Anche per la Marina la tesi del “flag state” non prevale sugli obblighi di sbarco nel porto sicuro più vicino. Una smentita che pesa per Salvini e Lamorgese.

di Fulvio Vassallo Paleologo

1.Nel giorno dell’ennesima strage sulla rotta ormai unificata libico-tunisina, con decine di dispersi, si è appreso del più recente attacco contro le ONG, che utilizzano navi battenti generalmente bandiera straniera. spesso di paesi nordeuropei, come se questa circostanza costituisse un mezzo per chiedere allo Stato più vicino in grado di offrire un place of safety (POS) l’indicazione di un porto di sbarco sicuro. Alcune argomentazioni utilizzate, certamente conformi al diritto internazionale del mare, sembrano però capovolgere la prospettiva di attacco.

Secondo l’ammiraglio Caffio, “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”, e comunque “in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo. Le autorità dovrebbero obbligare una nave carica di migranti a rimanere in acque internazionali, attendere che vi siano accordi con il Paese di cui batte bandiera e aspettare che questi migranti siano mandati lì.” Ipotesi veritiera per quanto concerne la incompetenza degli stati di bandiera ad indicare un porto sicuro di sbarco. Ma sul punto del trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, fino alla conclusione con gli Stati UE delle trattative per la relocation, si tratta di una tesi del tutto smentita dal diritto internazionale, dal Regolamento Dublino del 2013, e dalla più recente giurisprudenza italiana, oltre che dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, che prevede lo sbarco immediato delle persone soccorse in mare nei centri Hotspot, senza alcuna distinzione tra i soccorritori e senza richiami agli Stati di bandiera delle navi che sono intervenute. Qualsiasi nave di soccorso non può essere considerata a tempo indeterminato come un “place of safety” ed evidenti considerazioni umanitarie, oltre che i principi del diritto internazionale del mare impongono lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Come ha riconosciuto la Corte di cassazione con la sentenza sul caso Rackete del 16-20 febbraio 2020. Una sentenza che ormai ha fatto giurisprudenza.

Dalle pagine del Giornale l’ammiraglio, esperto di diritto marittimo, con l’evidente finalità di delegittimare ulteriormente le ONG, manda dunque in frantumi la tesi che dovrebbe essere il paese di bandiera della nave soccorritrice ad indicare il porto sicuro di sbarco. Tesi in contrasto con il diritto internazionale, ma che, malgrado la smentita dalla Corte di Cassazione sul caso Rackete, costituisce ancora oggi la linea del Viminale, del ministro Lamorgese e del governo Draghi.

2. Già nel dicembre del 2019 il ministro dell’interno Lamorgese affermava la sua strategia, per questo aspetto in continuità con il precedente titolare del Viminale, senatore Salvini. Secondo la Lamorgese, “la sistematicità con cui i soggetti privati svolgono attività search and rescue, anche con il supporto di autonomi dispositivi di monitoraggio aereo e allertamento tramite centrale operativa apposita, impone di considerare anche altri profili quali quelli connessi alla sicurezza della navigazione. Servono dunque regole più sicure e norme di condotta valide per tutti gli Stati, compresi quelli di bandiera”.  Secondo il ministro occorreva “una maggiore responsabilizzazione «sul piano delle certificazioni, sulla cooperazione nella fase di sbarco e sulla successiva redistribuzione dei migranti”. Ancora nel corso di un incontro con alcuni rappresentanti delle Ong, pochi mesi fa, il ministro Lamorgse chiedeva di ” fare pressione sugli Stati europei che, nonostante l’insistenza dell’Italia, continuano a non dare segni di concreta disponibilità nella condivisione delle responsabilità nella gestione dei flussi migratori, quantomeno nella relocation dei migranti che sbarcano nei Paesi costieri. Condivisione di cui c’è una ” esigenza immediata”. 

Le stesse tesi con le quali sono state discriminate per anni le navi delle Ong, con la delega dei respingimenti alla Guardia costiera libica, alla quale i comandanti delle navi umanitarie avrebbero dovuto obbedire, e con blocchi immotivati, tesi che sono state alla base dei divieti di ingresso nelle acque territoriali, delle Direttive ministeriali e dei decreti sicurezza di Salvini.

3. Secondo le memorie difensive del senatore Salvini nel processo Open Arms a Palermo, per il quale è stato rinviato a giudizio, “l’Italia non era lo stato competente ad indicare il Pos” (ovvero il cosiddetto “Place of safety”) per Open Arms, in quanto “secondo il diritto internazionale” sarebbe dovuta essere responsabile la Spagna “quale stato di bandiera della nave Open Arms, e, limitatamente al terzo episodio, Malta”.

Secondo la difesa di Salvini, “dalla ricostruzione dei fatti (provata dalla documentazione allegata alla presente) risulta che i primi paesi contattati e informati siano stati la Spagna(Paese di bandiera della nave) e Malta (zona più vicina al punto ove sono avvenuti i salvataggi).Tuttavia, RCC Spagna, invece di rilasciare il POS, ha invitato il comandante della Open Arms a chiedere il POS a RCC Malta e RCC Malta, invece che indicare il POS, ha rispedito al mittente la richiesta invitando la nave a chiedere il POS alle autorità spagnole. Infatti l’ Open Arms ha fatto richiesta di POS a RCC Malta (il 2.8.2019, ore 4:13) successivamente reiterandola (2.8.2019, ore 7:22) ottenendo da RCC MALTA risposta che avrebbe dovuto chiedere il POS alla Spagna (2.8.2019, ore 10:16) come anche ribadito in risposta alla seconda richiesta di POS. È chiaro, dunque, che l’Italia non aveva alcuna competenza e alcun obbligo con riferimento a tutti i salvataggi effettuati dalla nave spagnola Open Arms in quanto avvenuti del tutto al di fuori di aree di sua pertinenza”. 

Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, invece“deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. A pag. 46 della richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei ministri si afferma che “…nella vicenda in esame due sono gli Stati che devono individuarsi come autorità di primo contatto: l’Italia e Malta, in quanto entrambi contestualmente contattati e informati delle prime due operazioni di salvataggio, almeno sin dal 2.8.2019…”.

4. In realtà nel corso degli anni tutti gli stati di bandiera ai quali il governo italiano ha fatto riferimento per esaudire la richiesta di un porto di sbarco sicuro dopo i soccorsi operati dalle ONG hanno risposto negativamente ad una richiesta in evidente contrasto con il diritto internazionale e con i più elementari principi di umanità e di salvaguardia della vita umana in mare. Nel marzo del 2021 La Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa ha chiesto espressamente, agli Stati membri, con una Raccomandazione:

“● di garantire una risposta immediata quando le ONG richiedono
assistenza in mare e l’assegnazione di porti sicuri;

di astenersi dall’utilizzare in modo improprio procedimenti penali
e amministrativi e requisiti tecnici semplicemente per ostacolare
l’operato vitale delle ONG;

● di garantire che le ONG abbiano accesso alle acque territoriali e ai
porti e possano tornare rapidamente in mare, e aiutarle a soddisfare
qualsiasi altra esigenza legata al loro lavoro o ai requisiti tecnici,
anche durante la crisi sanitaria del Covid-19.

Se si spazza via la tesi del “flag state” (stato di bandiera) ritenuta impraticabile nel febbraio del 2020 anche dalla Corte di Cassazione, ben difficilmente Salvini potrà farla franca nel processo Open Arms che si aprirà il 15 settembre prossimo a Palermo. Spettava al ministero dell’interno indicare un porto di sbarco sicuro, cosa che non avvenne, neppure dopo una sentenza del Tribunale amministrativo della regione Lazio. Secondo il TAR Lazio ” Il divieto di ingresso era illegittimo, perché “in violazione delle norme del diritto internazionale del mare in materia di soccorso”, che prescrivono l’obbligo di soccorrere e portare immediatamente i migranti nel porto sicuro più vicino. Alla fine la Open Arms entrò nel porto di Lampedusa per sbarcare i naufraghi solo a seguito del sequestro disposto dalla Procura di Agrigento.

Migliaia di vittime in fondo al mare e nei campi di detenzione in Libia attendono giustizia. La guerra furibonda contro le ONG ha stravolto il senso comune della maggior parte delle persone ed ha scavato un solco incolmabile tra chi difende i principi di solidarietà e chi rimane vittima della paura dell’invasione o lucra vantaggi elettorali sulla pelle dei più deboli, i migranti in fuga dalla Libia e dalla Tunisia, oggi ancora più in crisi per lo sfacelo istituzionale e per l’emergenza Covid. La propaganda e la disinformazione non la potranno avere vinta ancora una volta di fronte allo Stato di diritto. Almeno si spera.


Migranti: Tunisia, recuperati 29 corpi al largo delle coste di Mahdia e Sfax

Tunisi, 11 ago 13:56 – (Agenzia Nova) –

Un nuovo naufragio di migranti ha avuto luogo nelle acque tunisine del Mediterraneo. Le unità della Guardia costiera della Tunisia hanno recuperato tra lunedì 9 e martedì 10 agosto i corpi di 29 persone annegate al largo coste situate tra le città di Mahdia e di Sfax, nel tentativo di emigrare irregolarmente verso le coste dell’Italia. Lo riferisce una fonte della sicurezza tunisina all’emittente radiofonica ” Jawhara Fm”, rivelando che tra le vittime vi sarebbero anche dei cittadini tunisini. Martedì 19 agosto il colonnello Ali al Ayari, portavoce ufficiale della Guardia costiera, aveva riferito che 70 tunisini provenienti dalle città di Sfax, Mahdia e Kairouan e sei persone di nazionalità africana erano stati recuperati in mare dalle forze navali tunisine: i tunisini erano di età compresa tra i 14 e i 43 anni, mentre tra i migranti africani vi era anche un neonato. Secondo il portale web dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), almeno 1.009 persone sono morte nella rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio del 2021.