Il ruolo del naviglio commerciale nelle operazioni SAR nel Mediterraneo centrale

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Il numero delle persone scomparse in mare o arrestate dalle guardie costiere dei paesi di transito nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale non sembra ridursi con il passare degli anni, come del resto rimangono critiche le condizioni di coloro che una volta intercettati in mare vengono riportati a terra, in Libia dove non si rileva ancora alcuna garanzia per la loro vita e per la loro integrità fisica, ed in Tunisia, paese nel quale, nella quasi totalità dei casi, non si garantisce una applicazione effettiva della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.

Secondo un recente Rapporto di Esperti delle Nazioni Unite ““I civili in Libia, inclusi migranti e richiedenti asilo, continuano a subire violazioni del diritto internazionale umanitario diffuso e del diritto internazionale dei diritti umani e abusi dei diritti umani. I gruppi terroristici designati sono rimasti attivi in Libia, sebbene con attività ridotte. I loro atti di violenza continuano ad avere un effetto dirompente sulla stabilità e sulla sicurezza del Paese”. Come riporta l’agenzia NOVA, “Il rapporto finale del Gruppo di esperti sulla Libia ha cercato di fare luce sulla rete di contrabbando di carburante e di esseri umani nella città di Zawiya, dominata dalla cosiddetta Brigata al Nasr. Tale attività si sarebbe intensificata durante la seconda metà del 2020, quando la domanda mondiale di carburanti per il trasporto marittimo è diminuita a causa della pandemia di coronavirus e i prezzi di mercato sono calati. Il rapporto menziona anche l’arresto di Abd al Rahman al Milad, noto come “Bija”, nell’ottobre 2020, spiegando tuttavia di non aver ricevuto dettagli sulle indagini. “Le circostanze che circondano l’arresto mostrano una competizione di interessi all’interno dei servizi di sicurezza del Governo di accordo nazionale, a scapito dell’attuazione della legge. L’arresto è stato seguito da una reazione del procuratore militare, che ha richiesto il trasferimento del comandante della Guardia costiera libica sotto la sua autorità. Al momento della stesura del presente rapporto, l’ubicazione di Al Milad non è conosciuta”. Il report degli esperti Onu afferma che le infrastrutture delle reti di contrabbando di Zuwara e Abu Kamash sono ancora intatte e non hanno perso la capacità di effettuare operazioni di esportazione illegali. Una situazione, tenuta nascosta all’opinione pubblica, che le procure ed i tribunali italiani non potranno ignorare a lungo. Ed alla luce di questa situazione si dovrebbe riconsiderare la suddivisione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale ed il riparto di competenze, se non i livelli collaborativi tra le navi militari, le navi commerciali e le imbarcazioni delle organizzazioni non governative, che di volta in volta si trovano ad operare attività di ricerca e salvataggio (SAR), senza che le autorità nazionali forniscano tempestivamente porti di sbarco sicuri. Gli esperti ONU sottolineano però, in modo del tutto acritico, come ” con l’assistenza di Italia, Malta e Unione Europea e l’addestramento della Turchia, la Guardia costiera libica, operante sotto il ministero della Difesa, ha intensificato l’attività di intercettazione in mare”.

Da sempre le rotte del Mediterraneo centrale sono battute da un numero molto elevato di navi commerciali, sia sulle rotte da e verso l’Europa che, con intensità crescente, dallo stretto di Gibilterra verso il Canale di Suez e viceversa. Nello stesso tratto di mare, a nord delle coste libiche e tunisine, sono ubicate importanti piattaforme offshore destinate allo sfruttamento di giacimenti petroliferi, ed attorno a queste installazioni gravitano navi e rimorchiatori di servizio, oltre a navi militari che ne dovrebbero garantire la sicurezza.

Le navi commerciali che attraversano il Mediterraneo centrale appartengono a tipologie diverse, e sono anche di dmensioni notevolmente diverse, ma tutte sono soggette ai medesimi diveri di soccorso stabiliti dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) ed alla Convenzione SOLAS sulla sicurezza in mare del 1974. In base alla Regulation 2 (Cap.1)  della  Convenzione SOLAS che risulta espressamente applicabile, si distinguono con diverse prescrizioni :passenger ship (is a ship which carries more than twelve passengers); cargo ship (is any ship which is not a passenger ship); tanker (is a cargo ship constructed or adapted for the carriage in bulk of liquid cargoes of an inflammable* nature); fishing vessel (is a vessel used for catching fish, whales, seals, walrus or other living resources of the sea); nuclear ship (is a ship provided with a nuclear power plant). La definizione di cargo comprende dunque tutte le navi che non hanno natura di nave passeggeri. Rimangono escluse dalla applicazione della Convenzione le navi inferiori alle 500 tonnellate, le imbarcazioni da diporto ed i mezzi appartenenti a corpi dello Stato. Le navi impiegate dalle ONG che non rientrano in questa classificazione sono definibili generalmente, per la loro struttura e provenienza, come Offshore Supply vessel e così sono classificate dall’IMO, che invece non riconosce uno specifio elenco di navi destinate al soccorso delle persone, oltre quelle appartenenti alla Guardia costiera dei diversi paesi, anche se ritiene la qualificazione di navi da soccorso. Se esistono elenchi di navi private destinate stabilmente a funzioni di soccorso si ricava soltanto a livello di ordinamenti nazionali.

In diverse occasioni le navi commerciali, grossi cargo, petroliere, rimorchiatori d’alto mare, sono rimaste coinvolte in eventi di ricerca e soccorso (SAR) di imbarcazioni cariche di migranti, che si trovavano in condizioni di distress (per il pericolo immanente di naufragio) e dunque qualificabili come naufraghi, anche all’interno delle acque territoriali. La finzione della zona SAR “libica”, autoproclamata dal governo di Tripoli nel mese di giugno del 2018 e quindi riconosciuta dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare collegata alle Nazioni Unite) di Londra, ha reso sempre più incerta la sorte delle persone recuperate da navi che per la loro destinazione e per la loro stessa struttura, per non parlare della composizione degli equipaggi, mal si prestavano a svolgere attività di recupero in mare. Eppure, nel corso degli anni, gli interventi di soccorso di questi mezzi a esclusiva vocazione commerciale si sono moltiplicati, come si è sempre verificato quando gli Stati hanno ritirato gli assetti navali che in precedenza, almeno fino al 2016, svolgevano attività SAR nel Mediterraneo centrale, ed hanno criminalizzato le attività solidali delle Organizzazioni non governative, colpite, a partire dal 2017 da sequestri, procedimenti penali e fermi amministrativi, con l’unico obiettivo di ridurre il numero delle persone soccorse in mare, e quindi dei cd. “sbarchi” diventati un punto centrale della propaganda elettorale nei paesi più direttamente esposti come Malta e l’Italia. Occorreva soprattutto evitare testimoni scomodi che potessero documentare il “grado di coesione” sempre più elevato tra i comandi delle motovedette libiche ed i comandi italiani ed europei, sotto la vigilanza aerea di Frontex.

Occorre anche aggiungere che già nel 2007 le attività repressive erano state orientate verso i soccorsi operati da pescherecci, e malgrado sentenze di assoluzione pronunciate dal Tribunale di Agrigento e dalla Corte di Appello di Palermo,un altro caso simile si era verificato nel 2018 con l’assoluzione di altri pescatori chiamati a giudizio dopo avere soccorso naufraghi in acque internazionali. Da allora non si erano verificati più interventi di salvataggio operati dalle tante imbarcazioni di diversa nazionalità che erano ( e sono ancora oggi) impegnate in battute di pesca nel Mediterraneo centrale. Malgrado le sentenze di assoluzione o di archiviazione pronunciate da diversi tribunali, a partire dal caso Cap Anamur (2004-2009) si è cercato in tutti i modi, con la spada di Damocle del processo penale, di combattere i soccorsi in mare operati a nord delle coste libiche al preteso fine di contrastare l’immigrazione illegale e di ridurre il fattore di attrazione (pull factor). Che sarebbe stato costituito dalla realizzazione di attività SAR di ricerca e salvataggio che aumentavano le possibilità di riuscita della traversata (dunque di salvarsi la vita) e di raggiungere una frontiera europea. Studi recenti e dati statistici, con l’incremento dei cd. “sbarchi autonomi” a Lampedusa, a Pantelleria, e sulle coste della Sicilia e della Sardegna hanno smentito sul piano dei fatti questa tesi, che resta però alla base di procedimenti penali ancora in corso.

2. Prima di procedere oltre con un richiamo ai più importanti casi nei quali, negli ultimi anni, sono state coinvolte navi commerciali in attività di ricerca e salvataggio (SAR), sarà necessario richiamare le regole di diritto internazionale del mare e di diritto interno che regolano le operazioni SAR nel Mediterraneo centrale, come pure gli accordi bilaterali che sono stretti, talora a livello di semplice “Memorandum” tra gli Stati costieri e ricordare anche il ruolo dell’agenzia europea FRONTEX. per il controllo delle frontiere esterne, che è tenuta ad operare in base a Regolamenti europei, n.656 del 2014 e n.1896 del 2019. Si tratta di norme cogenti che vincolano direttamente i paesi europei che assumono comunque il ruolo di coordinamento anche in presenza di attività di monitoraggio e soccorso direttamente operate da assetti FRONTEX. In ogni caso è opportuno ricordare che in qualunque sede, sia amministrativa od operativa in mare, che in sede di procedimenti penali, occorre rispettare il principio di gerarchia delle fonti, ribadito dalla nota sentenza della Corte di cassazione del 20 febbraio 2020 sul caso Rackete, ed il valore primario della salvaguardia della vita umana, che la Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale, nei suoi Protocolli allegati, afferma chiaramente anche a scapito della difesa dei confini nazionali.

Si dovrà dunque fare richiamo alle principali Convenzioni internazionali di diritto del mare, a partire dall’art. 98 della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), senza però dimenticare, come ricorda opportunamente l’UNHCR la costante vigenza extraterritoriale del principio di non respingimento (art. 33 della Convenzione di Ginevra) e, tra gli altri, degli articoli 2 e 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. A proposito di quest’ultima Convenzione occorre ricordare la vasta portata riconosciuta dalla Corte europea di Strasburgo al principio di extraterritorialità (dunque con la applicabilità della Convenzione) anche al di fuori del territorio degli Stati firmatari, quando le persone siano comunque sottoposte al “controllo esclusivo” di autorità di questi Stati. Indipendentemente dall’attribuzione di una zona di responsabilità denominata zona SAR ( ricerca e salvataggio) ai singoli Stati, si dovrà valutare dunque caso per caso, quando le persone da soccorrere, nel caso di interventi operati da navi commerciali, si trovino sotto una giurisdizione esclusiva e quando invece siano sotto il controllo congiunto di più autorità statali. Ovviamente rimangono escluse da queste valutazioni le navi militari, i cui interventi di soccorso sono coordinati dalle autorità di bandiera e non sono mai assimilabili a quelli operati da navi delle Organizzazioni non governative o da navi commerciali, e questo per quanto espressamente previsto a livello normativo, e talvolta ignorato in sede giudiziaria.Eppure le Ordinanze di rimessione degli atti al Tribunale dei ministri di Catania, per il caso Gregoretti, e di Palermo, per il caso Open Arms, confermano questo sistema delle fonti che non potrà essere smentito da decisioni relative alla richiesta di rinvio a giudizio ( per le ONG) o di non luogo a procedere ( in favore dell’ex ministro dell’interno) basate su considerazioni di natura meramente politica.

Le Convenzioni internazionali di diritto del mare non definiscono nel dettaglio l’obbligo che compete alle autorità statali ( Ministero dell’interno e Comando della Guardia costiera- IMRCC) di indicare tempestivamente un porto sicuro di sbarco (POS- Place of safety), ma gli emendamenti allegati alla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso in mare (Searchand rescue – SAR), chiariscono bene quali siano gli atti di ufficio che incombono alle autorita’ marittime ed ai vertici politici, in ordine all’indicazione di un porto di sbarco sicuro E nel caso delle navi commerciali il richiamo alla tempestività nella indicazione del POS assume una rilevanza particolare. Tali obblighi sono adesso recepiti nel Piano SAR nazionale, approvato con Decreto dell’ex ministro delle Infrastrutture De Micheli il 4 febbraio scorso.

Il Piano SAR nazionale 2020 specifica i doveri di cooperazione tra stati titolari di zone SAR confinanti, ai sensi dei paragrafi. 3.1.8 e 4.1.3  dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979 che richiamano i doveri di cooperazione tra stati titolari di zone SAR confinanti. Il Centro di coordinamento che ha avuto notizia dell’evento SAR valuterà richiesta di Cooperazione di altri MRCC circa disponibilità di proprio risorse SAR nell’ambito dell’intera regione di responsabilità nazionale anche a prescindere dall’esistenza di accordi bilaterali o regionali in materia.

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano che: 1)in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo che venga a conoscenza di un caso di pericolo,anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento; 2) lo Stato cui appartiene lo MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status giuridico. Quando occorre salvare vite umane in mare si tratta di naufraghi e non rileva la distinzione tra richiedenti asilo, migranti economici o peggio “clandestini”. Ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la
definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco. (par. 6.20). Sono regole che stabiliscono doveri ed obblighi di cooperazione in modo chiaro, riprendendo quanto già previsto in precedenza dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dai loro successivi emendamenti. Si ricorda al riguardo che Malta non ha accettato gli emendamenti del 2004 relativi alla indicazione di un porto di sbarco sicuro.

3. Una volta espletata l’attività di primo soccorso il comandante della nave non può essere fermato in una posizione di stand by oppure obbligato a restare in acque internazionali a tempo indeterminato per il mancato accordo tra gli stati sulla individuazione del porto di sbarco sicuro Una prescrizione che non sempre è stata adempiuta tempestivamente, soprattutto quando sono venute in gioco questioni di competenza che ritardavano l’avvio delle azioni di soccorso, come nel caso, attualmente all’esame del Tribunale di Roma, della strage avvenuta a sud di Malta l’11 ottobre 2013.

4 .Al di là di casi isolati, come nel 2009 il caso del mercantile turco PINAR, verificatisi a seguito dei protocolli operativi del 2007 recepiti dal Trattato di amicizia tra Italia e Libia del 2008, prima del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli firmato nel febbraio del 2017, e prima della conseguente creazione (2018) di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) esclusivamente riferita ( almeno sulla carta) alle autorità libiche, è proprio dalla data di istituzione della cd. SAR “libica”, alla quale seguiva poi una intensa attività di contrasto dei soccorsi umanitari, che si intensifica il fenomeno dei soccorsi operati da navi commerciali. Anche a questo riguardo non è possibile generalizzare.

Occorre distinguere tra soccorsi operati da unità commerciali battenti bandiera italiana o bandiera estera, poi a seconda che si siano conclusi con lo sbarco a terra o con il trasbordo su un altra unità civile o militare, infine verificare se le persone sono state sbarcate in un porto sicuro in Italia, o a Malta, oppure se sono state vittime di un respingimento collettivo con lo sbarco in un paese terzo come la Libia nel quale non vi sono autorità statali che garantiscano il rispetto dei diritti fondamentali della persona. In quest’ultimo caso può anche scattare un procedimento davanti ad una Corte internazionale o davanti ad un Tribunale penale italiano.

4. Nell’estate del 2018, a giugno, subito dopo l’insediamento del governo giallo-verde guidato da Giuseppe Conte, si verificava una prima grave conseguenza della istituzione di una zona SAR libica”, attribuita alle competenze delle autorità tripoline e della corrispondente “Guardia costiera”, nel caso dei respingimenti eseguiti dal rimorchiatore battente bandiera italiana ASSO 29. Adesso su quel caso è stata aperta una vertenza legale nei confronti dello Stato italiano e della società armatrice. Un mese dopo si verificava un caso analogo con il rimorchiatore ASSO 28 Il 30 luglio 2018, il rimorchiatore battente bandiera italiana,“in assistenza alla piattaforma di estrazione ‘Sabratah’ della Mellita Oli & Gas”, aveva riportato a Tripoli oltre cento naufraghi soccorsi in acque internazionali.

I naufraghi erano stati soccorsi a 70 miglia dalla costa, oltre 120 chilometri, dunque in acque internazionali, da un mezzo commerciale che avrebbe dovuto rispondere ai comandi della Centrale di coordinamento della guardia costiera italiana a Roma (IMRCC), comandi che non ptvano arrivare al punto di ordinare un respingimento verso un porto libico. Già allora l’indirizzo dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati era chiarissmo. Ai sensi dell’art.33 della Convenzione di Ginevra del 1951 le persone soccorse in acque internazionali non potevano essere riportate in Libia perchè paese ritenuto “non sicuro”.

Nel mese di novembre del 2018 si verificava il caso del respingimento collettivo operato con l’impiego della nave commerciale NIVIN. La NIVIN con il suo carico di naufraghi, persone soccorse l’otto novembre 2018 in acque internazionali, a circa 60 miglia dalle coste libiche, restava per giorni ferma nella parte più interna del porto di Misurata, mentre i migranti (uomini, donne e minori, provenienti da paesi diversi non “sicuri”, Etiopia, Eritrea, South Sudan, Pakistan, Bangladesh e Somaliaesseri umani tutti assai vulnerabili per gli abusi subiti già prima della fuga dalla Libia) si rifiutavano di sbarcare, temendo di subire ancora altre torture nei centri di detenzione dai quali erano riusciti ad allontanarsi. In questo caso, è bene sottolienarlo, il primo coordinamento SAR veniva assunto da autorità italiane e maltesi, che duque nella prima fase dei soccorsi avevano il controllo esclusivo della nave e dei naufraghi che su questa erano imbarcati.

La NIVIN, che batteva bandiera panamense, era in rotta dall’Italia verso Misurata ( ultima posizione riferita prima dello spegnimento del transponder 34,41 Nord, 13,58 Est, con rotta 146 °, a circa 70 miglia da Misurata), quando riceveva una richiesta di intervento dalle autorità marittime competenti per le attività di ricerca e salvataggio, italiane e maltesi, per una operazione SAR (search and rescue) in favore di un barcone carico di un centinaio circa migranti, alla deriva in alto mare. Dalle rilevazioni rimaste disponibili al pubblico sembra che il soccorso fosse avvenuto al limite tra la zona SAR libica e quella maltese. Le stesse autorità italiane e maltesi indicavano successivamente al comandante della nave soccorritrice il trasferimento delle competenze di coordinamento al Comando congiunto della Guardia costiera di Tripoli (JRCC). Dopo giorni di stallo nel porto di Misurata, alla fine salivano a bordo le milizie libiche che, armi in pugno, costringevano i naufraghi a sbarcare a terra, e da quel momento salvo alcuni di loro che venivano ricoverati in ospedale per le ferite riportate durante lo sbarco violento, della maggior parte di loro si perdevano le tracce.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite risalente a quel periodo, con specifico riferimento al caso dei migranti intrappolati a bordo della NIVIN nel porto di Misurata, si osservava che “the humanitarian community reiterates that disembarkation following search and rescue should be to a place of safety, and calls for the peaceful resolution of the situation. Under all circumstances, obligations under International Human Rights Law must be respected to ensure the safety and protection of all rescued people. The humanitarian community continues to advocate for alternatives to detention and transfer from disembarkation points to appropriate reception facilities for assistance, screening and solutions. Anche la Commissione europea ribadiva in quegli stessi giorni che i naufraghi soccorsi in acque internazionali non avrebbero dovuto essere sbarcati in Libia.

Nel mese di giugno del 2019 era ancora un rimorchiatore di servizio alle piattaforme petrolifere offshore al largo della Libia, l’ASSO 25 ad essere chiamato ad operare un soccorso sotto il coordinamento delle autorità italiane e maltesi. Come riferiva il quotidiano Repubblica del 7 giugno 2019, “Il soccorso, avvenuto in acque Sar maltesi, è stato coordinato dalla sala operativa della Guardia costiera de La Valletta ma nelle ore precedenti i mezzi della Marina maltese avevano già soccorso e portato a terra tre gommoni con circa 370 persone. Altri due interventi, su gommoni alla deriva con diversi migranti già in acqua, erano stati condotti dalle motovedette libiche che avevano riportato indietro altre centinaia di profughi. l gommone con i 62 a bordo era già stato visto dall’alto dall’aereo di Pilotes Volontaires mercoledi pomeriggio e anche da altri velivoli europei ma nessuno è intervenuto in soccorso e i migranti sono stati costretti a passare la notte alla deriva. Ieri pomeriggio su richiesta della sala operativa maltese la Asso 25, che era la nave più vicina, ha preso a bordo i 62 migranti e poi ha ricevuto ordini di far rotta verso l’Italia”. In questo caso, anche a fronte del notevole numero di eventi di soccorso che si stavano verificando contemporaneamente, si assisteva ad una qualche collaborazione tra le autorità maltesi ed italiane, come invece non si sarebbe verificato in altri casi successivi.

Secondo quanto riferiiva il quotidiano La Sicilia del 29 luglio 2020, “La Guardia Costiera italiana ha coordinato il soccorso di un gommone semiaffondato con 84 persone a bordo in area sar di responsabilità libica. I migranti sono stati recuperati dalla nave Asso 19, in servizio presso le piattaforme Eni ed ora è diretta a Lampedusa. La decisione, spiega la Guardia costiera, è stata presa perché né la Libia, né Malta, né un’imbarcazione in servizio presso le piattaforme francesi della Total, avevano accettato di intervenire”. In realtà sembra adesso che la nave Asso 19 sia diretta verso il porto di Pozzallo, place of safety (POS) che le sarebbe stato assegnato dalle autorità italiane.

Come riferisce la stessa fonte,“Della presenza del gommone in fase di affondamento nei pressi della piattaforma petrolifera francese Total e del mancato intervento di soccorso della Via Aphrodite é stato allora informato il Centro di coordinamento di Soccorso francese, che ha risposto all’Mrcc italiano che nessuna nave di bandiera francese era coinvolta e che l’area Sar dell’evento era di competenza libica. La Guardia Costiera italiana, «persistendo il silenzio sia delle autorità maltesi che di quelle di Gibilterra», ha assunto allora il coordinamento del soccorso, inviando l’unità navale Asso 29, battente bandiera italiana in servizio alle piattaforme Eni.Alle 4.10 sono iniziate le operazioni di imbarco delle 84 persone presenti sul gommone, ormai quasi affondato, tra cui 6 donne e 2 bambini, conclusesi alle 4.35”.

5. Nel mese di maggio del 2020 si verificava il caso del respingimento in acque internazionali, durato cinque giorni, del cargo MARINA, poi fatto entrare per lo sbarco dei naufraghi a Porto Empedocle (Agrigento). Uno stallo, sulla pelle di equipaggio e migranti, frutto del braccio di ferro che le autorità italiane e maltesi che si rimpallavano la responsabilità di indicare un porto di sbarco sicuro. Quasi una anticipazione del caso ancora più grave della MAERSK ETHIENNE che si verificherà pochi mesi dopo.

Il caso della nave cargo Marina è sttao uno di quelli che potrebbe avere causato, quale effetto collaterale, una sequenza gravissima di omissioni di soccorsoIl mercantile era infatti una delle tre navi dirottate dal MRCC di Malta per la ricerca dell’imbarcazione poi soccorsa. Proprio il cargo Marina è quello che ha risposto alla richiesta di intervento con lieve ritardo rispetto alla nave cisterna maltese “Pyxis Epsilon” ed al cargo gemello “Karina”. Il mercantile Marina aveva navigato un po’ prima di accettare la disposizione che gli ordinava una attività SAR e tornare indietro per unirsi alle ricerche. Un incidente del genere, con una nave mercantile che viene di fatto sequestrata per cinque giorni da due Stati che non si mettono d’accordo, con a bordo 78 persone non previste dalle caratteristiche della nave e dalle scorte, non è stato certo un incentivo per gli interventi di soccorso in mare. Ogni giorno di sosta per una nave commerciale ha costi elevati che non sempre vengono coperti dalle assicurazioni.

Il conflitto tra i due Stati, Italia e Malta, si è giocato su uno schema in cui sono state del tutto stracciate le regole consolidate nelle prassi delle Autorità marittime e le Convenzioni internazionali. La nave Marina aveva operato in area SAR maltese, ma a 30 miglia dal porto di Lampedusa ed oltre 120 miglia da quello di Malta. Le autorità marittime di La Valletta avevano assunto, come dovuto, il coordinamento del soccorso ma spettava all’Italia la concessione del porto di sbarco essendo il proprio “place of safety” (luogo sicuro di sbarco) il più vicino. L’Italia però ha deciso di far valere il decreto interministeriale del 7 aprile 2020 ed opporre il proprio porto “non sicuro” per l’emergenza sanitaria a Malta che ne faceva richiesta. L’isola-Stato, a sua volta, ha contrapposto analoga misura presa l’indomani del decreto italiano – mai pubblicato in Gazzetta Ufficiale ma ancora in vigore – e quindi ha negato l’ingresso nelle proprie acque territoriali, insistendo sulla doverosa competenza delle autorità italiane che avrebbero dovuto indicare il porto sicuro più vicino.

6. Ancora più grave quanto si è verificato nel caso Vos Thalassa, per la rilevanza dei principi affermati dal tribunale di Trapani, poi ribaltati dalla Corte di Appello di Palermo. La sentenza emessa dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani il 23 maggio 2019, rilevava che «il potere della autorità libiche di impartire a quelle italiane direttive in vista del rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese…deriva dall’accordo stipulato tra Italia e Libia nel 2017», che però, in assenza di una approvazione parlamentare ai sensi dell’art.80 della Costituzione, sarebbe «giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa». La decisione del giudice trapanese, che, sulla base dei rapporti delle Nazioni Unite, rileva l’esposizione ad abusi dei migranti internati nei centri di detenzione libici, equipara le eventuali riconsegne di migranti alla Guardia costiera libica ad un «respingimento collettivo», vietato dalle Convenzioni internazionali. E infatti si osserva come. «se si riflette un momento sul fatto che i67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro (…)

La sentenza della Corte di Appello di Palermo “ribalta” questa impostazione, e dopo essere stata pubblicata con ampi stralci dal Corriere della sera, che all’epoca dei fatti aveva seguito con particolare attenzione la vicenda, dando anche spazio alle dichiarazioni dell’armatore della nave, che escludeva qualsiasi “dirottamento“, è finita in mano alla propaganda sovranista. Che ha prontamente colto l’occasione per un ulteriore difesa della linea di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e di collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica”, politica perseguita dall’ex ministro dell’interno Salvini, ma in realtà avviata già in precedenza da governi diversi, a partire dal 2007, per efffetto degli accordi stipulati nel tempo con le autorità di Tripoli.

Secondo quanto riferito dal Corriere della sera il 10 luglio 2020, “l”assoluzione dei due migranti dirottatori (definiti dai giudici di appello come «clandestini») deriverebbe da un «approccio ideologico», e costituirebbe una interpretazione addirittura «criminogena» del concetto di «legittima difesa applicata al diritto del mare», che potrebbe «creare pericolose scorciatoie”, ammetendo «condotte dotate di grande disvalore penale ai limiti dell’ammutinamento»: al punto che «chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare da una unità italiana, sicuro di potere minacciare impunemente l’equipaggio qualora esso dovesse disobbedire a un ordine impartito dalla Guardia Costiera di uno Stato» (la Libia) «che, piaccia o no, è riconosciuto internazionalmente».

Per la Corte di Appello di Palermo, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe dunque configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché «i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione».

Sembra non assumere rilievo per i giudici della Corte di Appello di Palermo tanto la gravità e l’attualità del pericolo corso in Libia dai naufraghi raccolti a bordo della Vos Thalassa, quanto testimoniato nel processo di primo grado da alcuni migranti che avevano descritto con dettagli agghiaccianti le violenze subite prima della partenza, non certo volontaria, verso le coste italiane. Una donna, in particolare, aveva testimoniato, davanti al GUP di Trapani, di essere stata rinchiusa per giorni, prma dell’imbarco, all’interno di una casa adoperata dai trafficanti (probabilmente una connecting house) e di avere subito più volte violenze sessuali. Come sarebbe potuto avvenire di nuovo in caso di suo ritorno a terra, in base a quanto documentato dalle agenzie delle Nazioni Unite sulla sorte dei migranti riportati in Libia. La situazione di qiesta persona e delle altre soccorse dal rimorchiatore Vos Thalassa non era certo “volontariamente determinata”, ma era frutto di una condizione di grave e continuata violenza e di totale privazione dei diritti umani, ai quali neppure il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, riusciva a porre rimedio. Ma anche questo punto dela motivazione fornita dal Tribunale di Trapani, nel successivo giudizio di appello rimane privo di rilievo. La valutazione anticipata della situazione di pericolo nella quale si sarebbero messi i naufraghi soccorsi dalla Vos Thalassa, operata dai giudici della Corte di appello di Palermo al fine di escludere la ricorrenza della legittima difesa, sembrerebbe muovere da un presupposto, potremmo dire ideologico, e non giuridico, che se può avere un fondamento in qualche massima della Corte di Cassazione relativamente a vicende criminali avvenute in circostanze di fatto assai diverse, andrebbe attentamente rivalutato alla luce della normativa sovranazionale e delle specifiche circostanze di fatto verificatesi nel caso del soccorso in mare, in acque internazionali, da parte di un rimorchiatore battente bandiera italiana.

Si deve rilevare che i naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana, si trovavano in territorio italiano sin dal momento in cui erano saliti a bordo di questa imbarcazione, e che se fossero stati ricondotti in Libia a bordo della stessa, avrebbero potto subire trattamenti inumani o degradanti e si sarebbe potuto configurare un respingimento collettivo, vietato dall’art. 4 del quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, analogo a quello disposto dal ministero dell’interno nel 2009, quando la motovedetta della Guardia di finanza Bovienzo riportò a Tripoli alcune decine di migranti intercettati in acque internazionali. Per quel respingimento collettivo (caso Hirsi), e per i trattamenti inumani e degradanti che ne derivarono, l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con una sentenza che non può essere ignorata dai giudici italiani. Anche nel 2018 e ancora oggi sono migliaia i naufraghi intercettati in acque internazionali e riportati a terra dalla sedicente Guardia costiera “libica” ed a chiunque si trovi intrappolato in quei territori sono ben note le conseguenze di questi respingimenti collettivi. I naufraghi “ribelli” raccolti nel 2019 dalla Vos Thalassa potevano certo rappresentarsi cosa li avrebbe attesi al loro ritorno in Libia.

Si deve ricordare che ancora nel mese di maggio del 2019 era proprio una nave militare italiana della missione Mare Sicuro, la Cigala Fulgosi ad intervenire nella cosiddetta zona SAR “libica” ed a trasbordare poi i naufraghi su un altra nave militare che infine li sbarcava ad Augusta. Certo si tratttava di una nave militare italiana, e non di una nave commerciale o di una nave delle ONG, ma in quel caso era evidente che di fronte allla salvaguardia della vita umana in mare doveva cedere la rigida ripatrizione delle zone SAR, altrimenti rivendicata da chi voleva ordinare alle unità civili che avessero soccorso naufraghi in quelle stesse acque, di ricondurli in un porto libico. Da quell’episodio in poi le numerose navi comprese nella missione Mare Sicuro non fecero più interventi di ricerca e salvataggio che si conoscano pubblicamente. Da ambienti vicini ai vertici della Marina militare erano venute infatti critiche alla gestione di quell’operazione SAR, rilevandosi ” La nostra Unità avrebbe potuto con difficoltà allontanarsi dal teatro d’operazioni stante l’esigenza di assicurarne una sorveglianza continua. Proprio per questo ci saremmo aspettati una richiesta di intervento alla Guardia costiera libica, competente nella propria Sar, da noi assistita nell’ambito dei progetti finanziati dall’Ue e della cooperazione bilateraleed addestrata anche da Eunavformed Sophia (che, pur avendo interrotto le attività navali, ha conservato questa funzione)”. Al pari della missione Mare Sicuro, non risultano interventi recenti con attività di ricerca e salvataggio delle numerose unità navali appartenenti alla missione europea IRINI, ultima versione di EUNAVFOR MED, che proprio per evitare di intervenire sulle rotte più battute dai migranti in fuga dalla Libia, ed al fine dichiarato di garantire l’embargo di armi verso le milizie libiche che non si riconoscono nel governo di Tripoli, è stabilmente ubicata di fronte alle coste della Cirenaica e non della Tripolitania.

Come afferma Matteo de Bellis, ricercatore presso Amnesty International, in una dichiarazione rilasciata a VICE News:“Gli europei non possono incaricare una nave di soccorso di sbarcare in Libia – è illegale – quindi hanno creato un sistema in base al quale gran parte del coordinamento dei respingimenti viene svolto dagli europei , con risorse europee, ma usando i libici come una cortina fumogena legale. È accettabile che gli stati dell’UE ingannino il diritto internazionale e rimandino le persone alla tortura senza essere responsabili? “

Tom Garofalo, il Country Director dell’IRC in Libia, ha dichiarato: “Assolutamente nessuno dovrebbe essere detenuto nei centri di detenzione della Libia – soprattutto un bambino. Da marzo di quest’anno, abbiamo fornito assistenza medica di emergenza a oltre 3.800 persone che cercavano sicurezza in Europa ma sono state riportate in Libia dal mare, tra cui oltre 200 bambini. Molti sono in pessime condizioni al loro ritorno: alcuni sono stati in mare per settimane. Alcuni hanno visto compagni passeggeri morire davanti ai loro occhi. Quando vengono sbarcati, le persone che hanno sofferto così tanto hanno bisogno di supporto, specialmente di cure psicosociali, ma vengono invece inviate ai centri di detenzione dove il supporto è estremamente limitato”.

7. La tesi propugnata per anni dal Viminale e quindi dal ministro dell’interno Lamorgese, che i porti di sbarco devono essere indicati e garantiti dalle autorità di bandiera delle navi soccorritrici, tesi smentità dalle autorità europee e dal diritto internazionale, ha poi “prodotto” il caso della nave Maersk Ethienne, bloccata per settimane, tra agosto e settembre dello scorso anno, al largo di Malta, e poi concluso con il trasbordo sul rimorchiatore Mare Ionio, della ONG Mediterranea, a bandiera italiana. Le autorità maltesi per oltre un mese rifiutavano lo sbarco di naufraghi soccorsi nella vasta zona SAR loro riconosciuta, che si estende fino a lambire le acque etrritoriali tunisine.

Il Centro Svizzero per la Difesa dei Diritti Umani (CSDM) insieme a Sea Watch, Mediterranea e Alarm Phone il 4 settembre 2020 avevano firmato un appello urgente allo Special Rapporteur delle Nazioni Unite per le Torture e i Diritti dei Migranti, aggiornato il 7 settembre successivo dopo i tentati suicidi, chiedendo di intervenire urgentemente. Anche l’UNHCR e l’OIM insieme all’ICS (International Chamber of Shipping) hanno richiesto l’urgente sbarco delle 27 persone a bordo per ribadire l’importanza del soccorso in mare ottemperando alle convenzioni internazionali.

Secondo quanto denunciavano l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati e l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, un gruppo di 27 migranti e rifugiati, fra cui una donna incinta e dei bambini, partiti dalla Libia, sono rimasti a bordo della Maersk Etienne da un periodo inaccettabile di tre settimane dal loro salvataggio, avvenuto il 5 agosto 2020. Secondo le Nazioni Unite “Occorre(va) trovare una soluzione e fornire urgentemente alla nave un porto sicuro per lo sbarco. Una petroliera non può essere considerata come un luogo adatto a trattenere persone bisognose di assistenza umanitaria o che potrebbero aver bisogno di protezione internazionale. Una volta raggiunta la terraferma potranno essere attuate le misure appropriate di prevenzione del COVID-19”.

Come è noto su questa vicenda si è poi innescato un procedimento penale nei confronti dei soccorritori a bordo del rimorchiatore Mare Ionio, sul quale al di fuori delle acque territoriali di malta che vietava l’accesso, erano stati trasbordati i naufraghi in vista del loro sbarco in un porto sicuro in Italia. La procura di Ragusa contesta che i naufraghi a bordo della Maersk Ethienne si trovassero in pericolo di vita, e ritiene responsabili i soccorritori della Mare Ionio sulla quale gli stessi erano stati trasbrdati dopo settimane di attensa di un POS (place of safety) indicato da Malta, per poi sbarcare nel porto di Pozzallo, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Come scriveva Fabio Albanese sulla Stampa la sera del 12 settembre 2020 “I migranti della Maersk Etienne hanno avuto il porto sicuro. Lo ha concesso questa sera l’Italia attraverso l’Mrcc, la sala operativa della Guardia costiera, e il Viminale. I migranti, che ieri pomeriggio erano stati presi in carico dalla nave Mare Jonio della Ong italiana Mediterranea saving humans dopo 38 giorni in attesa sulla petroliera danese Etienne davanti alle acque territoriali di Malta, sono stati autorizzati a sbarcare subito a Pozzallo «per motivi sanitari».

Nessuno ricorda oggi che, dopo un mese e oltre di blocco in alto mare sulla nave Maersk Etienne, alcuni naufraghi si erano gettati in acqua e altri minacciavano di farlo perché nessuno Stato e nessuna autorità marittima avevano indicato un porto sicuro di sbarco come e’ imposto dalle Convenzioni internazionali. Forse le autorità statali volevano fare pagare alla compagnia di navigazione la decisione di puntare su Malta, che però sembrava avere assunto il coordinamento iniziale delle attività SAR (ricerca e salvataggio), e poi rifiutava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, che sarebbe stata imposta dal Diritto internazionale del mare. Forse si voleva punire la scelta del comandante della Maersk Etienne di non sbarcare i naufraghi in un porto africano, o una disobbedienza all’ordine implicito di riportare indietro i naufraghi.

Alla fine la Mare Jonio aveva trasbordato e condotto i naufraghi nel porto di Pozzallo con l’avallo del governo italiano, come riferito anche dalla stampa maltese, e sotto il coordinamento della Centrale di comando della Guardia costiera italiana (IMRCC). Adesso quella azione di soccorso viene considerata come agevolazione dell’immigrazione “clandestina” (art.12 del Testo Unico n.286/98) perché si sarebbe scoperto un trasferimento di denaro, forse una donazione, tra le due società armatrici della Mare Ionio e della Maersk Etienne. Ma questo tentativo di configurare a qualunque costo una resposabilità penale, in base all’art. 12 del T.U. sull’immigrazione n.286/98, comunque non incide sulle regole di diritto internazionale e di diritto interno che disciplinano l’obbligo degli Stati di garantire la indicazione di un porto di sbarco sicuro. E sono queste regole che cancellano la sanzionabilità delle attività compiute dalla Mare Ionio, atteso che anche il nostro ordinamento, all’art. 10 ter del T.U. n.286/98 distingue chiaramente l’ingresso clandestino, dall’ingresso “per ragioni di soccorso”, che nel caso delle persone a bordo della Maersk Ethienne da 27 giorni non sarà facile escludere.

Come osserva Alessandra Algostino, “L’obbligo di salvataggio delle vite in mare, che si conclude con lo sbarco in un porto sicuro, costituisce un dovere degli Stati che prevale sulle direttive ministeriali in tema di porti chiusi, così come non può essere limitato da un decreto interministeriale, come quello adottato il 7 aprile 2020[ resta, peraltro, che, anche se, invece che con un decreto, la chiusura dei porti fosse stata disposta con una fonte primaria, essa, in quanto incidente su diritti garantiti dalla Costituzione e dal diritto internazionale dei diritti umani (ex artt. 10, c. 1, e 117, c. 1, Cost.), incontrerebbe comunque un confine invalicabile nel principio di centralità della persona e dei suoi diritti, nel principio di solidarietà e, nello specifico, nella considerazione che alcuni diritti universali (come il diritto alla vita o il divieto di tortura) non possono essere oggetto di bilanciamenti o limitazioni.

8.  Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione, III Sez. pen., sent. n. 112, 16 gennaio 2020, “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.

Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR deve tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro. Altrimenti sarebbe molto semplice per gli stati liberarsi dei propri obblighi di ricerca e salvataggio a discapito delle persone che vanno soccorse in acque internazionali. Come non è consentito ricorrere al consueto espediente di trasferire la responsabilità SAR sulla Centrale di coordinamento (MRCC) del paese di bandiera della nave soccorritrice, distante magari migliaia di chilometri dall’area dei soccorsi.

 Che valenza possono avere oggi le estese zone SAR attribuite a Malta o alle autorità tripoline? Nessuna autorità nazionale può pensare che, collaborando con la sedicente Guardia costiera libica, non rispondendo alle richieste di soccorso o di designazione di un porto di sbarco sicuro, o negando l’ingresso nelle acque territoriali, come bloccando arbitrariamente navi certificate da autorità straniere, si possa evitare di assumere una qualsiasi responsabilità sul piano internazionale, una responsabilità che potrebbe essere rilevante anche sul piano del diritto interno.

Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello Stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio.  Spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della guardia costiera (IMRCC) di Roma, indicare con la massima sollecitudine un porto di sbarco sicuro, anche se l’evento SAR si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella zona di ricerca e salvataggio maltese o in quella “libica”. Una zona Sar che ancora non corrisponde ad uno stato unitario, che rispetti il diritto di asilo ed i migranti in transito, e che disponga di una centrale operativa nazionale per i soccorsi.

Si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionale di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 CNUDM) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.). Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”

Come ha ricordato in diverse occasioni l’Autorità garante per le persone private della libertà personale“l’interdizione all’ingresso costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale…) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. Non si possono adottare provvedimenti amministrativi che intaccano i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attivita’ dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attivita di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety.

9. Un Rapporto congunto delle principali agenzie umanitarie delle Nazioni Unite denuncia il mancato coordinamento dei soccorsi nel Mediterraneo centrale al tempo dell’emergenza da COVID 19..

Il comunicato in italiano delle diverse organizzazioni delle Nazioni Unite (UNHCR-OCHA-UNICEF-UNFPA-WFP-OMS-OIM) pubblicato il 14 maggio 2020 rende solo parzialmente la portata della denuncia contenuta in un coevo rapporto redatto dall’OIM in lingua inglese, trascurando la situazione di grave abbandono che soffrono i naufraghi nelle acque del Mediterraneo centrale. Una situazione che non è certamente imputabile soltanto alle autorità libiche, ma che chiama in causa direttamente i governi italiano e maltese, e l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX. Viene comunque confermata la mancanza di trasparenza, oltre che di interventi tempestivi, da parte di tutte le autorità statali e dell’agenzia FRONTEX, coinvolte a vario titolo nelle attività di ricerca e salvataggio sulla cd. “rotta libica” ( e tunisina).

Secondo il rapporto dell’OIM “COVID-19 Control Measures, Gap in SaR Capacity Increases Concern About ‘Invisible Shipwrecks’ del 12 maggio scorso, “Le misure attuate dai governi in risposta a COVID-19, tra cui chiusure di porti, ritardi nello sbarco e la ridotta presenza di navi di ricerca e salvataggio sulla rotta sempre più trafficata del Mediterraneo centrale, stanno sollevando serie preoccupazioni sul destino delle navi in pericolo e le cosiddette ” naufragi invisibili “. “Stiamo assistendo a un costante aumento del numero di navi sull’acqua di cui siamo a conoscenza e l’assenza di operazioni di ricerca e salvataggio statali e guidate da ONG rende difficile sapere tutto ciò che sta accadendo in mare”, ha affermato Frank Laczko, direttore del Global Data Migration Data and Analysis Center di IOM. “La risposta a COVID-19 ha avuto un impatto decisivo sulla nostra capacità di raccogliere dati precisi. La rotta del Mediterraneo centrale rimane la più pericolosa rotta di migrazione marittima sulla terra e, nel contesto attuale, sono cresciuti i rischi che naufragi invisibili lontani dalla percezione della comunità internazionale ”.

Secondo quanto riporta AFP giorno 8 maggio 2020, le Nazioni Unite “hanno espresso allarme per le notizie secondo cui i paesi non riescono ad aiutare i migranti in difficoltà nel Mar Mediterraneo, bloccando l’assistenza delle ONG e coordinando i respingimenti delle loro imbarcazioni. Il portavoce dell’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite Rupert Colville ha avvertito durante un briefing virtuale sulla stampa che tali misure “stanno chiaramente mettendo a rischio la vita”Siamo profondamente preoccupati per le recenti segnalazioni di incapacità di assistere e coordinare i respingimenti delle imbarcazioni migranti nel Mediterraneo centrale, che continua ad essere una delle rotte migratorie più mortali al mondo”.

Il Rapporto dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Colville si conclude con la richiesta di una moratoria su tutte le intercettazioni e i respingimenti in Libia. Quindi l’accorato appello :“In conformità con le nostre linee guida recentemente pubblicate su COVID-19 e sui migranti, ribadiamo che gli Stati devono sempre rispettare i loro obblighi ai sensi dei diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale e del diritto dei rifugiati”. Secondo Rupert Colville, nonostante il COVID-19, le operazioni SAR ( ricerca esalvataggio) dovrebbero essere mantenute e lo sbarco rapido assicurato in un porto sicuro (place of safety), garantendo al contempo la compatibilità con le misure di sanità pubblica. Come si conciliano queste posizioni con il mantenimento di una zona SAR riservata alle autorità di Tripoli, che non controllano per intero neppure il loro territorio nazionale ? Non è ormai assodato che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali e politiche, ancora oggi non può garantire alcun luogo di sbarco sicuro (place of safety) ?

Non si comprende a questo punto cosa si attenda, da parte delle Nazioni Unite, e dunque dall’IMO, per sospendere la registrazione della cd. SAR libica effettuata nel giugno del 2018 dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare), che pure è un organo delle stesse Nazioni Unite, zona SAR “libica” che da tempo costituisce la base per la collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica” sulla quale Malta, Italia ed Unione Europea hanno basato le loro politiche di guerra ai soccorsi umanitari e di esternalizzazione dei respingimenti, delegati alle motovedette donate al governo di Tripoli e coordinate da assetti aerei e navali italiani ed europei. 

 10. Di fronte al fallimento evidente delle politiche di contrasto dei soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale, ed in assenza tanto di un intervento dell’Unione europea, che di un piano nazionale sbarchi, gestibile senza tradursi nel ricorso alla consueta detenzione amministrativa indiscriminata, magari con il pretesto del rispetto degli obblighi di quarantena, non si può pensare di scaricare sul naviglio commerciale gli obblighi di soccorso che incombomo orimariamente alle autorità statali ed europee, nè sembra ammissibile utilizzare le navi commerciali per operazioni di push-back con il trasferimento fittizio delle responsabilità di coordinamento alla sedicente Guardia costiera “libica”. Dietro la finzione della zona SAR “libica” si è consumata la guerra alle Organizzazioni non governative, a partire dal Codice di condotta Minniti nel 2017, ed oggi si ripresenta il rischio che una parvenza di normalizzazione nei rapporti tra le diverse milizie che ancora si contendono il territorio libico possa legittimare una politica di cooperazione ancora più stretta tra gli Stati europei, Frontex e inuovi assetti di governo che si stanno configurando in Libia. Con l’unico risultato di mantenere chiuse tutte le vie di fuga legali, e di utilizzare il contrasto dell’immigrazione illegale per giustificare il ritorno a terra dei migranti soccorsi/intercettati in mare, magari già in acque internazionali, verso un paese che non garantisce ancora porti sicuri di sbarco. Per queste ragioni occorre rilanciare alcune richieste fondamentali.

A) Vanno sospesi tutti gli accordi bilaterali di cooperazione di polizia con quei paesi terzi che non rispettano i diritti umani e che non sono in grado di garantire alle persone migranti presenti nei loro territori il rispetto dei diritti umani e i soccorsi in mare con lo sbarco in un porto sicuro (place of safety). Sono questi accordi che hanno natura “criminogena” e non le decisioni dei giudici che dichiarano nullo il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 3 febbraio 2017.

Va di converso rilanciata la cooperazione rafforzata con quei paesi europei che condividono l’esigenza primaria della salvaguardia della vita umana in mare e dei diritti umani nei paesi terzi, senza attendere che tutti i paesi europei possano procedere all’unanimità, condizione oggi evidentemente impossibile da realizzare. L’Agenzia FRONTEX deve essere riportata sotto il controllo politico e finanziario del Parlamento europeo, senza gestire autonomamente rapporti con paesi terzi che violano quotidianamente i diritti fondamentali delle persone che fuggono proprio da questi paesi per la mancanza di pace e democrazia, oltre che per le crescenti difficoltà economiche che, ai tempi del COVID 19, finiscono per rendere impossibile la sopravvivenza. In questo quadro Malta dovrà accettare gli emendamenti del 2004 alla Convenzione di Amburgo del 1979 e procedere sollecitamente alla indicazione di un porto sicuro di sbarco in cooperazione con le autorità italiae, salvo un ridimensionamento della vastissima zona SAR maltese che la piccola città-Stato non è evidentemente in grado di controllare garantendo il rispetto degli standard in materia di ricerca e salvataggio in mare (SAR) imposti dalle Convenzioni internazionali.

B) Va sospeso il riconoscimento intenazionale di una zona SAR ( ricerca e salvataggio) “libica”, dal momento che è documentata in rapporti delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni internazionali la sorte che attende le persone intercettate in acque internazionali e riportate a terra. In quella che oggi viene ancora impropriamente definita come zona SAR “libica”, mentre non esiste ancora uno stato libico unitario, vanno organizzate missioni internazionali di soccorso a guida europea, con la successiva redistribuzione diretta dei naufraghi, una volta sbarcati nei porti sicuri più vicini, dunque in Italia o a Malta, verso gli altri paesi europei che vi prendono parte. Le navi umanitarie delle ONG non posono essere impiegate in sostituzione dei mezzi di soccorso che gli stati non apprestano più.

C) Va organizzato il coordinamento tra le autorità maltesi e quelle italiane per garantire il rispetto delle Convenzioni internaionali di diritto del mare nelle rispettive zone SAR ed in particolare nella zona SAR “sovrapposta” tra Malta ed Italia a sud di Lampedusa tra 24 e 40 miglia a sud di Lampedusa. Occorre monitorare le attività dei mezzi utilizzati da Malta nella propria zona SAR, per impedire che proseguano i respingimenti collettivi verso la Libia affidate a flottiglie di pescherecci privati che operano su mandato delle autorità di La Valletta. Il ricorso alle navi commerciali per attività SAR deve costituire l’estrema soluzione in caso di mancanza di altre unità che possano operare con maggiore tempestività. Per questa ragione deve cessare la guerra contro i soccorsi umanitari operati dalle ONG che devono essere considerati attori legittimi nelle attività SAR, come succedeva peraltro fino al 2016.

Appare probabile che questo governo e questo Parlamento non siano in grado di procedere ad una svolta reale nelle politiche migratorie e persino nella politica estera, fin qui ondivaga sul dossier Libia e troppo cedevole con regimi come quello di Erdogan in Turchia e di Al Sisi in Egitto. Come in tempi di pandemia appare assai imptobabile che si formi consenso politico a livello europeo attorno ad una nuova missione di soccorso nel Mediterraneo centrale, sul modello dell’operazione Mare Nostrum nel 2014. Si tenderà pittosto a dare per scontati processi di normalizzazione in Libia che dovrebbero legittimare forme ancora più intense di collaborazione con le milizie e con la Guardia costiera di quel paese, oltre al persistente impegno di assistenza garantito dalla missione italiana Nauras della Marina militare, presente a Tripoli dal 2018. Sul piano processuale si tenterà di ribaltare le tante decisioni di non luogo a procedere o di archiviazione rilanciando le iniziative giudiziarie contro le ONG. E le responsabilità del naviglio commerciale coinvolto nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale diventeranno sempre maggiori, almeno fino a quando i comandanti delle navi non si rifiuteranno di intervenire o fingeranno di non vedere le imbarcazioni da soccorrere proprio sulla loro rotta.

E’ ormai chiaro che la giustizia non si realizza soltanto attraverso i Tribunali. Tutti coloro che si opporranno alle scelte di salvaguardia della vita umana in mare e di allargamento delle vie di fuga per chi si trova intrappolato in Libia, porteranno la responsabilità non solo delle vittime in mare, naufraghi per abbandono o per rimpallo delle responsabilità, ma anche della reiterata violazione delle regole dello Stato di diritto e del diritto internazionale su cui si dovrebbero basare le democrazie moderne.