Processo penale e politica dei porti chiusi: verso la fine degli obblighi di soccorso in mare.

Fulvio Vassallo Paleologo

1. Una udienza preliminare, tante udienze preliminari, nei procedimenti contro le ONG riflesso speculare delle difese del senatore Salvini sulla linea dei porti chiusi per difendere i confini nazionali.

Si svolgerà domani sabato 17 aprile, nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo, l’ennesima udienza preliminare del procedimento Open Arms, che vede indagato il senatore Matteo Salvini, già ministro dell’interno all’epoca dei fatti contestati, nell’agosto del 2019. Le tesi difensive addotte da Salvini puntano soprattutto sul tentativo di dimostrare la natura collegiale del divieto di ingresso da lui impartito in quell’occasione, che altri componenti del governo avrebbero condiviso, e sulla circostanza che lo stesso avrebbe “difeso i confini nazionali”, sulla base di una linea che sarebbe poi stata seguita -a suo dire- anche dal successivo governo. In realtà la Open Arms entrava in un porto italiano soltanto dopo il sequestro della nave disposto il 20 agosto 2019 dalla Procura di Agrigento, a fronte del perdurante rifiuto di Salvini che non indicava, tramite la Prefettura competente, un porto sicuro di sbarco in Italia. Rimane da capire come queste argomentazioni della difesa di Salvini, che si è cimentata in una rilettura del diritto internazionale del mare che stravolge la portata degli obblighi di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali, possa giovare a giustificare il prolungato trattenimento dei naufraghi soccorsi in tre diversi eventi dalla Open Arms e bloccate a bordo della nave quando questa si trovava ormai a poche centinaia di metri dal porto di Lampedusa, dunque a quel punto sotto la piena giurisdizione italiana. Vedremo infatti come la tesi che la competenza ad indicare un porto di sbarco sarebbe ricaduta sullo stato di bandiera della nave ( Spagna) e che il trattenimento a bordo si sarebbe prolungato per costringere altri Stati europei ad accogliere almeno una parte dei naufraghi, venga smentita sia dal dettato della legge, in particolare dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, che da una importante decisione della Corte di cassazione del 20 febbraio del 2020, che nel caso Rackete ha evidentemente escluso che una nave possa essere utilizzata come “place of safety” a tempo indeterminato, stabilendo che gli atti richiesti per l’adempimento degli obbligazioni di soccorso in mare devono concludersi con lo sbarco a terra.

In realtà dietro le motivazioni “politiche” addotte da Salvini, che non appaiono sorrette da un riscontro documentale dei fatti, soprattutto dopo che il Tribunale amministrativo del Lazio il 14 agosto del 2019 sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato dallo stesso ministro dell’interno subito dopo la prima richiesta di assegnazione di un porto di sbarco da parte di Open Arms, già il primo agosto di quell’anno, si cela una ricostruzione dei rapporti con le ONG e con gli altri stati costieri del Mediterraneo centrale, e poi con gli Stati dell’Unione Europea, che ricalca le medesime argomentazioni che sono state, e che ancora oggi vengono utilizzate contro i soccorsi operati da navi inviate dalla società civile. Con particolare riferimento nei procedimenti penali aperti contro esponenti di Mediterranea Saving Humans a Ragusa e contro alcuni componenti dell’equipaggio della nave tedesca Iuventa, ai quali si sono quindi aggiunti esponenti di Save The Children e di Medici senza frontiere, nel procedimento IUVENTA a Trapani. Un procedimento che era scaturito da attività di indagine promosse dal Servizio centrale operativo della polizia di Stato e dunque dal Viminale, nel quale gli atti di accusa formati da agenti dei servizi e da contractor privati, già agenti di polizia, pervenivano a Salvini, che ne faceva uso politico, prima ancora che alla Procura di Trapani titolare dell’inchiesta.

Proprio ala vigilia delle decisioni dei giudci di Palermo sul caso Open Arms, e di Catania sul caso Gregoretti, Il 5 marzo di quest’anno il senatore Salvini dichiarava all’AGI: “Ci sono tanti fascicoli aperti che parlano di traffico di esseri umani organizzato a pagamento. Ringrazio le procure di Ragusa e Trapani che in questo momento sono piu’ avanti, ma penso che da Agrigento a Catania, e in tante altre realta’, si evidenziera’ il fatto che il traffico di esseri umani e’ organizzato e finanziato. Siamo solo all’inizio. Lascio ai giudici il loro lavoro”. Un chiaro tentativo di depistare l’attenzione generale dai procedimenti a suo carico verso quelli che si cerca di promuovere contro le Ong che salvano vite in mare sottraendo i naufraghi al rischio di essere ripresi e riportati in Libia.

Se si collegano tutte le vicende giudiziarie in corso in Sicilia, i procedimenti sui casi Open Arms a Palermo e Gregoretti a Catania, con la richiesta della Procura di riaprire un procedimento penale contro Open Arms a Ragusa ( caso del 18 marzo 2018), dopo l’archiviazione da parte del Tribunale, e con l’indagine di Trapani (caso Iuventa e altri), nelle quali si ritrovano tutte le stesse argomentazioni, adesso in difesa del senatore Salvini, se non per accusare di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare esponenti delle ONG, assumono una luce particolare ed ancora più inquietante le “intercettazioni a cascata” che sono state raccolte ed archiviate proprio con riferimento a persone estranee ai procedimenti penali in questione. Ma che potevano fornire all’opinione pubblica, o in sede di difesa degli operatori umanitari coinvolti nei procedimenti penali, argomenti, dati e fonti che avrebbero potuto mettere in discussione sia l’impianto accusatorio di alcuni procuratori, che l’uso politico che si è fatto nel tempo dei processi alla solidarietà, anche se in nessun caso si è arrivati ad una sentenza di condanna. Rimane ovviamente da considerare a parte il caso Gregoretti, trattandosi di nave militare italiana, che pure la difesa del senatore Salvini cerca di richiamare nel caso Open Arms, con una singolare inversione normativa, perchè si richiama al riguardo della Gregoretti il decreto sicurezza n.53 del 2019, che evidentemente non è applicabile al caso Gregoretti ( in quanto il divieto di ingresso ex art. 2 del decreto non è previsto nel caso delle navi militari). Mentre lo stesso Decreto sicurezza bis n.53 sembra scomparire nel caso, nel quale se ne sarebbe dovuto accertare l’applicabilità, della Open Arms, nel quale si preferisce fare riferimento ai “divieti di ingresso” adottati nei primi mesi del 2019 da Salvini con provvedimenti di natura amministrativa, prima che a giugno entrasse in vigore il Decreto sicurezza bis, che dunque risulta anteriore rispetto alla vicenda Open Arms, che risale al successivo mese di agosto.

Si deve peraltro constatare come, indipendentemente dall’accertamento dei peculiari profili di responsabilità penale e amministrativa che va operato su ciascuna singola vicenda, in base al carattere personale della responsabilità della pena stabilita dalla nostra Costituzione, le argomentazioni addotte per legittimare i provvedimenti di chiusura dei porti sono rimaste sostanzialmente le stesse anche con i nuovi governi che si sono susseguiti dopo l’uscita di Salvini dal Viminale nell’agosto del 2018. Non possono interndersi in altro modo le motivazioni alla base dell rinnovo periodico delle missioni di sostegno alla sedicente Guardia costiera “libica”, votato a più riprese dal Parlamento,le ragioni addotte per la proroga del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2 febbraio 2017, e persino le motivazioni (con il rinvio all'”autorità competente”) del Decreto interministeriale del 7 aprile del 2020. Che si poneva in linea con il decreto sicurezza Salvini n.53 del 2019, e persino anticipava il più recente decreto immigrazione n.130 del 2020, che continua però a considerare come competenti nelle attività di soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo anche le autorità libiche, quando le attività SAR ( Search and Rescue) avengano nella vastissima zona SAR che queste si sono attribuite nel 2018 , pur essendo ancora prive di una centrale unificata di coordinamento (MRCC). Per questo si è rivelato essenziale il supporto operativo, oltre all’assistenza tecnica, offerto dall’Italia, con la missione Nauras di base a Tripoli, con una nave a rotazione nel porto militare di Abu Sittah, e con le attività di monitoraggio aereo operate da assetti delle missioni Eunavfor Med (adesso IRINI) e Frontex. Tutti elementi, questi, che evidentemente non dovevano essere riportati all’attenzione dell’opinione pubblica italiana, e sui quali non si dovevano formare elementi probatori nei procedimenti penali. Eppure l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari di Catania nel marzo del 2018, dopo le indagini difensive svolte nel primo caso Open Arms, e poi numerosi altri giudici in diversi procedimenti penali, accertavano come le motovedette libiche fossero coordinate anche da autorità italiane che segnalavano le imbarcazioni cariche da migranti da intercettare nelle acque interazionali prospicienti le coste libiche, e rallentavano o vietavano l’intervento delle navi delle ONG pure presenti in zona.

Dove non riusciva ad arrivare il braccio amministrativo si è cercato di utilizare il processo penale. Si è arrivati addirittura a configurare una violenza privata o un tentativo di ingresso irregolare quando gli operatori umanitari sono intervenuti con la massima tentestività richiesta per salvaguardare la vita umana in mare, e poi, al fine di non violare il divieto di trattamenti inumani o degradanti, che avrebbero subito i naufraghi riportati in Libia, hanno cercato di garantire ai naufraghi un porto sicuro di sbarco, in adempimento di quanto prescritto dalle Convenzioni internazionali. Il tentativo operato dalla difesa di Salvini che mira al ribaltamento delle argomentazioni addotte nella Relazione del Tribunale dei ministri di Palermo, riprese in parte dalla Procura che ha chiesto il rinvio a giudizio di Salvini, riflette in modo speculare le contestazioni che alcune procure rivolgono contro le Organizzzioni governative che avrebbero effettuato soccorsi “di propria iniziativa”, “operando in modo continuativo”, addirittura in qualche caso “con “consegne concordate” e comunque “con la preordinata volontà di fare entrare clandestinamente persone irregolari nel territorio dello Stato”. Vedremo adesso come nel caso Open Arms queste argomentazioni siano in contrasto con il dettato delle norme internazionali e di diritto interno, oltre che ben distanti dalla dinamica dei fatti e dalla situazione reale esistente in Libia e nel Mediterraneo centrale all’epoca delle operazioni SAR al’esame dei tribunali.

Si ha poi la sensazione che nelle sue dichiarazioni il senatore Salvini continui a confondere il giudizio sul comportamento politico da lui tenuto relativo alla viceda Open Arms, e dunque la questione di difesa dei confini, o di collaborazione con le autorità libiche e maltesi, temi sui quali il Parlamento ha concesso dopo un articolato dibattito l’autorizzazione a procedere, con la valutazione tecnico-giuridica dei suoi atti , in ipotesi rilevanti in sede penale, relativi al trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms dal 15 al 20 agosto 2019, dopo che il Tar Lazio aveva sospeso il divieto di ingresso da lui adottato già il primo agosto di quell’anno, e successivamente reiterato senza il rispetto delle forme previste dalla legge. E la Corte di Cassazione distingue molto bene il giudizio sulle finalità politiche dell’atto del ministro, dalla ipotetica rilevanza penale dei suoi comportamenti. La Suprema Corte (v. Cass. SS.UU. sent. n. 14/1994,), richiamata dal Tribunale dei ministri di Palermo, precisa infatti come “Il carattere politico del reato, il movente che ha determinato il soggetto a delinquere, nonché il rapporto che può sussistere tra il reato commesso e l’interesse pubblico della funzione esercitata, proprio in conseguenza di quanto disposto dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1 (modificatrice tra l’altro del citato art. 96 Cost.) sono criteri idonei a giustificare la concessione o la negazione dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera dei Deputati o del Senato della Repubblica, ma non sono certamente qualificabili come condizioni per la configurabilità dei reati ministeriali”.

2. Obbligo di indicazione di un porto sicuro di sbarco (POS) e soccorsi effettuati nella cd. zona SAR “libica

Nelle difese “politiche” del senatore Salvini sul caso Open Arms ritorna la stessa argomentazione che è stata già utilizzata in altri procedimenti penali contro le ONG, come ad esempio nel caso Rackete, e cioè che la Libia all’epoca dei fatti (agosto 2019) avrebbe offerto porti sicuri di sbarco e che dunque le ONG avrebbero dovuto attendere l’arrivo delle motovedette libiche in quanto sarebbero state “coordinate” dalla Libia, attraverso la sua Centrale di coordinamento “congiunto” JRRC, mentre però la Libia,  all’epoca dei fatti, ed ancora oggi, non disponeva di una centrale unificata di coordinamento dei soccorsi in mare. Si tratta di una argomentazione di forte presa politica, tanto che ricorre con toni diversi nelle posizioni dell’attuale ministro dell’interno Lamorgese e del primo ministro Draghi, che parlano di “salvataggi” operati dalla sedicente Guardia costiera libica, ma che non trova conforto del sistema gerarchico delle fonti che regolano il diritto dei soccorsi in mare e nella realtà dei fatti. Che confermano come nel Mediterraneo centrale a partire dal 2018 si siano verificati respingimenti collettivi operati da unità militari libiche su delega delle autorità italiane ed europee.

E’ il Giudice delle indagini preliminari di Catania che nel provvedimento di convalida del sequestro della nave Open Arms nel mese di marzo del 2018, , senza qualificarlo come tale, tratteggia i connotati di un respingimento collettivo effettuato su ordine delle autorità italiane, che avevano inizialmente assunto la responsabilità SAR dunque avevano esercitato per una prima frazione temporale una piena giurisdizione sulle persone soccorse in acque internazionali. la Difesa di ………. poi, a giustificazione della condotta della ONG e degli indagati in merito alla mancata consegna dei migranti ai libici, richiama il principio di non refoulement (divieto di respingimento), sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Anche questa eccezione non può essere condivisa, poiché le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli, e perciò non si può parlare minimamente di respingimento, ma solamente di soccorso e salvataggio in mare. Anche nel caso Open Arms all’esame del Tribunale di Palermo il primo avvistamento era stato effettuato da un aereo della missione europea Eunavfor Med e le autorita italiane erano state informate della presenza di un varcone in difficoltà in alto mare contemporaneamente alle autorità libiche con le quali era stabilito un rapporto di cooperazione oprrstiva e di assistenza tecnica in virtù del Memorandum d’intesa siglato il 2 febbraio 2017.

In realtà, quanto riconosciuto dal GIP di Catania “ le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli”, rende chiaramente gli assetti operativi concordati tra la Guardia costiera di Tripoli e le autorità italiane (Marina militare e IMRCC di Roma). La ricostruzione proposta dal giudice catanese, in buona misura corrispondente con la impostazione politica che ha portato al Memorandum d’intesa con la Libia del 2 febbraio 2017, e poi al Codice di condotta Minniti. Codice di condotta che comunque non può essere considerato neppure “normativa secondaria“, perché privo di qualsiasi effetto normativo. Una “disobbedienza” rispetto alle autorità libiche nelle attività di soccorso in acque internazionali potrebbe confgurarsi soltanto se la Libia intera, e non solo una sua piccola parte, aderisse alla Convenzione di Ginevra e la applicasse effettivamente, e se i suoi porti fossero qualificabili come place of safety. Una qualificazione che è esclusa da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, da testimonianze giornalistiche concordanti, e soprattutto dai corpi delle persone che continuano a fuggire dalla Libia, corpi che testimoniano più di mille parole, abusi, stupri, riduzione in schiavitù, commercio di esseri umani che le diverse autorità libiche, seppure supportate da missioni europee, non sono evidentemente in grado di contrastare .Sentenze della Corte di assise di Milano e del Tribunale di Messina chiariscono molto bene cosa attendeva i naufraghi raccolti dalla Open Arms se fossero stati riportati in Libia.

Certo la invenzione di una zona SAR “libica” comunicata al’IMO nel giugno del 2018 segna uno spartiacque. In ogni caso non risultano ad oggi agli atti dell’IMO a Londra comunicazioni riguardo ad accordi conclusi tra la Libia e gli Stati limitrofi (con l’eccezione di Malta) per il coordinamento nella ricerca e nel soccorso a seguito dell’istituzione della relativa zona SAR, come richiesto dalla Convenzione SAR, né riguardo al completamento, da parte della Libia, di tutte le procedure necessarie a garantire i servizi di ricerca e soccorso che si è impegnata a fornire. Ammesso e non concesso che di una “Libia” come stato unitario si possa parlare ancora oggi, durante uno stato di sospensione delle ostilità che non si è ancora tradotto in libere elezioni e nel passaggio dei poteri dalle milizie ad un esercito e ad una marina nazionale generalmente riconosciuti come “libici”. Ai tempi della vicenda Open Arms nel 2019, nelle zone costiere della Libia erano in corso pesanti combattimenti e le milizie che controllavano i centri di detenzione e le guardie costiere delle diverse città, soprattutto a Zawia, Sabratha e Khoms era fortemente colluse con i trafficanti, come diverse sentenze di condanna di carcerieri/trafficanti lin Libia, adottate dai Tribunali di diverse città italiane, hanno confermato in modo inconfutabile.

L’Italia, anche quando i soccorsi si siano verificati nella cosiddetta zona SAR “libica”, non può dunque eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017. La stessa Guardia Costiera osservava già nel 2018 come ” le Autorità libiche, oltre ad aumentare la presenza in mare seppure limitatamente a specifiche aree, hanno provveduto ad inoltrare all’International Maritime Organization (I.M.O.) una dichiarazione relativa all’istituzione di un’area di responsabilità SAR (Search and Rescue Region – SRR) in data 14.12.2017 che faceva seguito ad una precedente dichiarazione dello scorso luglio successivamente annullata nei giorni precedenti alla nuova dichiarazione. L’arrivo sullo scenario delle unità della Marina Militare e della Guardia Costiera libica ha tuttavia comportato, in talune circostanze, criticità dovute alle difficoltà di comunicazioni sia con le rispettive Autorità di riferimento a terra che con i mezzi a mare impegnati nelle operazioni, in parte mitigata, negli ultimi mesi dell’anno, dall’avvio dell’operazione italiana Nauras”.

Come è stato confermato dal Giudice delle indagini preliminari e dal Tribunale di Ragusa, nel caso “Open Arms” non c’èra alcun reato da parte della Ong che non aveva rispettato l’ordine di “lasciar fare” ai libici , visto che il ritorno forzato in Libia non può essere considerato come un trasferimento verso un luogo sicuro. Quanto rilevato in questo ed in altri procedimenti penali implica una precisa responsabilità dello Stato italiano per la assegnazione di un porto sicuro di sbarco in tutti i casi di soccorsi operati nelle acque internazionali ricadenti all’interno della cd. zoma SAR “libica”, anche quando le autorità maltesi, a loro volta, rifiutino l’assegnazione del POS. Non si può pensare che i naufraghi, già duramente provati prima della partenza dalla Libia, e poi reduci di traversate nelle quali hano rischiato la vita, se non hano visto annegare o morire di stenti loro più sfortunati compagni di viaggio, possano essere rimbalzati da un Stato all’altro, in attesa che finalmente qualcuno decida su di loro con la indicazione del porto di sbarco sicuro.

Nelle difese del senatore Salvini si giunge all’assurda affermazione secondo cui se nessuno Stato assume il coordinamento di una operazione di ricerca e salvataggio, il comandante della nave non possa portare a compimento il salvataggio dirigendosi poi verso un porto sicuro di sbarco, che ancora oggi la Libia nelle sue diverse articolazioni politiche e militari non e’ in grado di garantire. La realtà che si nasconde dietro le memorie difensive di Salvini e’ invece che esiste un coordinamento delle attività della sedicente Guardia costiera libica ma diretto da autorità italiane ed europee e mira non al salvataggio delle persone ma alla loro rifondazione in Libia. Per questo la presenza di navi umanitarie, come le attività di giornalisti non allineati e di avvocati che promuovono indagini difensive, dà tanto fastidio. Tutti i testimoni scomodi devono essere screditati o eliminati.

Non sembra comunque che si possa parlare indifferentemente di “coordinamento” da parte delle autorità libiche e di “salvataggi” operati dalla Guardia costiera di quel paese, senza considerare il ruolo che, nelle acque internazionali improvvidamemte riconosciute come parte della SAR libica, hanno giocato, da una parte, le unità italiane ed europee che hanno offerto assistenza e coordinamento alle motovedette libiche, e dall’altro, comandanti chiaramente collusi con organizzazioni criminali. Non si possono neppure dimenticare i numerosi casi di aggressione armata da parte di motovedette libiche nei confronti di navi umanitarie, proprio mentre erano impegnate in attività di salvataggio. Non si vede dunque come il comportamento di “disobbedienza” delle ONG rispetto alla sedicente Guardia costiera libica possa fornire argomenti per giustificare i divieti di ingresso imposti a ripetizione da Salvini durante la sua permanenza al Viminale, prima con decreti o direttive a sua firma, poi a partire dal mese di giugno del 2019, in applicazione del decreto legge n.53/2019.

3. Il ruolo di Malta nei soccorsi nel Mediterraneo centrale

La difesa del senatore Salvini, nel caso Open Arms, come le tesi di accusa nei confronti delle ONG nei procedimenti penali in corso a Trapani ed a Ragusa, sono fortemente basate sul ruolo che si vorrebbe attribuire a Malta nelle operazioni SAR ( di ricerca e salvataggio) nel Mediterraneo centrale. Gli obblighi dell’Italia, tenuta ad indicare un porto sicuro di sbarco, non possono essere elusi invocando la nota tesi della responsabilità di Malta per tutti i soccorsi operati, e persino anche per le navi di soccorso comunque presenti nella sua vastissima zona di ricerca e salvataggio (SAR). Secondo la difesa del senatore Salvini e già nei processi penali avviati contro le ONG, finora tutti archiviati per la infondatezza delle accuse, la circostanza che i soccorsi sarebbero avvenuti nell zona SAR maltese, o che comunque le navi di soccorso si trovassero ormai nella stessa zona SAR maltese, non hanno esluso la responsabilità del governo italiano nella indicazione, di un porto di sbarco. E infatti nella ricostruzione delle norme di diritto internazionale che regolano i soccorsi in mare, non si può dimenticare, come invece sembra succeda nelle argomentazioni difensive del senatore Salvini, che Malta non è tenuta ad indicare un porto sicuro di sbarco perchè non ha mai accettato gli Emendamenti alla Convenzione SAR apportati nel 2004 che appunto introducevano tale obbligo. L’intenzione espressamente perseguita da tali emendamenti (v. Risoluzione MSC 167-78) “è quella di garantire in ogni caso che un luogo sicuro venga fornito entro un termine ragionevole”. Ma le autrità maltesi non hanno mai voluto accettare questi obblighi, adducendo la modesta estensione del loro territorio e la scarsezza di mezzi. Tutto questo riduce la portata degli obblighi di soccorso e sbarco riconosciuti a Malta ed amplia di converso la portata degli obblighi di ricerca e soccorso ( SAR) da attribuire alle autorita’ italiane che possono disporre di un territorio e di risorse enormi rispetto a Malta. .

.Quindi dal momento che le Convenzioni internazionali affermano obblighi diversi a carico degli stati, a seconda che abbiano accettato o meno tali emendamenti, non si può ritenere che il rifiuto delle autorità maltesi a concedere un porto di sbarco sicuro possa essere imputato alle ONG o costituire una ragione di esonero dalle responsabilità per le autorità marittime e di governo italiane. Come ricordava il Contrammiraglio Carlone in una audizione parlamentare nel 2017 Malta tra l’altro è l’unica nazione europea a non aver ratificato gli emendamenti del 2004 alla convenzione SAR e SOLAS e a non aver quindi accettato le discendenti linee guida dell’IMO relative alla determinazione del luogo sicuro di sbarco. Ciò in quanto tali disposizioni, al fine di garantire i comandanti delle navi soccorritrici, assegnano tale specifica responsabilità allo Stato costiero cui appartiene l’MRCC competente a coordinare le operazioni SAR; essendo l’area SAR maltese la prima che incontra i flussi provenienti dalla Libia, in mancanza di un accordo europeo o internazionale concernente la gestione dell’accoglienza dei migranti soccorsi e sbarcati sul suo territorio, il piccolo Stato di Malta avrebbe corso il rischio di trovarsi da solo di fronte ad un fenomeno di carattere epocale e ormai divenuto strutturale”.

Non sembra da allora ad oggi che il governo maltese abbia ratificato gli emendamenti che lo vincilerebbero nella indicazion e di un luogo sicuro di sbarco, risultano semmai accordi e prassi operative d’intesa con le autorità libiche che hanno dato luogo a veri e propri respingimenti collettivi,, vietati dalle Convenzioni internazionali. All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 , il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”. Si deve però osservare come, ancora nel corso del 2020, le autorità maltesi hanno consentito ai libici , seppure in rare occasioni, la possibilità di entrare nella loro zona Sar ed intercettare imbarcazioni cariche di migranti fino all’inverosimile.

Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo,” Open Arms aveva inviato alle autorità maltesi, in data 13 agosto 2019, una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli. La centrale operativa della Guardia costiera (RCC) di Malta, con messaggio delle ore 21,17 dello stesso giorno, rispondeva a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”. Al peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave faceva rotta verso l’isola di Lampedusa. Non si vede quali altri comportamenti si sarebbero dovuti adottare dal comandante della Open Arms per garantire finalmente dopo due settimane dai soccorsi un porto di sbarco per i naufraghi che risultavano sempre più stremati, come aveva potuto accertare nelle acque di Lampedusa una ispezione a bordo del Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. La mail che sarebbe stata inviata dal governo di Malta alla Open Arms alle ore 21.17 del 14 agosto del 2019, con l’accusa che la nave stava “bighellonando” in mare e che avrebbe dovuto dirigere verso un porto spagnolo, è successiva di poche ore alla decisione del Tar Lazio del 14 agosto che sospendeva il divieto di ingresso in acque italiane,”sparato” da Salvini già il primo agosto. La mail prodotta dalla difesa costituisce una prova contro il senatore Salvini perché conferma che Malta, indicando come responsabile per lo sbarco la Spagna, condivideva la tesi giuridicamente infondata ma condivisa dal Viminale, della competenza dello Stato di bandiera (flagstate) per il completamento delle operazioni Sar. Tesi demolita dal Tar Lazio, prima, con la sospensiva del divieto di ingresso, e poi dal Tribunale dei ministri e dalla Procura di Palermo che hanno chiesto il rinvio a giudizio, senza che la difesa di Salvini fosse capace di utilizzare un solo argomento di natura giuridica, limitandosi a infangare l’operato della Ong e del comandante che ha obbedito a quanto previsto dal Diritto internazionale del mare, senza cedere alle indicazioni fuorvianti ed illegittime provenienti dal ministro dell’interno e dalle autorità marittime maltesi ed italiane che ne seguivano gli indirizzi.. In un video postato su facebook Salvini reagiva dal Viminale con un intervento sprezzante nel quale ignorava la decisione del TAR Lazio che sospendeva il divieto di ingresso e rivendicava la piena ed esclusiva responsabilità del blocco della Open Arms lamentando che il Presidente del Consiglio Conte ed altri ministri del governo, come la ministro della difesa Trenta, non avevano condiviso le sue scelte. Non si vede come oggi la difesa possa cercare di dimostrare la natura collegiale e politica della decisione di non fare entrare la Open Arms nelle acque italiane, quando dalla stessa voce di Salvini si conferma che la decisione fu sua ed esclusivamente sua, in contrasto con tutti gli altri membri del governo allora in carica.

.Alla fine del lungo braccio di ferro, dunque, la Open Arms poteva entrare nel porto sicuro di Lampedusa, non per una decisione, seppure tardiva, del ministro dell’interno, ma soltanto a seguito di un decreto di sequestro preventivo adottato dalla Procura di Agrigento. Soltanto dopo questo decreto di sequestro preventivo il 20 agosto si poteva procedere allo sbarco dei migranti trattenuti da quasi venti giorni a bordo della nave Open Arms. Già allora, la Procura di Agrigentodopo la denuncia della ONG, ipotizzava la commissione del reato di rifiuto di atti d’ufficio di cui all’art. 328 c.p., e , per evitare il protrarsi degli effetti del reato, disponeva il sequestro della nave e lo sbarco immediato. 

  

4. La pretesa competenza dello stato di bandiera e lo” stato di primo contatto”

Non aiuterà certo la difesa del senatore Salvini il tentativo di chiamare in causa le responsabilità della Spagna, paese di bandiera della nave soccorritrice. Un “mantra” assai diffuso sui media, la tesi di Salvini secondo cui nel 2019 la Spagna avrebbe dato “disponibilità” a prendere in carico i migranti soccorsi dalla Open Arms, o ad offrire un porto di sbarco, come in effetti il governo spagnolo fece solo il 18 agosto 2019, ben 5 giorni dopo la prima sospensiva del divieto di ingresso pronunciata dal Tar Lazio. Le affermazioni del ministro della difesa spagnolo a quel tempo non lasciano spazio a tentativi di strumentalizzazione, ed anche il giudizio morale sul senatore Salvini è assai netto. “Spain’s acting defence minister, Margarita Robles, added that the situation in the Mediterranean was “a tremendous political problem” and “it is essential that the European Union takes action.”Robles accused Salvini of putting human lives at risk for “absolutely electoral reasons” and classified the actions of the Italian politician as “a shame for all humanity.“. I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materiaessa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. 

Nella Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979 non è ravvisabile alcuna indicazione testuale dalla quale si possa evincere che lo Stato di primo contatto sia necessariamente, e nemmeno normalmente, lo stato di bandiera della nave, né una responsabilità principale di questo Stato per l’indicazione del porto di sbarco. Se è vero che generalmente i comandanti delle navi che vengono a conoscenza di una situazione di pericolo in mare e si apprestano ad intervenire lo comunicano anche al loro Stato di bandiera, e che pertanto esso vada incluso tra gli Stati coinvolti nella gestione dell’evento, l’intero sistema dei soccorsi in mare privilegia chiaramente il coordinamento e la predisposizione di misure idonee a garantire l’effettività dei soccorsi da parte degli Stati costieri, e ciò – come invece correttamente il Tribunale rileva – non limitatamente allo Stato nella cui zona SAR di competenza ha avuto luogo l’evento (art. 98 par. 2 CNUDM).

L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare.  Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo. La Convenzione SAR si fonda sul presupposto che i comandanti delle navi (che hanno l’obbligo di prestare immediatamente soccorso in mare indipendentemente dal modo in cui siano venuti a conoscenza della situazione di pericolo e quindi anche senza che una richiesta di intervento sia avanzata da un MRCC: Ch. V, Reg. 33 par. 1 Conv. SOLAS; art. 98 par. 1 CNUDM) trovino sempre l’assistenza delle autorità statali competenti, le quali “appena ricevuta l’informazione che una persona è, o sembra essere, in pericolo in mare prendono misure urgenti per assicurare che l’assistenza necessaria sia fornita” (Allegato Conv. SAR, Ch. 2.1.1).

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano che: 1)in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo che venga a conoscenza di un caso di pericolo,anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento; 2) lo Stato cui appartiene lo MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status.

Il quinto capitolo dell’Annesso alla Convenzione SAR del 1979 definisce le fasi di emergenza per gli scopi operativi che caratterizzano un’operazione SAR, dalla ricezione di un messaggio di soccorso (allertamento) fino alla fase di intervento dei mezzi e loro coordinamento (fase di soccorso). secondo quanto previsto dal Paragrafo 5.1.9, “Ciascuna unità che è a conoscenza di un caso di pericolo adotta immediatamente delle misure a seconda delle sue possibilità al fi ne di prestare assistenza o dà l’allarme alle altre unità in grado di prestare assistenza ed avverte il centro di coordinamento di salvataggio o il centro secondario di salvataggio della zona in cui siè verificato il caso di pericolo”.

I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo rilevano come “la Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi disituazioni SAR, con la precisazione che essi “dovrebbero coprire gli incidenti che si verificano all’interno della propriaregione SAR e, se necessario, dovrebbero coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui viene fornita l’assistenza (v.paragrafo 6.7) o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quandoil RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadonoprincipalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabileper aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”

La tesi sulla competenza del paese di bandiera della nave soccorriitrice ad indicare un porto sicuro di sbarco come “stato di primo contatto” della nave è alla base di una parte delle difese del senatore Salvini, ma costituisce pure un pilone centrale dell’impianto accusatorio che si sta dispiegando contro le ONG, in particolare nel procedimento penale che si vorrebbe riaprire contro Open Arms a Ragusa.

Una Risoluzione adottata dall’IMO- MSC 167-78 ( come emendamento alla Convenzione di Amburgo sui soccorsi in mare non parla di stato ma di centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quandoil RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadonoprincipalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”

Secondo il punto6.12 della Risoluzione MSC 167-78 il POS viene definito come “un luogo in cui la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui le primarie necessità umane (come cibo, alloggio e necessità mediche) possono essere soddisfatte.Inoltre, è un posto da cui è possibile organizzare il trasporto per la destinazione successiva o finale dei sopravvissuti.” Sempre secondo la risoluzione MSC 167-78, “Una nave ausiliaria non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave.Una nave che assiste non puòdisporre di strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senzamettere in pericolo la propria sicurezza o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti Anche se la nave è capace di ospitare in sicurezza i sopravvissuti e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, dovrebbe esseresollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi” (punto 6.13).

Come ha ritenuto il Tribunale dei ministri di Palermo, “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile. Alla luce di tale criterio ermeneutico, dunque, identificare lo Stato di primo contatto con quello della nave soccorritrice equivarrebbe in concreto, nella maggioranza dei casi, ad eludere lo scopo perseguito dalle citate norme internazionali, trattandosi spesso di navi battenti bandiere di Stati assai lontani geograficamente dal luogo ove è avvenuto il salvataggio e che, dunque, non potrebbero offrire alcun posto sicuro, sul proprio territorio, che risponda alle caratteristiche volute dalle citate disposizioni (tempestività dello sbarco, da effettuarsi nel più breve tempo possibile, e minima deviazione di rotta per la nave soccorritrice).

Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una audizione alla Camera, Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”.

A pochi giorni dall’entrata in vigore, in Italia, del c.d. decreto sicurezza-bis, e dall’immediata adozione del primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1-ter T.U. imm., il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, organo indipendente attualmente rappresentato dalla bosniaca Dunja Mijatović, aveva emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean (ZIRULIA,DPC).

“Nel documento si sottolineava che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. In precedenza, la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, ancora prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco.

5. Eventi di ricerca e salvataggio (SAR) o eventi di immigrazione irregolare ? Quando soccorrere diventa un obbligo

La disposizione contenuta nel decreto sicurezza bis n.53/2019, all’art. 2 permetteva al ministro dell’interno di qualificare come “non inoffensiva” la condotta della nave che dopo una azione di soccorso in acque internazionali, chieda di fare ingresso nelle acque territoriali. La disposizione avrebbe natura “meramente esemplificativa”, anche se  la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Ma non si può ritenere che il completamento di una operazione SAR di ricerca e salvataggio possa tradursi in un preordinato ingresso di “clandestini” sul territorio italiano e risultare dunque penalmente perseguibile. Lo impedisce la chiara formulazione letterale dell’art. 10 ter del Testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998 che appunto distingue dall’ingresso irregolare l’ingresso “per ragioni di soccorso”..

Secondo il senatore Salvini lo Stato e per esso le autorità marittime preposte ai soccorsi in mare, dunque il Comando centrale della guardia costiera italiana, che peraltro opera in stretto collegamento con il Ministero dell’interno, come emerge in modo particolare nel periodo in cui il capo della Lega ha occupato il ruolo di vertice al Viminale, avrebbe avuto dunque il potere di qualificare un evento in mare come operazione di ricerca e salvataggio o come mero “evento migratorio”, naturalmente di natura irregolare, a discrezione, senza considerare i precisi parametri stabiliti dalle Convenzioni internazionali e dalle linee guida delle principali organizzazioni delle Nazioni Unite ( UNHCR, IMO). La motivazione critica addotta sul punto dal Tribunale dei ministri di Palermo appare insuperabile. Appare certo che già subito dopo il primo evento di soccorso del primo agosto 2019 il comandante della Open Arms dava immediata comunicazione mediante e-mail alle autorità governative libiche ed ai Centri di Coordinamento (RCC) italiano e maltese. Esattamente poche ore dopo il Ministero dell’interno emetteva un divieto di ingresso nelle acque territoriali in relazione ad un secondo evento di soccorso di poco successivo, verificatosi in acque maltesi Malta richiedeva all’Italia l’assegnazione di Lampedusa come POS ove fare sbarcare i migranti, individuandolo come porto sicuro più vicino. Questa sequenza dei fatti esclude che le autorità italiane e per esse il miistro Salvini possano qualificare come evento migratorio quello che persino le autorità maltesi avevano riconosciuto come evento di ricerca e salvataggio (SAR) pur respingendo la richiesta di indicazione di un porto di sbarco sicuro. La successiva dispnibilità di Malta ad accettare lo sbarco solo di una parte dei naufraghi presenti a bordo della Open Arms non escludeva certo il carattere di evento di soccorso consentendone una derubricazione in “evento di immigrazione irregolare”. In base alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, come peraltro è stato riconosciuto dalla Corte di cassazione nel caso Rackete (2020,) le operazioni di soccorso devono avere comunque termine con lo sbarco in un porto sicuro a terra e le persone non pssono restare confinate su una nave di soccorso a tempo indeterminato. Secondo le Convenzioni internazionali che abbiamo già ricordato , se un paese nega il porto di sbarco o non può garantire un porto sicuro, la competenza ad indicare un prto di sbarco sicuro si trasferisce sulle autorità nazionali responsabili della zona SAR contigua e lo sbarco deve avvenire senza ulteriori ritardi dovuti alle trattative tra gli Stati.

Secondo un ordinanza del Gip di Agrigento del 2019 poi confermata dalla sentenza della Corte di cassazione del 20 febbraio 2020, il cd. decreto sicurezza bis (53/2019) non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Il dovere di soccorso dei naufraghi” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.

Secondo la Corte di Cassazione (Sentenza n. 6620, depositata il 20 febbraio 2020) Il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individui. Il giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod.proc.pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. Egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di Lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della Rackete in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod.proc.pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto.

Si può quindi escludere “che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.

In contrasto frontale con quanto affermato dal senatore Salvini nelle sue difese sul caso Open Arms, per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.

La navigazione di una nave delle ONG verso un porto sicuro europeo, dopo i soccorsi operati nella zona SAR “libica”, non costituisce dunque una attività “arbitraria”, “preordinata” a favorire l'”ingresso clandestino” dei naufraghi nel territorio dello Stato, come ha sostenuto più volte il senatore Salvini per giustificare la mancata indicazione di un porto di sbarco in Italia e addirittura il diniego dell’assunzione di responsabilità di coordinamento SAR, come se le autorità politiche potessero considerare un mero “evento migratorio” le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali.

Secondo quanto osservava nel 2017 il Contrammiraglio Carlone in una relazione resa in Parlamento, nell’ambito delle attività del Comitato parlamentare Shengen“”non vi dovrebbe essere nessuna differenza tra un’operazione S.A.R. ed un’operazione di polizia diretta al controllo delle frontiere esterne europee in quanto, in applicazione del principio di “non refoulement” nonché del regolamento europeo che disciplina le operazioni FRONTEX e del discendente piano operativo, anche le persone che fossero ritenute non in pericolo e, quindi, intercettate in mare e non soccorse, dovrebbero comunque essere portate a terra, nel territorio del Paese che ospita la specifica operazione nazionale od europea (cioè l’Italia, per quanto riguarda l’operazione TRITON; la Grecia, per quanto riguarda l’operazione POSEIDON; la Spagna, per l’operazione INDALO).
In realtà la differenza risiede nel fatto che l’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, come si è visto, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia al di fuori delle acque territoriali (“law enforcement”) è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale.
La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero é ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a terra delle persone soccorse. Qualora invece la stessa imbarcazione fosse ritenuta ancora idone a navigare, seppure verso le acque territoriali italiane, o maltesi, potrebbe scattare solo il tracciamento, nell’ambito di una operazione di polizia marittima, definita come law enforcement. Solo nel primo caso ricorrerebbe una situazione di “distress” immediato che imporrebbe di procedere senza alcun indugio alla dichiarazione di un evento SAR e quindi all’intervento di soccorso ( con conseguente obbligo di sbarco in un porto sicuro”.

Non sembra dunque superabile quanto rilevato sul caso Open Arms dal Tribunale dei ministri di Palermo, secondo cui “sebbene in nessun momento I.M.R.C.C. abbia mai formalmente assunto il coordinamento delle operazioni di salvataggio, una volta entrata la nave soccorritrice in acque territoriali, ed ancoratasi, nelle circostanze di cui s’è detto, a ridosso delle coste di Lampedusa, all’ennesima richiesta di sbarco da parte del comandante della Open Arms, I.M.R.C.C. ebbe a corredare la trasmissione del messaggio a NCC con la seguente sottolineatura: “per quanto attiene questo IMRCC non vi sono impedimenti di sorta, si prega di far conoscere con ogni ulteriore cortese urgenza gli intendimenti di codesto NCC in merito alla questione in parola” (v. msg. del 16.8.2019); tale annotazione costituisce, ad avviso del Collegio, una eloquente e condivisibile presa d’atto, da parte del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, di come la situazione venutasi a delineare, di tale gravità ed urgenza da poter di per sé configurare un ulteriore sopravvenuto “evento SAR”, non consentiva allo Stato italiano di sottrarsi ulteriormente alle proprie responsabilità. Né poteva tale responsabilità essere sollevata dall’indicazione, comunque tardiva, di un POS da parte della Spagna, stato di bandiera della nave.Dalle indagini compiute è emerso che il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente suiresponsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo.

Le reiterate richieste di ingresso attraverso una frontiera marittima affinché le persone recuperate dal mare fossero sottoposte, oltre che alle cure necessarie conseguenti al soccorso, anche a tutte le misure di sicurezza e di polizia eventuali, inducono a escludere che possa configurarsi una fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a carico delle navi che hanno prestato il soccorso. Ed in base alla stessa considerazione, non può ritenersi legittima la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco da parte del ministro dell’interno e per esso dalla Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) in presenza di un evento che non può qualificarsi a posteriori come “evento migratorio” solo perchè le persone soccorse in acque internazionali si trovano a bordo di una nave umanitaria che non batte bandiera italiana, o di una nave commerciale. Per parlare di un mero “evento migratorio” si dovrebbe escludere che le imbarcazioni cariche di migranti in navigazione nel Mediterraneo centrale si trovino in una situazione di pericolo imminente (distress), ma le Convenzioni internazionali stabiliscono che la situazione di distress ricorre tutte le volte che imbarcazioni stracolme di persone, prive delle più elementari dotazioni di sicurezza e senza un equipaggio professionale si ritrovino in alto mare, anche se proseguono comunque nella loro navigazione. Una navigazione che in diverse occasioni si è conclusa con una tragedia a poche miglia dal porto di Lampedua, sotto gli occhi delle autorità italiane. Come ha osservato nel 2019 l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, non si può ammettere un «impiego strumentale del tema della lotta al traffico di persone, poiché le politiche restrittive nei confronti del fenomeno migratorio contribuiscono a esacerbare le vulnerabilità dei migranti e, in questo modo, favoriscono il traffico di persone, piuttosto che prevenirlo e proteggerne le potenziali vittime»

Le imbarcazioni che trasportano i migranti nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la Convenzione SOLAS. Come osservano Leanza e Caffio, “da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente”distress potendosi anche presentare il caso che la richiesta sia avanzata in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia pervenga da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza. La nozione di “distress” è così stabilita dalla convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.La nozione di “distress” generalmente adottata in diritto internazionale demolisce la ricostruzione dell’ingresso irregolare camuffato da soccorso, o delle “consegne concordate”, perché se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, questa tende ad impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni di soccorso o il loro ritardato arrivo, magari in attesa che intervenga qualche motovedetta libica donata dall’Italia, producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti. Che una volta abbandonati in alto mare dai trafficanti, o affidati a “scafisti per necessità”, sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini” da fare entrare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti.

Se si riconosce l’esistenza di una situazione di distress, scatta con immediatezza l’obbligo di soccorso a carico di tutti gli Stati che hanno notizia dell’evento. Stati che si dovrebbero coordinare tra loro, ma senza effettuare riconsegne alle autorità libiche o respingimenti collettivi verso i porti della Tripolitania dai quali più frequentemente partono i barconi carichi di migranti. Si può quindi riconoscere che, una volta avvertite le autorità italiane o maltesi, soggette alla giuriasizione dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, quale che sia lo stato di bandiera della nave soccorritrice, a carico di tutti gli Stati che hanno notizie di un evento di soccorso scatta un preciso obbligo di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio e dunque una precisa giurisdizione anche se le persone da soccorrere si trovano ancora in acque internazionali. Il riconoscimento di una giurisdizione statale comporta l’assunzione di conseguenti obblighi derivanti dal diritto internazionale, come dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, e dal diritto interno, nel caso italiano anche dal Codice della Navigazione e da tutte le leggi e regolamenti che disciplinano i soccorsi in mare, come i Piani SAR nazionali ed il Manuale IAMSAR.

Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.

La giurisprudenza della Corte europea rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (casi Banković, e Medvedyev ed altri).

La riconduzione degli eventi di soccorso (SAR) ad “eventi migratori” da affrontare in base alle regole operative del cd. law enforcement non sottrae gli Stati al rispetto dei diritti uani e degli obblighi di soccorso in mare, incluso il divieto di respingimento. Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti.

Al Considerando 13 lo stesso Regolamento europeo aggiunge : “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento”.

6. Trattenimento a bordo dei naufraghi e trattative per la redistribuzione in altri paesi europei

Il 16 agosto 2019 il premier Conte rispondeva a una missiva del ministro Salvini, ribadendo con forza la necessità di autorizzare lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, anche alla luce della presenza della nave al limite delle acque territoriali (in effetti vi aveva già fatto ingresso) e potendo, dunque, configurare l’eventuale rifiuto un’ipotesi di illegittimo respingimento aggiungeva di aver già ricevuto conferma dalla Commissione europea della disponibilità di una pluralità di stati a condividere gli oneri dell’ospitalità dei migranti della Open Arms, indipendentemente dalla loro età. Invitava, dunque, il ministro dell’Interno ad attivare le procedure, già attuate in altri casi consimili, finalizzate a rendere operativa la redistribuzione”.

Le posizioni dei principali paesi europei erano chiare nel condannare il trattenimento prolungato dei naufraghi soccorsi dalla Open Arms. Già il 9 agosto del 2019 il Presidente del Parlamento europeo chiedeva una soluzione umanitaria per lo sbarco dei naufraghi che poi, malgrado la decisone si sospensione del divieto di sbarco da parte del TAR Lazio, venivano trattenuti a bordo della nave soccorritrice, inclusi donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati, per quasi due settimane. Per la Commissione Europea i naufraghi della Open Arms andavano sbarcati immediatamente, prima che si concludessero le trattative per la loro redistribuzione in Europa. La Commissione europea, proprio il 16 agosto del 2019, definiva insostenibile la situazione di prolungato trattenimento dei naufraghi ormeggiata a poche centinaia di metri dal porto di Lampedusa.

Nel mese di luglio del 2019 Salvini si rifiutava di paretcipare ad una riunione indetta a Parigi dal Presidente francese Macron per discutere sui criteri di residtibuzione dei migranti in Europa. Cade così ogni alibi difensivo per Salvini che nell’estate del 2019 non “difendeva” affatto i confini dell’Italia e dell’Unione Europea ma mirava soltanto ad ottenere i “pieni poteri” ed aumentare il suo consenso elettorale. Sulla pelle dei naufraghi abbandonati in mare. Alla fine dell’incontro di Parigi Macron “deplora(va) gli esponenti politici assenti (“non si guadagna mai nulla non partecipando”) e porta(va) a casa l’accordo di 14 Stati “volontari” pronti a ripartirsi in modo sistematico i migranti soccorsi in mare, senza dover avviare ogni volta complesse trattative dopo il salvataggio. Resta però fermo, ha sottolineato il presidente, che “quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare rifugio nel porto più vicino. E’ una necessità giuridica e pratica. Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”.

L’avvio di trattative con altri paesi europei per redistribuire i naufraghi soccorsi in acque internazionali è un tema specifico che viene addotto soprattutto per giustificare il prolungato trattenimento a bordo di persone che avrebbero altrimenti diritto di essere sbarcate in un porto sicuro, senza essere sballottate in alto mare, o rinviate verso altri paesi. Si deve ricordare al riguardo il chiarissimo disposto dell’art. 10 ter del testo Unico sull’immigrazione n.286/98 che stabilisce il cd. Approccio Hotspot, in linea con le Decisioni adottate dal Consiglio europeo nel novembre del 2015, e che quidi prevede espressamente che lo sbarco per ragioni di soccorso sia nettamente distinto dall’ingresso di “clandestini” come al contrario sembra confondere da tempo il senatore Salvini. Inoltre il regolamento Dublino III, che regola i ritrasferimenti, riguarda soltanto “richiedenti asilo” e tale status non si può certo acquistare automaticamente sulla nave soccorritrice, ma può essere riconosciuto soltanto a terra a seguito dell’informazione obbligatoria prevista dalla legge e dalla presentazione di una domanda di pritezione. Inoltre il cd. Patto di Malta del settembre 2019 che si evoca a sproposito nel caso Open Arms è successivo all’epoca dei fatti, dunque con costituisce fonte normativa, trattandosi tra l’altro di un mero pre-accordo adottato tra quatro stati europei, che poi però non venne ratificato nè dal Consiglio nè dal Parlamento europeo, restando nulla di più che una mera dichiarazione politica come tale irrilevante in un procedimento penale.

Nel caso della SEA WATCH 3  (giugno 2019) Salvini aveva rifiutato per due giorni lo sbarco a terra anche quando era già confermata la disponibilità di diversi paesi europei che avevano dichiarato di volere accogliere i naufraghi soccorsi della nave  e bloccati a bordo in condizioni disumane per due settimane.  “La soluzione per le persone a bordo della Sea Watch è possibile solo una volta sbarcate”. Così il commissario europeo Dimitris Avramopoulos, diceva in quei giorni spiegando che Bruxelles “è coinvolta da vicino nel coordinarsi con gli Stati membri per ricollocare i migranti” quando saranno a terra“. Alla fine era stata anche offerta la disponibilità di cinque paesi europei. Come ha riferito La Stampail Garante per i diritti delle persone private della libertà personale ha presentato su questo caso un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Purtroppo la Procura di Roma ha poi archiviato l’esposto a carico del ministro dell’interno ma questo non ha modificato l’orietamento della Commissione europea e degli Stati che da allora si sono sempre rifiutati di garantire ritrasferimenti prima che i naufraghi fossero sbarcati a terra in territorio italiano, o maltese.

Non si può dimenticare in ogni caso che il secondo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto del primo agosto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture. Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonchè le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità” . Senza la firma di “concerto”degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta Danilo Toninelli, che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità ed il prolungato trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms restava privo di qualsiasi titolo giustificativo.

Il principio di riserva assoluta di legge, ribadito dall’art.13 della Costituzione italiana in materia di libertà personale, costituisce un principio fondamentale dell’assetto democratico previsto dalla Costituzione. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, “L’elemento oggettivo del delitto di sequestro di persona consiste nella privazione della libertà personale intesa come libertà di muoversi nello spazio e cioè come libertà di locomozione. Non è necessario, a tal fine, che la privazione sia totale, ma è sufficiente che il soggetto passivo non sia in grado di vincere, per realizzare la sua piena libertà di movimento, gli ostacoli frapposti né ha rilevanza la maggiore o minore durata di tale privazione” (v. Cass. Pen., sez. I, n. 18186/2009 ). Il sequestro di persona può essere configurato dunque quando la condotta del soggetto agente privi la vittima delle libertà fisica e di locomozione, sia pure in modo non assoluto, per un tempo apprezzabile (Cass. Pen. sez. III n. 15443/2014). Per la Cassazione, “il concetto di privazione della libertà personale implica necessariamente l’idea di una condizione non momentanea. Tuttavia la durata più o meno lunga dell’impedimento è indifferente ai fini della configurazione del sequestro di persona, bastando che esso si protragga per un tempo giuridicamente apprezzabile tale da determinare la lesione del bene giuridico protetto.” (Cass. Pen., sez. V, n. 375/1980) . Per la Corte di Cassazione ad esempio può integrare il reato di sequestro di persona compiuto da un pubblico ufficiale anche l’indebito trattenimento di una persona, anche soltanto per alcune ore, presso un posto di polizia ferroviaria, come in qualsiasi caso di fermo illegale ( Cass. Pen. sez. VI, n.23423/2010).

7. I divieti di respingimento collettivo e di trattamenti inumani o degradanti

Si può ritenere che tra i “principi generali” dell’ordinamento italiano, che non sono derogabili in base alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo, ricorra, oltre al principio di non refoulement, affermato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il dovere primario di salvaguardare la vita umana in mare e di realizzare operazioni di ricerca e soccorso in conformità alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, anche per l’espresso richiamo che si fa a tali Convenzioni negli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, il diritto alla salute ed il divieto di respingimenti collettivi costituiscono limiti alla sovranità dello Stato ed ai poteri discrezionali dei singoli ministri o dell’intero governo. Lo affermano in più occasioni i Tribunali internazionali, come nei casi Hirsi, Sharifi Khlaifia decisi dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con tre sentenze di condanna nei confronti dell’Italia.

L’UNHCR ha già da tempo espresso il parere per cui «the purpose, intent and meaning of Article 33(1) of the
1951 Convention are unambiguous and establish an obligation not to return a refugee or asylum-seeker to a country
where he or she would be risk of persecution or other serious harm, which applies wherever a State exercises
jurisdiction, including at the frontier, on the high seas or on the territory of another State»,
La previsione base è dunque l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, ma precisi divieti di respingimento, anche con particolare riferimento ai minori non accompagnati, ricorrono nella Convenzione europea a salvaguardia dei diriti dell’Uomo, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ( art. 19) e nella legislazione nazionale, con la legge Zampa ( per i msna) e con i divieti stabiliti dall’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 e successive modificazioni. La finalità di difendere i confini nazionali non può comportare quindi il respingimento collettivo di una pluralità di persone senza che queste possano essere identificate singolarmente e presentare se lo richiedono una istanza di protezione. In ogni caso è vietato il respingimento dei minori non accompagnati e di altre categorie di soggetti vulnerabili.

Con riferimento all’articolo 10 comma terzo della Costituzione italiana si osserva (Luca Minniti) che ” ostacolare l’entrata nel territorio dello Stato e della Ue significa sottrarre, in radice, al titolare del diritto di asilo, la possibilità di esercitarlo tramite la domanda di protezione di cui agli art. 10 Cost. e 18 Carta Ue. Con la conseguenza che le norme, gli atti amministrativi, i comportamenti che chiudono i confini dell’Ue indipendentemente dallo scopo che si prefiggono, violano la Costituzione, nella misura in cui precludono la possibilità di accesso al territorio e, dunque, l’accesso alla tutela del diritto alla protezione dello straniero”.

A  maggio del 2019, pochi mesi prima del caso Open Arms, un duro documento di denuncia del Commissariato dell’Onu per i diritti umani ha accusato l’Italia di gravi violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario. Come al solito provocatoria la reazione italiana. Per il ministro dell’interno e leader della Lega, adesso sotto procedimento penale a Palermo, l’Onu “fa ridere, è da scherzi a parte”. Secondo l’ONU, invece, “il diritto alla vita e il principio di non respingimento dovrebbero sempre prevalere sulla legislazione nazionale e su altre misure presumibilmente adottate in nome della sicurezza nazionale”. L’ONU ha sollecitato “le autorità a smettere di mettere in pericolo le vite dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime di traffico di esseri umani, in nome della lotta contro i trafficanti – continuano – Si tratta di un approccio fuorviante, non in linea né con il diritto internazionale generale né con la legislazione internazionale sui diritti umani. Sprezzante la risposta del governo italiano allora in carica.

Nel caso dei soccorsi operati da navi delle ONG, o da navi commerciali, non sono mancati casi di respingimento che sono arrivati all’esame della corte europea dei diritti dell’Uomo. Solo che le particolari modalità degli atti adottati dai governi, le modeste possibilità di prova e di documentazione da parte delle parti ricorrenti, e la difficoltà di accesso ai tribunali internazionali, hanno ridotto le possibilità di una effettiva tutela di fronte a questi atti arbitrari compiuti dai governi.

Non si possono utilizzare singole decisioni, peraltro adottate in sede cautelare, dalla Corte dei diritti dell’Uomo per escludere la responsabilità di chi ha violato in circostanze affatto diverse principi sanciti dalla CEDU e dai Protocolli allegati. Il tentativo, operato da Salvini in più occasioni, di utiizzare la decisione che negava un provvedimento cautelare alla SEA WATCH bloccata nel porto di Augusta nel 2019 non può modificare la portata vincolante degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo a carico di tutte le autorità statali dei paesi che hanno aderito alla Convenzione di Roma del 1950.

Come si è osservato in dottrina, Leggere il rigetto ……. come conferma della legittimità, al metro della Convenzione europea, del decreto sicurezza-bis e dei provvedimenti in base ad esso adottati, costituirebbe allora un clamoroso fraintendimento della posizione espressa dalla Corte, la quale – giova insistere sul punto – si è limitata a ritenere che la situazione a bordo della Sea Watch non sia ad oggi tale da creare un rischio di danni irreparabili per la salute delle persone. Nessun riferimento al contrasto all’immigrazione irregolare, dunque, né tanto meno all’attività di coloro che vengono talvolta definiti “aiutanti dei trafficanti”, e che anzi dal comunicato stampa risultano chiaramente individuati come soccorritori di naufraghi in pericolo di vita“…” La decisione della Corte, in conclusione, merita di essere segnalata forse più per ciò che non dice, che per ciò che statuisce: se infatti sotto quest’ultimo profilo assistiamo ad un esito come visto per nulla infrequente in materia di interim measures, sotto il primo profilo pare significativa l’assenza di argomenti a sostegno della legittimità dell’operato del Governo nell’attuale gestione della crisi migratoria. Al contrario, non avendo indicato nessuna specifica misura provvisoria diversa dalla prosecuzione delle attività di assistenza nei confronti delle persone vulnerabili, la Corte ha in ultima analisi rimesso alle autorità italiane la responsabilità delle scelte su come garantire i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione nella vicenda Sea Watch, lasciando anche aperta la strada per futuri eventuali ricorsi”.

Non appare certo “improprio” il richiamo fatto dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo alla sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 2012, per i respingimenti collettivi verso Tripoli ordinati alla Guardia di finanza dal ministro dell’interno Maroni nel 2009.

La sentenza Sharifi della Corte Eurpea dei diritti dell’Uomo ha peraltro condannato l’talia per un caso di respingimento collettivo dal porto di Ancona verso la Grecia, dunque l’argomentazione che non possono ricorrere respingimenti collettivi tra paesi dell’Unione Europea è palesemente falsa. Ed il divieto di sbarco in porto, a cui si aggiunge l’intimazione di rivolgere la nave verso un porto di un altro paese europeo, se non verso la Libia o la Tunisia, si può ben configurare come ipotesi di respingimento collettivo, tenendo contro delle circostanze specifiche di ciascuna vicenda, ed in particolare, seppure a livello di tentativo, di quanto successo nel caso Open Arms nel mese di agosto del 2019 di fronte al porto di Lampedusa. Ed a tale riguardo ocorre anche ricordare che durante i tentativi di respingimento collettivo ben possono verificarsi casi di privazione arbitraria della libertà personale.

Non si vede dunque come si possa ritenere che l’ex ministro Salvini, impartendo al comandante della Open Arms i divieti di ingresso in porto nel periodo dal 14 al 20 agosto del 2019 abbia “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” (art. 9 comma 3 L. Cost. n. 1/1989).  Come ricordano i giudici del Tribunale di ministri di Palermo, “la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 81 del 5.4.2012, ha affermato che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo: e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”.

Attendiamo adesso le decisioni dei giudici sui casi Open Arms a Palermo e Gregoretti a Catania. Come ha scritto Luigi Ferrajoli “deve pur esserci un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il sovrano o la maggioranza della pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove quando i medesimi poteri ne pretendono l’assoluzione”.