Chi è complice dei trafficanti in Libia ?

di Fulvio Vassallo Paleologo

Aggiornamento del 6 aprile 2021

Le politiche di complicità con i trafficanti libici proseguono sotto le dichiarazioni di soddisfazione di Draghi sui rapporti di collaborazione con il libici, senza neppure una parola per il rispetto dei diritti umani e per sollecitare l’arresto dei trafficanti che il governo di Tripoli lascia ancora liberi di trattare le persone come merce, da vendere al migliore offerente. Una politica che conviene anche ai pegggiori politici europei in cerca di facile consenso. Deve prevalere la narrazione che descrive una lLibia sulla via della pacificazione, in modo da legittimare accordi per combattere “l’immigrazione illegale”. Accordi che sono, e rimangono, illegali, come rimangono illegali le modalità di respingimento collettivo “su delega” in acque internazionali e le condizioni disumane di internamento dei migranti riportati in Libia. Draghi esprime “soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi,” rispolverando il Trattato di amicizia tra Berlusconi e Ghedafi del 2008. Adesso si comprende bene perchè si vogliono mettere a tacere gli ultimi testimoni indipendenti della tragedia libica e delle stragi nel Mediterraneo, diventato ormai una gigantesca fossa comune. Presto a Tripoli arrivera’ la ministro dell’interno Lamorgese, per perfezionare le intese con la sedicente Guardia costiera “libica”. Cosi’ ci saranno altre stragi ed altri casi di omissione di soccorso. La malafede e l’ignoranza non hanno limiti. Gli sbarchi proseguono e proseguiranno anche se hanno bloccato tutte le navi umanitarie. Aumentera’ soltanto il numero delle vittime.Gli italiani si berranno anche questa. A furia di bere veleno, però, ci si avvelena. Con il bollo del governo Draghi, mentre esplode la rabbia sociale che scarica sui migranti la logica del capro espiatorio. Ma l’informazione indipendente, come la solidarietà, non si arresteranno di certo. Dalla crisi si esce soltanto difendendo lo Stato di diritto ed il principio di uguaglianza. Nessuno si salverà da solo.


1.Le più recenti indagini della magistratura, e la pervasiva campagna mediatica che queste hanno alimentato, confermano, malgrado precedenti archiviazioni, come, per impedire i soccorsi operati dalle imbarcazioni inviate dalla società civile nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, si sia giunti a ritenere che la mera presenza delle navi umanitarie costituisse non solo un fattore di attrazione per le partenze dei migranti dalle coste libiche e tunisine, ma una sorta di “agevolazione” dell’immigrazione illegale, come se i soccorsi in acque internazionali non fossero altro che “consegne concordate”. Mentre le autorità europee, a partire dal 2018, hanno ritirato progressivamente tutti gli assetti navali impegnati in quella zona ormai attribuita alla responsabilità di una fantomatica “Libia”, l’Italia, e di conseguenza anche Malta, non hanno più operato in attività di ricerca  e salvataggio come si era verificato sino al 2018  nelle zone SAR di propria competenza. Soprattutto dopo il caso Gregoretti nel 2019, i vertici politici e militari italiani hanno limitato alle acque territoriali (12 miglia dalla costa) l’operatività dei mezzi di soccorso della Guardia costiera e delle unità navali della Marina militare e della guardia di finanza, prima impegnate in acque internazionali anche a poche decine di miglia dalle coste africane. Gli accordi bilaterali intercorsi nel 2017,come il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017, e la istituzione di una fittizia zona SAR “libica”, hanno costituito gli schermi formali dietro i quali si è nascosta la sostanziale delega delle attività di intercettazione in acque internazionali alle autorità libiche.

I governi, con i media loro vicini, fanno scomparire le informazioni sui fatti reali che avvengono nel Mediterraneo e nelle regioni nordafricane. Non c’è più traccia dell’importante Dossier della Guardia costiera italiana, pubblicato nel 2018, che documentava le importanti attività di ricerca e soccorso effettuate in sinergia con le ONG dalle autorità italiane, dal 2014 al 2017, nel Mediterraneo centrale. I comunicati ufficiali dei ministeri, della Marina militare e della Guardia costiera, dettagliatissimi quando si riferisce del “fermo amministrativo” delle navi delle ONG, sono del tutto lacunosi quando si tratta di dichiarare cosa è successo nelle operazioni di ricerca e soccorso in alto mare, nelle acque internazionali. Per molte notizie occorre risalire alla stampa locale ed ai giornalisti ancora indipendenti. Proprio nei confronti di chi è stato testimone dei gravissimi abusi commessi ai danni dei migranti in Libia, e del sostanziale abbandono in mare subito da coloro che riuscivano a fuggire da quel paese, si è innescata una attività di indagine con decine di intercettazioni telefonche per fatti privi di rilevanza penale, in violazione delle garanzie previste dalla legge per il diritto di cronaca e per i diritti di difesa. Appare evidente quali possono essere i bersagli e gli obiettivi di queste attività. Mentre si stanno creando cortine fumogene attorno ai procedimenti penali che riguardano chi ha abbandonato persone in mare o chiuso i porti italiani. Come afferma Matteo de Bellis, ricercatore presso Amnesty International, in una dichiarazione rilasciata a VICE News:“Gli europei non possono incaricare una nave di soccorso di sbarcare in Libia – è illegale – quindi hanno creato un sistema in base al quale gran parte del coordinamento dei respingimenti viene svolto dagli europei , con risorse europee, ma usando i libici come una cortina fumogena legale. È accettabile che gli stati dell’UE ingannino il diritto internazionale e rimandino le persone alla tortura senza essere responsabili? “

Non si tratta di questioni che risalgono ad un tempo remoto, e le Convenzioni internazionali da rispettare non sono mutate neppure oggi. Secondo il rapporto dell’OIM “COVID-19 Control Measures, Gap in SaR Capacity Increases Concern About ‘Invisible Shipwrecks’ del 12 maggio 2020, “Le misure attuate dai governi in risposta a COVID-19, tra cui chiusure di porti, ritardi nello sbarco e la ridotta presenza di navi di ricerca e salvataggio sulla rotta sempre più trafficata del Mediterraneo centrale, stanno sollevando serie preoccupazioni sul destino delle navi in pericolo e le cosiddette ” naufragi invisibili “. “Stiamo assistendo a un costante aumento del numero di navi sull’acqua di cui siamo a conoscenza e l’assenza di operazioni di ricerca e salvataggio statali e guidate da ONG rende difficile sapere tutto ciò che sta accadendo in mare”, ha affermato Frank Laczko, direttore del Global Data Migration Data and Analysis Center di IOM. “La risposta a COVID-19 ha avuto un impatto decisivo sulla nostra capacità di raccogliere dati precisi. La rotta del Mediterraneo centrale rimane la più pericolosa rotta di migrazione marittima sulla terra e, nel contesto attuale, sono cresciuti i rischi che naufragi invisibili lontani dalla percezione della comunità internazionale ”.

2, Il 17 giugno 2020 quattro organizzazioni non governative (Alarm Phone,  Borderline-Europe, Mediterranea Saving Humans e Sea-Watch) hanno presentato  il  rapporto  Remote control: the EU-Libya collaboration in mass interceptions of migrants in the Central Mediterranean che evidenzia come le azioni intraprese dalle unità di sorveglianza aerea dell’UE, in collaborazione con le autorità libiche, stiano facilitando le intercettazioni e i respingimenti di massa dei migranti. Il rapporto ricostruisce in particolare alcuni eventi di ricerca e salvataggio conclusisi con intercettazioni e respingimenti verso la Libia. Numerosi rapporti internazionali provenienti dalle Nazioni Unite, da Statewatch, da Amnesty International confermano intanto gli abusi commessi dalla sedicente Guardia costiera “libica” e la situazione di abusi sistematici commessi in Libia ai danni dei migranti intrappolati nei centri di detenzione.

La zona di ricerca e salvataggio SAR  attribuita alla Libia nel 2018 si sta rivelando sempre di più come una zona di morte,  E spetterebbe alle Nazioni Unite, che pure definiscono con l’UNHCR  la Libia come un paese “non sicuro”, verso cui non devono essere effettuati respingimenti, intervenire sull’IMO (Organizzazione internazionale del mare) con sede a Londra,  che pure risulta essere organizzazione delle stesse Nazioni Unite,  per porre fine alla finzione della cosiddetta zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica, di una Libia che non esiste come entità territoriale unica, con organi di governo centrale e con autorità marittime di coordinamento unificati.  Non si può consentire  che gli interventi della sedicente Guardia Costiera Libica,  che altri definiscono di “salvataggio”, si concludono sempre con vittime in mare e con la scomparsa dei naufraghi non appena sbarcati in porto. Perché di fatto queste persone, ricondotte a terra con modalità spesso violente, sono di nuovo cedute alle stesse milizie  e alle stesse bande di trafficanti  da cui sono fuggiti. E questo i governi europei non possono ignorarlo. Come non si può ignorare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, né dà effettiva attuazione ad analoghi strumenti convenzionali previsti a livello regionale in Africa (OUA). L’8 gennaio 2020, Joseph Borrell, Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare ha negato che siano mai state fornite informazioni da Frontex alla Guardia costiera libica nell’ambito delle operazioni di sorveglianza previste dal regolamento UE (n. 656/2014) ed effettuate dagli Stati membri alle loro frontiere esterne in cooperazione con l’Agenzia.  “Ciò si è verificato tuttavia nell’ambito dell’Eurosur Fusion Service — Multipurpose Aerial Surveillance (MAS)”, ha ammesso il commissario Borrell. “Durante l’attività di sorveglianza aerea MAS nell’area di pre-frontiera – dal 2017 sino al 20 novembre 2019, quando Frontex ha individuato situazioni di pericolo nella regione SAR libica, l’Agenzia informato in 42 casi il Centro di coordinamento delle ricerche dello Stato membro più vicino, EUNavFOR MED così come le autorità libiche”. Josep Borrell ha pure negato lo scambio d’informazioni sulle attività di sorveglianza marittima tra l’(ex) missione militare UE “Sophia” e la Guardia Costiera libica.

3. . Secondo un recente Rapporto di Esperti delle Nazioni Unite ““I civili in Libia, inclusi migranti e richiedenti asilo, continuano a subire violazioni del diritto internazionale umanitario diffuso e del diritto internazionale dei diritti umani e abusi dei diritti umani. I gruppi terroristici designati sono rimasti attivi in Libia, sebbene con attività ridotte. I loro atti di violenza continuano ad avere un effetto dirompente sulla stabilità e sulla sicurezza del Paese”. Come riporta l’agenzia NOVA, “Il rapporto finale del Gruppo di esperti sulla Libia ha cercato di fare luce sulla rete di contrabbando di carburante e di esseri umani nella città di Zawiya, dominata dalla cosiddetta Brigata al Nasr. Tale attività si sarebbe intensificata durante la seconda metà del 2020, quando la domanda mondiale di carburanti per il trasporto marittimo è diminuita a causa della pandemia di coronavirus e i prezzi di mercato sono calati. Il rapporto menziona anche l’arresto di Abd al Rahman al Milad, noto come “Bija”, nell’ottobre 2020, spiegando tuttavia di non aver ricevuto dettagli sulle indagini. “Le circostanze che circondano l’arresto mostrano una competizione di interessi all’interno dei servizi di sicurezza del Governo di accordo nazionale, a scapito dell’attuazione della legge. L’arresto è stato seguito da una reazione del procuratore militare, che ha richiesto il trasferimento del comandante della Guardia costiera libica sotto la sua autorità. Al momento della stesura del presente rapporto, l’ubicazione di Al Milad non è conosciuta”. Il report degli esperti Onu afferma che le infrastrutture delle reti di contrabbando di Zuwara e Abu Kamash sono ancora intatte e non hanno perso la capacità di effettuare operazioni di esportazione illegali.Di fatto, malgrado le missioni internazionali che si succedono in Libia, la situazione sul terreno, ed in mare, è ancora caratterizzata da una grande incertezza, data anche dalla presenza di numerose milizie straniere e dal ruolo altalenante delle diplomazie europee, dopo che la Turchia ha stabilito una forte presenza militare a difesa del governo di Tripoli. La prospettiva di una pacificazione reale sul territorio, che possa garantire il rispetto dei diritti umani delle persone migranti, e degli stessi libici, appare ancora lontana. E per i giornalisti n Libia, come per i migranti e per la stessa popolazione libica, quando le milizie decidono di colpire non c’è scampo. Si può solo fuggire. Cosa stanno facendo davvero gli Stati europei in Libia per ripristinare lo Stato di diritto, mentre fanno a gara per foraggiare le milizie con l’unica finalità di bloccare ( senza esito) le traversate del Mediterraneo? Le responsabilità dei singoli Stati appaiono da questo punto di vista corrispondere ad una attività delle istituzioni e delle agenzie europee che danno per scontata la persistente violazione dei diritti umani in Libia.

4. Si deve affrontare dunque il tema della responsabilità, non solo politiche, non solo di singoli stati europei, ma anche dei vertici  delle operazioni di Frontex e quindi degli apparati amministrativi e militari nazionali, quando tengono sotto controllo, attraverso sistemi elettronici imbarcazioni cariche di migranti che navigano in acque internazionali, nel tempo che precede la loro “presa in carico” da parte delle autorità libiche, se non il loro definitivo abbandono. Anche al fine di rilevare la eventuale giurisdizione europea o italiana, quando le persone che sono a bordo di queste imbarcazioni che sono ancora nella zona SAR libica, ma vengono monitorate da autorità europee, vengono segnalate alle motovedette libiche che dopo averle intercettate in acque internazionali le riconducono a terra. Con le gravissime conseguenze ( fino alla scomparsa) che ancora di recente vengono documentate da diversi rapporti internazionali. Di converso tutte le azioni di soccorso in mare si dovranno configurare come attività di ricerca e soccorso di persone che si trovano in un evidente stato di necessità non solo quando rimangono abbandonate in mare per giorni, ma già prima della loro fuga dalla Libia, che,in assenza di canali legali di evacuazione, piuttosto che una libera scelta, rimane l’unico spiraglio aperto per salvare la vita e sottrarsi alle violenze subite nei centri di detenzione, formali ed informali, controllati dalle milizie libiche, Come ammettono anche le Nazioni Unite, infatti, nessuno sa, o può garantire, cosa succede alle persone intercettate i mare e riportate a terra dalle motovedette libiche assistite dalle autorità italiane ed europee

Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR, come avviene con la indicazione delle autorità libiche come responsabili degli interventi di “soccorso”, di fatto vere e e proprie intercettazioni,  deve tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro. Altrimenti sarebbe molto semplice per gli stati liberarsi dei propri obblighi di ricerca e salvataggio a discapito delle persone che vanno soccorse in acque internazionali. Per questa ragione non è consentito ricorrere al consueto espediente di trasferire la responsabilità SAR sui guardiacoste libici coordinati da un centro “congiunto” (JRRC) che sembra dipendere dalle attività di tracciamento operate dagli europei o sulla Centrale di coordinamento (MRCC) del paese di bandiera della nave soccorritrice, distante magari migliaia di chilometri dall’area dei soccorsi.  Se uno Stato riceve notizia di un evento di soccorso e non ci sono altre autorità che intervengono, non si può escludere che questo Stato eserciti un controllo effettivo sulla vita delle persone, e quindi che su questa attività di controllo deve esserci una giurisdizione ed un possibile giudizio di responsabilità. deve essere in ogni caso rispettato il divieto di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Altrimenti si alimenterebbe solo la legge del più forte e si legittimerebbero tutte le pratiche di abbandono in mare. Che già hanno prodotto troppi morti e dispersi.

Alla fine, la questione più rilevante rimane quella dei respingimenti in Libia “delegate” alle motovedette della  sedicente Guardia costiera libica, e dei nuovi gruppi GASC, formati dalle milizie delle diverse città libiche, che estendono il loro controllo fino alle acque antistanti I principali porti. snodo di traffici di petrolio, di armi e di esseri umani. Che valenza possono avere oggi le estese zone SAR attribuite a Malta o alle autorità tripoline? Nessuna autorità nazionale può pensare che, collaborando con la sedicente Guardia costiera libica, o non rispondendo alle richieste di soccorso o di designazione di un porto di sbarco sicuro, o negando l’ingresso nelle acque territoriali, ovvero bloccando arbitrariamente navi certificate da autorità straniere, si possa evitare di assumere una qualsiasi responsabilità sul piano internazionale, una responsabilità che potrebbe essere rilevante anche sul piano del diritto interno. La sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Hirsi deciso nel 2012, affermava la responsabilità dello Stato anche quando i suoi agenti operino al di fuori delle acque territoriali, quando le persone vittime dei respingimenti si trovino sotto “l’esclusivo controllo” di autorità riferibili allo stesso Stato. Quanto abbiamo rilevato in tema di ripartizione delle zone SAR e di sistemi elettronici di controllo delle frontiere ci permette di individuare precise responsabilità, prima esclusive e poi concorrenti, degli Stati che collaborano attivamente con la sedicente Guardia costiera “libica” al fine di intercettare in mare  riportare a terra il maggior numero di persone in fuga dalla Libia. E quando parliamo di queste responsabilità facciamo riferimento alla commissione di crimini contro l’umanità, dei quali si sta già occupando il Tribunale Penale internazionale, o di altri reati perseguibili a livello nazionale. Per eludere queste responsabilità non sarà possibile trasformare gli eventi di soccorso in “attività migratorie illegali” e criminalizzare l’operato di quelle Organizzazioni non governative che sono rimaste le uniche possibilità di salvezza per chi intraprende la rotta del Mediterraneo centrale, la rotta migratoria pù pericolosa del mondo.

Dopo la esemplare condanna dell’Italia sul caso Hirsi si può senz’altro affermare che ricorre una giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui anche al di fuori delle frontiere nazionali, autorità statali abbiano il controllo esclusivo su persone che non si trovano soggette alla giurisdizione di altro stato. Come avviene nei confronti dei migranti che si trovano su imbarcazioni ubicate in acque internazionali dopo la segnalazione inviata alla centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana. Quanto rilevato sopra sulla finzione della zona SAR libica e sulle modalità di intervento delle motovedette libiche assistite dall’Italia con la missione Nauras, indice a ritenere che tale responsabilità persista anche dopo l’intervento delle stesse motovedette.   L’applicazione extraterritoriale della Convenzione nel suo complesso è stata configurata rispetto all’esercizio di autorità statale sul territorio di un altro Stato (sentenze del 7 luglio 2011 nei casi AlSkeini e altri c. Regno Unito e Al-Jedda c. Regno Unito), ma altresì in alto mare, indipendentemente dal fatto che gli individui di cui si tratta siano a bordo della nave dello Stato accusato (decisione dell’11 gennaio 2001 nel caso Xhavara c. Italia e Albania, relativo alla vicenda della nave albanese Kates I Rades, affondata, con 54 persone a bordo, dopo essere stata speronata da una nave militare italiana, la Sibilla; si veda anche la sentenza del 29 marzo 2010 Medvedyev e altri c. Francia ).  La Corte di Strasburgo ha ritenuto altresì, proprio a partire dal caso Hirsi, che “ gli Stati non possono aggirare gli obblighi della CEDU stipulando accordi con Stati terzi, ma al contrario, devono assicurarsi della compatibilità con la CEDU di tutti gli altri obblighi assunti per non esporsi al rischio di condanne per inadempimento da parte della Corte, in particolare rispetto ai divieti di respingimento derivanti dagli articoli 3 e 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU“. Ad avviso della Corte, né il fatto che i migranti ‘respinti’ avessero mancato di richiedere espressamente asilo , né la natura delle operazioni che avevano determinato il pushback verso la Libia (salvataggio in mare o lotta contro il traffico di persone) (ivi, par. 134) possono esimere l’Italia dal garantire il rispetto del principio di non refoulement di cui all’art. 3 CEDU.

La Corte osserva poi, riguardo del divieto di respingimenti collettivi ,che “se l’art. 4 Prot. 4 si applicasse solo alle espulsioni dal territorio degli Stati parte alla Convenzione, una componente significativa degli attuali fenomeni migratori non ricadrebbe sotto l’ambito di applicazione della disposizione nonostante che le condotte che essa intende proibire si realizzino ugualmente fuori del territorio e in particolare, come nel caso di specie, in alto mare … l’art. 4 pertanto sarebbe privo di effettività in pratica con riguardo a tali situazioni sebbene esse siano in costante crescita”.

5. Sembra ormai accertato come in Libia continuino  ripetersi negli anni gravi abusi sistematici ai danni dei migranti, ed adesso ci sono importanti decisioni di Corti italiane che hanno documentato le violenze perpetrare anche da soggetti che rivestivano ruoli importanti nella sedicente guardia costiera libica. Si potrebbe quindi trattare di veri e propri crimini contro l’umanità, come era stato denunciato nella sentenza adottata nella sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli, nel dicembre del 2017. Su questi crimini , confermati anche da sentenze dei tribunali italiani che chiamano in causa gli elevati livelli di collaborazione con le autorità italiane, dovrebbe concentrarsi l’attenzione che oggi si rivolge a chi cerca di soccorrere persone in mare. Per non incorrere in responsabilità non sarà più sufficiente tenere le navi militari italiane all’interno della fascia delle acque territoriali (12 miglia dalla costa) o derubricare gli eventi di soccorso ( che tali rimangono secondo la classificazione internazionale) in meri “eventi migratori”, da contrastare con indagini, sequestri e fermi amministrativi.

In considerazione dei sistemi integrati di controllo elettronico che sono stati attivati nel Mediterraneo centrale con il ricorso a mezzi aerei, con o senza equipaggio, si possono quindi profilare peculiari profili di responsabilità che derivano dalla giurisdizione europea e nazionale che va riconosciuta qualora le persone si trovino, sia pure temporaneamente sotto il controllo effettivo di autorità nazionali o europee.  Non si può accettare una sospensione a tempo indeterminato di qualsiasi esercizio della giurisdizione delle persone che si trovano in acque internazionali. Ipotesi che potrebbe configurare anche una vera  e propria omissione di soccorso.

Come osserva puntualmente Flavia Pacella, con riferimento agli accordi di cooperazione con le autorità libiche volti a contrastare l’immigrazione via mare, potrebbero profilarsi specifici profili di responsabilità delle autorità italiane di fronte al Tribunale penale internazionale, in seguito alla stipula di accordi bilaterali, come il Memorandum d’intesa del 2017, in quanto “la conclusione degli accordi in parola potrebbe astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale exart. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Con riferimento al riparto di giurisdizione tra l’Italia e la Corte, si è fornito un quadro generale, sebbene necessariamente parziale, dei possibili scenari e della conseguente prevalenza dell’una o dell’altra giurisdizione nei diversi casi.”  Secondo la stessa studiosa, “ è opportuno sottolineare che la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove83, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti.”.

Quando arriva una chiamata di soccorso ad una autorità nazionale, o quando viene intercettato, attraverso sistemi di tracciamento elettronico, un barcone in acque internazionali, prima che siano avviate attività di ricerca e  soccorso da parte delle autorità libiche, o di altri paesi, si può affermare che le persone che si trovano a bordo dell’imbarcazione siano comunque sottoposte ad una giurisdizione, europea o nazionale che sia, ed è quella di chi è a conoscenza della loro esistenza, del fatto che sono in una condizione di distress che impone soccorsi immediati, che dunque vanno attivati anche se gli Stati competenti non danno risposte o reagiscono tardivamente.. E anche se si trovano in quella che si pretende essere la zona SAR “libica”, se il controllo su di loro, anche in vista di successivi interventi della sedicente Guardia costiera libica, è esercitato da autorità italiane o di altri paesi europei, non si può escludere che ricadano immediatamente sotto la giurisdizione di questi paesi anche se si trovano in acque internazionali.  E non si può certo sostenere che le stesse autorità nazionali ignorino la sorte dei migranti trattenuti in Libia contro la loro volontà o quanto accade alle persone che sono intercettate in mare, spesso più un sequestro che un evento di soccorso, e riportate a terra. Se in qualche caso non sono riscontrabili profili di responsabilità esclusiva, non si può certo escludere una precisa responsabilità per la complicità con le attività di intercettazione in mare da parte della sedicente Guardia costiera libica e con i successivi abusi subiti dai naufraghi dopo il loro rientro forzato in Libia.