di Fulvio Vassallo Paleologo
1. E’ stata pubblicata l’ordinanza del Tribunale amministrativo di Palermo del 22 dicembre 2020 con la quale lo stesso Tribunale chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento di fermo amministrativo della nave Sea Watch 4 operato dalla Capitaneria di Porto di Palermo dopo l’ispezione approfondita del 19 settembre dello stesso anno, ha respinto la richiesta di sospensiva del provvedimento ed ha disposto la rimessione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea perché questa si pronunci in sede di questione pregiudiziale d’urgenza, riservandosi di procedere all’esame del caso sulla base dell’indirizzo interpretativo che sarà adottato dalla Corte di Lussemburgo.
A differenza di quanto avvenuto con i procedimenti penali che sono pendenti nei confronti del senatore Salvini, già ministro dell’interno nel precedente governo, per i casi Gregoretti a Catania ed Open Arms a Palermo, sui quali si è concentrata l’attenzione dei media, sulla decisione del giudice amministrativo di Palermo è rapidamente calata una coltre di silenzio. In questa sede, lasciando le ragioni della difesa tecnica al team legale della ONG, chiamato adesso anche in sede europea, ci limiteremo a mero scopo informativo ad alcune sintetiche considerazioni sull’ordinanza di rimessione adottata a Palermo il 22 dicembre scorso e più in generale sulla legittimità dei provvedimenti di fermo amministrativo operati nei confronti delle navi delle ONG (almeno sei) dalle Capitanerie di porto nell’ultimo anno, tutti con motivazioni quasi identiche e finalità coincidenti, su evidente indirizzo politico del Ministro delle infrastrutture, e per esso dell’intero governo. Non sfugge del resto a nessuno la corrispondenza delle prassi adottate dalle autorità marittime italiane contro le navi delle ONG una volta che si è consentito loro di entrare nelle acque italiane, ai fini del trasbordo su una nave traghetto utilizzata come hotspot per la quarantena obbligatoria dei naufraghi, ed il decreto interministeriale del 7 aprile 2020 con il successivo decreto della Protezione civile del 12 aprile dello stesso anno. Provvedimenti aventi natura amministrativa di cui andrebbe verificata la legittimità alla stregua, oltre che del diritto interno, del diritto internazionale cogente e delle norme euro-unitarie vincolanti, come i Regolamenti provenienti dall’Unione Europea.
La decisione del Tribunale amministrativo siciliano ha un notevole spessore, per la completezza della ricostruzione dei fatti che hanno portato al fermo amministrativo ancora in corso di una nave, la Sea Watch 4, che può contribuire al salvataggio di centinaia di persone. Mentre le partenze dalla Libia e dalla Tunisia non sono certo cessate con la stagione invernale, come è confermato dalle decine di morti e dispersi che si continuano a contare sulla rotta del Mediterraneo centrale, la rotta migratoria più letale del mondo, e dai soccorsi che ancora riesce ad operare l’unica ONG, la Open Arms, alla quale non sono stati ancora contestati provvedimenti di fermo amministrativo.
Di certo, si può osservare innanzitutto, il fermo amministrativo di una nave di una ONG come la Sea Watch 4, che avrebbe potuto operare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, configura già oggi un danno grave ed irreparabile, tanto per la stessa Sea Watch, che da mesi è costretta a tenere ferma a Palermo una nave dai costi giornalieri comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della sua attività, basata sulla raccolta fondi e sul volontariato, e soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l’Agenzia europea Frontex hanno ritirato i loro assetti navali prima presenti nelle acque internazionali tra il nordafrica, Malta e la Sicilia. Il procedimento accelerato richiesto dal Tribunale amministrativo di Palermo alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 105 del regolamento di procedura, non sembra garantire l’accoglimento tempestivo di tale richiesta da parte dei giudici di Lussemburgo e riproporrà comunque l’esigenza di una decisione in sede cautelare da parte del tribunale siciliano. E intanto saranno passati altri mesi nei quali la nave Sea Watch 4 continuerà a restare bloccata nel porto di Palermo e altre centinaia di persone potrebbero soccombere in mare per l’assenza di navi in grado di fare fronte alle chiamate di soccorso provenienti dal Mediterraneo centrale.
2. Il perno delle motivazioni a base del provvedimento di fermo amministrativo adottato nei confronti della Sea Watch 4, classificata dalle autorità tedesche come “General cargo multipurpose” è costituito dalla considerazione che l’Organizzazione omonima con sede a Berlino svolgerebbe “in modo sistematico attività di ricerca e salvataggio di persone nel Mar Mediterraneo centrale”, un assunto che si ricaverebbe più dallo Statuto dell’associazione che dal numero dei soccorsi che la nave Sea Watch 4, o altre navi della stessa ONG, hanno potuto effettivamente operare nel corso del 2020, Le attività di monitoraggio alle quali detta associazione destinava tali navi non potevano del resto prescindere dal rigoroso rispetto degli obblighi di soccorso che il diritto internazionale del mare impone, oltre che agli stati, al comandante di qualsiasi nave, ovunque si trovi, quale che sia la sua classificazione o nazionalità. Nelle Convenzioni internazionali non esiste alcun fondamento legale, come non esiste nella legislazione interna, per enucleare una categoria di navi che sarebbero diversamente classificabili “a posteriori”, rispetto alla originaria iscrizione nei registi dello stato di bandiera, in questo caso la Germania, a seconda della natura occasionale o “sistematica” dell’attività di salvataggio. Come non esiste alcun registro a livello internazionale o tedesco, ma non risulta neppure in Italia, di navi private qualificate come “navi di salvataggio” per le quali sarebbero previste prescrizioni tecniche strutturali o dotazioni diverse rispetto a quelle previste per le altre navi. Semmai, si potrebbe osservare, questa insistenza della Capitaneria di porto di Palermo, ripresa in parte anche dal tribunale amministrativo, sulla natura non occasionale delle attività di soccorso, avrebbe dovuto condurre ad escludere la natura “commerciale” delle attività operate dalla nave Sea Watch 4 e dunque ad affermare la sua totale esenzione rispetto alle prescrizioni della Direttiva 2009/16/CE sulla quale si basa per intero il provvedimento di fermo amministrativo.
Non si può riconoscere che lo sbarco di naufraghi dalla Sea Watch 4, come dalle altre navi delle ONG bloccate con i fermi amministrativi, corrisponda alle attività di “movimento di persone” considerato dalla Direttiva europea 2009/16/CE, né che tale attività rientri nell’ambito del rapporto di interfaccia nave/porto, pure presupposto per l’applicazione della medesima direttiva. Lo stesso Tribunale amministrativo conferma del resto che la Sea Watch 4 non aveva fatto ingresso nel porto di Palermo e che il trasbordo dei naufraghi ,soccorsi in acque internazionali nei giorni 22,23 e 28 agosto 2020, era avvenuto in rada davanti al medesimo porto, sulla nave GNV Allegra, solo a seguito di istruzioni ricevute dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMTCC) . Il successivo ingresso in porto a Palermo, come il periodo di quarantena imposto alla Sea Watch 4 per 14 giorni, a poche centinaia di metri dalla costa palermitana, e già il precedente invito ad entrare nelle acque territoriali, discendevano da decisioni delle autorità italiane, mentre il comandante della nave aveva manifestato la sua intenzione, dopo il trasbordo dei naufraghi sulla nave hotspot italiana, di rientrare al più presto nel porto spagnolo di Buriana da cui la nave era partita. Appare davvero arduo, in presenza di queste circostanze, ritenere che si sia creata quella “relazione tra la nave ed il porto di attracco” ai fini dello sbarco di persone che legittima il potere di ispezione da parte della competente Capitaneria di Porto, secondo quanto previsto dalla Direttiva 2009/16/CE, ammesso pure che questa fosse applicabile ad una nave che non svolgeva un servizio commerciale. Le occasionali attività di controllo consentite alle Capitanerie di porto sulle navi “all’ancora” in acque territoriali italiane sembrano previste per le navi che svolgono servizi di linea e non risultano applicabili a navi che hanno concluso una operazione di ricerca e salvataggio sotto il coordinamento della Guardia costiera e con il trasbordo su una nave commerciale battente bandiera italiana. Che andrebbe semmai controllata per lo smaltimento dei rifiuti e delle acque nere durante settimane di prolungata sosta a poche centinaia di metri da una costa balneabile.
Come osserva il Tribunale amministrativo di Palermo, ” Il tenore dell’art. 3 della direttiva 2009/16/CE sembra delimitare l’ambito di applicazione del PSC esclusivamente alle navi che sono in concreto usate per scopi commerciali, avuto riguardo alla terminologia utilizzata al par. 5 “usate per scopi commerciali” e “che si dedicano a operazioni commerciale”. Ne consegue che se l’armatore utilizza una nave classificata come cargo – ossia una nave dotata di un certificato di classe inerente ad attività commerciale, e quindi astrattamente destinata a essere utilizzata solo per la predetta finalità – per scopi e per operazioni di diversa tipologia e natura, e specificatamente di carattere non commerciale, la predetta nave non dovrebbe potere rientrare nell’ambito di applicazione del PSC di cui alla direttiva 2009/16/CE e, pertanto, lo Stato di approdo non dovrebbe potere effettuare nei confronti della predetta nave i controlli di cui all’art. 13 della direttiva 2009/16/CE”.
E infatti come continua a rilevare lo stesso Tribunale,“È lo Stato di bandiera che, in via principale, può e deve effettuare i controlli e avere giurisdizione esclusiva sui profili amministrativi, tecnici e sociali delle navi immatricolate e certificate da parte dello Stato medesimo, avuto riguardo all’art. 94 UNCLOS e alla regola 17 del Capitolo I di SOLAS, che esprimono il principio del doveroso reciproco riconoscimento delle certificazioni rilasciate dagli Stati di bandiera firmatari delle relative convenzioni; il PSC concretizza, invece, un potere secondario, ulteriore a quello attribuito allo Stato di bandiera, di chiusura del sistema, al fine essenziale di evitare la navigazione di navi cd. substandard”. E non si può certo classificare la Sea Watch 4, certificata dalle autorità tedesche, tra le più severe al mondo, considerandola come un naviglio con standard di sicurezza inferiori a quelli stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Né si vede, sotto il profilo della sicurezza dei lavoratori marittimi, quali rischi ulteriori avrebbero corso gli equipaggi impegnati a bordo della nave rispetto a quelli corsi in altri eventi di ricerca e soccorso (SAR) da altri equipaggi a bordo di analoghe navi, private e aventi destinazioni d’uso commerciali, con bandiera straniera o italiana.
Si poteva dunque escludere in radice l’applicabilità della Direttiva 2009/16/CE a fondamento del potere di ispezione esercitato dalla Capitaneria di Porto di Palermo nei confronti della nave Sea Watch 4, ed escludere conseguentemente la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dal momento che la stessa direttiva risultava inapplicabile e che il sistema delle fonti, nel rapporto tra diritto interno, diritto eurounitario e diritto internazionale, con specifico riferimento alle attività di soccorso delle ONG, era chiaramente indicato dal Tribunale di Agrigento con una ordinanza, poi confermata dalla sentenza della Corte di cassazione del 20 febbraio 2020 sul caso Rackete.
Secondo questa giurisprudenza, in base all’art. 10 della Costituzione, «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute; tra queste rientrano quelle poste dagli accordi internazionali in vigore in Italia, le quali assumono, in base al principio fondamentale pacta sunt servanda, un carattere di sovraordinazione rispetto alla disciplina interna ai sensi dell’art. 117 Cost., secondo cui la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali».
In primo luogo, «va fatto riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (c.d. UNCLOS – United Nations Convention of the law of the sea), ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 2 dicembre 1994, n. 689, che costituisce testo normativo fondamentale in materio di diritto della navigazione. L’art. 98 della Convenzione UNCLOS impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà qualora venga informato che tali persone abbiano bisogno di assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento». Anche «la Convenzione cd. SOLAS firmata a Londra nel 1974 e resa esecutiva in Italia con Legge 23 maggio 1980, nr. 313 (e successivi emendamenti) impone al comandante della nave di prestare assistenza alle persone che si trovino in pericolo. Va considerata, infine, la Convenzione SAR (Search and Rescue) – Convenzione sulla ricerca e il soccorso in mare, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 e resa esecutiva in Italia con Legge 3 aprile 1989, n. 47. Tale Convenzione, riguardante la ricerca e il salvataggio marittimo, si fonda sul principio della cooperazione internazionale e stabilisce che il riparto delle zone di ricerca e salvataggio avvenga d’intesa con gli altri Stati interessati».
Alla luce di tale normativa – si legge nell’ordinanza – «i poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono (anzi, in un certo senso impongono in base all’obbligo sopra delineato) che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso allorquando lo richieda l’imminenza del pericolo per le vite umane. L’obbligo di diritto internazionale, incombente sul comandante di una nave di procedere al salvataggio (del natante e, quando ciò non sia possibile, delle persone che vi si trovino a bordo) trova, in particolare nel diritto interno, un rafforzamento di tipo penalistico nell’art. 1158 Codice della Navigazione che sanziona penalmente l’omissione da parte del comandante di nave, nazionale o straniera, di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne sussiste l’obbligo a norma dell’art. 490 del codice medesimo ossia allorquando la nave in difficoltà sia del tutto incapace di effettuare le manovre».
I provvedimenti di fermo amministrativo adottati nel corso del 2020 da diverse Capitanerie di porto nei confronti di navi delle ONG, che avevano operato attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, non possono dunque omettere di richiamare il dovere di salvataggio imposto al comandante della nave, dal diritto interno e dalle Convenzioni internazionali, o limitarsi al richiamo isolato di una singola Direttiva europea, sempre ammesso che sia applicabile, o di una sola Convenzione internazionale, come la Convenzione SOLAS. Ma devono essere valutati alla stregua di tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, oltre che degli obblighi costituzionali dello Stato, che impongono il soccorso in mare come un obbligo e non ne permettono la qualificazione come “attività svolta in modo preordinato” o peggio come attività aventi caratteri diversi dalle finalità umanitarie perseguite dalle ONG. Che raccolgono danaro con sovvenzioni private basate sulla solidarietà, e sulla base di queste raccolte inviano navi nel Mediterraneo, per soddisfare quelle richieste di soccorso che gli Stati negli ultimi anni si dimostrano incapaci di adempiere tempestivamente.
3. Le “carenze” riscontrate dalla Capitaneria di Porto di Palermo, almeno quelle che sono state addotte a fondamento della prosecuzione della misura di fermo amministrativo, dopo una iniziale attività collaborativa della Sea Watch che provvedeva ad eliminare alcune cause delle contestazioni ricevute, sono da ascrivere ad una impropria assimilazione della Sea Watch 4 ad una nave passeggeri, o alla ricostruzione priva di basi legali, di una indeterminata ( ed indeterminabile) categoria di “navi di soccorso” che per operare salvataggi, comunque imposti dal diritto internazionale avrebbero dovuto avere dotazioni di sicurezza e requisiti strutturali calibrati sul numero delle persone soccorse e non su quello dei componenti fissi dell’equipaggio. Come se il comandante di una nave impegnata in una attività SAR (Search and Rescue) potessi decidere ad un certo punto dei soccorsi di interrompere le attività di salvataggio perché a bordo non si trovavano in misura adeguata giubbetti di salvataggio, servizi igienici con scarichi a norma o zattere di salvataggio preinstallate con gli attacchi omologati per un numero di persone corrispondente a quello dei naufraghi. Sono queste infatti le contestazioni più gravi che la Capitaneria di porto di Palermo ha mosso nei confronti della Sea Watch 4, in base all’art.19 della Direttiva 2009/16/CE e dell’art. 22 del decreto legislativo n.53 del 2011 che la recepisce nell’ordinamento italiano. Appare singolare come tali contestazioni siano state rivolte soltanto contro navi appartenenti ad Organizzazioni non governative e non nei confronti di altre navi italiane e straniere, di diversa natura, anche simili alla Sea Watch 4 come classificazione, che avevano operato soccorso nel Mediterraneo centrale. Basti pensare ai diversi salvataggi operati da rimorchiatori ASSO di servizio alle piattaforme petrolifere a nord della costa libica, che si sono concluse in un porto italiano, con la immediata ripartenza della nave, o al caso della nave cargo Marina attraccata a Porto Empedocle a maggio dello scorso anno per sbarcare naufraghi e fatta ripartire subito dopo.
La Direttiva europea 2009/16/CE non consente allo Stato che offre un porto di sbarco, ammesso che lo offra davvero, una riclassificazione a posteriore della nave già “classificata” dalla autorità marittima straniera di bandiera, nè di rilevare carenze tecniche che lo stesso Stato di bandiera non ritiene sussistenti. Ed infatti, come riferisce correttamente l’ordinanza del TAR di Palermo, “mentre l’amministrazione italiana, quale Stato di approdo, ritiene che le indicate carenze debbano essere ancora materialmente eliminate/rettificate ai fini dell’adozione della revoca del fermo e/o per consentire comunque a SW4 di lasciare il Porto di Palermo, invece, l’amministrazione tedesca, quale Stato di bandiera, ritiene che, sulla base della corretta interpretazione della normativa internazionale ed eurounitaria in materia, e sulla base degli accertamenti svolti da parte del DNV-GL, le indicate ultime carenze non ancora rettificate/eliminate, in realtà, non sono in concreto sussistenti e che, quindi, nessuna ulteriore attività di intervento debba essere posta in essere da parte dell’armatore.“. E’ questa l’opinione delle autorità di uno degli Stati europei con gli standard di sicurezza più elevati per l’iscrizione al proprio naviglio, e non di uno dei tanti stati del mondo che offrono bandiere ombra a natanti commerciali che transitano regolarmente nei nostri porti anche in condizioni di elevata insicurezza, o che versano sistematicamente rifiuti ai limiti delle nostre acque territoriali. Né si rinviene nella Direttiva 2009/16/CE alcuna base legale per giustificare il potere che si sono arrogate alcune capitanerie di porto italiane per modificare la classificazione di una nave come Supply Vessel, adottata da uno stato di bandiera. La provenienza della nave, il suo stato tecnico, l’assenza di precedenti infrazioni e la serietà del registro navale tedesco rendono davvero difficile individuare il fondamento legale delle ispezioni più approfondite disposte dalla Capitaneria di Porto di Palermo nei confronti di una nave che neppure voleva fare ingresso in un porto italiano, ma che vi è stata fatta entrare e trattenuta proprio per decisione delle autorità marittime italiane.
4. Non sussistevano dunque i presupposti per il fermo della nave Sea Watch 4, e la lettura dell’Ordinanza del Tribunale amministrativo di Palermo del 22 dicembre 2020, anche se non equivale ad una completa conoscenza degli atti del procedimento amministrativo, fornisce indicazioni precise in questa direzione, rilevando la genericità delle motivazioni adottate dalla Capitaneria di porto di Palermo, che nella sostanza sembra articolare le sue contestazioni secondo un modello uniforme, adottato su base nazionale e poi adeguato alle diverse occasioni di fermo amministrativo.
Come osserva il Tribunale amministrativo di Palermo, ” Il provvedimento di fermo impugnato è stato adottato ai sensi del combinato disposto dell’art. 19 della direttiva 2009/16/CE e dell’art. 22 del d.lgs. n. 53/2011, di recepimento della medesima, a seguito di un’ispezione PSC supplementare del tipo più dettagliato disposta ai sensi del combinato disposto dell’art. 13 della direttiva 2009/16/CE e dell’art. 16 del d.lgs. n. 53/2011, di recepimento della medesima”.
Secondo lo stesso Tribunale, “In seno ai due rapporti di ispezione PSC, allegati al provvedimento di fermo e che ne costituiscono il presupposto, non è stata, tuttavia, specificatamente indicata la base giuridica del potere esercitato, ossia la norma che l’amministrazione ha ritenuto fondante il suo potere, quale stato di approdo, di procedere in sede di PSC al controllo nei termini e sensi e, quindi, con l’ampiezza di cui trattasi; appare, tuttavia, evidente che l’avere dato corso a un’ispezione PSC supplementare più dettagliata e l’avere adottato un provvedimento di fermo sulla base delle carenze rilevate alla luce della direttiva 2009/16/CE presupponga che la base giuridica del potere speso debba necessariamente essere rinvenuta proprio nella direttiva 2009/16/CE e, in particolare, nell’art. 13 della predetta, come trasposto nell’art. 16 del d.lgs. n. 53/2011.“
Come ricorda il TAR, nella difesa dei provvedimenti di fermo della Sea Watch 4 nel porto di Palermo, l’amministrazione statale ha fatto richiamo alla sola Convenzione SOLAS, “nella parte in cui dispone che “b. I Governi contraenti s’impegnano a emanare tutte le leggi, tutti i decreti, ordini e regolamenti e a prendere tutte le altre disposizioni necessarie per dare alla Convenzione la sua piena e intera applicazione, allo scopo di garantire che, dal punto di vista della sicurezza umana, una nave sia idonea al servizio al quale è destinata.”; e nelle successive memorie difensive ha ulteriormente richiamato la risoluzione IMO A.1138(31), relativa proprio ai “controlli da parte dello Stato di approdo – 2019”, nella parte in cui, al punto 1.3 INTRODUCTION -1.3.1, dispone analogamente che “in base alle disposizioni delle convenzioni …, l’Amministrazione (i.e. il governo dello Stato di bandiera) è responsabile della promulgazione delle leggi e dei regolamenti e dell’adozione di tutte le altre misure che possono essere necessarie per dare le convenzioni pertinenti effetto pieno e completo in modo da garantire che, dal punto di vista della sicurezza della vita e della prevenzione dell’inquinamento, una nave sia idonea al servizio a cui è destinata e che i marittimi siano qualificati e idonei ai loro compiti”. Ma il diritto internazionale del mare rilevante nel caso Sea Watch 4, come nei casi di fermo delle altre navi delle ONG, non si esaurisce con la Convenzione SOLAS. Né si può attribuire alcun valore normativo rilevante direttamente nell’ordinamento interno alla Risoluzione dell’Imo relativa ai controlli da parte dello stato di approdo, che non può offrire dunque alcuna base legale ai provvedimenti di fermo amministrativo adottati dalle Capitanerie di porto italiane.
La normativa internazionale volta a prevenire incidenti in mare e a salvaguardare l’ambiente, solo in parte contenuta nella Direttiva 2009/16/CE sulla quale le Capitanerie di Porto hanno basato i provvedimenti di ferno amministrativo, non consente di enucleare una categoria di “navi di soccorso” o di stabilire “a posteriori” l’obbligo di requisiti strutturali o di dotazioni di sicurezza più gravose per le navi che sono coinvolte anche in una serie ripetuta di eventi di soccorso. Neppure il giudice amministrativo italiano rinviene le basi legali e dunque le concrete motivazioni dei provvedimenti di fermo amministrativo adottati contro le navi delle ONG nel corso del 2020, ed alcuni argomenti che vengono richiamati appaiono del tutto privi di rilevanza normativa, così come la Raccomandazione adottata dalla Commissione europea in materia di soccorsi in mare il 23 settembre 2020, e ancor di più la mancata inclusione di una norma nel recente Decreto immigrazione, adesso convertito in legge, che prevedesse la inapplicabilità delle misure amministrative di fermo alle navi delle ONG che avessero operato attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Rimane semmai confermata da questi atti una pervicace volontà politica di ostacolare i soccorsi umanitari operati dalle ONG in assenza di basi legali che ne potessero sanzionare le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Ma da questi atti per il fondamento legale di un provvedimento di fermo amministrativo non può certo venire alcuna valida motivazione sul piano del diritto, e dello stato di diritto.
5. L’art. 11 della Direttiva 2009/16/CE richiamata dalla Capitaneria di Porto di Palermo a base del fermo amministrativo della Sea Watch 4 specifica i casi nei quali le autorità marittime italiane possono procedere a controlli dopo l’ingresso in porto delle navi. “ Le navi che fanno scalo nei porti o negli ancoraggi comunitari sono sottoposte a ispezioni periodiche o a ispezioni supplementari come segue:a) le navi sono sottoposte a ispezioni periodiche ad intervalli di tempo prestabiliti a seconda del rispettivo profilo di rischio conformemente all’allegato I, parte I. La frequenza delle ispezioni periodiche diminuisce con il diminuire del rischio. Per le navi ad alto rischio tale intervallo non supera i sei mesi;b) le navi sono sottoposte a ispezioni supplementari, indipendentemente dal periodo intercorso dalla loro ultima ispezione periodica, come segue:— l’autorità competente assicura che siano sottoposte ad ispezione le navi alle quali si applicano i fattori di priorità assoluta enumerati nell’allegato I, parte II, punto 2A,— si possono sottoporre ad ispezione le navi alle quali si applicano i fattori imprevisti enumerati nell’allegato I, parte II, punto 2B. La decisione di effettuare una tale ispezione supplementare è lasciata alla valutazione professionale dell’autorità competente. Ed è qui che probabilmente è entrata in gioco la discrezionalità “politica” adottata nei confronti delle ONG che ancora nel corso del 2020 hanno continuato ad operare attività di monitoraggio nel Mediterraneo centrale con interventi di ricerca e salvataggio che si sono ripetuti nel tempo per l’assenza o il ritardo degli interventi da parte degli attori statali e delle unità militari della Marina e della Guardia costiera che in passato cooperavano con le ONG, o le sostituivano del tutto all’arrivo di una chiamata di soccorso. Anche Frontex ha ritirato tutti gli assetti navali ed il monitoraggio aereo non garantisce soccorsi che si concludono in un porto sicuro, ma rimane finalizzato alla collaborazione con le guardie costiere dei paesi nordafricani, se non si risolve nella ricerca dei resti di un naufragio,
Il Tribunale amministrativo di Palermo ricorda opportunamente come “l’art. 98, paragrafo 1, della Convenzione di Montego Bay del 1982, che concerne il vincolo di prestare soccorso, ossia l’obbligo di intervenire su quanti si trovino in mare in situazioni di pericolo, dispone infatti che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri (…)”; e osserva poi come ” analogamente dispone, altresì, l’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) che prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare”.
Lo stesso Tribunale amministrativo di Palermo, in merito ai presupposti che conferirebbero alla Capitaneria di Porto un potere di controllo più penetrante rileva quindi che:
– il salvataggio delle persone in mare in sé e per sé considerato non è fattore di priorità assoluta né fattore imprevisto ai sensi dell’art. 11 della direttiva;
– l’eventuale inadeguatezza delle certificazioni di sicurezza rilasciate da parte dello stato di bandiera in riferimento al numero delle persone effettivamente a bordo in sé e per sé considerata non è idoneo fattore imprevisto;
– il trasporto di un numero di persone di gran lunga superiore a quello riportato nel certificato degli equipaggiamenti di sicurezza, all’esito di attività cd. SAR, potrebbe, invece, rientrare nel fattore imprevisto di cui all’allegato I, parte II, punto 2B, richiamato dall’art. 11 della direttiva 2009/16/CE, di cui alla fattispecie specifica delle “navi che sono state gestite in modo da costituire un pericolo per le persone, le cose o l’ambiente”, atteso che, comunque, indipendentemente dalle certificazioni di sicurezza possedute, rientra nella responsabilità del Comandante della nave la valutazione in ordine ai limiti entro cui si possa procedere al salvataggio delle persone in mare in sicurezza e la scelta del Comandante al riguardo deve potere essere valutata in concreto anche in sede di PSC. (Controllo di sicurezza in porto, n.d.a.)
6. Il Tribunale amministrativo di Palermo chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea “se il potere di ispezione PSC del tipo più dettagliata di cui all’art. 13 della direttiva 2009/16/CE sulle navi battenti bandiera di Stati membri possa e/o debba ricomprendere anche il potere di verificare quale sia in concreto l’attività effettivamente svolta da parte della nave, indipendentemente dall’attività per la quale le siano stati rilasciati da parte dello Stato di bandiera e del relativo ente di classificazione il certificato di classe e i conseguenti certificati di sicurezza, e, conseguentemente, il potere di verificare il possesso da parte della predetta nave delle certificazioni e, in generale, dei requisiti e/o prescrizioni previsti dalle norme adottate a livello internazionale in materia di sicurezza, prevenzione dell’inquinamento e condizioni di vita e di lavoro a bordo e, in caso di risposta positiva, se il predetto potere sia esercitabile anche nei confronti di una nave che svolga in concreto in modo sistematico attività cd. SAR”.
In sostanza, l’ispezione diventa più dettagliata e capillare in assenza dei documenti e certificati o se esistono fondati motivi per ritenere che la nave o il suo equipaggio non soddisfino appieno le prescrizioni contenute in uno degli strumenti convenzionali di riferimento. Soltanto nei casi espressamente previsti nella direttiva si procede in sede di PSC a un’ispezione estesa, i cui confini non sono, tuttavia, definiti all’interno della direttiva. La conclusione che sembra raggiungere il TAR di Palermo è nel senso che con riferimento ai controlli di sicurezza nei porti (PSC) :
– l’attività ispettiva PSC costituisce il nucleo centrale della normativa di cui alla direttiva 2009/16/CE;
– l’art. 13 della direttiva 2009/16/CE, che disciplina l’attività ispettiva PSC, non potrebbe essere interpretato, sulla base del suo tenore testuale, nel senso di ricomprendere, nell’ambito dei poteri dello Stato di approdo sulle navi battenti bandiera di Stati membri, anche il potere di verificare quale sia in concreto l’attività effettivamente svolta da parte della nave, indipendentemente dall’attività per la quale le sono stati rilasciati da parte dello Stato di bandiera e del relativo ente di classificazione il certificato di classe e le conseguenti certificazioni di sicurezza, e, conseguentemente, il potere di verificare il possesso da parte della predetta nave delle certificazioni di sicurezza, degli equipaggiamenti e, in generale, dei requisiti di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente corrispondenti all’attività effettivamente e in concreto svolta dalla nave;
– l’art. 13 della direttiva sembra, infatti, attribuire, in sede di ispezione più dettagliata, penetranti poteri di ispezione allo Stato di approdo che consistono non solo nella possibilità di verificare il possesso delle certificazioni relative al certificato di classe posseduto ma anche di verificare che, in concreto, la nave possegga tutti gli equipaggiamenti, gli strumenti e in generale i requisiti che sono attestati con le relative certificazioni, in tal modo esercitando un potere di controllo che non è più meramente formale ma che diviene sostanziale e che può astrattamente interessare un ampio spettro di aree di rischio della nave;
– e, tuttavia, sembra che i predetti penetranti poteri di verifica si debbano arrestare proprio alla verifica di carattere sostanziale dell’effettiva sussistenza nella nave dei requisiti in relazione ai quali le sono state rilasciate le relative certificazioni da parte dello Stato di bandiera, dovendosi in tal senso interpretare l’espressione “un’ulteriore verifica della conformità ai requisiti operativi di bordo”;
– il richiamato art. 13 della direttiva non sembra potere essere interpretato nel senso propugnato da parte dell’amministrazione anche alla luce della ratio delle disposizioni in materia di ispezione dello Stato di approdo;
– il PSC è l’attività ispettiva delle navi straniere da parte dello Stato di approdo finalizzata a garantire che la nave che scala un porto in navigazione internazionale non sia in condizioni cd. substandard rispetto alle Convenzioni Internazionali che regolano la sicurezza della navigazione, costituendo un pericolo per la vita umana in mare e per l’ambiente, ossia di navi che battono bandiera di comodo di Stati disponibili a rilasciare certificazioni attestanti requisiti anche quando mancano i presupposti previsti; si tratta, quindi, di navi non più corrispondenti alle esigenze di integrità e alle prescrizioni sociali minime e dell’obiettivo finale di giungere alla loro messa in disarmo; tanto è vero che la normativa convenzionale internazionale e la successiva normativa eurounitaria nascono sotto la spinta emotiva dovuta a vari disastri ecologici, tra cui quelli causati dalle petroliere Amoco Cadiz, Haven ed Erika;
– il PSC ha, quindi, lo scopo di appurare se le condizioni dello scafo, le attrezzature e l’equipaggiamento siano o meno in regola con quanto stabilito dalle norme internazionali in materia;
– la disciplina armonizzata dello PSC ha la finalità, altresì, di ridurre i costi delle ispezioni e aumentare l’efficienza del sistema, attraverso la programmazione delle ispezioni PSC e la raccolta organizzata e la schedatura dei relativi dati;
– la diversa tipologia delle navi (navi petroliere, gasiere, chimichiere, passeggeri ecc ) e la natura del servizio cui esse sono destinate prospettano una particolare valutazione di rischio e determinano, insieme ad altri fattori, il tipo di visita da effettuare e quindi l’intensità ed estensione dei controlli;
– il Considerando n. 6 della direttiva riconosce la competenza solo come seconda linea del potere dello Stato di approdo, specificando, espressamente, che le ispezioni di controllo da parte dello Stato di approdo non costituiscono una visita di controllo, mettendo in rilevo, pertanto, la fondamentale distinzione tra l’attività ispettiva del PSC e l’attività di controllo dello Stato di bandiera;
– il limite del potere di ispezione PSC sembra intrinseco al sistema tracciato dall’ordinamento internazionale in materia che si basa su di un perno immodificabile rappresentato dall’attribuzione in via principale allo Stato di bandiera della competenza e della conseguente responsabilità connesse al rilascio delle certificazioni della nave sulla base delle convenzioni internazionali in materia di sicurezza, prevenzione dell’inquinamento e condizioni di vita e di lavoro a bordo;
– il contenuto della Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020, “sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” – nella parte in cui al Considerando n. 12 dispone che “È pertanto nell’interesse dell’ordine pubblico, compresa la sicurezza, che tali navi siano adeguatamente registrate ed equipaggiate in modo da soddisfare i pertinenti requisiti sanitari e di sicurezza associati a tale attività, così da non mettere in pericolo l’equipaggio o le persone soccorse.” – depone nel senso dell’insussistenza nell’ambito del diritto internazionale e/o eurounitario di un obbligo giuridicamente vincolante per le navi classificate in modo diverso dallo Stato di bandiera che svolgono attività cd. SAR in modo sistematico del possesso di classificazione, certificazioni e requisiti di sicurezza pertinenti alla predetta attività cd. SAR, altrimenti non ci sarebbe stato motivo di invocare al predetto fine l’ordine pubblico;
– l’ammissibilità di un potere della predetta estensione dovrebbe presupporre la possibilità di rinvenire agevolmente quali siano i nuovi requisiti richiesti sulla base dell’attività in concreto svolta, e, quindi, nella fattispecie, dell’attività cd. SAR, mentre, come si vedrà successivamente, non sembra che si possano rinvenire nelle convenzioni internazionali in materia di diritto marittimo né nella relativa normativa eurounitaria né infine nella normativa italiana e/o tedesca disposizioni destinate specificatamente all’individuazione di requisiti puntuali per le navi di proprietà privata che svolgano in modo sistematico attività cd. SAR di salvataggio delle persone in pericolo in mare.
Tuttavia, un’interpretazione in tal senso della normativa eurounitaria sembrerebbe lasciare un vuoto normativo che non appare altrimenti colmabile, atteso che la normativa internazionale nella materia della sicurezza marittima, della prevenzione dall’inquinamento ambientale e della tutela della vita e del lavoro a bordo, di cui la direttiva intende assicurare un’applicazione omogenea all’interno dell’Unione, si presterebbe a un potenziale abuso dei diritti insiti nella classificazione della nave e nelle conseguenti relative certificazioni, atteso che una nave potrebbe eludere gli specifici requisiti richiesti sulla base della natura dell’attività in concreto espletata “nascondendosi” dietro la formale classificazione della stessa e l’effettiva rispondenza dei requisiti posseduti dalla nave alla sua formale classificazione.
E, tuttavia, sembra che, anche laddove si ritenesse di dovere pervenire alla sopra indicata opzione interpretativa della normativa eurounitaria in materia, dovrebbe potere operare un limite all’ operatività della normativa eurounitaria così interpretata nella fattispecie in cui la diversa attività in concreto espletata non abbia carattere commerciale e, in particolare, nel caso in cui si concretizzi in un’attività cd. SAR, attività che risponde alla tradizionale legge del mare, come recepita in tutte le convenzioni internazionali nella materia, che, appunto, derogano ai singoli requisiti come di volta in volta richiesti sulla base della classificazione della nave, proprio in considerazione della finalità di salvataggio della vita di persone in pericolo in mare che è in concreto perseguita”.
7, Anche la successiva richiesta di interpretazione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea non prescinde da una ampia ricostruzione del quadro normativo e da una prima valutazione di merito da parte del Tribunale amministrativo di Palermo che può suscitare qualche perplessità. Anche in questo caso la richiesta di chiarimento concerne la portata applicativa della Direttiva 2009/16/CE, mentre risulta meno conferente il richiamo ad una Risoluzione IMO (Organizzazione marittima internazionale) che non può adottare atti qualificabili come fonte direttamente rilevante sul piano interno e che non rileva come fonte del diritto euro-unitario.
Il collegio palermitano chiede alla Corte di Lussemburgo:
“-come debba essere interpretata la regola 1, lett. b), della Convenzione SOLAS – che è espressamente richiamata nell’art. 2 della direttiva 2009/16/CE e di cui, pertanto, occorre garantire un’interpretazione comunitaria omogena ai fini e in sede di PSC – nella parte in cui dispone che “b. I Governi contraenti s’impegnano a emanare tutte le leggi, tutti i decreti, ordini e regolamenti e a prendere tutte le altre disposizioni necessarie per dare alla Convenzione la sua piena e intera applicazione, allo scopo di garantire che, dal punto di vista della sicurezza umana, una nave sia idonea al servizio al quale è destinata.”; in particolare se, con riferimento al giudizio di idoneità della nave al servizio alla quale è destinata che gli Stati di approdo sono tenuti a formulare tramite le ispezioni PSC, ci si debba limitare ad assumere quale esclusivo parametro di verifica le prescrizioni imposte sulla base della classificazione e delle pertinenti certificazioni di sicurezza possedute, acquisite sulla base dell’attività astrattamente dichiarata oppure se possa, invece, aversi riguardo anche al servizio a cui la nave è concretamente adibita.
Si chiede, pertanto, alla Corte di Giustizia se, anche con riferimento al richiamato parametro internazionale, sussista in capo alle autorità amministrative degli Stati di approdo il potere di verificare non solo la rispondenza degli equipaggiamenti e dotazioni di bordo alle prescrizioni previste dalle certificazioni rilasciata da parte dello Stato di bandiera e discendenti dall’astratta classificazione della nave, ma anche il potere di valutare la conformità delle certificazioni e dei relativi equipaggiamenti e dotazioni di bordo di cui è dotata e in possesso la nave in funzione della concreta attività svolta, estranea e diversa rispetto a quella indicata nella certificazione di classificazione.
La conclusione cui al TAR di Palermo sembra di dovere addivenire è nel senso che:
– per entrambe le normative convenzionali internazionali richiamate, l’idoneità al servizio al quale la nave è destinata debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività che viene effettivamente espletata, atteso che, in caso contrario, sarebbe stato utilizzato un termine, quale a esempio “utilizzata” o similare – come si riscontra nell’art. 3 della direttiva 2009/16/CE, laddove viene delimitato l’ambito applicativo della stessa con specifico riferimento alle esclusioni – che non si sarebbe prestato a dubbi interpretativi.
L’uso del termine “destinata”, tuttavia, si presta anche a una contrapposta interpretazione, nel senso che la destinazione potrebbe essere riferita non tanto alle caratteristiche intrinseche della nave e all’uso cui le predette caratteristiche sono funzionali, ma, appunto, anche alla finalità cui in concreto la nave è stata destinata da parte del suo armatore e, pertanto, sussiste un dubbio interpretativo sul punto.
Peraltro vale, anche con riferimento alla richiamata normativa convenzionale internazionale, quanto in precedenza rilevato in relazione all’art. 13 della direttiva 2009/16/CE, in ordine ai rischi di un abuso della classificazione e delle certificazioni di una nave, qualora in concreto utilizzata per svolgere attività diversa da quella cui la medesima era destinata sulla base delle certificazioni possedute.
L’Ordinanza di rimessione del giudice palermitano alla Corte di Giustizia non specifica chi e in quali circostanze possa avere determinato questi “rischi di abuso della classificazione e delle certificazioni di una nave”, né individua utili elementi di fatto nel caso oggetto del procedimento. Si corre dunque il rischio che la Corte di Giustizia possa enunciare per ragioni meramente politiche un principio di diritto che amplia ulteriormente i poteri delle autorità dei porti di ingresso nella valutazione dei requisiti tecnici e di sicurezza delle navi, con conseguenze che potrebbero risentire del tentativo dei governi che intendono bloccare con i fermi amministrativi le attività di monitoraggio delle ONG in acque internazionali. Una “politica giudiziaria” che si inserirebbe sulla linea tenuta già in diverse occasioni dalla Corte di Giustizia nell’ambito dei processi di esternalizzazione dei controlli di frontiera e di accordi bilaterali ( come con il governo di Tripoli) o multilaterali ( come con la Turchia) con paesi terzi. Una linea “politica” ribadita ancora di recente a livello europeo come emerge chiaramente dalla Raccomandazione riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso. rivolta agli Stati membri dalla Commissione Europea in data 23 settembre 2020.
8. Non può che allarmare infatti quanto affermato nella Raccomandazione (UE) 2020/1365 adottata dalla Commissione il 23 settembre 2020, secondo cui “
“sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso”, l’organo esecutivo dell’Unione al Considerando n. 12 abbia rilevato che “È pertanto nell’interesse dell’ordine pubblico, compresa la sicurezza, che tali navi siano adeguatamente registrate ed equipaggiate in modo da soddisfare i pertinenti requisiti sanitari e di sicurezza associati a tale attività, così da non mettere in pericolo l’equipaggio o le persone soccorse. Tali attività devono svolgersi in un quadro coordinato, tramite una cooperazione e un coordinamento rafforzati tra operatori privati e autorità nazionali.”.
La Raccomandazione, nell’affermare l’importanza dell’attività svolta dai privati a fini di ricerca e soccorso, per ridurre il numero di vittime in mare, individua quali obiettivi l’individuazione delle migliori prassi e l’adozione delle misure per assicurare la sicurezza delle navi coinvolte.
La puntuale e specifica verifica dei requisiti di sicurezza della navi cd. SAR costituisce, pertanto, un obiettivo di rilevanza eurounitaria in ragione degli obblighi giuridici che gravano sugli “Stati membri in virtù del diritto internazionale consuetudinario e convenzionale, in particolare della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Convenzione SOLAS, 1974), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, 1979) e della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Convenzione SAR, 1979), come pure del diritto dell’Unione.” (cfr. Considerando 1 della Raccomandazione).
Al punto n. 1 della Raccomandazione è specificato, tuttavia, solo che “In particolare, gli Stati membri di bandiera e quelli costieri dovrebbero scambiarsi regolarmente e tempestivamente informazioni sulle navi che partecipano segnatamente alle operazioni di soccorso e sui soggetti che le gestiscono o ne sono proprietari, in conformità del diritto internazionale e dell’Unione, compresa la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e le norme sulla protezione dei dati personali.”.
La conclusione adottata dal Collegio palermitano nell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea è nel senso che:
– come emerge dalla Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 – atto legislativo dell’UE privo di valore vincolante che consente alle istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e di suggerire linee di azione senza imporre obblighi giuridici a carico dei destinatari – l’ordinamento internazionale ed eurounitario sembrerebbe, allo stato, carente di una disciplina specifica per la classificazione dell’attività cd. SAR per le navi private, siano o meno di proprietà e/o gestite dalle ONG, giacché tale attività, tradizionalmente configurata come evento accidentale ed eccezionale, è contemplata della Convenzione Solas all’art. 4, lett. b), dalle linee guida IMO (Sezione 4, dell’appendice alla Risoluzione MSC.167(78)) e dalla Convenzione MARPOL solo come ipotesi di deroga legittima agli standard di sicurezza nella navigazione e della tutela dell’ambiente:
– questa lacuna normativa dovrebbe implicare che le navi private aventi quale specifica missione l’attività cd. SAR, seppur funzionali all’adempimento di un obbligo giuridico discendente dal diritto internazionale consuetudinario e convenzionale, sarebbero prive di una specifica classificazione nella normativa internazionale e/o eurounitaria, in grado di delinearne gli standards di sicurezza della navigazione e di tutela dell’ambiente in modo preciso e puntuale;
– in assenza, pertanto, di una specifica classificazione dell’attività cd. SAR per le navi private si dovrebbe escludere che l’utilizzo di una diversa classificazione (nel caso che ci occupa come nave cargo) possa costituire strumento elusivo della disciplina fin qui richiamata, giacché gli unici indici normativi, seppure nei limiti come sopra delineati, militano per la chiara esclusione dell’attività cd. SAR dall’applicazione delle norme internazionali (recepite dagli Stati Membri e dall’Unione Europa) sulla sicurezza nella navigazione e sulla tutela dell’ambiente marino, non emergendo dal tenore della suddetta normativa una distinzione tra attività cd. SAR occasionale e attività cd. SAR istituzionale e continuativa;
– specificatamente la lacuna normativa in sede internazionale ed eurounitaria non consentirebbe di potere rinvenire nella normativa dello Stato di approdo un valido parametro di riferimento ai fini della richiesta del possesso di certificazioni e requisiti e/o prescrizioni ulteriori e diverse rispetto a quelli discendenti dalla specifica classificazione dello Stato di bandiera.
9. Presso il T.A.R. Sicilia-Palermo, come ricorda l’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, “sono pendenti allo stato tre ricorsi aventi a oggetto il fermo amministrativo di navi di ONG, adottato in sede di PSC da parte delle Capitanerie di porto siciliane in conseguenza della ritenuta mancanza dei requisiti valutati come necessari per lo svolgimento dell’attività cd. SAR “svolta in concreto in modo sistematico” dalle relative navi di proprietà battenti bandiera di Stati membri, relativamente alle navi ONG SW3, SW4 e Alan Kurdi”.
Nelle ore in cui scrivevamo queste note, nel Mediterraneo centrale si svolgevano tre diverse operazioni di soccorso nelle quali la nave Open Arms della omonima ONG spagnola soccorreva complessivamente ben 265 persone a rischio di naufragare, in situazione di distress immediato e condizioni metereologiche in peggioramento. Persone che avrebbero dovuto essere soccorse da mezzi degli Stati competenti per le attività coordinate di ricerca e salvataggio, che non possono coinvolgere in questo momento di conflitto civile strisciante le autorità libiche, come purtroppo è confermato dalle diverse stragi che in queste ultime settimane si sono verificate all’interno delle acque territoriali libiche.
Nelle stesse ore diversi aerei degli assetti Frontex hanno effettuato missioni di monitoraggio in quella che si definisce solitamente come zona SAR libica, ma che per la parte delle acque internazionali non si sottrae alla competenza ( ed alle responsabilità) degli stati titolari di zone SAR limitrofe, dunque Italia e Malta. Quante persone avrebbero potuto essere soccorse anche in questa stagione invernale se le navi delle ONG non fossero state bloccate nei porti italiani ? E invece si continua a collaborare con la sedicente “guardia costiera libica”, anche se è noto a tutti la terribile sorte che subiscono i migranti intercettati in mare e riportati in territorio libico.
Da quanto già rilevato dal Tribunale amministrativo di Palermo emergono numerosi dubbi sulla legittimità dei provvedimenti di fermo amministrativo con i quali le autorità italiane hanno bloccato nel corso del 2020 ben sei navi delle ONG. Ed il caso del fermo amministrativo della Sea Watch 4 arriverà adesso all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Ci auguriamo di non dovere subire l’ennesima decisione “politica”.
Ma le autorità italiane non possono continuare a nascondersi dietro il richiamo al diritto europeo. Sarebbe doveroso garantire la presenza di navi private che effettuano monitoraggio nel Mediterraneo centrale, nel rispetto dei più elementari principi del diritto internazionale del mare, da applicare anche in base al dettato dell’art. 117 della nostra Costituzione, per non parlare dei doveri di solidarietà che comunque incombono sugli Stati per salvaguardare la vita umana in mare, in assenza di una attività coordinata di ricerca e salvataggio in mare (come si era verificata dall’operazione Mare Nostrum nel 2014 fino al 2017). Chiediamo dunque che le unità appartenenti alle ONG attualmente bloccate nei porti italiani vengano immediatamente “liberate” dai fermi amministrativi e rimesse nelle condizioni di operare attività di monitoraggio in acque internazionali, e se ricorrono le circostanze di eventi SAR, di procedere ad attività di ricerca e salvataggio, ricevendo assistenza dalle autorità marittime degli Stati. Attività che comunque nel più breve tempo dovrebbero ritornare sotto la diretta responsabilità degli Stati che sono in grado di garantire ai naufraghi “un porto sicuro di sbarco”. Dunque con la sospensione degli accordi con il governo di Tripoli e della cd. zona SAR “libica”.
Ancora in queste ore, si stanno mettendo a rischio centinaia di vite, e la politica dei fermi amministrativi, in continuità con la politica dei “porti chiusi”, quali che siano le campagne d’odio che i partiti di destra alimenteranno, ne porterà le principali responsabilità di fronte alla storia dell’umanità. Di certo le decisioni dei Tribunali, e delle Corti internazionali, come le stragi in mare per abbandono, frutto della guerra alle ONG e della politica dei “porti chiusi”, non saranno dimenticate.