in questo modo una utilizzazione distorta di una sentenza di non luogo a procedere relativa ad un caso affatto diverso, proiettando quanto deciso a Catania sul processo Open Arms a Palermo. Fermo restando il rispetto per tutte le sentenze della magistratura, non sarà quindi inutile un breve commento, in un momento in cui nel nostro paese è assai vivo il dibattito sul rapporto tra discrezionalità politica e Stato di diritto.
Nel caso Gregoretti non era certo applicabile il Decreto sicurezza bis 14 giugno 2019 n.53 voluto dallo stesso Salvini, per dare una base legale ai divieto di ingresso nelle acque territoriali, all’art.2 differenziava il naviglio militare rispetto alle navi civili con riferimento ai divieti di ingresso nelle acque territoriali. Come ricordava il Fatto Quotidiano “tuttavia, mentre nel caso della nave Diciotti – attrezzata per il soccorso in mare – si era trattato di un’azione concertata con tutto il governo per convincere gli altri paesi europei a ripartire le quote di richiedenti asilo da accogliere, nel caso della Gregoretti – destinata all’attività di vigilanza da pesca – il meccanismo di ripartizione era già avviato, per cui non non c’era alcun interesse pubblico o rischio per l’ordine pubblico che potessero giustificare la decisione di bloccare di tenere su una nave oltre 100 persone al largo di Augusta. Almeno secondo il tribunale dei ministri. Inoltre quando la Gregoretti prese a bordo i migranti era appena entrato in vigore il decreto sicurezza-bis voluto dallo stesso Salvini che escludeva espressamente che il divieto di ingresso in acque italiane e di sbarco possa essere applicato a navi militari italiane (come era accaduto un anno prima alla Diciotti, ndr) che, in quanto tali, non possono essere considerate un pericolo per la sicurezza nazionale.”
L’articolo 83 del Codice della Navigazione, conferma la distinzione tra navi militari e naviglio commerciale, sancendo che “Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, d i sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”. Quindi tutti i rinvii contenuti nelle motivazioni del proscioglimento ai casi di soccorso operati dalle ONG sono ininfluenti. Anche perché la Gregoretti doveva ricevere tempestivamente la indicazione di un porto di sbarco dalle autorità marittime competenti (IMRCC) di Roma e le persone erano state trattenute a bordo della nave militare per quattro giorni solo per la contraria volontà del ministro dell’interno. Che autorizzava lo sbarco soltanto il 31 luglio 2019 dopo l’esplicita richiesta della Procura di Siracusa e dopo che cinque paesi europei si erano dichiarati disponibili a dare accoglienza ad una parte dei naufraghi.
La decisione di proscioglimento sul caso Gregoretti, per quanto articolata nelle motivazioni che la supportano, non ha citato norme che potevano mettere in dubbio la tesi assolutoria, già prospettata dalla difesa ed avallata dalla Procura. Tra i riferimenti normativi mancano norme fondamentali per gli sbarchi dopo operazioni di soccorso, come l’art.10 ter del Testo Unico sull”immigrazione 286/98 ed il Piano nazionale Sar del 1996 (si cita invece a sproposito, perché successivo ai fatti oggetto del procedimento, quello del 2020 aggiornato nel 2021). Il comma 9-quinquies dell’art.12 del Testo Unico 286/98, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 ( Bossi Fini), stabiliva, poi, che le modalità di intervento delle Unità della Marina Militare, e di collaborazione con altre unità navali, dovevano essere definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti. Che nel caso concreto non sembra oggetto di un richiamo specifico.
Secondo il GUP di Catania, “La formula il fatto non sussiste è stata adottata perché l’imputato ha agito non ‘contra ius‘ bensì in aderenza alle previsioni normative primarie e secondarie dettate nel caso di specie. Allo stesso non può essere addebitata alcuna condotta finalizzata a sequestrare i migranti per un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile”.Quali siano però le “previsioni normative primarie e secondarie dettate nel caso di specie” non appare chiaro. Nei punti decisivi delle motivazioni conclusive della sentenza di proscioglimento si fa così riferimento ad una “ben definita “copertura politica e normativa“, confermata anche dal pre-accordo di Malta del 23 settembre 2019, successivo ai fatti e del tutto privo di valenza normativa retroattiva. Ma se si vanno a guardare i contenuti di quel “pre-accordo”, poi rimasto privo di effetti per la mancata condivisione degli altri partners europei, si fatica a rinvenire un qualsiasi riferimento normativo al diritto internazionale o al diritto dell’Unione europea.
Anche sul piano dei precedenti di fatto il caso Gregoretti viene avvicinato a precedenti vicende che appaiono piuttosto distanti, per avere riguardato piuttosto che navi militari imbarcazioni civili. Appare così del tutto irrilevante l’episodio introdotto dalla difesa e riferito alla nave Ocean Viking che tra ottobre e novembre del 2019 doveva attendere ben dieci giorni per l’assegnazione di un POS da parte delle autorità italiane, trattandosi di una nave appartenente ad una ONG e non di nave militare, peraltro già in acque territoriali, come nel caso della Gregoretti. L’unica argomentazione di taglio giuridico che viene portata a fondamento della sentenza di proscioglimento finisce così per consistere nella incertezza delle Convenzioni internazionali (UNCLOS, SOLAS, SAR e delle relative linee guida dell’IMO), che imporrebbero lo sbarco a terra dei naufraghi ma, secondo il giudicante, anche non immediatamente, come sembrava ritenere il Tribunale dei ministri, ma “in un tempo ragionevolmente breve” per predisporre le misure di accoglienza a terra. Solo che a fondamento di questa ricostruzione si indica soltanto una non meglio precisata “normativa del tavolo tecnico adottato nel mese di febbraio 2019” che si sarebbe svolto presso il ministero dell’interno, un atto amministrativo dunque, di natura collegiale, che per nulla può essere considerato allo stesso rango di un atto avente forza di legge.
In un caso che riguardava soccorsi operati da navi militari italiane cosa c’entra il richiamo il riferimento a “zone grigie” nelle modalità operative dei soccorsi da parte delle ONG ? Non si coglie in particolare la rilevanza, nella sentenza di proscioglimento Gregoretti, dell’ampio richiamo al procedimento penale per il caso IUVENTA. ancora alla fase di fissazione dell’udienza preliminare, dopo quattro anni dal sequestro della nave e dall’avvio del procedimento penale. Certo serve a cogliere il punto di vista del giudicante, che si lascia andare a considerazioni generiche sulle ONG come “sponda ai trafficanti di migranti”, su un procedimento penale nel quale non è parte, ma questo assunto sembra piuttosto adesione ad un diffuso senso comune, che argomentazione giuridica sulla quale basare i motivi di proscioglimento. In modo più evidente che in altri provvedimenti giurisdizionali ritorna in un provvedimento giurisdizionale una valutazione che appare risentire di opinioni che hanno caratterizzato la criminalizzazione dei soccorsi umanitari delle ONG. Come se si stesse superando il limite di separazione tra giudizio basato sul “comune sentire” e le motivazioni addotte nella sentenza del giudice.
Bisogna contrastare un diffuso senso comune di ampie fasce di popolazione che sotto l’influsso di una ricorrente propaganda politica sui diversi temi delle migrazioni, ormai appaiono indifferenti, se non apertamente complici, rispetto alla morte in mare per abbandono sistematico, alle torture ed agli abusi di ogni genere inflitti ai migranti “soccorsi” in acque internazionali e ripresi dalle diverse milizie libiche, dopo l’intervento della Guardia costiera di Tripoli. Un compito che non spetta soltanto alla società civile, ai giornalisti, ai giuristi, ma coinvolge anche chi opera nella quotidiana attività giurisdizionale.
Non si tratta semplicemente di riaffermare diritti fondamentali che sono stati violati da autorità che collaborano con l’Italia, spesso a costo della vita di centinaia di persone, occorre arrivare ad una sanzione, anche in sedi giudiziarie, che impedisca che questi comportamenti abusivi proseguano in futuro con un costo sempre più elevato in termini di vite umane. Altrimenti la disumanità che si accetta come un fatto scontato nelle prassi di respingimento indiscriminato in mare non potrà che diffondersi, e non solo nei rapporti con le persone che arrivano comunque a sbarcare nel nostro paese. Sarà la stessa disumanità che alimenterà i conflitti interni in Libia ed accrescerà il livello della frammentazione sociale in Italia. Se la stessa disumanità, basata su considerazioni politiche più che su motivazioni giuridiche che tengano anche conto del diritto internazionale e dei principi costituzionali, dovesse prevalere anche nelle sedi giurisdizionali, malgrado i richiami espressi degli articoli 2, 10, 11 e 117 della Costituzione, sarebbe a rischio lo Stato di diritto ed il principio di uguaglianza davanti alla legge