Perché si devono “salvare i migranti dai libici”, e dai governi europei.

di Fulvio Vassallo Paleologo

Secondo quanto riferisce l’ANSA oggi sarebbero annegate “almeno 15 persone nelle acque libiche e 95 sono sopravvissute, portate a riva dalla Guardia costiera libica”. Questo il bilancio fatto dall’OIM, Organizzazione internazionale delle migrazioni, facente capo alle Nazioni Unite. Da una agenzia di ADN KRONOS di ieri 27 febbraio, si ha notizia che ci sarebbero state“142 persone catturate da Guardia costiera libica”. Nelle stesse ore la nave Sea Watch 3 riusciva ad operare ben quattro interventi di soccorso prendendo a bordo oltre trecento persone, mentre altre quattro imbarcazioni venivano avvistate alla deriva nel Mediterraneo centrale da un aereo appartenente ad una organizzazione umanitaria. Secondo l’OIM, i naufraghi intercettati in mare e riportati a terra per essere rinchiusi nuovamente nei centri di detenzione, dopo essere stati “recuperati” dalla Guardia costiera libica, sarebbero da inizio anno sono più di 3700.

Sembra quindi ancora crescente il ruolo della sedicente Guardia costiera libica nelle attività di intercettazione in acque internazionali, ed è innegabile come ad ogni intervento di “soccorso” operato dei libici seguano notizie di vittime in mare, o di persone “scomparse” a terra, dopo lo sbarco in un porto libico. Ma per qualcuno la Libia, o almeno quel territorio diviso senza un governo centrale con il quale tutti si dovrebbero confrontare, è un “paese terzo sicuro,” con il quale concludere accordi di cooperazione di polizia, come il Memorandum d’intesa del 2017, firmato da Gentiloni, e come i successivi accordi tra Malta ed il governo di Tripoli, in base ai quali le motovedette libiche, in parte donate ed assistite dall’Italia, sono entrate in acque che rientrano nella zona SAR maltese per andare a “riprendersi” i migranti in fuga. E chi opera soccorsi in acque internazionali, nella fantomatica zona SAR ( di ricerca e salvataggio) attribuita al governo di Tripoli, che non controlla neppure l’intero territorio nazionale, continua a destare sospetti.

Dopo la decisione del Giudice dell’Udienza preliminare di Ragusa che  proscioglieva  il Comandante e il Capo missione della nave Open Arms, imputati per violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per un soccorso in acque internazionali operato nel marzo del 2018, secondo quanto riferito in un commento riportato dal Giornale di sabato 20 febbraio scorso  il Procuratore di Ragusa  ribadiva le pesanti accuse  già formulate in precedenza nei confronti dei due operatori umanitari. Secondo il Procuratore di Ragusa “se passerà il principio che si debbano salvare I migranti non solo da un possibile naufragio quanto dai libici si rischia che chiunque possa organizzarsi per traghettare migranti in Italia non necessariamente per finalità esclusivamente umanitarie”. Negli atti processuali non si rinviene però traccia di attività che sarebbe stata svolta” non necessariamente per finalità esclusivamente umanitarie” , dai due imputati, prima prosciolti, per cui si continua a chiedere il giudizio.
La tesi sostenuta dalla Procura di Ragusa che ha richiesto alla Corte di Appello di Catania l’annullamento della sentenza di proscioglimento, con il rinvio a giudizio del comandante Capo missione di Open Arms, individua il reato di violenza privata a carico dei due rappresentanti della ONG “per avere il costretto le autorità italiane e per esse il capo del dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Ministero degli Interni deputato all’ indicazione del porto di sbarco a concedere approdo in un porto italiano”,   e per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “avendo introdotto in Italia naufraghi nel marzo del 2018 dopo due eventi SAR ( ricerca e salvataggio) in zona libica”,  Al di là dell’esito che avrà questa impugnazione sotto il profilo processuale,  la posizione del Procuratore di Ragusa sembra corrispondere all’orientamento politico di governo, sia di quello in carica che di quello che lo ha preceduto,  che non sembrano discostarsi nei fatti dall’affermazione secondo la quale “ non si può far passare il principio di salvare I migranti dai libici”.

Se appare sorprendente  che una parte della Magistratura  continui a trascurare il disposto dalle Convenzioni internazionali nel senso di gerarchia delle fonti chiaramente ribadito dall’ordinanza della Corte di Cassazione del 20 febbraio dello scorso anno sulla mancata convalida degli arresti della comandante Rackete, dopo il suo ingresso in porto a Lampedusa, il 29 giugno del 2019,  non sorprende affatto che governi di segno diverso condividano  nella sostanza lo stesso principio di abbandono dei migranti ai libici,  per privilegiare la difesa dei confini nazionali e le esigenze di sicurezza pubblica. Tanto da evitare persino di dichiarare gli eventi di ricerca e soccorso SAR, non appena avuta notizia, come sarebbe prescritto dalle Convenzioni internazionali, e ribadito adesso dal Decreto (De Micheli) del Ministro delle infrastrutture del 4 febbraio scorso. Si giunge persino  a qualificare come “eventi migratori ” le attività di  salvataggio in mare,  anche a seconda delle unità di soccorso commerciali o umanitarie  che prendono i naufraghi a bordo e della zona di mare nel quale si trovano le imbarcazioni da soccorrere.

Sembra davvero che prevalga una visione rovesciata dei diritti umani ed una considerazione fortemente riduttiva del diritto alla vita e della dignità delle persone migranti che, una volta riprese dalle autorità libiche sono soggette ad ogni tipo di violenza, come confermato di recente da numerosi rapporti  delle principali agenzie  delle Nazioni Unite.

Non sì  possono qualificare soltanto come “attività di salvataggio” le operazioni di intercettazione  in acque internazionali da parte della sedicente Guardia Costiera Libica assistita da assetti aerei di Frontex  e dall’operazione Nauras della Marina Militare Italiana, ancora di stanza Tripoli, senza ammettere  che la finalità di combattere la cosiddetta “immigrazione clandestina” assume rilievo prevalente rispetto al diritto alla vita e all’integrità fisica dei naufraghi intercettati in mare. Eppure il Protocollo contro il traffico di esseri umani, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che vieta i respingimenti collettivi (art.19),  ed il Regolamento Frontex n.656 del 2014,  stabiliscono proprio il principio inverso, e cioè che il diritto alla vita  debba prevalere sulle finalità di difesa delle frontiere  Non si può escludere  questo stesso principio quando i soccorsi  in acque internazionali  siano operati da imbarcazioni appartenenti alle organizzazioni  non  governative,  magari a differenza di quanto invece si riconosce  quando a intervenire siano mezzi commerciali  per i quali si applicano regole diverse anche rispetto  ai divieti di respingimento ed agli obblighi  di quarantena.

Chiedere l’assegnazione di un porto sicuro di sbarco, magari in tempi che non ledano ulteriormente la dignità e la salute dei naufraghi, non può essere considerata come una pressione indebita sulle istituzioni statali. Non sono certo le navi delle ONG ad esercitare pressioni sull’Italia, quando si tratta di sbarcare naufraghi soccorsi in acque internazionali. Lo impone il diritto internazionale del mare, che troppi fingono di ignorare. quando non se ne possono fornire interpretazioni di comodo, funzionali ad assecondare gli indirizzi politici del momento.

L’opinione pubblica italiana, dopo anni di guerra  nei confronti dei soccorsi umanitari,  e ormai  orientata, in prevalenza  a criminalizzare qualsiasi intervento di salvataggio che si concluda con lo sbarco In un porto italiano.  Come se questo integrasse gli estremi di un reato di immigrazione clandestina  malgrado i tribunali italiani non siano riusciti a portare a termine un solo processo nei confronti degli  operatori delle ONG  imputati per questo reato, previsto dall’art. 12 del T.U. 286/98 sull’immigrazione, che nel tempo ha assunto una portata applicativa sempre più generica.  Non è stata neppure fissata, a distanza di 3 anni dal sequestro dell’imbarcazione, l’udienza preliminare  per il caso  Iuventa, che nel 2017, subito dopo il Codice di condotta Minniti, costituì il primo banco di prova per le politiche di criminalizzazione dei soccorsi in mare.
Non solo non ci sono ancora condanne nei tribunali italiani, ma si contano numerosi casi di proscioglimento nei confronti dei rappresentanti delle organizzazioni non governative  che nel tempo hanno salvato decine di migliaia di persone dal mare  e dalla sedicente Guardia Costiera Libica.

Appare invece sempre più evidente come alla guerra contro i soccorsi in mare operati dalle ONG sia corrisposto il sostanziale ritiro di tutti gli assetti navali, tanto europei quanto italiani ,che fino al 2017 avevano garantito salvataggio di centinaia di migliaia di persone nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Basta confrontare I dati ufficiali forniti dalla guardia costiera italiana per il 2017  con l’attuale silenzio  delle istituzioni italiane ed i dati più recenti ancora forniti dalle Nazioni Unite, per avere la prova di come si sia creato uno spazio vuoto proprio sulle rotte  del Mediterraneo centrale, che dovrebbe valere come deterrente rispetto alle  partenze di imbarcazioni dalla Libia e dalla Tunisia. E’ evidente che in questa situazione  è ancora più facile rilanciare l’accusa nei confronti delle ONG,  la cui presenza in mare costituirebbe un “fattore di attrazione” (pull factor) tesi chiaramente diffamatoria, smentita oltre che dagli studiosi anche dagli arrivi sempre più numerosi di persone che sbarcano in autonomia sulle coste di Lampedusa, salpando dalla Libia e dalla Tunisia anche quando le navi delle ONG sono bloccate nei porti per i provvedimenti di fermo amministrativo  imposti dalle Capitanerie di porto  in modo coordinato a livello nazionale, su evidente indirizzo  del Ministero delle Infrastrutture. Si è ancora in attesa di un pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla legittimità di questi provvedimenti, che si richiamano anche ad una Direttiva europea, ma nel frattempo la maggior parte delle navi umanitarie rimane bloccata in porto, come la Sea Watch 4 ferma nel porto di Palermo dal mese di settembre del 2020.

L’accusa rivolta alle ONG che faciliterebbero le partenze dalla Libia con la loro stessa presenza in acque internazionali viene smentita dalle stragi sempre più frequenti che si verificano quando i soccorsi sono affidati esclusivamente alla Guardia Costiera Libica,  ancora priva di una vera centrale MRCC (Centrali di coordinamento dei soccorsi) e di mezzi adeguati ad effettuare davvero salvataggi  nella vastissima zona SAR che le è stata riconosciuta a partire dal mese di  luglio 2018.  Un riconoscimento  fittizio che copre soltanto  respingimenti collettivi illegali su delega  delle autorità europee e italiane e che trova la sua base  nel Memorandum d’Intesa  stipulato nel 2017 con la Libia, dopo gli accordi stipulati nel 2007 e nel 2008. Nella stessa logica è rimasto al tempo della pandemia il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020 ed il recente Decreto immigrazione del dicembre dello scorso anno, che non hanno innovato nella sostanza quanto previsto in materia di soccorsi in mare in acque internazionali dal Decreto sicurezza bis n.53 di Salvini, adottato nel giugno del 2019, ed ancora ieri rivendicato dal nuovo sottosegretario leghista al Ministero dell’interno.

Già la scorsa settimana avevamo dovuto contare decine di vittime per un naufragio che è stato documentato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che ha potuto contattare alcuni superstiti.  Un naufragio che altrimenti  sarebbe stato rimosso. Come è stato rimosso l’appello delle Nazioni Unite per rafforzare un sistema europeo di ricerca e soccorso e di offrire valide alternative Un naufragio annunciato  Perché era evidente già nelle settimane precedenti, il 10 ed il 18 febbraio, che un numero consistente di imbarcazioni si stavano muovendo dalle coste libiche verso le acque internazionali, senza che le autorità libiche riuscissero ad intervenire in tutti i casi e senza che altre autorità statali si preparassero ad operare interventi di soccorso, per i quali si continuava ad attendere l’ingresso nelle acque territoriali.

Tutte le partenze dalla Libia ( e dalla Tunisia) sono ormai prevedibili, non appena le condizioni del mare lo permettono, e si concentrano generalmente nella seconda parte della settimana, come documenta sul suo profilo Twitter l’inviato di Radio Radicale Sergio Scandura. Questo accresce le responsabilità degli Stati che non intervengono e che ritirano le unità militari presenti in acque internazionali. Si abbandonano i migranti ai libici, davvero. O si lasciano morire in mare. Per molti non fa differenza.

Come era prevedibile l’ennesimo naufragio che si è verificato oggi con altre quindici persone annegate in occasione di un intercettamento operato da una motovedetta Libica.  Ancora una volta un naufragio nascosto dalle istituzioni, che è stato possibile ricostruire soltanto attraverso le prime dichiarazioni dei superstiti, mentre gli stati più direttamente interessati, che certamente hanno un continuo monitoraggio su tutti i movimenti delle imbarcazioni nel Mediterraneo centrale, hanno taciuto ed hanno  tentato di nascondere la effettiva portata  di questa ennesima tragedia.

Non appena si ricordano questi naufragi, e si rivendica il diritto alla vita, magari anche attraverso un evacuazione legale dalla Libia, scatta poi la reazione dei gruppi organizzati che hanno campo libero sui social per diffamare chi soccorre vite in mare. Come sta avvenendo ancora in questi giorni, con un odio nei confronti dei soccorritori che strumentalizza persino la tragica emergenza della pandemia da COVID. Ma alla fine i morti in mare, i dispersi nei centri di detenzione in Libia, come le vittime della pandemia in Italia, rimangono solo numeri, dietro cui si nascondono la vita e la tragedia delle persone e delle famiglie. Uno stesso destino di condanna all’oblio li accomuna.

No, non si possono abbandonare i naufraghi in acque internazionali ai libici e non si può neanche permettere che il governo di Tripoli rivendichi una competenza territoriale  estesa anche oltre ll limite della zona di ricerca e salvataggio che gli è stata indebitamente riconosciuta a livello internazionale. Gli accordi bilaterali stipulati con le autorità libiche dal governo italiano e da quello maltese non possono modificare il diritto internazionale o i Regolamenti europei. Le zone SAR ( che significa zone di responsabilità per la ricerca e il salvataggio, non zone di sovranità nazionale) in acque internazionali rimangono acque internazionali e non ricadono nella competenza territoriale dello stato costiero,  come sembra convenire anche alle autorità italiane salvo poi subire “incidenti” gravi come sequestro dei  pescherecci di Mazara del Vallo,  su cui alla fine è calata  l’ennesima cappa di silenzio.

Occorre sospendere la vigenza del Memorandum di Intesa tra Italia e Libia stipulato nel 2017 e rinnovato ancora lo scorso anno,con un voto bipartisan del Parlamento italiano che ha anticipato su questo tema  la larga convergenza che adesso sostiene il governo Draghi.
L’emergenza globale derivante della pandemia da Covid-19 sta comportando una generale chiusura delle frontiere ed una  complessiva diminuzione della mobilità migratoria,  anche se alcune rotte come quella del Mediterraneo centrale segnano ancora aumenti  che in termini assoluti sono assolutamente irrilevanti rispetto numero di immigrati che riescono a raggiungere regolarmente l’Italia ( si pensi al ricongiungimento familiare) o sono portatori  di istanze di protezione ed avrebbero dunque diritto, solo per questa ragione, di raggiungere una frontiera quale che sia, purché di un paese sicuro, per presentare una domanda di asilo. Anche Frontex ammette il calo degli arrivi via mare attraverso il Mediterraneo rispetto allo scorso anno. Nel gennaio 2021 gli arrivi di migranti lungo la rotta del Mediterraneo Centrale, verso le coste italiane, sono crollati del 51% rispetto al gennaio 2020, a meno di 900. Si tratta per lo più di cittadini guineani e ivoriani. In totale, il numero degli arrivi irregolari ai confini esterni dell’Ue in gennaio si è quasi dimezzato, a 5.800. Numeri che non valgono certo il sacrificio di una sola vita umana per la pretesa di “difendere” le frontiere dell’Unione Europea. Non si ha peraltro notizia dell’arresto di trafficanti in Libia, o di progressi in tema di rispetto dei diritti umani compiuti dal fantomatico Comitato paritetico italo-libico previsto per l’attuazione del Memorandum d’intesa del 2017.

La zona di ricerca e salvataggio SAR  attribuita alla Libia nel 2018 si sta rivelando sempre di più come una zona di morte,  E spetta alle Nazioni Unite, che pure definiscono con l’UNHCR  la Libia come un paese non sicuro, verso cui non devono essere effettuati respingimenti, intervenire sull’IMO (Organizzazione internazionale del mare) con sede a Londra,  che pure risulta essere organizzazione delle stesse Nazioni Unite,  per porre fine alla finzione della cosiddetta zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica, di una Libia che non esiste come entità territoriale unica, con organi di governo centrale e con autorità marittime di coordinamento unificati.  Non si può consentire  che gli interventi della sedicente Guardia Costiera Libica,  che altri definiscono di “salvataggio”, si concludono sempre con vittime in mare e con la scomparsa dei naufraghi non appena sbarcati in porto. Perché di fatto queste persone, ricondotte a terra con modalità spesso violente, sono di nuovo cedute alle stesse milizie  e alle stesse bande di trafficanti  da cui sono fuggiti. E questo i governi europei non possono ignorarlo. Come non si può ignorare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, né dà effettiva attuazione ad analoghi strumenti convenzionali previsti a livello regionale in Africa (OUA).

Occorre per questo motivo sostituire alle attività di contrasto di quella che si continua a definire come immigrazione illegale nel Mediterraneo centrale una vera missione internazionale di soccorso che privilegi il diritto alla vita è il rispetto dei diritti umani di tutti coloro che riescono a fuggire ancora dalla Libia almeno fino a quando in quel paese non si determinano le condizioni per un effettivo riconoscimento dei diritti fondamentali   di tutti i migranti,  anche dei cosiddetti migranti economici che sono peraltro essenziali  per  l’economia libica.

Se  e’ probabile  che l’orientamento politico  del governo italiano  si trovi a coincidere con la linea di chiusura che adotta da tempo l’Unione Europea sulla difesa dei confini esterni, con la delega troppo ampia concessa all’agenzia Frontex,  adesso messa sotto inchiesta, appare ineludibile l’urgenza di una inchiesta internazionale sui mancati interventi di soccorso nel Mediterraneo centrale.
Per questa ragione rimane prezioso il contributo della società civile degli operatori umanitari  che sulla base di tutta la documentazione disponibile dovranno denunciare gli abusi commessi delle autorità libiche e i ritardi o l’omissione  di soccorso da parte delle autorità europee.

Quanto sta succedendo nelle ultime settimane,  con una cadenza periodica   di naufragi e di intercettamenti operati dalla sedicente Guardia Costiera Libica, esclude che siano ancora praticabili spazi di confronto e di mediazione con i governi direttamente responsabili di avere abbandonato al loro destino centinaia di persone nelle acque del Mediterraneo centrale, oltre 140  le vittime che si possono contare già quest’anno.  Si corre anche il rischio che le Organizzazioni non governative  siano prima chiamate ad intervenire quando non ci sono altre possibilità di soccorso, e poi siano ritenute responsabili  delle partenze sempre più numerose che si possono prevedere nei prossimi mesi. Le navi della Marina militare della missione Mare Sicuro sembrano scomparse, e non operano più interventi di soccorso come accadeva fino al 2018. È inammissibile che si limiti l’attività di  soccorso  alle acque internazionali affidate di fatto al controllo esclusivo dei libici,  perché il diritto alla vita ed il divieto di trattamenti inumani e degradanti valgono a prescindere  dalla bandiera della nave soccorritrice e dalla latitudine della posizione nella quale si trovano le persone migranti in procinto di annegare.