Naufragio davanti la base turca di Al Khums e respingimenti collettivi, cancellato il diritto internazionale sui soccorsi in mare

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Da un anno i turchi controllano il porto di Khoms (Al Khums), come le aree portuali di Sirte, Misurata e Tripoli ed adesso anche quelle al limite del confine con la Tunisia. Una presenza che ha stravolto le regole di ingaggio in mare ed il ruolo di coordinamento delle attività della sedicente Guardia costiera “libica” che fino al mese di luglio del 2020 era svolto dalle autorità marittime italiane, presenti in Libia (missione Nauras) assistite dalla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma (IMRCC). Come ha ammesso persino un alto esponente della Marina militare italiana, certo più informato di altri suoi colleghi che continuano a diffondere becera propaganda, ad uso delle destre, forse in vista di un prossimo impegno in politica. Si punta sempre e soltanto sul target costituito dalle vie di fuga dei migranti dagli orrori dei campi di detenzione in Libia, e non si comprende neppure, o non si fa sapere, quello che effettivamente sta accadendo in Libia ed adesso anche in Tunisia. Paesi con i quali si sono conclusi accordi per bloccare le partenze ed intercettare i migranti in mare, senza però fornire assistenza sanitaria contro il COVID e politiche di legalità e sviluppo economico, due termini che gli attuali governanti evidentemente non riescono a conciliare. Con le conseguenze che si vedranno presto sia a Tripoli che a Tunisi.

Oggi davanti alle coste di Khoms hanno fatto naufragio decine di migranti, mentre si è appreso che la sedicente Guardia costiera libica ha intimato ad una nave delle ONG di allontanarsi dalle acque territoriali libiche, arrivando a vietare persino gli interventi di soccorso nella vastissima zona SAR impropriamente riconosciuta al governo di Tripoli nel 2018, per effetto degli accordi bilaterali stipulati dall’Italia con la Libia dell’ex premier Serraj nel febbraio del 2017. Ormai i naufragi si ripetono a cadenza periodica, ed in Italia si fa di tutto per nasconderli, anche quando si pronunciano i rappresentanti delle Nazioni Unite. Si rifinanziano gli accordi di cooperazione operativa con le diverse guardie costiere libiche, senza neppure più riuscire a controllare il loro operato, spesso oltre i limiti delle leggi e del diritto internazionale. Operato sul quale sta indagando anche la Procura di Agrigento e da anni la Corte Penale internazionale.

Erdogan sta usando le partenze dei migranti da questa zona costiera per ricattare l”Italia come ha fatto dal 2016 ad oggi in Egeo con la Grecia e con l’Unione Europea. E’ infatti da qui che sono partite migliaia di persone che con le loro piccole imbarcazioni sono riuscite a raggiungere Lampedusa anche quando il governo italiano ha bloccato con i fermi amministrativi tutte le navi delle ONG che operavano attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. Ma nonostante il blocco delle ONG le partenze dalla Libia e dalla Tunisia sono aumentate in modo esponenziale, come le vittime di abbandono in mare.

I governi europei hanno lasciato sola la Tunisia, davanti al Covid ed alla crisi economica ed adesso i governanti europei, di fronte al loro ennesimo fallimento, ignorando le ragioni della fuga di tanti giovani tunisini, tentano di nascondere ai loro elettori quanto sta avvenendo in Tunisia e in tutto il Maghreb, rilanciando in ritardo la collaborazione con la Guardia costiera tunisina. Con le conseguenze che stiamo vedendo a terra, ed in mare, con il moltiplicarsi dei naufragi.

Le autorità maltesi ritardano sistematicamente le risposte alle chiamate di soccorso, o le ignorano del tutto, contando sul fatto che i barconi carichi di migranti, se non vengono intercettati dai libici, anche all’interno della zona SAR che si continua a riconoscere al governo de la Valletta, proseguono la loro rotta verso le acque italiane. Tutte le autorità di governo, in tutti i paesi delle due sponde del Mediterraneo, stanno sistematicamente violando gli obblighi di soccorso in mare imposti dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Neppure la missione europea a guida italiana Eunavfor Med IRINI riesce a garantire effettivamente gli obblighi di soccorso che pure deriverebbero a suo carico, da quando è collegata all’agenzia FRONTEX, dal Regolamento europeo n.656/2014. Di fronte alla presenza in mare di decine di imbarcazioni contemporaneamente, facilmente tracciabili dai mezzi militari presenti in zona, manca qualsiasi coordinamento mirato alla salvaguardia della vita umana in mare ed allo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, nel quale possano fare valere anche una richiesta dia silo, come sarebbe imposto anche dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Diritto negato a centinaia di naufraghi, soccorsi nei pressi delle piattaforme petrolifere offshore in acque internazionali al largo del confine tra la Libia e la Tunisia, e riportati in questi paesi senza alcun rispetto per il loro diritto ad essere sbarcati in un porto sicuro nel quale potere chiedere asilo, come si è ripetuto fino a pochi giorni fa.. Di fatto queste prassi illegali hanno cancellato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e le correlate Direttive europee in materia di protezione internazionale e di rimpatri.

2. Secondo l’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, che sancisce l’“Obbligo di prestare soccorso”, ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altri Trattati internazionali di diritto marittimo, i più importanti dei quali sono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas)[ e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar)

In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, che Malta non ha mai ratificato, “la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

La Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi di situazioni SAR. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”  Lo stesso principio è ribadito dal paragrafo 3.6.1 del Manuale IAMSAR, Vol 1, dove si prevede che un RCC (Rescue Coordination Center) dopo la ricezione di una chiamata di soccorso, diventa responsabile nella gestione delle relative operazioni S.A.R. fino a quando altra autorità competente non assuma il coordinamento.

Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”

Le Convenzioni internazionali UNCLOS, SOLAS, e SAR impongono agli Stati parte precisi obblighi di coordinamento nelle attività di ricerca e salvataggio, al fine di salvaguardare la vita umana in mare. Gli Stati costieri hanno l’obbligo di organizzare e mantenere un “servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima” (articolo 92.2 UNCLOS) e l’autorità marittima che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio “deve immediatamente provvedere al soccorso”.

La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974(Convenzione SOLAS) richiede agli Stati parte“…di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste. Tali accordi dovranno comprendere l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di tali strutture di ricerca e soccorso, quando esse vengano ritenute praticabili e necessarie…” (Capitolo V, Regola 7). Né la Libia né la Tunisia garantiscono il rispetto di queste Convenzioni, dunque risultano illegali tutti gli accordi di cooperazione operativa con Guardie costiere che non garantiscono come priorità assoluta la salvaguardia della vita umana in mare. Per non parlare della situazione sofferta dai naufraghi una volta riportati a terra, in paesi come la Libia e la Tunisia che non possono essere certo definiti, anche alla luce dei più recenti eventi, come “paesi terzi sicuri”.

3. Si deve riconoscere che l’Unione Europea e l’Italia, pur consapevoli della sorte che tocca ai naufraghi riportati in Libia, abbiano abbandonato alla sedicente Guardia costiera “libica” (ma si dovrebbe dire alle tante Guardie costiere delle milizie che controllano le città di una Libia, ancora divisa dal conflitto civile, e nella quale si impone la presenza militare turca) una parte consistente delle acque internazionali del Mediterraneo centrale, corrispondenti a quella che è stata definita come zona SAR libica. Una zona di ricerca e salvataggio in cui i soccorsi si trasformano in intercettazioni agevolate dagli assetti europei, con la conseguenza che le persone in fuga dalla Libia vengono riportate negli stessi terribili centri di detenzione dai quali erano fuggite. Intercettazioni alle quali adesso partecipano sia pure con la mera attività di comunicazione e coordinamento unità militari turche. Oltre 15.000 le persone intercettate nel 2021 nelle acque del Mediterraneo centrale e riportate in Libia. Ed oltre 1000, fino ad oggi le vittime accertate secondo i dati ufficiali delle Nazioni Unite.

Le responsabilità della morte o della detenzione di migliaia di persone intercettate nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale sono da attribuire anche ai governi, come quello italiano, che fanno di tutto per ostacolare i soccorsi umanitari delle ONG, mentre tengono all’interno delle loro acque territoriali (12 miglia dalla costa) quelle unità militari specializzate per attività SAR, che fino al 2017 avevano contribuito, in sinergia con le navi della flotta civile, a salvare decine di migliaia di persone sbarcandole in porti sicuri in Italia.

La politica europea ed italiana contro i migranti ha reso ciechi e sordi di fronte a quanto accadeva in Nordafrica ed adesso, come avevamo previsto, si aprono fronti di guerra civile in tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo, soprattutto in Libia ed oggi anche in Tunisia. Eppure si continua a considerare le autorità marittime di quei paesi come “competenti” per le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. E per chi non obbedisce, o anche per chi si ostina ad effettuare soccorsi in acque internazionali, se non si batte bandiera italiana, può ancora scattare il divieto di ingresso nei nostri porti, come ai tempi di Salvini ministro dell’interno.

Il governo italiano non ha ancora revocato il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020 che, nella stessa logica dei decreti sicurezza Salvini, ma in base allo “stato di emergenza” dichiarato, ed ancora oggi prorogato, per il COVID, permette al ministro dell’interno di vietare l’ingresso delle navi straniere che abbiano effettuato azioni di soccorso nelle acque internazionali, senza obbedire agli ordini di riconsegna impartiti dai guardiacoste libici, sotto minaccia armata.

Malgrado il “sofferto” rilascio di qualche nave delle ONG colpita dallla politica dei fermi amministrativi, “liberata” dopo settimane di quarantena e poi di ispezioni nei porti ( Port State Control-PSC) e fermi conseguenti, con motivazioni che non tengono contro delle clausole di esonero previste dalle Convenzioni internazionali nei casi di soccorso in mare, i soccorsi umanitari rimangono ad alto rischio. Anche perché dopo la chiarissima sentenza della Corte di cassazione del 16 febbraio 2020 sul caso Rackete, sembra che i vertici esteri delle ONG abbiano scelto la strada di evitare la via dei ricorsi giurisdizionali contro atti palesemente illegittimi delle autorità amministrative. Dopo sentenze contraddittorie della giustizia amministrativa sui provvedimenti di fermo si dovrà ancora attendere mesi per la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla legittimità delle prassi ispettive adottate dalle autorità marittime italiane sulla base del Memorandum di Parigi e della Direttiva. Ed intanto i fermi amministrativi proseguiranno sulla base dei criteri arbitrari adottati dalle autorità marittime italiane.

Nel frattempo si corre il rischio che i governi, e soprattutto il ministero dell’interno a Roma ripropongano la tesi della competenza dello Stato di bandiera come Stato competente a garantire un porto sicuro di sbarco, una tesi che si era già affacciata ai tempi del primo governo Conte, con Salvini al Viminale, come si può ben ricordare dal caso Aquarius del giugno 2018, e che il ministro Lamorgese, anche nell’ultimo incontro con le ONG nello scorso maggio, sulla spinta probabilmente di quanto elaborato dai suoi consiglieri legali e militari, ha riproposto e ripropone ad ogni occasione nella quale si debba assegnare un porto di sbarco sicuro ad una ONG dopo azioni di soccorso in mare. Una tesi in conflitto con il diritto internazionale, e con il suo recepimento da parte della giurisprudenza italiana, alla luce del dettato vincolante dell’art.117 della Costituzione.

Mentre sembra scomparsa qualsiasi prospettiva di aprire consistenti canali di evacuazione umanitaria dalla Libia, di garantire ingressi legali anche per lavoro stagionale dalla Tunisia, e mentre manca un qualsiasi impegno per una missione internazionale di soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, le ONG, ancora presenti in queste acque con tre navi, e soprattutto le persone che soccorreranno, rischiano di pagare il prezzo più alto, costrette ad attese estenuanti in alto mare, quindi con la loro definitiva delegittimazione e con la cancellazione dei diritti dei naufraghi, declassati alla categoria di “clandestini”. Un rischio che si può affrontare con gli strumenti della denuncia immediata e dei ricorsi giurisdizionali più tempestivi, senza alcuna illusione che le fasi di trattativa, sul piano politico o sul piano tecnico-amministrativo, prima e dopo i provvedimenti di fermo, possano produrre una qualche flessione nella politica del governo e nelle prassi amministrative adottate dalle autorità marittime. Che continuano comunque a fornire pretesti per una propaganda tossica.

Considerando il numero delle partenze che si stanno preparando in Libia ed in Tunisia, soprattutto per il deterioramento delle condizioni di vita delle popolazioni migranti intrappolate in quei territori, oltre che degli autoctoni, se ad ogni soccorso operato da una nave civile delle ONG seguiranno settimane di attesa in mare e poi mesi di quarantena e quindi di fermo amministrativo, sulla base di una errata interpretazione del diritto internazionale ed europeo, si può ritenere che le acque del Mediterraneo centrale resteranno abbandonate alle motovedette armate dei libici a guida adesso turca, e che le vittime di naufragio continueranno a sommarsi in una conta quotidiana che ormai, in tempi di dilaganti infezioni da COVID, non sembra scalfire le popolazioni ( e gli elettorati) europei. Che anzi continuano ad essere manovrati da chi sparge odio e disinformazione, arrivando ad indicare negli sbarchi dei migranti una causa del ritorno della quarta fase della pandemia. Se da questa crisi si volesse veramente uscire restando nei limiti dello “Stato di diritto”(Rule of law), bisognerebbe applicare innanzitutto le regole del diritto internazionale e portare aiuti nei paesi di transito in difficoltà, piuttosto che promuovere e finanziare accordi vari milizie e politici che utilizzano l’immigrazione come arma di ricatto nei confronti dei decisori politici europei, per ottenere armamenti, soldi e credito politico.