di Fulvio Vassallo Paleologo
1. L’OIM, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR e altre organizzazioni come Amnesty International ed ECRE, hanno ripetutamente condannato la pratica dei respingimenti collettivi delegati ai libici sotto coordinamento delle autorità europee (Frontex) ed italiane, con l’ordine impartito alle navi commerciali di non intervenire direttamente, ma di attendere l’arrivo di una motovedetta libica. Una prassi che, non appena sono state allontanate le navi delle ONG, ha prodotto centinaia di vittime e che negli ultimi giorni si è tradotta nel ritorno forzato dei migranti in Libia. Anche se la situazione nel paese rimane caotica e le condizioni nei centri di detenzione sono ancora quelle ben rappresentate dai testimoni che sono arrivati in Italia e che hanno consentito la condanna di carcerieri torturatori appartenenti alle milizie che gestivano i centri di Zawia e di Bani Walid. Sabato 1 maggio, l’OIM ha ribadito le sue preoccupazioni: “Le nostre squadre hanno fornito assistenza di emergenza a più di 600 migranti intercettati nelle ultime 48 ore. Ribadiamo che la Libia non è un porto sicuro”. In realtà sembra che in soli 5 giorni i libici si siano ripresi ben 800 persone che si trovavano già in acque internazionali. Nelle operazioni di intercettazione in quelle stesse acque internazionali sono recentemente intervenute anche unità della Marina turca, che ormai controlla parte della sedicente Guardia costiera libica, ed anche loro hanno contribuito a riportare a terra persone che avrebbero avuto diritto al soccorso ed allo sbarco in un porto sicuro.

2. E’ rimasta invece assolutamente incerta, data l’assenza di navi delle ONG, la notizia di un secondo naufragio con 50 vittime che si sarebbe verificato al largo di Zawia nell’ultimo fine settimana, in quanto la Guardia costiera libica ha ammesso di essere intervenuta su un barcone dal quale ha prelevato 12 persone, accertando la morte di 11 vittime, non si sa in quali circostanze, ma ha smentito di essere a conoscenza di un secondo naufragio che si sarebbe verificato nella stessa zona, denunciato dalla Mezzaluna Rossa libica, nelle stesse ore e sempre a nord di Zawia. Sembra questo il nuovo epicentro delle partenze dalla Libia, dopo la reintegrazione del comandante-trafficante Al Milad alias Bija nei ranghi della Guardia costiera espressione delle milizie che controllano il porto di quella città ,i terminali dell’ENI ed i contigui entri di detenzione. E’ facilmente prevedibile la sorte infernale che attende le persone migranti intercettate in acque internazionali e riportate a Zawia. Ma anche chi viene riportato a terra a Tripoli, a Khoms o a Zuwara rischia di finire prima o poi nelle mani dei trafficanti, che il governo di Tripoli, evidentemente, continua a coprire.
Sia l’UNHCR che l’OIM dichiarano che non riescono a seguire le sorti delle persone riportate a terra e trasferite nei centri di detenzione formali e informali che trattengono migliaia di migranti sottoposti a continue vessazioni, tra loro come denuncia UNICEF, centinaia di minori non accompagnati. Anche la Croce Rossa Internazionale (IRC), presente in alcuni punti di sbarco, denuncia che “la stragrande maggioranza delle persone assistite dall’IRC questo fine settimana è stata immediatamente inviata in centri di detenzione sovraffollati, dove sono ora a grave rischio di maltrattamenti, sfruttamento e violenza, e devono affrontare la mancanza di accesso a servizi di base come igiene e servizi igienico-sanitari adeguati.”

3. In occasione dell’ultimo respingimento collettivo di 95 persone, delegato il 2 maggio scorso alla sedicente Guardia costiera libica, era presente sulla scena dei soccorsi, a nord di Zawia, anche il VOS APHRODITE un rimorchiatore (Offshore Tug/Supply Ship) della compagnia olandese VROON, battente bandiera di Gibilterra, di servizio al terminale petrolifero offshore di Farwa a nord di Zawia e Zuwara.

Il rimorchiatore, coordinato dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana, è rimasto per ore a girare attorno al barcone in difficoltà, dal quale giungevano disperate richieste di aiuto perché si operassero i soccorsi prima dell’arrivo della motovedetta libica, che avrebbe riportato le persone a terra, nelle mani di quelle stesse milizie e di quelle stesse organizzazioni criminali che solo dopo mesi di abusi ne avevano permesso la fuga. Alla fine 95 persone sono state intercettate dalla motovedetta libica che a tarda sera le ha riportate a terra. Di loro, dopo la prima “accoglienza” in banchina, non si è saputo più nulla, scomparsi in uno dei tanti centri di detenzione che, malgrado gli appelli della comunità internazionale che sostiene il governo di Tripoli, rimangono ancora in funzione. Questa la prova del percorso in stand by seguito in acque internazionali dal rimorchiatore Vos Aphrodite nel pomeriggio di domenica 2 maggio, in attesa della motovedetta libica che ha poi affiancato il barcone in difficoltà riportando a terra le persone migranti.

4. Nella fattispecie del caso VOS APHRODITE, a fronte della sorte che attende i migranti ricondotti con la forza in Libia, si potrebbe configurare persino il reato di omissione di soccorso. Ma sarà inutile attendere l’apertura di una indagine penale da parte di una procura italiana, anche per la difficoltà di individuare una giurisdizione italiana. Di certo non mancano i precedenti giudiziari sui soccorsi in mare, nel caso di interventi di mezzi di servizio alle piattaforme petrolifere offshore nel Mediterraneo, ma i giudici italiani hanno sanzionato piuttosto i migranti che erano riusciti ad essere soccorsi da rimorchiatori di servizio delle piattaforme al largo delle coste libiche, senza sanzionare mai chi aveva impartito ordini di respingimento collettivo verso la Libia. E la società armatrice di questi rimorchiatori, che anni fa venivano noleggiati anche alle ONG per effettuare soccorsi umanitari in acque internazionali, come la Vos Hestia, si è ritrovata coinvolta nel caso IUVENTA a Trapani. Società armatrice della Vos Aphrodite, che opera come rimorchiatore di servizio delle piattaforme offshore del terminal di Farwa, al largo di Zuwara,è infatti la VROON già coinvolta nel caso Vos Thalassa, e come si diceva sotto inchiesta nel procedimento penale IUVENTA a Trapani. Questo dettaglio potrebbe avere assunto rilievo sulla decisione del comandante, e più probabilmente dell’armatore, di non fornire soccorso immediato ad un battello carico di persone a rischio di naufragare proprio in prossimità della VOS APRHODITE. Probabilmente, l’ordine di stand by proveniva direttamente dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) che in quelle ore, prima che arrivasse sulla scena l’unità libica, aveva assunto il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio (SAR). Numerosi i precedenti inquietanti dei soccorsi operati da rimorchiatori di servizio alle piattaforme che hanno obbedito alle autorità libiche riportando indietro i naufraghi soccorsi in acque internazionali. Nel caso dei rimorchiatori Asso battenti bandiera italiana le responsabilità derivanti dai respingimenti in Libia sono ancora più gravi ed evidenti, trattandosi di persone che trovandosi su naviglio italiano sono già sotto la giurisdizione del nostro paese (vedi nota allegata in calce).
Amnesty International Italia, ha proposto un giudizio nei confronti delle autorità italiane, dell’Augusta Offshore e del comandante della nave Asso 29 in relazioni ai fatti avvenuti il 2 luglio 2018 nel Mediterraneo centrale quando le navi Caprera e Duilio della Marina Italiana hanno chiesto alla Asso Ventinove di prendere a bordo 150 persone in fuga dalla Libia e provenienti da Eritrea, Etiopia e Sudan per poi ricondurle a Tripoli riconsegnandole alle autorità libiche. Il 30 luglio 2018, un’altro rimorchiatore Asso (28), battente bandiera italiana,“in assistenza alla piattaforma di estrazione ‘Sabratah’ della Mellita Oli & Gas”, aveva riportato a Tripoli oltre cento naufraghi intercettati in acque internazionali. Dopo quest’ultimo respingimento diversi avvocati europei hanno cercato di individuare le persone respinte in Libia , senza successo. Per fare luce sulla vicenda, e chiedere l’intervento della magistratura, lo scorso agosto alcune personalità del mondo della cultura, di quello giuridico e della politica, hanno presentato un esposto. Tra le firme, Moni Ovadia, Luigi de Magistris, Luigi Ferrajoli, Domenico Gallo. Si chiede alle autorità di accertare se la vicenda configuri «una forma di respingimento collettivo per di più da parte di privati», una pratica per cui l’Italia è già stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012 (con la cosiddetta sentenza Hirsi, ndr) per aver esposto profughi a trattamenti inumani e degradanti (art.3, Cedu) e per aver compiuto espulsioni collettive proibite (art.4 prot.4).
Cinque cittadini eritrei che erano a bordo del rimorchiatore italiano Asso con il sostegno dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Amnesty International Italia hanno avviato un’azione civile per far dichiarare l’illegittimità del respingimento in Libia attuato dalla nave della flotta napoletana Augusta Offshore “nell’ambito di operazioni coordinate dalle autorità italiane di stanza in Libia – scrivono le associazioni – e con la collaborazione della cosiddetta Guardia Costiera libica”.. A disposizione dei magistrati, oltre alle indagini svolte dalla Capitaneria di porto di Napoli, ci sono anche le registrazioni audio delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave Open Arms. Questo spiega perché con tanto accanimento si è tentato nel corso degli anni di bloccare le navi delle ONG e di tenerle lontane da luoghi nei quali, per la mera presenza di testimoni neutrali, avrebbero potuto documentare respingimenti illegali. E da quel momento sono pure cessate le notizie ufficiali sui soccorsi operati in acque internazionali da navi che operavano in assistenza alle piattaforme petrolifere a nord delle coste libiche.
Nel 2019, a giugno, un soccorso operato in zona Sar maltese da un rimorchiatore Asso (25) si è concluso con lo sbarco dei naufraghi in Italia dopo un lungo rimpallo di responsabilità con Malta.. Ancora nel settembre del 2020 lil rimorchiatore Asso 29 dell’Eni è arrivato in rada a Trapani con 95 migranti, recuperati nel tratto di mare davanti alla Libia dove si trovano le piattaforme petrolifere dell’Eni. E il 25 gennaio 2021 la Asso Trenta sbarcava nel porto di Lampedusa altre persone salvate in acque internazionali nei pressi delle piattaforme petrolifere, sotto il coordinamento dell’IMRCC (la sala operativa di coordinamento soccorso marittimo internazionale italiana), senza trasbordo in rada su nave quarantena, senza obbligo di quarantena per la stessa nave soccorritrice, a differenza di altre navi soccorritrici delle ONG che venivano indirizzate verso altri porti e bloccate per lunghi periodi di quarantena, se non sottoposte anche a fermo amministrativo.
Si può quindi constatare come dopo i respingimenti collettivi disposti nel 2018, subito dopo l’insediamento di Salvini al Viminale, e dopo il rimpallo di responsabilità con Malta nel giugno del 2019, con il secondo governo Conte i successivi soccorsi operati da rimorchiatori di servizio alle piattaforme petrolifere offshore ubicate davanti alle coste di Zawia, Sabratah e Zuwara si concludevano tutti abbastanza rapidamente, con lo sbarco dei naufraghi in Italia. Come del resto non poteva essere altrimenti, trattandosi di imbarcazioni battenti bandiera italiana e dunque già spazio territoriale sottoposto alla giurisdizione italiana. Infatti, quando entravano in scena rimorchiatori di servizio alle piattaforme, ma battenti bandiera straniera, si tronava ai tentativi di respingimento collettivo in Libia. Il 20 febbraio di quest’anno si verificava un altro naufragio, dopo ore di attesa dei soccorsi e l’intervento di un rimorchiatore di servizio alle piattaforme offshore. Dopo circa tre ore dall’ultimo contatto, interveniva la Vos Triton, rimorchiatore battente bandiera di Gibilterra e di appoggio ad una piattaforma Total al largo della Libia, che tentava in extremis un salvataggio ma, nel corso di quella operazione SAR, 41 persone perderanno la vita fra cui 3 bambini e 4 donne. Come riferisce Mediterranea Saving Humans, “L’equipaggio del rimorchiatore riuscirà a salvare 77 persone e a recuperare un solo corpo fra le almeno 43 vittime. Dalle indagini in corso effettuate dalla Procura di Agrigento, pare che la Vos Triton avesse concordato con le autorità libiche lo sbarco dei migranti a Tripoli per poi invertire la rotta su Lampedusa dove, al largo di Cala Pisana, ha effettuato l’evacuazione medica di una famiglia composta da tre persone. Da quanto emerge, pare che il manifestato disappunto dei migranti a bordo, terrorizzati dal ritorno in Libia e le esortazioni dell’equipaggio di Moonbird di Sea Watch International che dall’alto monitorava il rimorchiatore, abbia indotto il Capitano di bordo a dirottare il rimorchiatore verso la costa siciliana evitando l’ennesimo respingimento in Libia dei migranti soccorsi in zona SAR di competenza tripolina”. Chi coordinava davvero il tentativo di respingimento a Tripoli dei migranti soccorsi dalla Vos Triton? Ancora una volta solo l’impegno delle Organizzazioni non governative era riuscito ad evitare un respingimento collettivo verso la Libia, che sarebbe stato facilitato dalla circostanza che la Vos Triton batteva bandiera di Gibilterra e non bandiera italiana. Ma quante altre volte, in assenza delle ONG, naufraghi “salvati”/intercettati in acque internazionali da questi rimorchiatori di servizio (Supply Ship) sono stati riconsegnati ai libici ?
5. Lo scorso anno la Corte di appello di Palermo ha condannato alcuni migranti che dopo essere stati soccorsi dalla Vos Thalassa, un rimorchiatore di servizio ad una piattaforma petrolifera offshore, si erano ribellati quando avevano appreso dell’ordine ricevuto dal comandante di riportarli in Libia. La Corte di appello di Palermo ha così ribaltato il giudizio di assoluzione reso dal GIP presso il Tribunale di Trapani che aveva ravvisato la sussistenza della causa di giustificazione della legittima difesa. Secondo il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, i migranti a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa della società armatrice VROON “stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro [essendo] l’ordine impartito dalle autorità libiche alla Vos Thalassa, palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo» [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 65 della motivazione]”. Secondo lo stesso Giudice, “Il pericolo concreto e attuale di lesione dei diritti fondamentali non era stato volontariamente determinato dai migranti» (GIP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 66 della motivazione). Infatti, “il viaggio in mare era parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi per loro pericolosi e non più vivibili» (GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, pp. 66-67 della motivazione)”. Come si è già osservato in dottrina, la sentenza del Tribunale di Trapani fornisce una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”.
Per la Corte di Appello di Palermo, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe invece configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché «i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione». In pratica la stessa tesi e la stessa terminologia, persino il ricorso al termine “clandestino”, che si ritrova nei procedimenti che sollecitano l’incriminazione delle ONG, rilanciati di recente da alcune procure. Secondo la Corte di Appello di Palermo il Giudice non può decidere “ritenendo scriminati in partenza comportamenti dotati di grande disvalore penale, quali atti di resistenza ai limiti dell’ammutinamento perché a seguire tutta l’impostazione data dal GUP, chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare a bordo di una unità italiana, sicuro di poter minacciare impunemente l’equipaggio della nave, qualora questo dovesse obbedire ad un ordine impartito dalla Guardia costiera di uno stato che è riconosciuto internazionalmente» (Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, pp. 8-9 della motivazione). Sembra non assumere rilievo, per i giudici della Corte di Appello di Palermo, tanto la gravità e l’attualità del pericolo corso dai naufraghi raccolti a bordo della Vos Thalassa, quanto le testimonianze raccolte nel processo di primo grado, nel quale alcuni migranti che avevano descritto con dettagli agghiaccianti le violenze subite in Libia prima della partenza, non certo volontaria, verso le coste italiane. Una donna, in particolare, aveva testimoniato, davanti al GUP di Trapani, di essere stata rinchiusa per giorni, prima dell’imbarco, all’interno di una casa adoperata dai trafficanti (probabilmente una connecting house) e di avere subito più volte violenze sessuali. Come sarebbe potuto avvenire di nuovo in caso di suo ritorno a terra, in base a quanto documentato dalle agenzie delle Nazioni Unite sulla sorte dei migranti riportati in Libia. La situazione di questa persona e delle altre soccorse dal rimorchiatore Vos Thalassa non era certo “volontariamente determinata”, ma era frutto di una condizione di grave e continuata violenza e di totale privazione dei diritti umani, ai quali neppure il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, riusciva ( e riesce ancora oggi) a porre rimedio.
In questo modo si scambia per “giudizio ideologico” una considerazione attenta dei diritti fondamentali della persona che il giudice di primo grado aveva operato tenendo ben presente la gerarchia delle fonti e la valenza prevalente sul diritto nazionale delle Convenzioni internazionali di diritto del mare ed a protezione dei richedenti asilo. Una impostazione che peraltro veniva adottata dalla Corte di Cassazione che il 20 febbraio dello scorso anno confermava la decisione del GIP di Agrigento che negava la convalida dell’arresto della comandante Carola Rackete dopo il suo ingresso in porto a Lampedusa nel mese di giugno del 2019. Il diritto al soccorso ed allo sbarco in un luogo sicuro è un diritto fondamentale che spetta a qualunque persona e non può essere negato per una astratta finalità, questa certamente ideologica, di difesa dei confini o di limitazione degli sbarchi. Ricordiamo tutti, o dovremmo ricordare cosa era successo ai naufraghi soccorsi nel 2019 dalla Vos Thalassa. Prima il diktat dell’allora ministro dell’interno Salvini, che richiedeva espressamente,il respingimento collettivo di tutti i naufraghi e poi l’arresto di coloro i quali, con la loro ribellione, si erano opposti alla prospettiva di essere riportati in Libia. Quidi il trasbordo dalla Vos Thalasssa alla nave Diciotti della Marina militare. Poi,mentre la nave Diciotti della Guardia costiera italiana veniva bloccata all’ingresso del porto di Trapani, alcuni Ministri del governo, avevano definito come “facinorosi” i naufraghi, arrivando a chiedere che fossero sbarcati “in manette” dalla nave militare italiana (Diciotti) sulla quale erano stati trasbordati. Lo sbarco in porto a Trapani avveniva soltanto dopo un intervento del Presidente della Repubblica Mattarella.
6. Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati che prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Gli Stati possono esercitare il diritto di respingere e di espellere quando le persone raggiungono le loro frontiere, ma nel rispetto del principio di legalità, e dunque in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, che è stata ratificata ovunque, meno che in Libia, non si può criminalizzare o definire “clandestino” l’arrivo nel territorio per ragioni di soccorso (art. 10 ter del T,U. 286/98) e di tutti coloro che comunque presentano una istanza di protezione. Fermo restando il diritto dello Stato di eseguire respingimenti differiti ed espulsioni quando il diritto alla protezione non venga riconosciuto, sempre nel rispetto dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e nel caso dell’Italia, dell’art. 19 del Testo Unico 286/98 con particolare riferimento anche ai minori stranieri non accompagnati ed ai soggetti vulnerabili. Le Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e di diritto del mare, cui l’Italia ha aderito, costituiscono infatti un limite all’esercizio della sovranità ed alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione, III Sez. pen., sent. n. 112, 16 gennaio 2020, “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Ritenere che la Libia possa costituire un “luogo sicuro”, e che questa circostanza possa essere percepita dai migranti già prima dell’imbarco, o ancora in caso di respingimento o di ritorno su mezzi della sedicente Guardia costiera libica, contrasta ancora oggi, come contrastava già nel 2018, con la realtà dei fatti e con il combinato disposto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Per questa ragione non si può ritenere che i migranti che sono costretti ad affidare la loro vita ai trafficanti, per fuggire dalle torture e dagli abusi che subiscono tutti i giorni in territorio libico, abbiano determinato volontariamente una situazione di pericolo di gravità superiore a quella da loro sofferta in Libia. Come è confermato dalle numerose testimonianze di quanti affermano che preferirebbero morire in mare piuttosto che essere riportati a terra, anche se purtroppo il numero delle vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale, come delle persone riprese dalla sedicente guardia costiera “libica”, non accenna a diminuire.
7. In sintonia con l’indirizzo giurisprudenziale adottato dalla Corte di Appello di Palermo nel caso Vos Thalassa, la politica sembra confermare ancora oggi che: gli accordi con i libici non si toccano, anche se, dopo le agenzie delle Nazioni Unite, il Papa avverte che il destino di chi rimane intrappolato in Libia è un destino di morte e di torture. Non si può certo parlare, neppure sul piano strettamente giuridico, di “partenze volontarie” dalla Libia, in tutti i casi si tratta di migranti forzati, che fuggono da un territorio nel quale non sono garantiti da nessun governo i diritti fondamentali della persona, come avvertono l’UNHCR e lOIM, che invitano gli Stati a non respingere naufraghi verso quel paese.
Dopo l’allontanamento della maggior parte delle ONG, comunque rallentate dai tempi lunghi di quarantena loro imposti anche quando i trasbordi avvengono senza ingresso in porto, e per l’incombenza dei fermi ammnistrativi, che continuano a paralizzare buona parte delle imbarcazioni che la società civile aveva faticosamente organizzazto per salvare nel Mediterraeo centrale quelle vite che vengono abbandonate dagli Stati ai respingimenti su delega, se non al naufragio, il ruolo dei mezzi commerciali e dei rimorchiatori di servizio alle piattaforme petrolifere che si trovano a nord delle coste libiche, sulle rotte verso la Sicilia, diventerà sempre più importante. Gli episodi di “stand by” imposto a questi mezzi commerciali ed i ritardi negli interventi di soccorso, in attesa dell’arrivo delle motovedette libiche si ripeteranno ancora nei prossimi giorni, nelle prossime settimane. Si può ritenere che gli Stati europei che praticano queste forme di respingimento collettivo indiretto vadano del tutto esenti da qualsiasi responsabilità ? E’ possibile che, per i ritardi nei soccorsi in acque internazionali, un numero crescente di persone migranti, donne e bambini compresi, vite senza nome, su imbarcazioni senza bandiera, anneghi senza che i loro corpi si possano più recuperare, e non vi sia nessuna autorità statale che ne risponda ? Fino a quando dovrà durare la “finzione” di una zona SAR “libica” ed il privilegio di Malta che si vede riconosciuta una immensa zona SAR, rispetto al suo territorio, per ragioni meramente economiche, con una grave compromissione del coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, imposte alle autorità statali dalle Convenzioni internazionali ?

Le persone che si trovano a bordo di imbarcazioni fatiscenti e sovraccariche nelle acque del Mediterraneo centrale sono tutte in una condizione di pericolo immediato (distress) per cui non appare legittimo limitare gli interventi al monitoraggio ed al tracciamento della rotta. La finzione di una zona SAR “libica” non può reggere ancora a lungo perché sono le autorità europee che garantiscono il tracciamento di tutte le imbarcazioni in navigazione nel Mediterraneo centrale, e questa circostanza non solleva gli Stati informati della presenza dell’imbarcazione in acque internazionali, dagli obblighi di soccorso in mare[, almeno fino a quando non intervenga un mezzo che effettui il soccorso e garantisca lo sbarco in un porto sicuro. In diverse occasioni, da ultimo in occasione del naufragio di 130 persone il 22 aprile di quest’anno, i libici hanno comunicato di non avere i mezzi idonei a garantire l’attività SAR loro richiesta. La ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale non può ritardare, o peggio evitare, interventi di salvataggio che sono dovuti in base al diritto internazionale del mare, ed in particolare in base alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, e dei relativi emendamenti, che impongono coordinamento ed assistenza delle navi soccorritrici in vista del soccorso tempestivo e dello sbarco dei naufraghi in un porto sicuro.
8. Nessuna autorità nazionale può però continuare a ritenere che, collaborando con la sedicente Guardia costiera libica, non rispondendo alle richieste di soccorso che provengono dalle ONG o alle richieste di designazione di un porto di sbarco sicuro, oppure negando l’ingresso nelle acque territoriali, si possa evitare di assumere una qualsiasi responsabilità sul piano internazionale, una responsabilità che potrebbe essere rilevante anche sul piano del diritto (penale) interno. Dopo la esemplare condanna dell’Italia sul caso Hirsi nel 2012, che ha chiaramente delineato il principio della responsabilità extraterritoriale, si può affermare che ricorre una giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui anche al di fuori delle frontiere nazionali, autorità statali abbiano il controllo esclusivo su persone che non si trovano soggette alla giurisdizione di altro stato. Un controllo esclusivo che si realizza quando le attività di intercettazione e di tracciamento elettronico consentono di determinare la destinazione delle imbarcazioni cariche di naufraghi e il loro diritto al soccorso ( ed alla vita). Come avviene nei confronti dei migranti che si trovano su imbarcazioni ubicate in acque internazionali dopo la segnalazione inviata alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana.
Quanto rilevato sopra sulla finzione della zona SAR “libica” e sulle modalità di intervento delle motovedette che salpano dalla Tripolitania, assistite dall’Italia con la missione Nauras, fa ritenere che tale responsabilità persista anche dopo le attività di intercettazione, che non è facile definire soltanto come attivita di “soccorso” operata dai libici. La Corte di Strasburgo ha ritenuto, proprio a partire dal caso Hirsi, che “ gli Stati non possono aggirare gli obblighi della CEDU stipulando accordi con Stati terzi, ma al contrario, devono assicurarsi della compatibilità con la CEDU di tutti gli altri obblighi assunti per non esporsi al rischio di condanne per inadempimento da parte della Corte, in particolare rispetto ai divieti di respingimento derivanti dagli articoli 3 e 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU”. La Corte rileva poi, riguardo del divieto di respingimenti collettivi, che “se l’art. 4 Prot. 4 si applicasse solo alle espulsioni dal territorio degli Stati parte alla Convenzione, una componente significativa degli attuali fenomeni migratori non ricadrebbe sotto l’ambito di applicazione della disposizione nonostante che le condotte che essa intende proibire si realizzino ugualmente fuori del territorio e in particolare, come nel caso di specie, in alto mare … l’art. 4 pertanto sarebbe privo di effettività in pratica con riguardo a tali situazioni sebbene esse siano in costante crescita”.
9. Quando arriva una chiamata di soccorso ad una autorità nazionale, o quando viene intercettato, attraverso sistemi di tracciamento elettronico, un barcone in acque internazionali, prima che siano avviate attività di ricerca e soccorso da parte delle autorità libiche, o di altri paesi, si può affermare che le persone che si trovano a bordo dell’imbarcazione siano comunque sottoposte ad una giurisdizione, europea o nazionale che sia. I tempi ritardati dell’intervento delle motovedette libiche non possono giustificare ritardi a catena che potrebbero configurare anche la fattispecie penale dell’omissione di soccorso. Esercitano una giurisdizione le autorità statali che vengono a conoscenza dell’esistenza di persone che sono in difficoltà su una imbarcazione fatiscente e sovraccarica in alto mare, dunque in una condizione di distress che impone soccorsi immediati, che comunque vanno attivati anche se gli Stati competenti non danno risposte o reagiscono tardivamente. Il diritto ad essere soccorsi in questi casi ha la stessa tutela del diritto alla vita, perché la vita che si perde quando i soccorsi non arrivano in tempo. Altro che taxi del mare, clandestini e partenze volontarie, substrato terminologico che la cattiva politica condivide con certa giurisprudenza.
Non si può sostenere che le stesse autorità nazionali ignorino la sorte dei migranti trattenuti in Libia contro la loro volontà o quanto accade alle persone che sono intercettate in mare, spesso più un sequestro che un evento di soccorso, e riportate a terra. Diverse sentenze degli organi giurisdizionali italiani attestano la gravità degli abusi subiti dai migranti intrappolati in Libia e l’elevato livello di collusione tra le milizie ed i trafficanti, proprio nei passaggi cruciali dai porti ai centri di detenzione (e viceversa). Sono rapporti che risalgono agli anni nei quali veniva lanciata la guerra ai soccorsi umanitari come complemento alla politica dei “porti chiusi”. Si tratta di dati confermati anche in documenti recenti delle Nazioni Unite, adesso che in Libia, dopo il “cessate il fuoco” tra le diverse fazioni e la creazione di un governo provvisorio, sembrano riaprirsi prospettive di riunificazione. Se in qualche caso non sono riscontrabili profili di responsabilità esclusiva a carico degli Stati europei o di Frontex, che stanno eliminando sistematicamente tutti i testimoni scomodi, come le ONG, presenti nelle acque del Mediterraneo centrale, non si può certo escludere, proprio sulla base delle testimonianze convergenti dei sopravvissuti che sono riusciti ad arrivare in Italia, e che sono state anche confermate in diversi procedimenti penali quanto avviene nei centri di detenzione libici dopo il blocco in mare e la riconduzione a terra. Ed è in base a queste stesse testimonianze che si potrà accertare una precisa responsabilità per la complicità italiana ed europea con le attività di intercettazione in mare da parte della sedicente Guardia costiera “libica”, che si è voluto ritenere autorità di controllo esclusivo nella zona SAR “libica”, “inventata “nel 2018 a seguito del Memorandum d’intesa tra l’Italia e il governo di Tripoli concluso nel febbraio del 2017.
E’ stata presentata da tempo una lettera all’IMO, l’Organizzazione marittima internazionale per disconoscere la zona SAR libica, in quanto La Libia non può essere considerato un porto sicuro, la lettera è stata firmata da attivisti, da Ong e da alcuni europarlamentari.. Ma fino a questo momento da parte dell’IMO nessuna risposta, anche se le vittime che vanno aumentando mese dopo mese dimostrano in modo incontestabile che il governo provvisorio di Tripoli, che neppure controlla l’intero territorio nazionale, non riesce neppure ad esercitare quel ruolo di coordinamento finalizzato alla salvaguardia della vita umana in mare che le Convenzioni internazionali impongono per il riconoscimento di un area di responsabilità definita come zona SAR, di ricerca e salvataggio. Sembra dunque che il riconoscimento di questa zona, che i libici stanno cominciando a considerare come un’area di mare territoriale, in contrasto con la Convenzione di Amburgo del 1979 sul SAR e con la Convenzione UNCLOS del 1982, rimanga soltanto perché blinda gli accordi bilaterali di cooperazione tra Italia e la Libia, e rende apparentemente legittimi quelli che sono soltanto respingimenti collettivi e atti di omissione di soccorso, camuffati dalla delega conferita, e dai mezzi assegnati, alle autorità libiche per intercettare i migranti in acque internazionali.
30-LUG-18 23:03 Questa la nota diffusa dalla società armatrice del rinorchiatore Asso 28, dopo lo sbarco dei naufraghi nel porto militare di Abu Sitta a Tripoli. Ricordiamo alla società proprietaria del rimorchiatore Asso 28, che questa imbarcazione, battente bandiera italiana, costituisce territorio italiano, mentre la Libia non è un paese terzo sicuro. Ormai su questa vicenda dovrà pronunciarsi un Tribunale.
In merito agli eventi che hanno portato la nave Asso Ventotto ad intervenire per il salvataggi GCo di 101 migranti, la società Augusta Offshore di Napoli, rende noto che le attività di soccorso si sono svolte sotto il coordinamento della Coast Guard libica e che i fatti si sono svolti come segue.
30 luglio 2018
· Ore 14.30 (ora italiana): Asso Ventotto era in assistenza alla piattaforma di estrazione “Sabratah” della Mellita Oli & Gas (Joint Venture tra ENI e NOC libica), a 57 miglia marine da Tripoli, 105 miglia da Lampedusa, 156 miglia da Malta e 213 miglia da Pozzallo in Sicilia.
· Ore 15.00: Asso Ventotto riceve istruzioni dal Marine Dept. di Sabratah di procedere in direzione di un gommone avvistato a circa 1.5 miglia sud est dalla piattaforma, dopo aver imbarcato Rappresentanti dell’Authority libica sulla piattaforma stessa.
· Ore 15.30: Asso Ventotto avvicina il gommone e riceve istruzioni dal rappresentante dell’Authority libica a bordo di recuperare i migranti e di procedere verso Tripoli.
· Ore 16.30: Asso Ventotto recupera 101 migranti (di cui 5 bambini e 5 donne incinte).
· Ore 16.45: dopo il completamento delle operazioni di recupero, una motovedetta della Coast Guard libica si è affiancata all’Asso Ventotto, informando il comandante che sarebbe stato scortato fino al porto di Tripoli.
· Ore 21.00: Asso Ventotto arriva a Tripoli e dalla locale Autorità viene dato il via libera ad entrare in porto.
· Ore 21.36: inizio del trasbordo dei migranti su un battello della Coast Guard libica.
· Ore 22.10: fine trasbordo e ormeggio dell’Asso Ventotto alla banchina Abusetta nel porto di Tripoli.
Non si sono verificati incidenti o proteste da parte dei migranti salvati, anche quando sono stati trasbordati sul battello della Coast Guard libica all’interno del porto di Tripoli.
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La società Augusta Offshore opera da oltre trenta anni a supporto delle attività estrattive in mare del Gruppo ENI in Libia.
La presenza della flotta della società nelle acque prossime alla costa libica ha fatto sì che tali navi siano state chiamate ad intervenire in molte operazioni di soccorso, che da 2012 al 2017 sono state coordinate dalla Guardia Costiera Italiana.
In particolare,
· 2012: 12 operazioni SAR, 352 migranti recuperati (in totale 5 giorni di impiego della nave)
· 2013: 45 operazioni SAR, 1.833 migranti recuperati (in totale 14 giorni di impiego della nave)
· 2014: 63 operazioni SAR, 4.683migranti recuperati (in totale 26 giorni di impiego della nave)
· 2015: 48 operazioni SAR, 4.059 migranti recuperati (in totale 34 giorni di impiego della nave)
· 2016: 42 operazioni SAR, 6.604 migranti recuperati (in totale 27 giorni di impiego della nave
· 2017: 37 operazioni SAR, 5.764 migranti recuperati (in totale 25 giorni di impiego della nave)
· 2018: 15 operazioni SAR 455 migranti recuperati (in totale 6 giorni di impiego della nave)
In totale dal 2012 ad oggi le unità della società Augusta Offshore:
· sono state impegnate in 262 operazioni SAR
· hanno soccorso e salvato 23.750 migranti
· hanno interrotto le normali operazioni commerciali per un totale di 137 giorni (pari a circa 5 mesi)