di Fulvio Vassallo Paleologo
Si è riaperto a Palermo il processo in grado di appello contro Medhanie Tesfamariam Behre, arrestato nel 2016 in Sudan con una operazione congiunta della polizia sudanese in collaborazione con i servizi italiani e inglesi, e per tre anni tenuto in carcere a Palermo, ritenuto erroneamente un importante trafficante di esseri umani. perchè scambiato per Medhanie Yedhego Mered, alias Il Generale, uno dei più pericolosi trafficanti di uomini operanti in Libia tra il 2013 e il 2016. Sul caso, da subito era esploso uno scontro fra procure proprio sull’identità dell’arrestato.
Behre era stato poi assolto dalle accuse più gravi nel giudizio di primo grado dalla Corte di Assise, per l’evidente errore di persona nel quale erano incappati gli inquirenti, pur finendo condannato per avere favorito l’ingresso in Italia di alcuni suoi parenti in fuga dall’Eritrea. Senza che assumesse alcun rilievo quanto poi accertato dalla Commissione territoriale di Siracusa che nel mese di agosto del 2019 gli riconosceva lo status di rifugiato, e dunque la sua condizione di persona esposta a gravi rischi di persecuzione individuale, tanto nel suo paese, quanto nei paesi che era stato costretto ad attraversare per raggiungere l’Italia. Circostanza che non assumeva neppure rilievo per escludere, nel giudizio di primo grado, in ordine al contestato reato di agevolazione, la sua punibilità, in base alla clausola esimente di stato di necessità, per avere aiutato alcuni parenti a sottrarsi alle stesse violenze dalle quali era riuscito a fuggire. Come non avevano assunto alcun rilievo le violenze subite dalla polizia sudanese a Khartoum, subito dopo il suo arresto, prima della consegna agli agenti di polizia che lo trasferivano con grande rilievo mediatico in Italia, al culmine di una stagione di collaborazione con le autorità sudanesi che nello stesso periodo si macchiavano di gravissimi crimini contro l’umanità, che determinavano poi la caduta del capo del governo a seguito di sollevazioni popolari e di un colpo di Stato militare. Era anche il periodo nel quale il governo sudanese guidato dal dittatore Bashir, indagato dal Tribunale Penale internazionale, dopo un accordo con l’Eritrea, riconsegnava al regime di Afewerky decine di rifugiati che si trovavano legalmente a Khartoum e che venivano nel giro di poche settimane privati dei documenti di soggiorno e rispediti nelle galere eritree, nelle quali molti trovavano la morte a seguito delle torture subite. Tutte circostanze che andavano (e vanno) considerate per valutare la responsabilità penale dell’imputato Mered. La Commissione territoriale di Siracusa, e dunque il ministero dell’interno, che aveva riconosciuto il grado più alto di protezione, lo status di rifugiato, dopo severi accertamenti, come l’UNHCR, agenzia delle Nazioni Unite, che aveva rilasciato un documento di viaggio al profugo eritreo, vittima dello scambio di persona al momento del suo arresto a Khartoum, non avevano comunque avuto più dubbi sulla sua reale identità che adesso si vorrebbe rimettere in discussione. Non si comprende ancora sulla base di quali nuovi elementi o di quali nuove testimonianze.
Nell’udienza tenutasi mercoledì 21 luglio davanti la Corte di Appello di Palermo, integralmente registrata da Radio Radicale, la Procura generale, seguendo l’impostazione del ricorso prospettata dalla Procura di Palermo, ha insistito per la tesi accusatorie che in primo grado avevano portato allo scambio di persona, e che dopo un ampio esame istruttorio erano state destituite di qualsiasi fondamento. Adesso la Procura generale fa propri quei motivi di appello della procura senza addurre nuove prove, senza neppure prendere atto di accertamenti inconfutabili sul piano dei fatti realmente occorsi. Si insiste sulla consueta testimonianza di “pentiti”, già smentiti in altri procedimenti conclusi con sentenza definitiva, e soprattutto sulla raccolta di intercettazioni captate al di fuori del territorio italiano, senza le rogatorie internazionali richieste dalla legge, e di perizie foniche sulle quali i periti hanno espresso valutazioni contraddittorie e parziali, arrivando a scambiare un avverbio per il nome di una persona. Nel ricorso della Procura, che ancora insiste sullo scambio di persona accertato dalla Corte di Assise di Palermo in primo grado, il tentativo di rifare in pratica un altro processo, addirittura riesumando i brogliacci di indagine della polizia giudiziaria, che sono stati già smentiti dalla sentenza di primo grado.
Ma quello che più inquieta è la richiesta della Procura generale di riascoltare ancora come testimoni quei funzionari del Servizio centrale del Ministero dell’interno (SCO) che hanno poi tenuto sotto intercettazione i telefoni dei difensori, dei consulenti, dei giornalisti che si sono occupati del caso “Mered Medhanie”, e che hanno contribuito a rendere evidenti le prove, anche documentali, dello scambio di persona. In modo che alla fine il processo Mered è stato quasi come una cartina di tornasole che rivelava il frutto avvelenato di una stagione di accordi con paesi come il Sudan, che non garantivano i diritti umani, mentre lasciavano campo libero alle mafie internazionali che gestivano la tratta di esseri umani. Stagione che non è superata neppure oggi, e per questo il processo rimane attuale e di grande importanza per chi vuole legittimare gli accordi con i paesi terzi che collaborano con le autorità italiane nella lotta all’immigrazione irregolare, anche se non rispettano affatto i diritti umani.
La Procura di Palermo ha anche intercettato le comunicazioni del giornalista che più degli altri colleghi italiani aveva seguito il processo. Un giornalista che fin dal principio non aveva creduto nella colpevolezza dell’imputato e ne aveva scritto su importanti testate internazionali.
Le prime considerazioni del ministro Cartabia sulla legittimità delle intercettazioni disposte dalla Procura di Trapani nell’ambito del processo IUVENTA anche contro avvocati e giornalisti che si stavano occupando del processo Mered/Medhanie, confermano uno scarso impegno delle autorità di controllo verso un uso distorto dei brogliacci di polizia giudiziaria contenenti le captazioni, che avrebbero dovuto essere distrutti se irrilevanti in quella determinata sede processuale. E che invece sono stati diffusi a seguito dell’ordinanza di conclusione delle indagini preliminari nel processo IUVENTA a Trapani. Con classificazione della rilevanza di ogni captazione e con nomi, cognomi e delle persone che non parlavano certo del processo nell’ambito del quale le intercettazioni venivano disposte, ma di fatti e linee difensive che assumevano rilievo in altri procedimenti penali aperti in materia di traffico di esseri umani e di agevolazione dell’immigrazione clandestina. Difficile escludere che dietro tutto questo non vi fosse una linea politico/giudiziaria tendente ad accreditare le tesi accusatorie nei confronti di chiunque dissentisse dalle politiche di criminalizzazione, adottate dai diversi governi succedutisi nel tempo, tanto nei confronti dei migranti, quanto verso chi prestava loro soccorso, o li assisteva in giudizio, o semplicemente ne riferiva in modo indipendente.
Gli esiti interlocutori della prima fase della ispezione del ministro Cartabia a Trapani ci preoccupano per la ricaduta sul sistema giudiziario italiano, ma non ci fanno paura. I Rapporti delle Nazioni Unite confermano le analisi che avevamo fatto e sulle quali ci eravamo basati per difendere i migranti in fuga dai paesi africani attraverso la Libia ( ed oggi anche attraverso la Tunisia). Troppe volte ritenuti “clandestini” o trafficanti, a seconda dei ruoli che si voleva attribuire loro, mentre erano soltanto profughi in fuga. Se qualcuno voleva usare la leva giudiziaria, in particolare con le attività di intercettazione fuori dai limiti previsti dal codice di procedura, per criminalizzare potenziali richiedenti protezione internazionale, colpire il mondo della solidarietà e legittimare accordi con paesi che non rispettano i diritti umani, sarà proprio da queste intercettazioni, assunte spesso senza le autorizzazioni richieste dalla legge, che verrà fuori la verità su fatti che si vorrebbero tenere nascosti, Anche se sarà necessario arrivare davanti ai tribunali internazionali o alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Intanto occorre fare chiarezza sul caso Mered/Medhanie, e presto, senza rifare un nuovo processo con una nuova istruttoria in secondo grado, magari in attesa che salti fuori qualche altra prova a carico degli imputati, cosa che sarebbe anche contro le prescrizioni del nostro ordinamento processuale. Magari sarebbe meglio riconoscere chi è innocente e dare ascolto alle precise indicazioni sulle crudeli catene del traffico che da anni sono descritte da giornalisti ed esperti indipendenti, piuttosto che basare la lotta contro l’immigrazione irregolare sulla collaborazione con servizi di polizia che risultano ampiamente infiltrati e corrotti fino ai massimi livelli. Qualcuno si è accorto di quello che è successo in Sudan negli ultimi cinque anni? Avere ritenuto che un profugo eritreo fosse in carcere a Palermo, come se fosse stato a capo di una organizzazione criminale dedita al traffico di persone, e continuare ancora oggi a sostenere che non vi sia stato alcuno scambio di persona, significa contribuire in modo evidente alla massima libertà di circolazione per il vero trafficante che si vorrebbe processare, ma che intanto è libero di spostarsi per tutta l’Africa, e di gestire i suoi traffici, contando sul fatto che nessuno lo può ricercare perché risulta sotto processo in Italia. Come ha riferito il Post nel 2018, la Televisione pubblica svedese (SVT) addirittura “sarebbe in possesso di un fascicolo che rivela come un’autorità di polizia europea sia a conoscenza del fatto che il vero trafficante è ancora in libertà e di come non riesca a convincere i pubblici ministeri italiani a emettere un nuovo mandato di cattura”.
Il processo in appello per Medhanie Tesfamariam Behre poseguirà ad ottobre. Come già abbiamo fatto durante tutto il processo di primo grado, e già dopo il suo arresto in Sudan nel 2016, continueremo a documentare quanto avverrà in sede processuale, ed al di fuori dell’aula del dibattimento, sui canali dell’informazione che hanno trattato questa vicenda con pubblicazioni in ogni parte del mondo. E lo stesso avverrà anche in questa seconda fase di appello, in un giudizio nel quale saranno messi alla prova il diritto di difesa, il principio del contraddittorio, la regola costituzionale del giusto processo, istituti di garanzia che vanno ben oltre il singolo procedimento penale e che mettono in evidenza il rispetto ( o meno) delle regole da parte di tutti gli attori istituzionali, dentro e fuori il processo penale, e dunque la tenuta democratica di un paese. Su questo la vigilanza e la mobilitazione saranno sempre al massimo livello.
**MIGRANTI: CARTABIA, ‘LEGITTIME INTERCETTAZIONI IN INCHIESTA TRAPANÌ** = Roma, 21 lug. – (Adnkronos) – «In attesa che siano ostensibili gli esiti dell’ispezione voluta dal ministero, allo stato attuale non emergono profili di rilievo disciplinare e/o violazioni della normativa processuale in tema di intercettazioni da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trapani». Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, rispondendo al Question Time alla Camera a un’interrogazione sull’inchiesta della procura di trapani sulle Ong. (Coc/Adnkronos) ISSN 2465 – 1222 21-LUG-21 15:52