Ancora un fermo amministrativo per bloccare i soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Pronta risposta dal Governo italiano alle richieste delle Nazioni Unite volte a garantire la maggiore agibilità delle ONG nelle attività di soccorso nel Mediterraneo centrale ed ennesima prova della disponibilità’ al dialogo con le ONG. Sabato 5 giugno, come da copione, la nave umanitaria Sea Eye 4 fatta ormeggiare nel porto di Palermo, dopo un periodo di quarantena, è stata sottoposta ad un provvedimento di fermo amministrativo, a seguito di una ispezione durata più di dodici ore. Un provvedimento disposto dalla Capitaneria di Porto di Palermo (1), su indirizzo del Ministero delle infrastrutture, come emerge dalla uniformità dei rilievi rispetto a precedenti fermi amministrativi di navi private delle ONG sottoposte a visite di controllo (PSC) in diversi porti. Si può dunque ritenere che il nuovo governo Draghi confermi la prassi di controlli sistematici sulle attività delle navi private che, per conto delle ONG, operano soccorsi nel Mediterraneo centrale. Senza clamore mediatico, si procede con interventi di natura prevalentemente amministrativa che avevano avuto inizio con l’arrivo della ministro Lamorgese al Viminale, dopo i sequestri ed i procedimenti penali, in gran parte archiviati, frutto del codice di condotta Minniti e dei decreti sicurezza di Salvini,

Nel corso del 2020 la misura del fermo amministrativo è diventata lo strumento ordinario di contrasto delle attività di ricerca e soccorso che le navi delle ONG tentano ancora di operare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Tra il 9 ottobre e il 31 dicembre 2020 ben sei navi delle ONG risultavano bloccate in porto per effetto di provvedimenti di fermo amministrativo (Sea Watch 3, Sea Watch 4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel). Le informazioni su questi casi sono state sempre molto frammentarie. Sarà importante ancora nei prossimi mesi rilanciare il diritto di accesso civico, già esercitato da diverse associazioni , e la prosecuzione delle ricerche dei pochi giornalisti d’inchiesta rimasti ad occuparsi della questione dei soccorsi nel Mediterraneo centrale. Ricerche che adesso si estendono alla individuazione delle basi legali dei provvedimenti amministrativi che hanno bloccato in porto le navi delle ONG. Soccorrere persone in mare costituisce adempimento di un dovere sancito dalle Convenzioni internazionali, oltre che dal diritto interno ed europeo, e non certo esercizio di una attività commerciale o di un diritto di libertà dei soccorritori. Non è in gioco soltanto la libertà di navigazione in acque internazionali ma il rispetto sostanziale del diritto alla vita delle persone che possono essere salvate e condotte in un porto sicuro solo grazie all’intervento delle navi delle Organizzazioni non governative. Perché gli Stati non garantiscono più il rispetto degli obblighi di ricerca e soccorso stabiliti a loro carico dalle Convenzioni internazionali.

Nei casi di fermo amministrativo fin qui verificati si è arrivati al punto di contestare lo scarto di qualche grado nelle rilevazioni della bussola di bordo, normale su tutte le imbarcazioni, tanto che esistono le tavole di correzione, la mancanza di una adeguata formazione dell’equipaggio, che si era allenato per mesi, il mancato aggiornamento di un manuale di istruzioni, la presenza eccessiva di volontari a bordo, la mancata sicurezza del sistema di protezione di un verricello, addirittura la leggibilità delle indicazioni antincendio. Nel caso del fermo amministrativo della Open Arms, ad aprile di quest’anno, mentre in tribunale a Palermo si doveva decidere sul rinvio a giudizio del senatore Salvini per un caso che riguardava la stessa ONG, sono state oggetto di contestazione la mancanza delle carte nautiche necessarie e delle pubblicazioni aggiornate per condurre un viaggio sicuro al porto di scalo di Burriana (Spagna), le cinture di salvataggio per bambini non idonee in quanto utilizzabili solo per attività di diporto ed è stata rilevata l’avaria dell’equipaggiamento per lo scarico a mare delle acque di sentina insieme a un accumulo eccessivo di acque inquinate in sala macchine. Tutto questo è stato rilevato su navi che avevano superato il severo controllo degli enti certificatori dei paesi di bandiera ( in particolare Spagna e Germania che hanno standard molto elevati) . Paesi che adesso corrono il rischio di vedere declassato l’intero naviglio che batte la loro bandiera, con conseguenze sul piano internazionale che, in base al principio di reciprocità, se le stesse attenzioni fossero riservate al nostro naviglio, potrebbero danneggiare anche il nostro paese.

In base a quali prescrizioni delle Convenzioni internazionali si è potuti arrivare a tanto ? Quali sono stati gli effetti di questi prolungati fermi amministrativi? La realtà dei fatti sta dimostrando quanto sia stato del tutto inutile bloccare con i “fermi amministrativi” le navi umanitarie delle ONG, se non per un notevole incremento degli interventi operati dalla sedicente guardia costiera “libica”, collusa con i trafficanti e con gli intermediari maltesi, che hanno riportato verso la detenzione e la tortura migliaia di persone intercettate in acque internazionali a sud di Lampedusa. Già dallo scorso anno l’aumento degli arrivi “autonomi” di migranti dalla Tunisia è stata una conseguenza del “vuoto” che si è voluto creare nel Mediterraneo centrale anche con i fermi amministrativi, oltre che con gli accordi con i libici, allontanando le ONG e ritirando nelle acque territoriali i mezzi della Guardia costiera, un vuoto che ha già inghiottito troppe vite, che nessuna imbarcazione, pubblica o privata, in regola con la Convenzione SOLAS, o con la Direttiva europea 2009/16/CE sui controlli nei porti, o meno, è andata a salvare. 

Tutti i provvedimenti di fermo amministrativo fanno riferimento ad un numero eccessivo di naufraghi soccorsi rispetto alle caratteristiche strutturali ed alle dotazioni di sicurezza delle navi soccorritrici, alle quali si contesta anche la violazione di norme ambientali e di quelle attinenti la posizione lavorativa dell’equipaggio che imbarcano. L’uniformità delle contestazioni contenute nei provvedimenti di fermo amministrativo conferma un chiaro indirizzo politico. Mentre il ministro dell’interno finge di aprire un “dialogo” con le ONG, si tengono bloccate in porto per mesi le uniche navi che potrebbero salvare vite nel Mediterraneo centrale, e superiori direttive di governo impediscono interventi di soccorso in acque internazionali alla Guardia costiera, alla Guardia di finanza e persino alla Marina militare. Che forse è troppo impegnata con la missione Nauras di base a Tripoli, nel porto militare di Abu Sittah, a fornire assistenza, formazione e coordinamento alla sedicente Guardia costiera libica. Non sorprende più a questo punto che queste attività di controllo siano mirate esclusivamente contro le navi private delle ONG che fanno soccorso in alto mare e non anche contro le altre navi private commerciali che, in assenza di mezzi della Guardia costiera e della Marina militare, sono coinvolte in attività di ricerca e soccorso a nord delle coste libiche e tunisine e fanno quindi scalo nei porti italiani, ripartendo dopo poche ore dal trasbordo dei naufraghi sulle navi quarantena. La cui ubicazione, vicino alle coste abitate, dovrebbe porre una rilevante questione ambientale, ad esempio sotto il profilo dello smaltimento dei reflui, che invece sembra esplodere solo all’arrivo delle navi delle ONG.

2. Il fermo amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti della nave Sea Eye 4 segue di qualche settimana la decisione del Consiglio di Giustizia amministrativa della regione Sicilia che, su ricorso del Ministro delle infrastrutture del governo Draghi, ha ribaltato una precedente decisione del Tribunale amministrativo di Palermo che agli inizi di marzo di quest’anno, sospendeva due fermi amministrativi adottati nel 2020 dalla stessa Capitaneria nei confronti di navi della ONG Sea Watch, ed ha spianato la strada ai successivi fermi amministrativi di navi umanitarie; considerate come “navi che svolgono continuativamente attività di soccorso”. Una categoria che non ha rilievo normativo nell’ordinamento italiano, come ammettono le stesse autorità marittime italiane, o come navi passeggeri, o navi commerciali, dunque in base al numero dei naufraghi che hanno soccorso. In realtà sembra prevalere una totale discrezionalità nella valutazione dei requisiti tecnici e della natura della nave sottoposta ai controlli ordinari od occasionali di sicurezza nei porti (PSC), che in base alle Convenzioni internazionali viene classificata e certificata dalle autorità dello Stato di bandiera, senza che autorità di altri Stati ne possano operare una diversa classificazione. In questi termini si era espresso anche il Tribunale amministrativo della regione Sicilia- Sezione di Palermo) quando aveva sospeso l’efficacia del provvedimento di fermo amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti della Sea Watch 4, chiarendo che la sicurezza della navigazione è assicurata dallo Stato di bandiera e dal comandante della nave in caso di situazioni che richiedono un intervento di emergenza, sottolineando come – in ogni caso – il trasporto dei naufraghi a bordo è limitato al tempo strettamente necessario al loro sbarco in un luogo sicuro.. Come riconosciuto anche dallo stesso Tribunale amministrativo siciliano che, nel caso di un’altra nave più piccola della stessa ONG, la Sea Watch 3, sospendeva la misura del fermo amministrativo, in quanto “la Germania, ossia lo Stato di bandiera, non ha all’interno del proprio ordinamento giuridico alcuna disposizione relativa alla classificazione di navi private svolgenti attività cd. SAR e, quindi, all’individuazione di apposite certificazioni o di specifici requisiti per lo svolgimento di attività cd. SAR da parte di navi private; tanto è vero che, come in precedenza rilevato, il competente organo amministrativo tedesco ha rilasciato a SW3 e trasmesso apposita certificazione in ordine al riconoscimento dell’intervenuto superamento di tutte le criticità indicate da parte della Capitaneria di porto in sede di fermo, con la specificazione di ritenere conformi e adeguate le certificazioni in possesso di SW3

Secondo il Consiglio di Giustizia amministrativa della regione Sicilia, invece, “in assenza di specifiche prescrizioni sulle caratteristiche tecniche delle unità di salvataggio, il servizio di pattugliamento, ricerca e soccorso in mare deve avvenire in condizioni di sicurezza per le stesse persone soccorse, per l’equipaggio (riguardo, tra l’altro, alla sufficienza dei servizi igienici e ad adeguate turnazioni del personale), per la navigazione, per l’ambiente; condizioni che allo stato non sono riscontrabili a bordo». I giudici amministrativi arrivano a sostenere che il fermo potrebbe decadere nel caso in cui si apportassero modifiche alla Sea Watch 4, nave già certificata dalle autorità competenti dello Stato di bandiera, adeguandosi «alle prescrizioni dettate dall’amministrazione o modulando il servizio alle condizioni strutturali della nave». “Modulare il servizio” significa forse limitare l’imbarco dei naufraghi che chiedono aiuto dal mare, configurandosi così il reato di omissione di soccorso?

Secondo i giudici del CGA della regione Sicilia dovrebbe riconoscersi che  “l’ordinamento internazionale contempli un nucleo essenziale di norme destinate esplicitamente al “Servizio di ricerca e di salvataggio”, anche da parte di mezzi privati, individuando l’autonoma figura del “Mezzo di ricerca e di salvataggio“, che “deve essere dotato di personale addestrato e delle attrezzature necessarie per l’adempimento del servizio”. In realtà la somma delle Convenzioni internazionali citate dal CGA non permette di giungere a questa conclusione, come peraltro era stato ampiamente dimostrato dal tribunale di prima istanza.  Ma intanto le ispezioni sono riprese, sembra con una squadra itinerante di ispettori inviati dal ministero delle infrastrutture, e dalle Capitanerie di porto arrivano nuovi provvedimenti di fermo amministrativo. Si può scommettere che succederà ancora al prossimo sbarco di naufraghi da una nave delle ONG.

Evidentemente, a livello giudiziario ed amministrativo, c’è stata una rivalutazione politica delle attività di soccorso delle ONG, che traspare evidente anche nella decisione del CGA della regione Sicilia, quando afferma, con un completo capovolgimento del rapporto regola/eccezione, che ” A partire dal 2014, e soprattutto dalla seconda metà dell’anno 2016, nello scenario del Mediterraneo centrale si è assistito ad crescente aumento della presenza di varie unità di ONG, con lo scopo di concorrere alle operazioni di soccorso a favore dei migranti provenienti dalle coste africane, specie nelle acque internazionali confinanti con le acque territoriali libiche, a fronte di un fenomeno (migratorio) umanitario epocale, non più emergenziale ma strutturale. Si tratta di un’attività, sistematicamente espletata in quelle zone, ascrivibile appieno alla categoria del “Servizio di ricerca e di salvataggio”, da espletarsi mediante “Mezzi di ricerca e di salvataggio” ed “Unità di ricerca e di salvataggio” che, a mente della richiamata Convenzione di Amburgo, deve avvenire in condizioni di sicurezza per le persone trasportate, l’equipaggio e l’ambiente, e dunque mediante imbarcazioni appositamente allestite e strutturate per l’esecuzione, in sicurezza, delle operazioni di soccorso istituzionalmente svolte. Motivo per cui non appare appropriato il richiamo alle esenzioni previste dalle Convenzioni per il salvataggio occasionale; l’attività SAR si colloca, evidentemente, fuori dal campo di applicazione (di natura eccezionale) di dette disposizioni.”.

Per il CGA della regione Sicilia, che cita la Convenzione SAR di Amburgo del 1979,  “Il punto 2.5 emendato fa riferimento, ancora una volta, alle “ unita’ di ricerca e di salvataggio”, e il punto 2.6.1. stabilisce che “ciascuna unità di ricerca e di salvataggio è dotata delle attrezzature necessarie per l’adempimento del suo compito”. Non si comprende come mai i giudici amministrativi forniscano una lettura solo parziale della Convenzione di Amburgo (SAR) con gli emendamenti, omettendo di citare il punto 3 del testo emendato, che prevede un obbligo preciso di coordinamento tra gli Stati nell’espletamento dei “servizi di soccorso”, autorizzando anche navi di diversa bandiera ad entrare nel mare territoriale se si tratta di prestare attività di ricerca e salvataggio. Di certo il coordinamento degli interventi di soccorso in acque internazionali operati, almeno fino alla adozione del Codice Minniti nel 2017, dalle ONG in sinergia con la Marina militare e con la Guardia costiera, è solo uno sfocato ricordo, anche se ritornerà di attualità se andranno avanti i procedimenti penali contro le ONG Open Arms, a Ragusa, e Save The Children e Medici senza frontiere, coinvolte, con le società armatrici, nel processo IUVENTA a Trapani.

Dalla lettura complessiva dell’intera Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979 e dei suoi emendamenti, ad esempio dal par.4.3.1, si ricava la conferma che, quando si tratta delle unità di salvataggio, o a servizi di salvataggio, si fa riferimento a tutte le unità disponibili per portare soccorsi, che vengono designate dalla Centrale di coordinamento in base alla ubicazione e alle caratteristiche, con un continuo scambio di informazioni tra gli enti di coordinamento preposti (MRCC) ed i centri secondari di salvataggio. Come non si verifica più da tempo nel Mediterraneo centrale. se le navi delle ONG sono costrette a raccogliere in mare un grande numero di naufraghi è conseguenza del mancato coordinamento da parte delle autorità statali che hanno ritirato tutti i loro assetti navali prima destinati ad attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.

Secondo il Consiglio di Giustizia amministrativa della regione Sicilia, “dovrebbe ritenersi rimesso al prudente apprezzamento dell’Autorità dello Stato di approdo verificare se, nel caso concreto, una nave disponga o meno di sufficienti dotazioni di sicurezza, adeguate all’effettivo impiego dell’imbarcazione”.  Una impostazione che legittima la più ampia discrezionalità delle autorità portuali e che appare modificativa di quanto previsto da Convenzioni internazionali e da norme dell’Unione Europea. Una motivazione che sembra eccedere anche la competenza e la giurisdizione di un organo della giustizia amministrativa, il CGA (che a differenza del TAR è anche, in parte, di nomina politica), che dovrebbe limitare il suo sindacato ad atti amministrativi che producono effetti nel territorio della regione Sicilia ma che in questo modo arriva ad incidere sull’applicazione di norme internazionali ed euro-unitarie che tutelano il diritto alla vita ed i doveri di soccorso in acque internazionali. Materie sulle quali, con riferimento ad un altro fermo amministrativo riguardante la nave umanitaria Sea Watch 4, dovrà pronunciarsi la Corte di giustizia dell’Unione Europea dopo il invio pregiudiziale promosso con l’ordinanza collegiale del TAR Sicilia n. 2994/2020 ai sensi dell’art. 267 TFUE, dell’art. 23 del protocollo sullo statuto della Corte di giustizia e dell’art. 3 comma 1 l. n. 204 del 1958. In questa ordinanza si osservava come “il tenore dell’art. 19 della direttiva 2009/16/CE e le convenzioni internazionali di diritto marittimo nonché la disciplina comunitaria in materia sembrano limitare il potere di controllo delle autorità nazionali, in sede di PSC, alla mera verifica della rispondenza dei requisiti posseduti dalla nave alle certificazioni ottenute e necessarie sulla base della relativa classificazione, escludendo la possibilità di procedere alla riqualificazione della concreta attività svolta con la conseguente integrazione dei requisiti necessari“.

Nella stessa Convenzione SAR di Amburgo del 1979 e nei suoi emendamenti non si rileva alcun richiamo alla natura continuativa o occasionale delle attività di soccorso che possano incidere sulla certificazione e sui requisiti di sicurezza delle navi, o sulle dotazioni di equipaggio o sui requisiti ambientali, perché queste attività SAR non sono gestite in base a scelte autonome del comandante della nave, ma costituiscono attività dovute che devono essere coordinate dalle Centrali di coordinamento nazionale (MRCC) informate degli eventi di soccorso. Salvo casi eccezionali nei quali queste stesse Centrali omettano di prestare l’attività di coordinamento loro richiesta dalla legge internazionale e dalla normativa interna. Casi, nei quali si potrebbe configurare anche una omissione di soccorso, che purtroppo, in questi ultimi mesi, si stanno verificando con frequenza sempre maggiore. Spesso infatti le autorità marittime italiane si rifiutano di coordinare gli interventi di soccorso operati da navi private delle ONG, o ribaltano le chiamate di soccorso su altre autorità nazionali, anche libiche, senza intervenire direttamente. In realtà l’obiettivo primario delle Convenzioni internazionali è il coordinamento degli interventi SAR tra diversi Stati, e tra questi e le navi private in transito o comunque presenti nella zona dei soccorsi, ma sembra che questa finalità sfumi rispetto ai requisiti delle navi che vengono evocati per impedire alle ONG la prosecuzione delle attività di soccorso in alto mare. Perché l’obiettivo primario delle autorità statali sembra diventato quello di limitare al massimo i “flussi migratori”, comprendendo impropriamente all’interno di questa categoria anche gli ingressi per ragioni di soccorso, richiamati dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 e ben distinti da questa norma rispetto agli ingressi irregolari.

3. L’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha adottato la risoluzione A.1138(31) sulle Procedure relative al controllo di Stato d’approdo. Le ispezioni devono essere svolte nel rispetto del principio di non discriminazione fra navi straniere, conformemente a quanto indicato anche dall’art. 227 della Convenzione sul diritto del mare. I principi contenuti nel cd. Memorandum d’intesa di Parigi (Paris MoU) e nei suoi più recenti emendamenti si riferiscono alle navi “commerciali” e rimangono al rango di norme di carattere amministrativo che non possono qualificarsi come un trattato o un accordo internazionale e che dunque non possono neppure introdurre nuove categorie normative vincolanti, requisiti specifici di registrazione navale, o derogare le norme vincolanti sui soccorsi in mare stabiliti dalle Convenzioni UNCLOS, SAR e SOLAS, ratificate in Italia con leggi dello Stato. Nell’ambito dei controlli previsti dal Protocollo, le Autorità impiegano tutti possibili sforzi per evitare l’immobilizzazione o il ritardo indebito di una nave. Nessun elemento del Memorandum incide sui diritti riconosciuti dalle disposizioni previste per la compensazione per tempi di inattività o per ritardi indebiti. In tutti i casi di presunta immobilizzazione o di indebito ritardo, il proprietario o l’armatore della nave potrà provare i danni subiti a causa del fermo amministrativo della nave. Il fermo amministrativo di una nave di una ONG, che avrebbe potuto operare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, configura già oggi un danno grave ed irreparabile, tanto per le ONG coinvolte, costrette a tenere ferme in porto navi dai costi giornalieri comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della loro attività, basata sulla raccolta fondi tra i donatori e sul volontariato, e soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l’Agenzia europea Frontex hanno ritirato i loro assetti navali presenti in passato nelle acque internazionali tra il nord-africa, Malta e la Sicilia

Nel 2020 l’IMO ha ulteriormente aggiornato i criteri di ispezione delle navi che fanno ingresso in porto, tenendo anche conto della pandemia, con un maggior numero di ispezioni a distanza, ma non sembra che abbia richiamato una categoria specifica di “navi da soccorso” da sottoporre a ispezioni con frequenza maggiore delle altre. Rimane comunque confermato il principio desumibile dalla Convenzione SOLAS e richiamato dall’art.2 della Direttiva 2009/16/CE, secondo cui l’idoneità al servizio per la quale la nave è “destinata” debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata, che potrebbe essere variamente apprezzata da ogni autorità portuale. Non esistono a livello internazionale parametri di classificazione delle navi impiegate in attività di ricerca e salvataggio che permettano di individuare requisiti specifici da verificare in sede di ispezioni portuali (PSC). L’art.94 della Convenzione UNCLOS esclude chiaramente la possibilità che in sede di controllo lo stato di approdo possa riqualificare diversamente una nave già certificata dal proprio Stato di bandiera o ritenere non sufficiente la certificazione rilasciata da questo Stato.

La Convenzione SOLAS impone agli Stati di bandiera firmatari di garantire che le navi da essi registrate rispettino determinati standard di sicurezza, a seconda del tipo di imbarcazione e della sua destinazione d’uso. Anche la Convenzione SOLAS, che pure individua diverse tipologie di naviglio, non prevede norme specifiche per quelle navi che svolgano attività di ricerca e salvataggio, in maniera occasionale o continuativa. Si deve comunque riconoscere la competenza degli stati di bandiera a valutare i requisiti tecnici delle navi che iscrivono nei propri registri, e nel caso delle ONG sono navi destinate ad operare prevalentemente “offshore” in acque internazionali, attenendo lo sbarco ad un obbligo imposto dal diritto internazionale e non ad una scelta autonoma e discrezionale del Comandante della nave. Sulla base di questa Convenzione internazionale non è possibile enucleare una categoria autonoma di navi di soccorso, anche se si parla di “servizi di soccorso” ai quali le navi possono essere destinate.  In base alla Regulation 2 (Cap.1) La Convenzione SOLAS risulta espressamente applicabile, con diverse prescrizioni a :passenger ship (is a ship which carries more than twelve passengers); cargo ship (is any ship which is not a passenger ship); tanker (is a cargo ship constructed or adapted for the carriage in bulk of liquid cargoes of an inflammable* nature); fishing vessel (is a vessel used for catching fish, whales, seals, walrus or other living resources of the sea); nuclear ship (is a ship provided with a nuclear power plant). La definizione di cargo comprende dunque tutte le navi che non hanno natura di nave passeggeri. Rimangono escluse dalla applicazione della Convenzione le navi inferiori alle 500 tonnellate, le imbarcazioni da diporto ed i mezzi appartenenti a corpi dello Stato. La ricostruzione di una categoria di navi che svolgerebbero ”un servizio di soccorso continuativo”, se può corrispondere ad una mera rilevazione di fatto, rimane dunque priva di basi legali rilevanti che posano giustificare in base all’ordinamento interno ed internazionale attività ispettive che comportino una diversa classificazione della nave ed una sua diversa dotazione minima di sicurezza, per non parlate delle dotazioni tecniche e dei requisiti strutturali previsti dalla Convenzione SOLAS. Se si vogliono considerare i fattori di rischio di una nave occorre fare riferimento alla sua destinazione d’uso in base alle certificazioni rilasciate dallo Stato di bandiera, alle sue normali condizioni strutturali ed operative, e non ad eventi di soccorso, per i quali sono previsti specifici criteri di esenzione.

L’art. IV lett. b) della Convenzione Solas stabilisce un’espressa esenzione dall’applicazione delle proprie norme ove una nave abbia a bordo persone soccorse in mare (principio ribadito nelle linee guida IMO e nella convenzione Marpol, che parimenti prevede specifiche esenzioni per la nave che trasporti a bordo naufraghi). Art. IV Casi di forza maggiore. a. Una nave che non è soggetta, al momento della sua partenza per un viaggio qualsiasi, alle prescrizioni della presente Convenzione, non deve neppure esservi soggetta a causa di un qualsiasi dirottamento nel corso del viaggio prestabilito, se questo dirottamento è provocato dal cattivo tempo o da qualsiasi altra causa di forza maggiore .b. Le persone che si trovano a bordo di una nave per causa di forza maggiore o in conseguenza dell’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi o altre persone, non devono essere computate allorché si tratta di verificare l’applicazione alle navi di una qualsiasi prescrizione della presente Convenzione.

La categoria del servizio di soccorso “continuativo” non è richiamata da nessuna Convenzione internazionale per delimitare l’efficacia applicativa di questo regime di esenzione, rivolto ad incentivare il salvataggio di vite umane in mare. L’apprezzamento discrezionale delle autorità marittime o le ordinanze cautelari dei giudici amministrativi non possono sostituirsi alle previsioni delle Convenzioni internazionali e ribaltare il rapporto regola-esenzione che queste stabiliscono.

La Convenzione (SAR) di Amburgo del 1979 (Annesso cap.2), non definisce le navi di salvataggio ma fornisce solo criteri di “designazione” delle unità di salvataggio statali. Infatti al punto 2..4 le Parti (gli Stati) designano le unità di salvataggio dei servizi di Stato o altri servizi adeguati, pubblici o privati, opportunamente situati ed equipaggiati o suddivisioni di detti servizi; ulteriormente precisando, al punto 2.5.1., che riguarda sempre la “designazione” quello che possono fare gli stati, ma non si tratta di norma di carattere cogente, prevedendosi solo che “ciascuna unità di salvataggio è dotata dei mezzi e dell’equipaggiamento necessari all’adempimento del proprio compito”. Non risulta che le autorità italiane abbiano “designato” una autonoma categoria di navi di salvataggio non statali. o che ne abbiano indicato requisiti specifici. Non si comprende davvero come da tale previsione si possa ricavare una categoria o una classificazione di “nave da soccorso” che ad ogni ingresso in porto, dopo una operazione di salvataggio, sarebbe soggetta ad un più penetrante potere di controllo da parte delle Capitanerie di porto.

4.. In una intervista ad un alto esponente del Corpo delle Capitanerie di porto si chiarivano già lo scorso anno le finalità perseguite con il fermo amministrativo delle navi delle ONG. Come riferiva l’ANSA, secondo l’Ammiraglio Luigi Giardino, Capo Reparto Sicurezza della Navigazione e Security marittima, non sono soccorsi occasionali quelli effettuati dalle Ong nel Mediterraneo centrale: si tratta invece di un’attività svolta in “modo sistematico” che non può essere configurata come “un improvviso e diverso impiego”, come avviene ad esempio per le navi commerciali che vengono dirottate dalle autorità marittime in soccorso ai gommoni e ai barconi in difficoltà che carichi di migranti salpano dalle coste del nord Africa. Dunque le navi delle Organizzazioni umanitarie dovrebbero, come dice la convenzione Solas, essere certificate dai rispettivi stati di bandiera per il “servizio” che svolgono realmente e, di conseguenza, rispondere a requisiti ben precisi previsti proprio per chi fa attività Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso). Altrimenti operano al di fuori dalle leggi internazionali.  Si concludeva dunque che i controlli in porto (PSC), “hanno avuto luogo sulla base dell’evidenza oggettiva che la nave ha trasportato ‘in maniera sistemica’ più persone di quelle che può trasportare in base alla certificazione di sicurezza rilasciata dallo Stato di bandiera”.

Secondo quanto comunicato adesso dalla Guardia costiera italiana, nel caso della Sea Eye 4. (si rinvia al comunicato in nota 1),“considerato il tipo di attività che la nave regolarmente svolge, l’ispezione ha confermato che i mezzi collettivi di salvataggio della nave risultano sufficienti ad ospitare un numero massimo di 27 persone“. Come se non assumesse alcun rilievo l’obbligo assoluto per il comandante della nave di soccorrere tutti i naufraghi che incontra nel suo percorso, senza potere lasciare nessuno in mare, soltanto perché la imbarcazione di cui dispone non ha un numero sufficiente di giubbotti salvagente, o di zattere di salvataggio, o servizi igienici, in numero parametrato alle persone che si ritrova a bordo.

Si avverte chiaramente come la diversa impostazione adottata dal Consiglio di Giustizia amministrativa sia stata prontamente recepita dalle Capitanerie di porto che hanno disposto gli ultimi fermi amministrativi, ribaltando quanto affermato dai giudici togati del Tribunale amministrativo di Palermo, che avevano sospeso il fermo amministrativo delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, ponendo in primo piano la doverosità degli obblighi di soccorso in mare, in base al sistema gerarchico delle fonti delineato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione, e dunque con un richiamo a Convenzioni internazionali che dovrebbero essere rispettate anche dalle autorità amministrative.

5. Non sorprende neppure tanto che nei più recenti provvedimenti di fermo amministrativo di navi delle ONG rimangano ai margini le motivazioni derivanti dalla normativa euro-unitaria in materia di controlli di sicurezza nei porti (PSC), sui quali dovrà pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e si punti ad una rilettura “mirata” delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, a partire dall’art. 98 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay del 1982, per scindere le prescrizioni in materia di sicurezza della navigazione (contenute prevalentemente nella Convenzione SOLAS) da quelle riguardanti i generali doveri di ricerca e soccorso, imposti agli Stati, prima ancora che alle organizzazioni private. Doveri che incombono principalmente sugli Stati, come si dovrebbe evincere dalla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, dai suoi successivi emendamenti, dal Manuale IAMSAR, richiamato adesso con il Piano Sar nazionale adottato con decreto del Ministro delle infrastrutture del 4 febbraio 2021. Un atto che sembra sconosciuto tanto ai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa che hanno ripristinato il fermo amministrativo della Sea Watch4 facendo riferimento al precedente Piano SAR nazionale del 1996, , quanto agli ispettori del Ministero delle infrastrutture che hanno eseguito i controlli sulla Sea Eye 4. Come se il nuovo Piano Sar nazionale, o altra normativa italiana, prevedesse una categoria di “navi di soccorso” che il nostro ordinamento giuridico non riconosce ancora. Sembra del resto fallito, almeno per il momento, il tentativo italiano di ottenere a livello europeo una normativa più restrittiva per le navi delle ONG che svolgono attività di ricerca e soccorso, visti la mancata valenza normativa della Raccomandazione della Commissione UE sui soccorsi operati da navi private nel Mediterraneo n. 2020/1365 , adottata il 23 settembre del 2020 , adottata su forte impulso italiano, contemporaneamente al Piano europeo sull’asilo e le migrazioni, ma rimasta ad oggi lettera morta, mero atto di indirizzo politico, privo di conseguenze normative rilevanti per i giudici nazionali. La sovversione del rapporto tra realtà e propaganda ormai è totale. E si sparge disinformazione anche sulle fonti normative strumentalizzate per legittimare i fermi amministrativi delle navi delle Ong. La Raccomandazione della Commissione Europea è un mero atto di indirizzo politico e non impone particolari requisiti alle navi che sono comunque obbligate a soccorrere chi si trova in mare ed è in pericolo di vita. Semmai sono le autorità statali che violano le Convenzioni internazionali non garantendo il coordinamento delle attività SAR (ricerca e salvataggio) imposto dal diritto internazionale e non inviando propri mezzi di soccorso per assistere le navi umanitarie quando si trovano di fronte ad una pluralità di barconi da soccorrere, come avverrà sempre più spesso questa estate

Nela Raccomandazione della Commissione europea sulla “cooperazione tra gli stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” si afferma soltanto la volontà dell’UE di stabilire norme armonizzate al fine di garantire che le navi ONG che svolgono “sistematicamente” attività di pattugliamento e di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare siano adeguatamente registrate ed equipaggiate in modo da soddisfare i pertinenti requisiti sanitari e di sicurezza associati a tale attività, così da non mettere in pericolo l’equipaggio o le persone soccorse. Ma oltre questa “volontà” non si riscontra alcuna previsione normativa, ne si potrebbe comunque riscontrare una normativa vincolante che dovesse derogare le Convenzioni internazionali di diritto del mare che affermano tutte la priorità della salvaguardia della vita umana in mare e gli obblighi di soccorso immediato rispetto a qualunque altra finalità di natura ispettiva o regolamentare. La circostanza che alcuni Stati abbiano registri specifici per le navi destinate ai soccorsi in alto mare non esclude che tutte le altre navi siano obbligate ad intervenire con la massima sollecitudine e salvare il maggior numero possibile di naufraghi, quale che sia la portata della nave o la sua qualificazione nei registri navali.

L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) prevede in ogni caso che il comandante della nave, di qualsiasi nave, è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare. 

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone gli interventi di soccorso  al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di attivarsi immediatamente e di avvertire le competenti autorità SAR, seguendo successivamente, se arrivano, le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC) competente per zona, o in sua assenza del primo MRCC allertato.

Secondo la “regulation” 33.1 del Capitolo V della Convenzione SOLAS, il comandante della nave che si trovi in una posizione tale da fornire assistenza e che riceva da qualsiasi fonte informazioni circa la presenza di persone in situazione di pericolo (distress) in mare, è obbligato a procedere a tutta velocità per fornire loro assistenza, quando possibile trasmettendo informazione dell’attività di soccorso alle autorità statali preposte alle attività SAR. Non vi sono limiti quantitativi per le persone da soccorrere, proprio non ci sono, ed i soccorsi non possono essere limitati alla capienza della nave secondo le Convenzioni internazionali. Sotto questo profilo non può rilevare la frequenza delle attività di soccorso nelle quali si ritrova impegnata una nave in virtù della sua posizione in mare. Potrà semmai assumere rilievo, anche sotto il profilo penale, ogni ipotesi di mancato coordinamento da parte delle autorità statali, o il mancato invio di ulteriori mezzi di soccorso, al di la delle navi private o commerciali più vicine all’evento SAR.

6. I provvedimenti di fermo amministrativo più recentemente adottati dalla Guardia costiera italiana- Corpo delle Capitanerie di porto, ai fini della motivazione, fanno richiamo alle Convenzioni internazionali, che hanno una portata applicativa molto più ampia della normativa euro-unitaria sui controlli di sicurezza in porto (PSC), e che stabiliscono la prevalenza dei doveri di soccorso su qualsiasi norma che possa limitare l’espletamento più rapido delle operazioni di salvataggio in mare. Come ha riconosciuto anche la Corte di Cassazione che, con la sentenza del 16-20 febbraio 2020 sul caso Rackete, ha definito il soccorso in mare come adempimento di un dovere imposto dalle Convenzioni internazionali al Comandante della nave soccorritrice, quale che sia la sua natura o classificazione. Una attività che non sembra assimilabile al mero trasporto di passeggeri, come sembra che ritengano i giudici del CGA della regione Sicilia, e gli ispettori della Guardia costiera, che non considerano evidentemente il sistema gerarchico delle fonti normative sui soccorsi in mare richiamato dalla Corte di cassazione. La natura degli interessi in gioco, a partire dal diritto alla vita, imporrebbe forse di riconsiderare la questione della giurisdizione sui provvedimenti di fermo amministrativo e la stessa natura dei mezzi di ricorso, soprattutto sotto il profilo della tutela cautelare, trattandosi di diritti fondamentali della persona come il diritto alla vita, strettamente correlato agli obblighi di soccorso in mare ed affidato all’adempimento dei doveri stabiliti in capo ai comandanti e alle autorità marittime. Se il soccorso costituisce adempimento di un dovere imposto dalle Convenzioni internazionali, tanto da costituire una esimente che esclude eventuali sanzioni penali (art.51 c.p.),e se questo si conclude solo con lo sbarco a terra, non si può ritenere che il preteso carattere “continuativo” o “sistematico” delle attività di soccorso possa fare ritenere cessato tale obbligo di adempiere un dovere imposto da Convenzioni internazionali a seconda della nave soccorritrice, con una aperta discriminazione, sotto il profilo dei controlli e dei requisiti tecnici in sede di PSC ( controllo in porto) delle attività di ricerca e soccorso poste in essere dalle navi delle ONG rispetto a quelle occasionalmente operate da tutte le altre navi.

Altrettanto privo di fondamento appare il richiamo operato dal Consiglio di giustizia amministrativa alla categoria  prevista dall’art. 1 del Decreto del Presidente della Repubblica 8 novembre 1991, n. 435, secondo il quale si definisce “27) Nave da salvataggio: una nave munita di attrezzature particolari per il servizio di soccorso a navi”. Lo stesso CGA è infatti costretto a riconoscere che “leconvenzioni, pur contemplando l’attività di ricerca e salvataggio quale servizio oggetto di autonoma regolamentazione, non prevedano, poi, in maniera puntuale quali debbano essere le dotazioni di un mezzo di ricerca e di salvataggio, e che (nel caso in questione) lo Stato di bandiera non preveda una specifica classificazione per tali mezzi”. Il richiamo alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979 che si limita ad affermare che “che il mezzo di salvataggio sia dotato di attrezzature ed equipaggio adeguati al servizio” risulta dunque insufficiente a costituire una griglia di requisiti di sicurezza che una nave che fa soccorsi in mare dovrebbe rispettare a differenza delle altre pure impegnate “occasionalmente” in attività di ricerca e salvataggio. Le dotazioni di sicurezza o altri requisiti della nave non possono incidere in definitiva sulla doverosità dell’attività di soccorso a cui è tenuto ogni comandante, quale che sia la natura della nave, la composizione dell’equipaggio o le dotazioni tecniche di cui dispone.

7. Neppure il recente Piano Sar nazionale adottato il 4 febbraio scorso dal Ministero delle Infrastrutture con Decreto a firma dell’ex ministro De Micheli, contiene elementi normativi che possano fornire un supporto alla categoria del “servizio di salvataggio” che sarebbe operato da navi private, e quindi sorreggere quanto argomentato dai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, mentre invece sembra accrescere i doveri di intervento delle autorità marittime e militari italiane anche al di fuori delle acque territoriali e gli obblighi di coordinamento a carico degli Stati. Il nuovo Piano SAR distingue al punto 111 ” il “Mezzo di ricerca e di soccorso“: ogni risorsa mobile, comprese le unità di ricerca e di soccorso designate, utilizzata per svolgere un’operazione di ricerca e di soccorso dalle “Unità di ricerca e di soccorso“: unità composta da personale addestrato, e dotata di materiale adeguato per una rapida esecuzione
delle operazioni di ricerca e di soccorso
, distinguendo poi una “”Fase d’incertezza”: situazione nella quale si può dubitare della sicurezza di una persona, di una nave o di un altro mezzo., una “Fase di allarme”: situazione nella quale si può temere per la sicurezza di una persona, di una nave o di altro mezzo. ed una”Fase di pericolo”: situazione nella quale vi è luogo di pensare che una persona, una nave o altro mezzo* sono minacciati da un pericolo grave ed imminente e che hanno bisogno di soccorso immediato. Il manuale IAMSAR, adottato dall’IMO nel 1999,e il Manuale S.A.R. edito dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera, non contengono dunque basi normative per enucleare nel nostro ordinamento una autonoma categoria di “navi da soccorso” alle quali si dovrebbe applicare una specifica disciplina dei controlli una volta che queste abbiano fatto ingresso in un porto italiano. Al punto 170 del Piano nazionale SAR del 2020 si individuano soltanto le ”unità di soccorso marittimo (Unità S.A.R., SRU Search and Rescue Unit): Sono le unità navali e gli aeromobili del servizio di Guardia Costiera del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera appositamente allestiti ed equipaggiate per il soccorso marittimo”. Al punto 220.4 dello stesso Piano Sar nazionale si individuano i mezzi che possono essere utilizzati per le operazioni di ricerca e salvataggio. Questi sono Mezzi aeronavali idonei ad effettuare operazioni di ricerca e soccorso, utilizzabili dal M.R.C.C./M.R.S.C.
“I mezzi aeronavali idonei ad effettuare operazioni di ricerca e soccorso in mare sono:
a) Mezzi specializzati (S.R.U. Search and Rescue unit). Sono quei mezzi costruiti e appositamente allestiti, nonché equipaggiati con personale appositamente addestrato idonei per interventi in mare, nell’immediata disponibilità dei Comandi di Porto (U.C.G.). Essi sono i mezzi aeronavali del servizio di Guardia Costiera del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera;.
b) Mezzi concorrenti (Search and rescue facility). Sono mezzi non nella immediata disponibilità della Organizzazione S.A.R., perché costruiti od impiegati per altri scopi o fini istituzionali:
1) mezzi di tutte le altre Amministrazioni dello Stato, dichiarati idonei all’impiego del soccorso in mare dalla Forza Armata/Corpo di appartenenza, che possono utilmente intervenire e che sono elencati nei singoli piani locali degli M.R.S.C. in forza di elenchi comunicati dai Comandi/Organi competenti che indicheranno i tempi di reale disponibilità e di impiego in relazione alle condizioni meteo ed alla capacità di radiocomunicazioni;.
2) mezzi aeronavali della Marina Militare;
3) aeromobili dell’Aeronautica Militare;.
4) navi presenti in porto ovvero in navigazione ed in grado di intervenire utilmente per portare soccorso ad una unità sinistrata
5) mezzi navali ed aerei di altri Stati
6) navi mercantili, ivi comprese quelle da diporto e da pesca e le navi certificate per il salvataggio in mare;
La scelta dei mezzi navali e/o aerei più idonei allo svolgimento dell’operazione di ricerca e soccorso è prerogativa dell’ I.M.R.C.C./M.R.S.C./U.C.G. responsabile”.

Come abbiamo visto nel Piano nazionale SAR del 2020, a conferma della mancanza di una disciplina specifica desumibile dalle Convenzioni internazionali, non esiste una categoria di navi di ricerca e salvataggio con requisiti specifici enucleabili da questi meri richiami terminologici, decontestualizzati dalle previsioni regolamentari nelle quali sono contenuti. Non si può in sostanza sovrapporre “a posteriori “la definizione di “servizi di ricerca e soccorso” alla qualificazione delle navi impiegate in tali attività. Il nuovo Piano SAR del 2020 ribadisce così che “ l’obbligo giuridico del soccorso, in forza delle disposizioni legislative di cui al successivo paragrafo 160, la cui ingiustificata omissione costituisce reato, richiede, per chiunque sia in grado di farlo, di prestare la necessaria assistenza ad una persona in pericolo e di dare immediato avviso alle autorità competenti previste dall’art. 3 del D.P.R. 662/94.”

8. La costruzione di una nuova categoria di “servizi di ricerca e soccorso, che presentino un profilo sistematico e permanente” non può essere dunque utilizzata per eludere l’applicazione del principio di forza maggiore e degli obblighi di salvataggio che in base a tutte le Convenzioni internazionali, richiamate dagli articoli 10 e 117 della nostra Costituzione, competono a qualunque comandante di una nave, oltre che agli Stati informati dell’evento di soccorso. Rimane il Comandante della nave a stabilire quanto l’imbarco di naufraghi che si trovino in mare possa proseguire senza compromettere la sicurezza dell’equipaggio, della nave e degli stessi naufraghi. Sorprende come il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia richiami la poderosa attività di soccorso messa in atto dalle ONG dal 2015, a seguito del ritiro delle navi di Frontex e degli Stati costieri più direttamente coinvolti, come Italia e Malta, senza tenere presente come soltanto a partire dallo scorso anno si sia scoperta la motivazione dei “fermi amministrativi” per bloccare attività delle ONG impegnate nella salvaguardia della vita umana in mare. Attività che, con le stesse navi che adesso vengono fermate, avevano permesso per anni il salvataggio di decine di migliaia di persone, senza che alcuna autorità amministrativa o penale, almeno fino al 2017, avesse mai rilevato profili di irregolarità. Ed anche quando, successivamente, le navi venivano sottoposte a sequestro penale, nessuna autorità marittima aveva adottato provvedimenti di fermo amministrativo. Che oggi stanno bloccando i soccorsi umanitari più dei procedimenti penali, quasi tutti archiviati o destinati all’archiviazione.

La sentenza della Corte di Cassazione del 16-20 febbraio dello scorso anno, dovrebbe portare a conclusioni opposte rispetto a quelle adottate dai giudici del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia. Quella sentenza qualifica come doverose le attività di salvataggio svolte dalle ONG, a prescindere dal carattere occasionale o continuativo delle stesse, attività che includono anche lo sbarco a terra e che, per quanto affermato dai giudici della Cassazione nel caso Rackete, non possono essere certo qualificate come un “servizio svolto in modo continuativo”. Ma su questo punto è tanto evidente la distanza di impostazione tra i giudici amministrativi siciliani e i giudici della Corte di cassazione, che lasciamo il giudizio a chi legga le due decisioni, e in prospettiva a quanto vorrà affermare in materia la Corte di giustizia dell’Unione Europea che si dovrà pronunciare sui fermi amministrativi imposti alle navi della ONG Sea Watch. Ai cittadini solidali ed agli studiosi rimane il compito di valutare – e praticare- tutte le possibili vie di difesa delle attività di ricerca e salvataggio delle navi delle ONG rispetto ad una campagna mediatica che si appoggia anche su questi provvedimenti delle autorità amministrative per criminalizzare ulteriormente gli interventi delle navi umanitarie e per cementare consenso rispetto ad una politica di negazione dei doveri di soccorso in mare.


(1) COMUNICATO DELLA GUARDIA COSTIERA DEL 5 GIUGNO 2021

Fermo amministrativo per la nave ONG “Sea Eye 4″​Palermo –

Nella giornata di ieri, ispettori della Guardia Costiera, specializzati in sicurezza della navigazione, hanno sottoposto la nave “SEA EYE 4” – di bandiera tedesca – ad un’ispezione volta a verificare l’adeguatezza della stessa rispetto alle vigenti norme di sicurezza della navigazione e di tutela ambientale. La “SEA EYE 4” è attraccata nei giorni scorsi nel porto di Palermo, dopo aver sbarcato 415 migranti nel porto di Pozzallo ed al termine di un periodo di quarantena imposto dalle Autorità sanitarie nazionali. Gli ispettori specializzati della Guardia Costiera verificano che le navi rispondano ai requisiti delle Convenzioni Internazionali ad esse applicabili; questa attività viene svolta su tutte le navi straniere che giungono nei porti italiani nel primario interesse pubblico di garantire la “sicurezza della navigazione”, la prevenzione dell’inquinamento, l’adeguata certificazione del personale marittimo e le condizioni di vita e lavoro a bordo delle navi; ciò con lo scopo di ridurre il rischio di incidenti, tenendo le navi non conformi (cd. substandard) lontane dai porti unionali e nazionali. Ispezioni ordinarie sono svolte in base ad una periodicità definita da un “profilo di rischio” della nave mentre ispezioni “supplementari” vengono disposte, quando ne ricorrano i presupposti e le condizioni previste dalla direttiva comunitaria (2009/16/EC), recepita dall’Italia nel 2011.La nave è stata sottoposta a un’ispezione “periodica”, essendo trascorsi più di 10 mesi dall’ispezione precedente e, contestualmente, “supplementare” in ragione della consistenza dei mezzi collettivi ed individuali di salvataggio presenti sull’unità, a fronte di un numero notevolmente superiore di persone recuperate a bordo durante l’attività sistematica, di “ricerca e soccorso” svolta nel Mar Mediterraneo. L’ispezione ha evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica, tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi, ma anche delle stesse persone che sono state e che potrebbero, in futuro, essere recuperate a bordo, nel corso del servizio di assistenza svolto. Accertate anche alcune violazioni delle normative a tutela dell’ambiente marino. In particolare, considerato il tipo di attività che la nave regolarmente svolge, l’ispezione ha confermato che i mezzi collettivi di salvataggio della nave risultano sufficienti ad ospitare un numero massimo di 27 persone; pertanto, in caso di emergenza a bordo della nave, che comporti l’evacuazione della stessa, si ritiene che l’equipaggio non sarebbe in grado – anche per consistenza numerica e di qualifica – di garantire che le persone ospitate possano essere avviate ai mezzi di salvataggio né ovviamente trovare posto sufficiente per essere sugli stessi ospitate. In aggiunta, sono state accertate carenze sui contratti del personale marittimo imbarcato, sugli apprestamenti per prevenire l’inquinamento marino, sulle istruzioni da fornire all’equipaggio in caso di emergenza, sull’organizzazione di bordo e sulle dotazioni radio; un totale di 23 carenze di cui 10, per la loro gravità, hanno determinato, il fermo della nave. La nave è stata quindi sottoposta a “fermo amministrativo” fino alla rettifica delle irregolarità rilevate in sede ispettiva. A seguito dell’attività ispettiva svolta dalla Guardia Costiera, alcuni Stati di Bandiera, attraverso le competenti Amministrazioni marittime, hanno intrapreso azioni correttive adeguando e certificando le navi ONG al servizio di “ricerca e soccorso”.


Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (CGARS), con l’ordinanza cautelare n. 322/2021 ha riformato la decisione del TAR per la Sicilia (Palermo) che aveva esaminato ed accolto la domanda di sospensione del provvedimento di fermo della Sea Watch, nelle more della decisione da parte della Corte di Giustizia U.E., adita in sede di rinvio pregiudiziale dal TAR.


N. 00322/2021 REG.PROV.CAU.
N. 00341/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA
Sezione giurisdizionale
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 341 del 2021, proposto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6;

Capitaneria di Porto di Palermo, non costituita in giudizio;

contro
Sea Watch E. V., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati……….. e ……………., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio …….;
per la riforma
dell’ ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza) n. 00145/2021, resa tra le parti nel ricorso n.1596/2020 R.G.

Visto l’art. 62 cod. proc. amm;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Sea Watch E. V.;
Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di accoglimento della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 5 maggio 2021, tenutasi da remoto ai sensi dell’art. 4 del d.l. n. 84 del 2020 e ex art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, così come modificato dall’art. 6 del d.l. n. 44/2021, il Cons………………….. e uditi per le parti l’avv. dello Stato ………………. e gli avvocati……………………;

1. In ordine alle questioni preliminari, il Collegio ritiene che:
1.1. vada respinta l’eccezione, sollevata dall’appellata Sea Watch (d’ora in poi S.W.), di inammissibilità dell’appello per carenza di interesse, sopravvenuta al momento in cui il bene oggetto del provvedimento di fermo ha lasciato il porto di Palermo per “espressa accettazione dell’Amministrazione”: per un verso, deve osservarsi che quest’ultima ha solo (doverosamente) ottemperato all’ordinanza cautelare in primo grado; per altro verso, il provvedimento di fermo definisce il regime giuridico dell’imbarcazione nell’ipotesi di ingresso in acque territoriali italiane (oltretutto concretamente avvenuto, per quanto riportato dalla stampa, nel corso di questo grado del giudizio), sicché non può dubitarsi del persistente interesse alla riforma della decisione cautelare;
1.2. vada parimenti respinta l’ulteriore eccezione di inammissibilità dell’appello, avendo l’Amministrazione puntualmente censurato il ragionamento che ha condotto il primo giudice ad accordare la tutela cautelare, incentrato (quanto al fumus) sulle tesi della limitazione del potere di controllo delle autorità nazionali ”alla verifica della rispondenza dei requisiti posseduti dalla nave alle certificazioni” e della inesistenza di una normativa, a livello comunitario o interno, che preveda una specifica registrazione e classificazione e conseguente equipaggiamento per le navi private che svolgono attività cd. SAR (acronimo per search and rescue) in modo non meramente occasionale; profili entrambi affrontati nell’appello, che, semmai, svolge considerazioni più ampie, riferite anche alle questioni giuridiche oggetto dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale; parimenti, risultano puntualmente censurati gli aspetti relativi al periculum.
2. Il radicale profilo di censura con il quale l’appellante amministrazione contesta il potere del giudice nazionale di pronunciarsi in sede cautelare, nelle more della decisione da parte della Corte di Giustizia U.E. adita in sede di rinvio pregiudiziale risulta infondato, dovendosi ritenere pacifico il potere in capo al giudice interno di adottare provvedimenti cautelari e interinali nelle more della decisione della questione pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 T.F.U.E., per come ampiamente e condivisibilmente argomentato dal giudice di prime cure ed in coerenza con il principio di effettività della tutela, di matrice costituzionale ed eurounitaria.
3. Sul fumus boni iuris si osserva quanto segue:
3.1. Premessa.
La questione oggetto del giudizio attiene ad un provvedimento di fermo adottato dalla competente Autorità italiana a carico della nave Sea Watch4 (d’ora in poi anche S.W4), nave cargo battente bandiera tedesca ed impiegata per attività di ricerca e soccorso in mare (come meglio si dirà infra), in seguito a controllo esercitato in occasione dell’approdo della nave sulle coste italiane.
3.1.1. Il controllo dello Stato di approdo (Port State Control, in sigla PSC) consiste nell’attività di ispezione delle imbarcazioni straniere svolta dalle autorità portuali per verificare la conformità delle condizioni della nave e del suo equipaggiamento ai requisiti (standard minimi) previsti dalle normative internazionali, garantendo la sicurezza marittima e la prevenzione dell’inquinamento.
Le ispezioni PSC costituiscono – nei rapporti con gli Stati di bandiera – una “seconda linea di difesa” contro la navigazione di mezzi non conformi agli standard internazionali.
In virtù della normativa internazionale che verrà meglio esaminata infra, quando un ufficiale del PSC (in sigla PSCO) procede con l’ispezione di una nave straniera, tale ispezione deve limitarsi alla verifica della validità di certificati ed altra documentazione pertinente a bordo, salvo che vi siano ‘fondati motivi’ per sospettare che le condizioni della nave o del suo equipaggiamento non corrispondono sostanzialmente a quanto indicato nei documenti di bordo (“clear grounds” for believing that the condition of the ship or its equipment does not correspond substantially with the particulars of the certificates), nel qual caso l’ufficiale può effettuare un’ispezione più dettagliata.
3.2. L’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha al riguardo adottato la risoluzione A.1138(31) sulle Procedure relative al controllo di Stato d’approdo, 2019, a seguito della revoca di precedenti risoluzioni, per fornire orientamenti di base sullo svolgimento delle ispezioni PSC finalizzate ad una maggiore uniformità nella conduzione delle operazioni e nelle modalità di individuazione delle carenze di una nave, del suo equipaggio o del suo equipaggiamento.
Queste le disposizioni rilevanti nel caso in esame e sulle quali si è incentrato il dibattito tra le parti:
il punto 1.3.1 dispone che il governo dello Stato di bandiera è responsabile delle misure necessarie per dare attuazione alle convenzioni in modo da garantire che, dal punto di vista della sicurezza della vita e della prevenzione dell’inquinamento, una nave sia idonea al servizio cui è destinata e i navigatori siano qualificati e adatti ai propri compiti)”(“Under the provisions of the relevant conventions set out in section 1.2 above, the Administration (i.e. the Government of the flag State) is responsible for promulgating laws and regulations and for taking all other steps which may be necessary to give the relevant conventions full and complete effect so as to ensure that, from the point of view of safety of life and pollution prevention, a ship is fit for the service for which it is intended and seafarers are qualified and fit for their duties.)”.
Il punto 1.7.4 legittima il fermo da parte dello Stato di approdo quando le condizioni della nave o del suo equipaggio non corrispondono sostanzialmente alle convenzioni, ed è volto ad evitare che la nave salpi fino a quando non rappresenti (cioè cessi di rappresentare) un pericolo per la stessa o per le persone a bordo, o una irragionevole minaccia di danno all’ambiente marino (Detention: intervention action taken by the port State when the condition of the ship or its crew does not correspond substantially with the relevant conventions to ensure that the ship will not sail until it can proceed to sea without presenting a danger to the ship or persons on board, or without presenting an unreasonable threat of harm to the marine environment, whether or not such action will affect the normal schedule of the departure of the ship).
Il punto 1.7.11 definisce la nave fuori norma: una nave il cui scafo, macchinari, attrezzature o sicurezza operativa sono sostanzialmente al di sotto degli standard richiesti dalla convenzione pertinente o il cui equipaggio non è conforme al documento sulla sicurezza dell’equipaggio (Substandard ship: A ship whose hull, machinery, equipment or operational safety is substantially below the standards required by the relevant convention or whose crew is not in conformity with the safe manning document).
Il punto 1.7.12 definisce certificato valido quello rilasciato da una Parte di una convenzione o per suo conto da un’Organizzazione Riconosciuta, a cui corrispondono i dettagli della nave, del suo equipaggio e delle sue attrezzature (Valid certificates: A certificate that has been issued, electronically or on paper, directly by a Party to a relevant convention or on its behalf by an RO, contains accurate and effective dates, meets the provisions of the relevant convention and to which the particulars of the ship, its crew and its equipment correspond).
Il punto 2.4.2 specifica che i “chiari motivi” per condurre un’ispezione più dettagliata includono, ma non si limitano a: (omissis)
prove derivanti da impressioni o osservazioni generali del responsabile del PSCO che esistono gravi carenze nelle apparecchiature di sicurezza, di prevenzione dell’inquinamento o di navigazione (evidence from the PSCO’s general impressions or observations that serious deficiencies exist in the safety, pollution prevention or navigational equipment).
Il punto 3.1 si occupa ulteriormente della nave al di sotto delle norme (substandard ship), quando lo scafo, i macchinari, le attrezzature o la sicurezza operativa e la protezione dell’ambiente sono sostanzialmente al di sotto degli standard richiesti dalle convenzioni pertinenti o se l’equipaggio non è conforme al documento di composizione degli equipaggi, a causa, tra l’altro di una serie di fattori evidenti che (3.1.2), nel loro insieme o singolarmente, rappresentino un pericolo per la nave o per le persone a bordo o rappresentino una minaccia irragionevole di danno all’ambiente marino.
4. Il Collegio, dando atto del poderoso lavoro, da parte del giudice di prime cure, di ricerca e ricostruzione dell’ambito normativo internazionale ed interno, nell’ambito del quale trova collocazione la vicenda in esame (lavoro reso oltremodo complesso dalla necessità di contestualizzare ed adattare convenzioni e testi normativi internazionali ed interni in alcuni casi abbastanza risalenti ad una situazione che storicamente presenta elementi di novità e peculiarità, in quanto l’attività di ricerca, soccorso e trasporto svolta dalla o.n.g. appellata si inquadra a valle di un fenomeno migratorio strutturale, dal continente africano verso quello europeo, da parte di persone in fuga da carestie, calamità naturali, guerre, cambiamenti climatici, e pertanto disposte/costrette ad avventurarsi con mezzi di fortuna su rotte marine altamente pericolose), ritiene tuttavia che nell’apprezzamento del fumus (ai soli fini della valutazione cautelare, ed impregiudicata l’interpretazione della C.G.U.E.) emergano alcune criticità nell’orientamento espresso dal primo giudice nella propria corposa pronuncia cautelare oggi impugnata (che a proprio volta richiama l’ordinanza di rimessione interpretativa alla CGUE), il cui vaglio conduce questo giudice a conclusioni differenti ed accoglitive dell’appello proposto dall’Amministrazione.
5. In punto di fatto, va tenuto fermo l’inquadramento dell’attività della nave Sea Watch 4 contenuto nell’ordinanza n. 2974/2020 di rinvio alla Corte di giustizia, ove il T.a.r. chiarisce che “l’attività sistematicamente svolta” dalla nave battente bandiera tedesca in possesso del certificato di classe come general cargo/multipurpose è attività di ricerca e soccorso delle persone in pericolo in mare, attività c.d. SAR, avuto riguardo allo specifico contenuto del relativo Statuto dell’o.n.g.; l’imbarcazione dispone di un equipaggio di circa trenta unità, ed è su tale “limitata consistenza numerica di persone trasportate che le dotazioni di sicurezza e le dotazioni igieniche sono state dimensionate”; quindi, scialuppe di salvataggio e servizi igienici sono stati quantificati per le trenta persone dell’equipaggio (quanto alle scialuppe, il punto è contestato dalla S.W. la quale afferma nei propri scritti che in realtà, non solo i giubbotti salvagente –per i quali il dato è pacifico, risultando dallo stesso provvedimento impugnato- ma anche le scialuppe di salvataggio sarebbero dimensionati su centinaia di passeggeri).
Inoltre, dalle emergenze processuali può concludersi che la consistenza numerica dell’equipaggio, e la relativa turnazione, sono dimensionati su un’attività differente da quella effettivamente svolta.
6. Nell’ampia ordinanza di rinvio pregiudiziale, il T.A.R. ha sviluppato una serie di argomentazioni, solo in parte confluite nell’ordinanza cautelare, ma che vanno qui complessivamente, seppur sinteticamente esaminate, sia perché costituiscono il presupposto logico dei profili ritenuti decisivi ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, sia perché l’appellata ripropone i profili di diritto di cui al ricorso introduttivo con i quali, tra l’altro, si contesta in radice il potere dell’Amm.ne di sottoporre a controllo la nave, questione approfondita nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale:
6.1. sotto un primo profilo, l’amministrazione non avrebbe potuto svolgere attività PSC, ai sensi della direttiva 2009/16/CE e del d.l.vo n. 53 del 2011, nei confronti della S.W. 4, in quanto si tratta di una nave che, pur se classificata formalmente come cargo dallo Stato di bandiera, in concreto, non è utilizzata per lo svolgimento di attività commerciale; quindi il potere di controllo sarebbe escluso dovendosi aver riguardo al tipo di attività che concretamente l’imbarcazione svolge (salvataggio e trasporto persone) sebbene in difformità alla classificazione formale (cargo), che invece consentirebbe il controllo;
6.2. il T.A.R. ha ritenuto che l’attività di ispezione andrebbe ricondotta (e quindi legittimata) ai fattori imprevisti di cui all’allegato I, parte II, punto 2B richiamati dall’art. 11 della direttiva 2009/16/CE, con specifico riferimento alla fattispecie delle “navi che sono state gestite in modo da costituire un pericolo per le persone, le cose o l’ambiente”; tuttavia, l’art. 13 della direttiva 2009/16/CE, che disciplina l’attività ispettiva PSC, non potrebbe essere interpretato, sulla base del suo tenore testuale, nel senso di ricomprendere, nell’ambito dei poteri dello Stato di approdo sulle navi battenti bandiera di Stati membri, anche il potere di verificare quale sia in concreto l’attività effettivamente svolta da parte della nave, e, conseguentemente, il potere di verificare il possesso da parte della predetta nave delle certificazioni di sicurezza, degli equipaggiamenti e, in generale, dei requisiti di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente corrispondenti all’attività effettivamente svolta;
6.3. quanto alla regola di cui all’art. 1, lett. b), della Convenzione SOLAS (acronimo di Safety of Life at Sea) , richiamata nell’art. 2 della direttiva 2009/16/CE, la conclusione per la quale il T.a.r. propende è nel senso che, per entrambe le normative convenzionali internazionali, l’idoneità al servizio al quale la nave è destinata debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata (pur dando atto del dubbio interpretativo in ordine al termine “destinata”).
6.4. In definitiva, ammesso che l’Autorità dello Stato di approdo potesse procedere a controllo (cosa che andrebbe esclusa perché, dovendo prevalere la realtà, ossia la vera attività svolta dalla nave, sull’apparenza, ossia quanto risulta dal certificato di classe, il controllo sarebbe fuori dal campo di applicazione del Port State Control), lo stesso avrebbe dovuto essere limitato “alla sola verifica della rispondenza dei requisiti posseduti dalle nave alle certificazioni ottenute e necessarie sulla base della relativa classificazione (con prevalenza, in questo caso, dell’apparenza sulla realtà)”.
6.5. D’altra parte, il giudice di prime cure afferma (in entrambe le ordinanze) la mancanza, sia a livello comunitario che internazionale, di un parametro di classificazione dell’attività SAR ai fini dell’individuazione di puntuali certificazioni e/o requisiti nei sensi indicati da parte dell’Amministrazione.
6.6. Tali argomentazioni vanno esaminate, per ragioni espositive, congiuntamente alle ulteriori deduzioni sviluppate, sia nel primo che nel presente grado di giudizio, dalla S.W., secondo la quale:
– la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare conclusa a Montego Bay il 10/12/1982 (c.d. Convenzione UNCLOS), all’art. 94, demanda la competenza e la responsabilità dei controlli sulle navi allo Stato di bandiera, salve ipotesi eccezionali di controlli da parte dello Stato di approdo che comunque non potrebbe spingersi fino al punto di riqualificare la nave e sindacarne la certificazione;
-la Convenzione Solas individua diverse categorie di imbarcazioni (le navi passeggeri, le navi cargo, le petroliere, i pescherecci e le navi nucleari) ma non prevede norme specifiche per le navi che effettuino – occasionalmente o in modo sistematico – operazioni di salvataggio;
– l’art. IV lett. b) della Convenzione Solas stabilisce un’espressa esenzione dall’applicazione delle proprie norme ove una nave abbia a bordo persone soccorse in mare (principio ribadito nelle linee guida IMO e nella convenzione Marpol, che parimenti prevede specifiche esenzioni per la nave che trasporti a bordo naufraghi);
– la legislazione tedesca non consente allo stato attuale il rilascio di certificazioni per navi che svolgano servizi di ricerca e soccorso.
7. Il Collegio, pur tenendo conto della complessità del quadro normativo che si presta a divergenti interpretazioni, ritiene potersi pervenire a conclusioni diverse da quelle – pur ampiamente argomentate- del primo giudice.
7.1. Non sarà superfluo chiarire che nella vicenda all’esame di questo giudice non viene posto in discussione l’obbligo di prestare soccorso in mare, previsto dalla Convenzione di Londra del 1º settembre 1974 per la salvaguardia della vita umana in mare, dalla Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, dalla Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare, nonché dall’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, direttamente applicabile nell’ordinamento italiano in forza dell’ art. 10, 1º comma, Cost.; obbligo che non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro. Le Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare allegate alla Convenzione, stabiliscono, inoltre, che un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata, le necessità umane primarie possono essere soddisfatte (Cassazione penale , sez. III , 16/01/2020 , n. 6626).
In Italia l’obbligo di assistenza a navi e salvataggio è stato espressamente previsto nel Codice della Navigazione (artt. 489, 490 e 981) ed ivi penalmente sanzionato (art.1158).
La giurisprudenza (cfr. Cassazione penale , sez. III , 23/11/2005 , n. 568) precisa che il reato di cui all’art. 1158 c. nav. ha natura di reato di pericolo, che si consuma con il fatto stesso dell’omissione di assistenza o del tentativo di salvataggio, giustificato dal dovere di adempimento delle funzioni di cosiddetta solidarietà marittima;
nessuna parte processuale poi, ha messo in dubbio la commendevolezza dell’attività di salvataggio in mare: il punto non è mai stato posto in discussione nell’odierno giudizio.
7.2. L’esame di questo giudice è quindi limitato alle seguenti tematiche:
-se il potere/dovere di controllo dello Stato di approdo possa essere escluso grazie al fatto che il concreto esercizio dell’attività dell’imbarcazione sia, di fatto, diverso da quello per il quale la nave risulti formalmente certificata, che legittimerebbe il controllo (e a tale quesito si ritiene di dare risposta negativa);
-se il controllo dello Stato di approdo debba essere meramente cartolare, riducendosi al raffronto tra la situazione della nave e la relativa certificazione rilasciata dallo Stato di bandiera, senza cioè tener conto dell’attività effettivamente stabilmente esercitata e quindi senza poter verificare l’esistenza di equipaggiamento e dotazioni di sicurezza idonei al reale impiego della nave (e a tale quesito si ritiene debba darsi risposta negativa);
se, in ambito internazionale e/o interno, esista o meno uno statuto proprio delle navi di soccorso (e a tale quesito si ritiene di dare risposta affermativa);
se una nave che esercita stabilmente l’attività di pattugliamento, ricerca e soccorso debba ritenersi godere delle esenzioni di cui alla Convenzione Solas (e a tale quesito si ritiene debba darsi risposta negativa).
Il Collegio perviene a tali conclusioni sulla scorta delle seguenti considerazioni:
8. Quanto al primo profilo, ad avviso di questo giudice il potere/dovere dello Stato di approdo di ispezionare l’imbarcazione scaturisce dal semplice fatto che la stessa è formalmente classificata quale nave cargo.
L’art. 3 del D.Lgs. 24/03/2011, n. 53, di attuazione della direttiva 2009/16/CE, laddove delimita il proprio campo di applicazione alle navi e alle unità da diporto “utilizzate” a fini commerciali di bandiera non italiana ed ai relativi equipaggi che fanno scalo o ancoraggio in un porto nazionale, evidentemente presuppone la coincidenza dell’apparenza con la realtà.
Il termine “utilizzate” non può, cioè, essere inteso in senso strettamente letterale e tecnico, sì da favorire (esentando dai controlli) la situazione di un’imbarcazione impiegata sistematicamente per usi diversi da quello indicato nella certificazione; diversamente il sistema si presterebbe ad abusi, introducendo un elemento di grave frizione nell’ambito del sistema normativo internazionale ed interno volto a combattere l’impiego di navi sub standard, avuto riguardo, tra l’altro, alla circostanza che detta espressa finalità della direttiva (cfr. art. 1) è perseguita mediante “a) l’instaurazione di efficaci procedure di controllo delle navi non di bandiera italiana che scalano i porti nazionali concernenti l’osservanza della normativa internazionale e comunitaria in materia di sicurezza della navigazione, del trasporto marittimo, dei lavoratori marittimi, delle navi e degli impianti portuali, dell’ambiente marino e costiero e delle risorse biologiche marine”, per cui, nel dubbio, si deve privilegiare un’interpretazione conforme alla razionalità intrinseca del sistema e coerente con il principio di effettività.
Quindi non pare condivisibile la tesi che l’art. 3 della direttiva 2009/16/CE e l’art. 3 del d.l.vo n. 53 del 2011 escluderebbero in radice la potestà di controllo dell’Amministrazione appellante con riferimento al tipo di attività che concretamente l’imbarcazione svolge (salvataggio e trasporto persone) in difformità alla classificazione formale (cargo).
Oltretutto, l’appellata, di volta in volta, afferma o nega di espletare in via esclusiva l’attività di soccorso e trasporto persone, non potendosi, quindi, escludere che la nave, autorizzata come cargo, svolga occasionalmente anche attività commerciale compatibile con la certificazione.
9. Quanto al secondo aspetto, non si condivide la tesi secondo la quale “l’idoneità al servizio al quale la nave è destinata deve essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività che viene effettivamente espletata”: da tale interpretazione deriva che il PSC dovrebbe tradursi in un controllo meramente cartolare, con conseguente vanificazione ed elusione degli scopi della normativa internazionale, richiamata sopra (sub 3), volta ad evitare la circolazione di navi che rappresentino un pericolo per le persone a bordo o per l’ambiente marino.
La normativa internazionale, come si è visto, definisce una substandard ship quella in cui “ lo scafo, i macchinari, le attrezzature o la sicurezza operativa e la protezione dell’ambiente sono sostanzialmente al di sotto degli standard richiesti dalle convenzioni pertinenti”.
Tale ampia definizione impone una verifica effettiva della situazione della nave, che includa l’aspetto formale (raffronto tra la certificazione di classe e le dotazioni della nave) senza escludere quello reale, riferito all’effettivo utilizzo dell’imbarcazione, legittimando, ed anzi imponendo, l’accertamento che la navigazione avvenga in condizioni di sicurezza per l’equipaggio, per le persone trasportate (ove ve ne siano, come nel caso in questione), per l’ambiente.
Anche in questo caso, tra un’interpretazione che garantisca il perseguimento degli scopi della convenzione ed una che ne comporti la neutralizzazione o l’elusione, si ritiene vada privilegiata la prima.
10. Non pare potersi condividere la tesi dell’assenza, a livello internazionale ed interno, di una normativa riferita alle “navi private che svolgono attività cd. SAR in modo non meramente occasionale”.
10.1. In ambito internazionale, la Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 sulla ricerca ed il salvataggio marittimo aveva già definito (Annesso cap.2), al punto 2.4.1., le unità di salvataggio dei servizi di Stato o altri servizi adeguati, pubblici o privati, opportunamente situati ed equipaggiati o suddivisioni di detti servizi; ulteriormente precisando, al punto 2.5.1., che “ciascuna unità di salvataggio è dotata dei mezzi e dell’equipaggiamento necessari all’adempimento del proprio compito”.
A seguito degli emendamenti derivanti dalla Risoluzione MSC.70(69) adottata il 18 maggio 1998 (entrati in vigore in Italia in data 10 gennaio 2001), l’Annesso alla Convenzione con ulteriore precisione ha definito:
– 2. “Salvataggio” l’operazione destinata a ripescare le persone in pericolo ed a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno ed a trasportarle in un luogo sicuro;
– 3. “Servizio di ricerca e di salvataggio” l’esecuzione, in caso di pericolo, delle funzioni di sorveglianza, di comunicazione, di coordinamento nonche’ di ricerca e di salvataggio compresa la prestazione di consigli medici, delle prime cure, o l’evacuazione sanitaria facendo appello a risorse pubbliche e private, con la cooperazione di aeromobili, navi e di altri congegni ed
Installazioni;
– 7. “Mezzo di ricerca e di salvataggio” ogni risorsa mobile, comprese le unita’ di ricerca e di salvataggio designate, utilizzata per svolgere un’operazione di ricerca e di salvataggio.
– 8. “Unita’ di ricerca e di salvataggio”: unita’ composta da personale addestrato, e dotata di materiale adeguato per una rapida esecuzione delle operazioni di ricerca e di salvataggio.
Il punto 2.5 emendato fa riferimento, ancora una volta, alle “ unita’ di ricerca e di salvataggio”, e il punto 2.6.1. stabilisce che ciascuna unità di ricerca e di salvataggio è dotata delle attrezzature necessarie per l’adempimento del suo compito.
10.2. Pare, dunque, a questo Collegio che l’ordinamento internazionale contempli un nucleo essenziale di norme destinate esplicitamente al “Servizio di ricerca e di salvataggio”, anche da parte di mezzi privati, individuando l’autonoma figura del “Mezzo di ricerca e di salvataggio”, che deve essere dotato di personale addestrato e delle attrezzature necessarie per l’adempimento del servizio.
10.3. Quanto all’ordinamento interno, deve farsi riferimento all’art. 1 del Decreto del Presidente della Repubblica 8 novembre 1991, n. 435, il quale definisce “27) Nave da salvataggio: una nave munita di attrezzature particolari per il servizio di soccorso a navi”.
Tale norma appare coerente con le disposizioni della Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979, che prevedono appunto unità navali specificamente destinate al salvataggio in mare; né può ritenersi che il riferimento (della norma interna) al salvataggio della nave si intenda limitato al mezzo, escludendo il soccorso ai naufraghi, logicamente ricompreso nella più ampia definizione legislativa.
Nemmeno rileva che in alcuni casi quella soccorsa non sia qualificabile come nave, trattandosi di un barcone o un gommone o un mezzo di fortuna (come costituisce fatto notorio accada nella maggior parte dei salvataggi operati dalle o.n.g. che operano nel Mediterraneo), in quanto l’elemento decisivo è costituito dal soccorso, che nel caso di uno scafo inidoneo si traduce nel salvataggio delle persone a bordo, abbandonando il natante.
10.4. Ciò posto, la circostanza che le convenzioni, pur contemplando l’attività di ricerca e salvataggio quale servizio oggetto di autonoma regolamentazione, non prevedano, poi, in maniera puntuale quali debbano essere le dotazioni di un mezzo di ricerca e di salvataggio, e che (nel caso in questione) lo Stato di bandiera non preveda una specifica classificazione per tali mezzi, non può condurre alla conclusione che l’attività di ricerca e di salvataggio possa essere svolta con qualsiasi imbarcazione, rimanendo affidato, poi, alla responsabilità del comandante decidere se e come operare i salvataggi (secondo quanto sostiene l’appellata).
Infatti, vi è un dato testuale ben preciso, che non può essere ignorato, nella richiamata Convenzione di Amburgo, la quale richiede che il mezzo di salvataggio sia dotato di attrezzature ed equipaggio adeguati al servizio.
Ora, si è ampiamente esaminato (al punto 3) come l’ordinamento demandi al PSC la verifica dell’adeguatezza dei mezzi navali alle esigenze di sicurezza della navigazione.
Sicché l’ordinamento appare, nel suo insieme, intrinsecamente razionale, laddove è ravvisabile un complesso di norme di chiusura che assicurano, pure in mancanza di una minuziosa regolamentazione per una specifica tipologia di imbarcazioni, un sistema di vigilanza idoneo ad impedire fenomeni di pericolo per la navigazione che potrebbero derivare dalle navi sub-standard.
In ultima analisi, dunque, dovrebbe ritenersi rimesso al prudente apprezzamento dell’Autorità dello Stato di approdo verificare se, nel caso concreto, una nave disponga o meno di sufficienti dotazioni di sicurezza, adeguate all’effettivo impiego dell’imbarcazione.
Evidentemente, avuto riguardo alla carenza di precise indicazioni su quali debbano essere le dotazioni di una nave SAR, l’amministrazione dovrebbe attenersi a quanto sia strettamente indispensabile per garantire una navigazione in condizioni di sicurezza per l’equipaggio, le persone trasportate, l’ambiente.
Come detto, però tale verifica non potrebbe essere meramente cartolare (raffronto tra la certificazione della nave e il suo impiego teorico), pena la vanificazione della ratio ultima del sistema (la sicurezza della navigazione), per cui il controllo circa le condizioni di sicurezza della nave deve tener conto dell’effettivo utilizzo della stessa.
Ciò va inteso, logicamente, in senso complessivo e, quindi, anche “in favore” della nave sottoposta a controllo: qualora le dotazioni di sicurezza (ad esempio le scialuppe di salvataggio) siano adeguate al servizio di ricerca e soccorso, ancorché il numero sia superiore alla formale classificazione della nave, l’Autorità non potrebbe fondatamente contestare e sanzionare l’assenza delle condizioni di sicurezza basandosi sul mero dato cartolare (previsione di dotazioni insufficienti), ciò che, ancora una volta, farebbe prevalere l’apparenza sulla realtà.
Altro aspetto è, poi, la verifica della rispondenza delle attrezzature alle norme tecniche e di sicurezza, che ovviamente implica un accertamento concreto, dato che verosimilmente le stesse non saranno annotate nel certificato.
11. Viene in rilievo l’ultimo profilo: l’appellata invoca l’applicazione dell’art. 4 lett. b) della Convenzione Solas, la quale prevede che le persone che si trovano a bordo di una nave per cause di forza maggiore o in conseguenza dell’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi non sono prese in considerazione ai fini dell’accertamento dell’applicazione ad una nave delle disposizioni della Convenzione, principio ribadito nelle linee guida IMO sul trattamento delle persone soccorse in mare e nella convenzione Marpol che parimenti prevede specifiche esenzioni laddove una nave trasporti a bordo naufraghi.
11.1. L’esenzione in questione, storicamente, origina dal diritto consuetudinario in materia di obblighi di salvataggio, che impone ai comandanti delle navi di prestare assistenza e soccorso a chiunque venga trovato in pericolo in mare, la cui codificazione si rinviene nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (“Montego Bay” od “UNCLOS” o CNUDM), art.98, e nella Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS, più volte citata).
Ma tale condizione riguarda l’assistenza in mare di una nave in pericolo, con conseguente salvataggio degli eventuali naufraghi, da parte di chi sia presente o prossimo alla scena dell’evento in situazione occasionale ed accidentale, vale a dire, riguarda la prestazione di assistenza, non sistematica, ma meramente eventuale, che incombe a tutte le navi in navigazione in qualsiasi spazio marittimo.
Per incoraggiare l’adempimento degli obblighi, di natura consuetudinaria, di assistere in qualsiasi area marittima le persone in difficoltà e di soccorso e salvataggio, che incombe su tutti i comandanti di nave, sono stati previsti regimi di favore in ipotesi di (successivo) controllo portuale, per non penalizzare la nave già gravata dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso.
Ma tali esenzioni non possono ritenersi estensibili alla diversa ipotesi dei servizi di ricerca e soccorso, che presentino un profilo sistematico e permanente.
11.2. La CNUDM, al § 2 dell’art. 98, in considerazione delle responsabilità in materia di SAR imposte agli Stati dalla Convenzione di Amburgo, afferma che ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea.
A partire dal 2014, e soprattutto dalla seconda metà dell’anno 2016, nello scenario del Mediterraneo centrale si è assistito ad crescente aumento della presenza di varie unità di ONG, con lo scopo di concorrere alle operazioni di soccorso a favore dei migranti provenienti dalle coste africane, specie nelle acque internazionali confinanti con le acque territoriali libiche, a fronte di un fenomeno (migratorio) umanitario epocale, non più emergenziale ma strutturale.
Si tratta di un’attività, sistematicamente espletata in quelle zone, ascrivibile appieno alla categoria del “Servizio di ricerca e di salvataggio”, da espletarsi mediante “Mezzi di ricerca e di salvataggio” ed “Unità di ricerca e di salvataggio” che, a mente della richiamata Convenzione di Amburgo, deve avvenire in condizioni di sicurezza per le persone trasportate, l’equipaggio e l’ambiente, e dunque mediante imbarcazioni appositamente allestite e strutturate per l’esecuzione, in sicurezza, delle operazioni di soccorso istituzionalmente svolte.
Motivo per cui non appare appropriato il richiamo alle esenzioni previste dalle Convenzioni per il salvataggio occasionale; l’attività SAR si colloca, evidentemente, fuori dal campo di applicazione (di natura eccezionale) di dette disposizioni.
12. Applicando i principi fin qui affermati al caso in esame, può concludersi in punto di fumus, ed avendo ben chiaro che si tratta di un giudizio che verte su problematiche già rimesse dal primo giudice al vaglio della competente CGUE ex art. 267 del TFUE e sulle quali quest’ultima renderà il responso decisivo:
– che legittimamente l’amministrazione appellante ha disposto il controllo sulla nave dell’appellata; – che a fronte di una serie di carenze (peraltro non compiutamente contestate, nel merito, nel giudizio di primo grado, come meglio si vedrà infra, in quanto l’appellata ha sempre affermato, in radice, che le dotazioni della nave devono essere coerenti con il relativo certificato), alcune poi rimosse, legittimamente l’amministrazione ha fatto ricorso al potere/dovere di fermo;
– che, nel caso specifico, l’amministrazione (nei limiti del sindacato di questo giudice ed avuto riguardo alle preclusioni processuali) pare aver fatto buon governo dei principi generali ricavabili dall’esame della normativa internazionale ed interna sopra richiamata.
12.1. Con specifico riferimento ai rilievi trasfusi nell’atto impugnato, infatti, soccorrono le seguenti considerazioni.
Quanto all’equipaggiamento di sicurezza presente a bordo della SW4, se può condividersi l’argomentazione sviluppata in primo grado, secondo la quale nessuna norma vieta l’alloggiamento di dispositivi ulteriori rispetto quanto previsto nel certificato, tesi coerente con la necessità (esplicitata da questo giudice) che gli stessi corrispondano al numero effettivo delle persone che ragionevolmente si preveda di trasportare (trattandosi di un servizio stabilmente prestato, è evidente che l’organizzazione avrà previsto il numero massimo di persone trasportabili, in relazione alla capienza dell’imbarcazione), si deve però rilevare che i rilievi tecnici sulla conformità ed utilizzabilità delle stesse sono stati solo genericamente contestati; diffondendosi invece la parte ricorrente sulla corrispondenza al “certificato di costruzione e attrezzatura per la sicurezza della nave” .
Quanto al problema della insufficienza dei servizi igienici, così come per la questione dell’impianto di trattamento delle acque reflue, la ricorrente in primo grado ha incentrato le proprie difese sul carico “teorico” della nave e non sul reale numero di persone trasportate, tesi che, come sopra esplicitato, non si condivide.
Quanto alla questione delle condizioni di impiego dell’equipaggio e delle prolungate ore di lavoro, si ritiene che turnazioni e orari di riposo costituiscano oggetto di tutela in sé (in ossequio alla normativa in materia di salute e sicurezza dei lavoratori) ma anche per i riflessi potenzialmente negativi sulla sicurezza delle operazioni di soccorso e della navigazione.
Rimane estranea la tematica della sicurezza strutturale della nave, ampiamente dibattuta in appello (l’appellata ha anche prodotto una consulenza tecnica), ma che non pare aver costituito specifico motivo a supporto dell’atto impugnato in primo grado.
12.1. Occorre ora soffermarsi sulla documentazione allegata (sub 8) alle difese della S.W. (dichiarazioni dello Stato di bandiera).
Pare a questo giudice che l’esame di tale documentazione non infici ma al contrario rafforzi le considerazioni sopra svolte.
12.2. La competente Autorità infatti scrive che:
“the occasional and temporary presence of rescued persons on board in the course of saving lives at sea is not of relevance concerning the number of persons for which life-saving appliances are provided”, ossia che la presenza temporanea ed occasionale a bordo di persone messe in salvo nel corso di operazioni di salvataggio non è di rilievo in ciò che riguarda il numero di soggetti per i quali sono previsti dispositivi di salvataggio.
Come si vede, il riferimento è al salvataggio occasionale, in situazione di forza maggiore, non pertinente nel caso di un servizio di soccorso continuativo che costituisce (come, in relazione al “periculum in mora”, afferma la stessa appellata) l’attività statutaria dell’associazione umanitaria che gestisce la nave.
Ciò detto trova conferma anche nella parte delle dichiarazioni riferita al profilo ambientale, ove si afferma che:
, cioè, sempre nell’ambito di una presenza temporanea ed occasionale a bordo di persone messe in salvo nel corso di operazioni di salvataggio, in conformità con la norma 9.1.3. Marpol Allegato IV – “numero delle persone a bordo” da considerare nel calcolo relativo ai sistemi delle acque nere – le “persone soccorse” non devono essere prese in considerazione. Secondo la definizione di “persone” nella Regola 1 Marpol Allegato IV (le persone tratte in salvo) non sono né “equipaggio” né “passeggeri”.
Anche in questo caso, l’Autorità fa riferimento alla situazione di salvataggio occasionale riaffermando i principi convenzionali (sopra richiamati) di favore per la nave che presta soccorso, ma che non risultano adattabili all’attività di servizio SAR, che, costituendo la “mission” dell’organizzazione umanitaria appellata, ne costituisce attività istituzionale sistematicamente effettuata.
13. Nella consapevolezza dell’opinabilità delle tesi fin qui argomentate, che potrebbero essere non condivise dalla C.G.U.E., il Collegio ritiene adesso di soffermarsi sul periculum in mora, la cui assenza sarebbe di per sé sufficiente a determinare il rigetto della domanda cautelare in primo grado.
Anche sotto tale profilo, infatti, si perviene a conclusioni in parte diverse dal primo giudice.
13.1. In particolare, si evidenzia la non condivisione da parte del Collegio di alcuni passaggi motivazionali contenuti nell’ordinanza impugnata.
Il primo: laddove l’ordinanza appellata afferma la prevalenza degli “interessi di cui è portatrice l’organizzazione ricorrente rispetto agli interessi della sicurezza della navigazione (e della tutela dell’inquinamento marino) di cui è portatrice l’amministrazione”.
Tale prospettazione non sembra persuasiva.
L’intervento dell’Autorità PSC non attiene alla cura dei “soli” interessi della navigazione ed ambientali, ma è volto (anche e principalmente) a scongiurare la compromissione della sicurezza delle persone soccorse e trasportate e dell’equipaggio, con specifico riferimento alla salute e sicurezza dell’ambiente lavorativo, oggetto di tutela internazionale ed interna.
Si vuol dire che il servizio di pattugliamento, ricerca e soccorso in mare deve avvenire in condizioni di sicurezza per le stesse persone soccorse, per l’equipaggio (si pensi alla questione della insufficienza dei servizi igienici ed alle turnazioni del personale), per la navigazione, per l’ambiente.
13.2. Il secondo profilo oggetto di revisione è la parte della motivazione ove il primo giudice argomenta che <comunque, è il comandante della nave che presta soccorso che deve verificare la concreta possibilità, nella situazione data, di procedere al salvataggio e in quali termini, al fine di non mettere a rischio la sicurezza della propria imbarcazione e del proprio equipaggio nonché delle stesse persone soccorse e, dall’altro, che, comunque, la navigazione successiva alle operazioni di soccorso dovrebbe essere limitata temporalmente a quanto strettamente necessario ai fini dell’individuazione del cd. luogo sicuro (place of safety o P.O.S.)>.
Anche tali ultime riflessioni non possono essere condivise: in primo luogo, il controllo dello stato di approdo è volto proprio a verificare situazioni eventualmente difformi dovute a comportamenti non in linea dei comandanti, sicché non può certo argomentarsi che ogni controllo andrebbe escluso perché il comandante è responsabile ultimo delle decisioni in mare.
Inoltre, esigenze di sicurezza, in relazione al principio di precauzione, impongono che la nave da soccorso sia strutturata per poter affrontare una permanenza in mare variabile ed imprevista (si pensi all’ipotesi di condizioni meteomarine avverse, ovvero alla possibilità che il porto più vicino non venga autorizzato, per le più svariate ragioni, incluse problematiche sanitarie legate ad un aggravamento della pandemia).
La stessa appellata, nel lamentare la non imputabilità a sé stessa dei ritardi nell’assegnazione del POS, conferma, indirettamente, la possibilità di tali evenienze (per le quali la nave deve essere attrezzata, non rilevando, sotto tale profilo, a chi sia ascrivibile la responsabilità di una prolungata imprevista permanenza in mare).
13.3. La circostanza, evidenziata dal primo giudice, che, in carenza di provvedimento cautelare, gli effetti del provvedimento di fermo si esplicherebbero nei confronti della nave S.W. 4 ove rientrasse nelle acque territoriali italiane discende dalla natura del provvedimento di fermo e non pare concretizzare quel danno “grave ed irreparabile” necessario per la tutela interinale, atteso che la nave rimane libera di navigare ed attraccare nei porti degli altri Stati, anche confinanti.
Non solo: ma va tenuto conto del fatto che la nave, ove ricorressero situazioni di emergenza, ben potrebbe, ad avviso del Collegio, entrare nelle acque territoriali italiane invocando, se del caso, la scriminante dell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p. (nella specie quello del soccorso in mare di naufraghi derivante da fonti internazionali).
13.4. Il danno ulteriormente paventato dalla sottoponibilità da parte dello Stato di approdo, quale esso sia, a ulteriore ispezione supplementare della nave non appare concretizzare quel necessario pregiudizio grave ed irreparabile, in quanto la nave, o naviga in sicurezza (e allora nulla ha da temere da eventuali controlli) o no (e allora il controllo rappresenta una garanzia per la collettività).
13.5. Il pregiudizio economico derivante dalla protrazione del fermo è suscettibile di ristoro (l’art.22 del D.Lgs. 24/03/2011, n. 53 prevede uno specifico indennizzo per le eventuali perdite o danni subiti se la nave è indebitamente sottoposta a fermo).
Per altro verso, si deve osservare, nei limiti del sindacato di questo giudice, che detto pregiudizio ben potrebbe essere rimosso mediante adeguamento alle prescrizioni dettate dall’amministrazione o modulando il servizio alle condizioni strutturali della nave.
L’art.22 sopra richiamato prevede, al comma 2-bis, che in caso di condizioni di vita e di lavoro a bordo che rappresentino un evidente pericolo per l’incolumità, la salute o la sicurezza dei marittimi oppure di carenze che costituiscano una grave o ripetuta violazione delle prescrizioni della CLM 2006 (inclusi i diritti dei marittimi), l’autorità competente locale dispone il fermo; al comma 2-ter che il provvedimento non è revocato fino a quando non si sia posto rimedio alle carenze riscontrate oppure l’autorità competente non abbia accettato un piano d’azione per correggere le carenze stesse.
Si configura cioè un procedimento, in contraddittorio, nel cui ambito possono trovare composizione gli interessi potenzialmente lesi, mediante la compulsione all’adozione di misure di adeguamento alla sicurezza del trasporto delle persone e agli interessi ambientali, tenendo presente che la conformazione del mezzo navale è volta alla ripresa di un servizio finalizzato a salvaguardare vite umane in pericolo e che, in carenza di disposizioni di dettaglio che attengano alle unità di soccorso, risultano esigibili unicamente adeguamenti indispensabili alla sicurezza della navigazione ed alla salute e sicurezza dell’equipaggio e delle persone da mettere in salvo.
13.6. Da ultimo, non pare ravvisabile l’ulteriore pregiudizio paventato dall’appellata (la diminuzione dei flussi finanziari): sembra al Collegio potersi serenamente affermare che dal provvedimento di fermo, giammai potrebbe derivare alcun disdoro per l’immagine dell’associazione umanitaria, avuto riguardo alla estrema complessità del quadro normativo, tale da aver condotto il primo giudice a rimettere la questione di interpretazione alla C.G.U.E.
Contrariamente a quanto adombrato dall’appellata, dalla (ritenuta, in questa fase di giudizio) legittimità del provvedimento impugnato non potrebbe farsi discendere alcun giudizio di (dis)valore in capo all’appellata medesima ( giudizio, peraltro, neppure mai ipotizzato nel provvedimento impugnato) la quale si è, d’altra parte, attenuta alla legislazione dello Stato di bandiera, in un quadro normativo obiettivamente lacunoso e di ardua interpretazione.
14. Conclusivamente, in accoglimento dell’appello, ed riforma dell’ordinanza cautelare appellata, la domanda di sospensione avanzata nel ricorso in primo grado viene respinta, con salvezza degli ulteriori provvedimenti da parte dell’amministrazione in osservanza dei principi ricavabili dalla presente ordinanza.
15. La novità ed evidente complessità della questione, più volte posta in luce, giustifica la compensazione integrale delle spese del doppio grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello (Ricorso numero: 341/2021) e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, respinge l’istanza cautelare proposta in primo grado.
Spese della fase cautelare compensate.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità e degli altri dati idonei ad identificare l’appellata.
Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 5 maggio 2021 tenutasi da remoto con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
……..(omissis)

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE
IL SEGRETARIO


Secondo il Tribunale amministrativo di Palermo ( in calce l’intero provvedimento del 23 febbraio 2021),

a prescindere da ogni valutazione in ordine all’incidenza sul provvedimento impugnato del Report of Inspection (form A) rilasciato dall’Ufficio PSC competente per il porto di Burriana (Spagna) del 15 febbraio 2021 e impregiudicata ogni valutazione sul punto da parte della Corte di Giustizia UE, il tenore dell’art. 19 della direttiva 2009/16/CE e le convenzioni internazionali di diritto marittimo nonché la disciplina comunitaria in materia sembrano limitare il potere di controllo delle autorità nazionali, in sede di PSC, alla mera verifica della rispondenza dei requisiti posseduti dalla nave alle certificazioni ottenute e necessarie sulla base della relativa classificazione, escludendo la possibilità di procedere alla riqualificazione della concreta attività svolta con la conseguente integrazione dei requisiti necessari;

Considerato altresì che, nell’ambito delle convenzioni internazionali di diritto marittimo, non sembra sussistere il parametro invocato dall’amministrazione resistente giacché non è specificatamente classificata l’attività cd. SAR di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare ai fini dell’individuazione di puntuali certificazioni e requisiti;

Considerato, infatti, che le predette convenzioni sembrano disporre in merito alle operazioni di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare solo con la finalità di esonerare le navi che prestano assistenza in mare dall’applicazione di alcune norme convenzionali, proprio al fine di evitare che queste possano subire ripercussioni negative a seguito del loro intervento di salvataggio di persone in pericolo di vita, espressione di un dovere costituente principio generale del diritto marittimo internazionale consuetudinario;

Considerato, inoltre, che:

– la raccomandazione della Commissione UE 2020/1365 sulla “cooperazione tra gli stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” esprime la volontà dell’UE di stabilire norme armonizzate al fine di garantire che le navi ONG che svolgono sistematicamente attività di pattugliamento e di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare siano adeguatamente registrate ed equipaggiate in modo da soddisfare i pertinenti requisiti sanitari e di sicurezza associati a tale attività, così da non mettere in pericolo l’equipaggio o le persone soccorse;

– da ciò si può, tuttavia, dedurre che, allo stato, non esiste nemmeno una normativa armonizzata a livello comunitario avente a oggetto gli specifici profili interessati nella vicenda; ossia difetta, a livello comunitario, una normativa che richieda direttamente o attraverso l’attuazione da parte degli Stati membri, una specifica registrazione e il conseguente equipaggiamento per le predette navi private che svolgono attività cd. SAR in modo non occasionale;

– sembra mancare, pertanto, a livello comunitario, il necessario previo certo parametro di riferimento da tenere in considerazione ai fini della valutazione della conformità della nave sotto i profili interessati in sede di PSC;

 ai sensi dell’art. 94 della c.d. convenzione UNCLOS, è lo Stato di bandiera il soggetto che può e deve effettuare i controlli e avere la giurisdizione esclusiva sui profili amministrativi, tecnici e sociali delle navi immatricolate e certificate dallo Stato medesimo;

 lo stesso considerando n. 6 della direttiva 2009/16/CE stabilisce che le attività di rilascio delle certificazioni e le connesse competenze sulle ispezioni e i controlli spettano allo Stato di bandiera;

 dall’esame degli atti è, invece, emerso che la Germania, ossia lo Stato di bandiera, non ha all’interno del proprio ordinamento giuridico alcuna disposizione relativa alla classificazione di navi private svolgenti attività cd. SAR e, quindi, all’individuazione di apposite certificazioni o di specifici requisiti per lo svolgimento di attività cd. SAR da parte di navi private; tanto è vero che, come in precedenza rilevato, il competente organo amministrativo tedesco ha rilasciato a SW3 e trasmesso apposita certificazione in ordine al riconoscimento dell’intervenuto superamento di tutte le criticità indicate da parte della Capitaneria di porto in sede di fermo, con la specificazione di ritenere conformi e adeguate le certificazioni in possesso di SW3;

– per altro verso, dall’altro, nemmeno l’Italia, ossia lo Stato di approdo, sembra disporre di una normativa nelle indicate direzioni; al riguardo, si rileva che l’amministrazione né in sede di adozione del provvedimento di fermo né nelle proprie difese, nonostante la ripetuta sollecitazione in tal senso da parte dell’organizzazione ricorrente, ha provveduto all’indicazione puntuale della predetta normativa;

– l’art. 36 del d.P.R. n. 435/1991 ‒ articolo peraltro richiamato nei soli scritti difensivi dell’amministrazione ‒ si limita, infatti, a statuire che è necessario il certificato di idoneità per le navi da carico, comprese quelle destinate al servizio speciale di salvataggio; laddove il n. 27 dell’art. 1 del medesimo decreto, nell’ambito delle definizioni, fa riferimento al “salvataggio di navi”;

– non sembra che si possano rinvenire, pertanto, nell’ordinamento italiano, norme che indichino con precisione quali attrezzature, caratteristiche tecniche e certificazioni debbano possedere le navi private qualora svolgano, anche sistematicamente, attività cd. SAR;

– sembra mancare pertanto ‒ anche ove fosse ritenuta rilevante ai fini che interessano ‒ comunque, a livello nazionale, sia dello Stato di bandiera che di quello di approdo, l’individuazione del necessario previo parametro di riferimento ai fini della valutazione della conformità della nave sotto i profili interessati;

– da quanto esposto consegue che il provvedimento di fermo della SW3 adottato da parte della Capitaneria di Porto ai sensi della direttiva 2009/16/CE sulla base del presupposto della mancanza da parte della nave delle necessarie certificazioni e requisiti commisurati alla concreta attività cd. SAR da questa posta in essere sembra fondarsi su un presupposto che non appare conforme alla normativa comunitaria di riferimento;


REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

(Sezione Terza)

23 febbraio 2021

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1864 del 2020, proposto da

Sea Watch E. V., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati………….

contro

Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Capitaneria di Porto di Porto Empedocle, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato…………….

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

– del provvedimento (denominato “notice of detention for the master”) emesso il giorno 8 luglio 2020, n. 02/2020;

– del rapporto di ispezione emesso il giorno 8 luglio 2020 (denominato “Report of inspection in accordance with the Paris memorandum of understanding on port state control”);

-del rapporto di ispezione emesso il giorno 8 luglio 2020 (denominato “Report of inspection in accordance with eu legislation”);

– di ogni ulteriore atto antecedente, presupposto, connesso e/o conseguente, ivi compresi i doc 4, 5 e 6 in allegato all’atto introduttivo.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni resistenti;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore il dott. ………………….. nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2021 e uditi i difensori delle parti tramite collegamento da remoto;

Considerato, quanto all’ammissibilità dell’adozione di una misura cautelare nelle more della definizione della questione pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 T.F.U.E. dinanzi alla Corte di Giustizia UE, quanto segue:

– costituisce principio processuale eurounitario la possibilità per il giudice nazionale di adottare provvedimento cautelari e interinali nelle more della definizione della questione pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 T.F.U.E. essendo a tal fine sufficiente ricordare i paragrafi 21 e 22 della sentenza della Corte di Giustizia, 19 giugno 1990, C-213/89, Factortame, ECLI:EU:C:1990:257: «Va aggiunto che la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronunci a giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. Ne consegue che in una situazione del genere il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori.

– questa interpretazione trova conferma nel sistema istituito dall’art. 177 del Trattato CEE, il cui effetto utile sarebbe ridotto se il giudice nazionale che sospende il procedimento in attesa della pronuncia della Corte sulla sua questione pregiudiziale non potesse concedere provvedimenti provvisori fino al momento in cui si pronuncia in esito alla soluzione fornita dalla Corte.» (principio ribadito nella successiva sentenza 28 febbraio 1991, C-234/89, Delimitis, ECLI:EU:C:1991:91,);

– il predetto indirizzo è stato ulteriormente spiegato dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui «Il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario deve essere interpretato nel senso che esso richiede, nell’ordinamento giuridico di uno Stato membro, che provvedimenti provvisori possano essere concessi fino a quando il giudice competente si sia pronunciato sulla conformità di disposizioni nazionali con il diritto comunitario, quando la concessione di tali provvedimenti è necessaria per garantire la piena efficacia della successiva pronuncia giurisdizionale sull’esistenza di tali diritti; il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario deve essere interpretato nel senso che, in caso di dubbio sulla conformità di disposizioni nazionali con il diritto comunitario, l’eventuale concessione di provvedimenti provvisori per sospendere l’applicazione di dette disposizioni fino a quando il giudice competente si sia pronunciato sulla loro conformità con il diritto comunitario è disciplinata dai criteri fissati dal diritto nazionale applicabile dinanzi a detto giudice, purché tali criteri non siano meno favorevoli di quelli concernenti domande simili di natura interna e non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile la tutela giurisdizionale provvisoria di tali diritti.» (13 marzo 2007, C-432/05, Unibet, ECLI:EU:C:2007:163);

– il predetto principio è stato ulteriormente valorizzato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 21 febbraio 1991, Zuckerfabrik, cause riunite C-143/88 e C-92/89, ECLI:EU:C:1991:65 nella quale al punto 20 si spiega che «La tutela cautelare garantita dal diritto comunitario ai singoli dinanzi ai giudici nazionali non può variare a seconda che essi contestino la compatibilità delle norme nazionali con il diritto comunitario oppure la validità di norme del diritto comunitario derivato, vertendo la contestazione, in entrambi i casi, sul diritto comunitario medesimo»;

– pertanto, al giudice nazionale è riconosciuto dal diritto comunitario il potere di adottare provvedimenti provvisori e cautelari e di sospensione del provvedimento amministrativo nazionale impugnato anche nell’ipotesi estrema, del tutto diversa dal caso che ci occupa, in cui sussista un dubbio sulla validità della norma comunitaria su cui l’atto amministrativo interno si fonda;

– anche nell’ipotesi di rinvio pregiudiziale di validità, non si dubita della sussistenza del potere cautelare del giudice nazionale, ove soddisfatte le condizioni di cui alla sentenza Atlanta, C.G.U.E., 9 novembre 1995, n. C-465/93 (punto 111: «Spetta infatti al solo giudice nazionale verificare, prendendo in considerazione le circostanze del caso di specie che gli è sottoposto, se siano soddisfatte le condizioni per la concessione di provvedimenti provvisori»);

Considerato che, pertanto, questo giudice può deliberare sull’istanza cautelare proposta dalla ricorrente ai sensi dell’art. 55 c.p.a. ancorando il fumus bonis iuris alle soluzioni interpretative prospettate al giudice comunitario in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell’art. 267 TFUE da parte del giudice nazionale di primo grado remittente, soprattutto quando si verta in un ambito del diritto comunitario (e nazionale, e nel caso di specie anche internazionale, come introdotto in sede comunitaria) molto tecnico e articolato, in cui non sono annoverabili pertinenti precedenti della giurisprudenza comunitaria o atti vincolanti dell’Unione Europea e che coinvolge scelte di carattere politico in seno all’Unione nell’ambito dei rapporti tra i singoli Stati membri, un’interpretazione uniforme del predetto diritto comunitario, in un’ottica di collaborazione sostanziale tra organi di giustizia;

Considerato, pertanto, che, in base alla giurisprudenza eurounitaria sopracitata, questo giudice deve procedere all’esame della domanda cautelare sulla base del rito cautelare delineato in via generale dall’art. 55 c.p.a.;

Preso atto che:

– il provvedimento di fermo è stato adottato per avere l’Ufficio PSC riscontrato, da un lato, “uno o più dei criteri per il fermo di cui all’Allegato X della Direttiva 2009/16/CE del Consiglio del 23 aprile 2009 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n. L 131) e all’Allegato 11 del Decreto 24 marzo 2011, n. 53 (Gazzetta Ufficiale, 27 aprile 2011 n. 96)” e, dall’altro, “altre carenze che, singolarmente o insieme, sono chiaramente pericolose per la sicurezza, la salute o l’ambiente”, nonché l’inadeguatezza dell’equipaggio ai sensi dell’art. 12 della Direttiva 2008/106/EC;

– dal Report of Inspection (form A) rilasciato dall’Ufficio PSC competente per il porto di Burriana (Spagna) del 15 febbraio 2021 e depositato in atti dalla parte ricorrente il 19 febbraio 2021, si attesta l’intervenuta rettifica delle carenze contestate dall’autorità italiana;

Considerato che:

– a prescindere da ogni valutazione in ordine all’incidenza sul provvedimento impugnato del Report of Inspection (form A) rilasciato dall’Ufficio PSC competente per il porto di Burriana (Spagna) del 15 febbraio 2021 e impregiudicata ogni valutazione sul punto da parte della Corte di Giustizia UE, il tenore dell’art. 19 della direttiva 2009/16/CE e le convenzioni internazionali di diritto marittimo nonché la disciplina comunitaria in materia sembrano limitare il potere di controllo delle autorità nazionali, in sede di PSC, alla mera verifica della rispondenza dei requisiti posseduti dalla nave alle certificazioni ottenute e necessarie sulla base della relativa classificazione, escludendo la possibilità di procedere alla riqualificazione della concreta attività svolta con la conseguente integrazione dei requisiti necessari;

Considerato altresì che, nell’ambito delle convenzioni internazionali di diritto marittimo, non sembra sussistere il parametro invocato dall’amministrazione resistente giacché non è specificatamente classificata l’attività cd. SAR di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare ai fini dell’individuazione di puntuali certificazioni e requisiti;

Considerato, infatti, che le predette convenzioni sembrano disporre in merito alle operazioni di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare solo con la finalità di esonerare le navi che prestano assistenza in mare dall’applicazione di alcune norme convenzionali, proprio al fine di evitare che queste possano subire ripercussioni negative a seguito del loro intervento di salvataggio di persone in pericolo di vita, espressione di un dovere costituente principio generale del diritto marittimo internazionale consuetudinario;

Considerato, inoltre, che:

– la raccomandazione della Commissione UE 2020/1365 sulla “cooperazione tra gli stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” esprime la volontà dell’UE di stabilire norme armonizzate al fine di garantire che le navi ONG che svolgono sistematicamente attività di pattugliamento e di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare siano adeguatamente registrate ed equipaggiate in modo da soddisfare i pertinenti requisiti sanitari e di sicurezza associati a tale attività, così da non mettere in pericolo l’equipaggio o le persone soccorse;

– da ciò si può, tuttavia, dedurre che, allo stato, non esiste nemmeno una normativa armonizzata a livello comunitario avente a oggetto gli specifici profili interessati nella vicenda; ossia difetta, a livello comunitario, una normativa che richieda direttamente o attraverso l’attuazione da parte degli Stati membri, una specifica registrazione e il conseguente equipaggiamento per le predette navi private che svolgono attività cd. SAR in modo non occasionale;

– sembra mancare, pertanto, a livello comunitario, il necessario previo certo parametro di riferimento da tenere in considerazione ai fini della valutazione della conformità della nave sotto i profili interessati in sede di PSC;

– ai sensi dell’art. 94 della c.d. convenzione UNCLOS, è lo Stato di bandiera il soggetto che può e deve effettuare i controlli e avere la giurisdizione esclusiva sui profili amministrativi, tecnici e sociali delle navi immatricolate e certificate dallo Stato medesimo;

– lo stesso considerando n. 6 della direttiva 2009/16/CE stabilisce che le attività di rilascio delle certificazioni e le connesse competenze sulle ispezioni e i controlli spettano allo Stato di bandiera;

– dall’esame degli atti è, invece, emerso che la Germania, ossia lo Stato di bandiera, non ha all’interno del proprio ordinamento giuridico alcuna disposizione relativa alla classificazione di navi private svolgenti attività cd. SAR e, quindi, all’individuazione di apposite certificazioni o di specifici requisiti per lo svolgimento di attività cd. SAR da parte di navi private; tanto è vero che, come in precedenza rilevato, il competente organo amministrativo tedesco ha rilasciato a SW3 e trasmesso apposita certificazione in ordine al riconoscimento dell’intervenuto superamento di tutte le criticità indicate da parte della Capitaneria di porto in sede di fermo, con la specificazione di ritenere conformi e adeguate le certificazioni in possesso di SW3;

– per altro verso, dall’altro, nemmeno l’Italia, ossia lo Stato di approdo, sembra disporre di una normativa nelle indicate direzioni; al riguardo, si rileva che l’amministrazione né in sede di adozione del provvedimento di fermo né nelle proprie difese, nonostante la ripetuta sollecitazione in tal senso da parte dell’organizzazione ricorrente, ha provveduto all’indicazione puntuale della predetta normativa;

– l’art. 36 del d.P.R. n. 435/1991 ‒ articolo peraltro richiamato nei soli scritti difensivi dell’amministrazione ‒ si limita, infatti, a statuire che è necessario il certificato di idoneità per le navi da carico, comprese quelle destinate al servizio speciale di salvataggio; laddove il n. 27 dell’art. 1 del medesimo decreto, nell’ambito delle definizioni, fa riferimento al “salvataggio di navi”;

– non sembra che si possano rinvenire, pertanto, nell’ordinamento italiano, norme che indichino con precisione quali attrezzature, caratteristiche tecniche e certificazioni debbano possedere le navi private qualora svolgano, anche sistematicamente, attività cd. SAR;

– sembra mancare pertanto ‒ anche ove fosse ritenuta rilevante ai fini che interessano ‒ comunque, a livello nazionale, sia dello Stato di bandiera che di quello di approdo, l’individuazione del necessario previo parametro di riferimento ai fini della valutazione della conformità della nave sotto i profili interessati;

– da quanto esposto consegue che il provvedimento di fermo della SW3 adottato da parte della Capitaneria di Porto ai sensi della direttiva 2009/16/CE sulla base del presupposto della mancanza da parte della nave delle necessarie certificazioni e requisiti commisurati alla concreta attività cd. SAR da questa posta in essere sembra fondarsi su un presupposto che non appare conforme alla normativa comunitaria di riferimento;

Premesso, quanto al danno grave e irreparabile, che:

– come esposto dalla stessa parte ricorrente in seno alla memoria depositata il 19 febbraio 2021, sulla base della certificazione dell’Ufficio PSC competente per il porto di Burriana (Spagna) del 15 febbraio 2021 la SW3 può riprendere la navigazione, fatte salve le eventuali determinazioni dell’autorità nazionale che ha disposto il fermo e i connessi effetti di cui all’art. 21 della direttiva 2009/16/CE;

– pertanto il pericolo di danno originariamente prospettato in seno al ricorso introduttivo in ordine all’impossibilità per l’organizzazione di svolgere la propria attività statutaria e di grave lesione dell’esercizio del diritto di proprietà appare, allo stato, assente o, in ogni caso, notevolmente ridotto;

– inoltre, il rischio di essere destinataria di nuovi provvedimenti da parte dell’amministrazioni resistente, anche ai sensi dell’art. 21 della direttiva 2009/16/CE, prospettato dall’organizzazione ricorrente, costituisce circostanza futura e incerta sia nell’an sia nel quando, sicché non appare predicabile l’attualità delle esigenze cautelari;

– le residue esigenze cautelari possono essere soddisfatte con la misura prevista dall’art. 55, comma 10, c.p.a. secondo cui “Il tribunale amministrativo regionale, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito”;

– tale misura cautelare deve necessariamente tenere conto della sospensione della presente causa in attesa dell’esito del rinvio pregiudiziale promosso con l’ordinanza collegiale n. 2994/2020 ai sensi dell’art. 267 TFUE, dell’art. 23 del protocollo sullo statuto della Corte di giustizia e dell’art. 3 comma 1 l. n. 204 del 1958, sicché il suo effetto può apprezzarsi in funzione dell’obbligo di riassunzione del giudizio dopo la decisione del giudice comunitario incombente sulle parti ai sensi dell’art. 80 c.p.a.;

– la riassunzione del processo su impulso processuale di parte non impedisce al giudice del processo sospeso di definire il calendario di svolgimento del processo, anche per relationem, con la fissazione dell’udienza pubblica per la discussone nel merito (Cons. Stato, Sez. III, 5 ottobre 2018, n. 4947 secondo cui «l’art. 80 del CPA disciplina le modalità di prosecuzione del processo sospeso, definendo gli oneri delle parti, ma non prevede alcuno specifico limite ai poteri officiosi del giudice riguardanti lo sviluppo e la definizione del giudizio»);

– pertanto, a fronte del tempestivo e regolare atto d’impulso processuale di parte, il Tribunale, dopo la definizione del giudizio pregiudiziale, provvederà alla sollecita fissazione per la trattazione nel merito della prima udienza pubblica utile nel rispetto dei termini a difesa;

– le spese della fase cautelare possono compensarsi tenuto conto della particolarità della questione giuridica affrontata e delle decisività ai fini della decisione delle statuizioni che adotterà il giudice comunitario all’esito del procedimento di rinvio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza) accoglie l’istanza cautelare ai limitati effetti dell’art. 55 comma 10 c.p.a., nei sensi indicati in parte motiva.

Spese di fase compensate.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità.

Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2021, tenutasi tramite collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137/2020 conv. in l. n. 176/2020, con l’intervento dei magistrati:

Presidente

Consigliere

Estensore

IL SEGRETARIO


REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 35 del 2021, proposto da:

Sea Eye E.V., in persona dei legali rappresentanti in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Mozzati, Enrico Mordiglia e Ulrich Stege, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Enrico Mordiglia in Genova, via XX Settembre n. 14/17;

contro

Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
Capitaneria di Porto di Olbia, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, domiciliati in Cagliari presso gli uffici della medesima, via Dante n. 23;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

– del provvedimento (denominato “notice of detention for the master”) n. 2/2020 del 9 ottobre 2020, con il quale la Capitaneria di Porto di Olbia – Ufficio Locale PSC, ha disposto il fermo della nave “Alan Kurdi” di proprietà dell’Associazione ricorrente;

– dei seguenti documenti allegati al provvedimento di fermo: a) rapporti di ispezione 9 ottobre 2020 (denominati “Report of inspection in accordance with the Paris memorandum of understanding on port state control”), form A e B; b) rapporto di ispezione 9 ottobre 2020 (denominato “Report of inspection in accordance with eu legislation”);

– di ogni ulteriore atto antecedente, presupposto, connesso e/o conseguente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e della Capitaneria di Porto di Olbia;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2021, tenutasi in modalità telematica ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, nonché dell’articolo 1, comma 17, del d.l. 31 dicembre 2020 n. 183, convertito in legge 26 febbraio 2021, n. 21, il dott. Tito Aru e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Considerato in punto di periculum in mora:

– che il prolungarsi del periodo di efficacia dell’impugnato provvedimento di fermo determina un grave danno patrimoniale alla ricorrente tenuto anche conto delle ingenti spese portuali connesse al fermo della nave e del rischio che il fermo a tempo indeterminato determini danni di complessa risoluzione derivanti dall’interruzione prolungata della navigazione;

– che all’odierna udienza camerale di trattazione i legali della ricorrente hanno evidenziato la necessità di consentire il trasferimento della nave per cui è causa preso l’home port in Spagna per l’effettuazione di necessari lavori di manutenzione e di interventi adeguamento finalizzati al ripristino della navigazione;

– che, anche avuto riguardo al parziale superamento delle criticità evidenziate dall’autorità italiana, nella comparazione degli interessi coinvolti nella vicenda in esame – ampiamente riportati nell’ordinanza del TAR Sicilia, Palermo, Sezione III, n. 145 del 2 marzo 2021 pronunciata su analoga vicenda nella quale si dà anche atto della rimessione alla Corte di Giustizia UE della valutazione sulle complesse questioni giuridiche sollevate – appare opportuno consentire alla nave “Alan Kurdi” di lasciare le acque territoriali italiane all’unico fine di recarsi presso il porto spagnolo nel quale ha dichiarato di volersi recare per gli adeguamenti necessari al ripristino in condizioni di sicurezza della sua attività di navigazione;

– che gli effetti del provvedimento di fermo, le cui cause giustificative non risultano ancora interamente superate dagli interventi ad oggi posti in essere, potrebbero esplicarsi nuovamente nei confronti della “Alan Kurdi” ove e quando rientrasse nelle acque territoriali italiane senza aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza di cui al provvedimento impugnato;

– che in tal caso potrebbero trovare altresì applicazione gli ulteriori effetti sanzionatori che la normativa nazionale riconnette all’inosservanza del provvedimento di fermo;

– che pertanto l’istanza cautelare in esame può trovare accoglimento nei soli limiti e ai soli fini sopra specificati;

– che per la definizione del merito del giudizio può essere fissata l’udienza pubblica del 3 novembre 2021;

– che le spese della presente fase del giudizio possono essere interamente compensate tra le parti,

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima), accoglie la domanda cautelare e per l’effetto:

a) sospende nei soli limiti e ai soli fini specificati in motivazione il provvedimento impugnato;

b) fissa per la trattazione del merito del ricorso l’udienza pubblica del 3 novembre 2021.

Compensa le spese della presente fase del giudizio.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2021, tenutasi in modalità telematica ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, nonché dell’articolo 1, comma 17, del d.l. 31 dicembre 2020 n. 183, convertito in legge 26 febbraio 2021, n. 21, con l’intervento dei magistrati:

Presidente

Consigliere, Estensore

Consigliere

IL SEGRETARIO