Il naufragio del diritto internazionale: ancora vittime per abbandono nel Mediterraneo centrale

di Fulvio Vassallo Paleologo

AGGIORNAMENTO di giovedì 12 novembre, ore 18

Mentre il governo italiano tiene bloccata poco al di fuori delle acque territoriali a sud di Lampedusa la nave Open Arms ed il Mediterraneo centrale rimane sguarnito di navi umanitarie, l’Organizzazione internazionale delle Migrazioni (OIM) comunica un’altra grave strage che si è verificata al largo delle coste libiche, davanti alla città di Khums, con oltre settanta vittime. Anche in questo caso i soccorsi , prestati anche da pescherecci che si trovavano in zona, non sono arrivati in tempo e si è dimostrato sulla pelle delle vittime quanto la sedicente Guardia costiera “libica” non sia in grado di garantire la salvaguardia del diritto alla vita in mare. Secondo Federico Soda dell’OIM, “”La crescente perdita di vite umane nel Mediterraneo è una manifestazione dell’incapacità degli Stati di intraprendere un’azione decisiva per ridistribuire la tanto necessaria, dedicata capacità di ricerca e soccorso nella più letale rotta marittima del mondo”

Un’altra strage davanti le coste libiche di Sorman, da una denuncia di MSF

Secondo naufragio in un giorno davanti le coste libiche nei pressi della città di Sorman. Anche in questo caso sono arrivati in soccorso i pescatori, mentre la sedicente Guardia costiera “libica” non e’ arrivata in tempo. E poi continuano a dare tutte le colpe ai trafficanti.


1.Un comunicato di Open Arms dell11 novembre 2020) descriveva l’ennesima tragedia annunciata che si stava verificando nel Mediterraneo:” Dopo aver effettuato un primo intervento ieri pomeriggio, 10 novembre, e aver soccorso in acque internazionali 88 persone, tra cui due donne in stato di gravidanza, questa mattina la Open Arms, nave umanitaria dell’omonima ONG che sta viaggiando insieme ad EMERGENCY nel Mar Mediterraneo, ha ricevuto da uno degli assetti aerei Frontex una nuova segnalazione di un gommone in distress che si trovava a 30 miglia a Nord di Sabratha.
La nostra imbarcazione si è immediatamente diretta verso il target segnalato e, una volta giunta sul posto, si è trovata a dover operare una complicatissima operazione di soccorso. Il gommone, con a bordo circa 100 persone, tra cui alcuni bambini e donne in stato di gravidanza, aveva ceduto, e le persone erano dunque tutte in acqua, prive di salvagente o di dispositivi di sicurezza.
I nostri soccorritori sono immediatamente intervenuti portando in salvo il maggior numero di persone possibile, ma purtroppo al momento il bilancio è di 5 morti.
Il team medico sta dando assistenza ai sopravvissuti, ma le condizioni di alcuni dei naufraghi sono preoccupanti e 6 di loro richiedono un’immediata evacuazione medica. In questo momento sono 199 i naufraghi ospitati a bordo della nave”.

Secondo quanto riferito dal Giornale di Sicilia di mercoledì 11 novembre, che cita uno dei rari comunicati della Guardia costiera italiana, la Open Arms “era in area Sar di responsabilità libica e la Ong è stata contattata in quanto “mezzo più utilmente impiegabile al momento”. Sembra tuttavia difficile escludere che, dopo il mancato intervento delle autorità libiche, il coordinamento dell’intera operazione SAR spettasse alle autorità italiane, anche perché quelle maltesi, come al solito, si erano ben guardate dal garantire un qualsiasi intervento.

La circostanza che in questa occasione sia stata proprio l’agenzia europea Frontex a segnalare ad Open Arms la posizione del gommone da soccorrere, come non era successo in precedenti occasioni in cui era stata allertata la sedicente Guardia costiera “libica”, non deve stupire. Innanzitutto è noto che in molti casi i libici non riescono a garantire un tempestivo intervento di soccorso neppure nelle loro acque territoriali, a seconda delle condizioni di utilizzo spesso insufficienti delle motovedette che hanno in uso, in gran parte donate ed assistite dall’Italia. La inadeguatezza della sedicente Guardia costiera libica è confermata dall’elevato numero di vittime che si registrano già all’interno delle acque territoriali della Libia, e dovrebbe essere una ragione che da sola imporrebbe la cancellazione della zona SAR di ricerca e salvataggio riconosciuta al governo di Tripoli, un governo che ancora oggi non ha neppure l’intero controllo del territorio nazionale. Come è dimostrato dalla vicenda dell’arresto dei pescatori siciliani e tunisini ancora detenuti a Bengasi. Il governo italiano dovrebbe troncare solo per questa ragione ogni forma di sostegno alla sedicente Guardia costiera libica. Ma dietro questa spiegazione, che trova fondamento anche nella temporanea “scomparsa” delle motovedette libiche e nell’assenza di notizie di naufraghi riportati in Libia, nella giornata di ieri, potrebbe esserci una motivazione politica a livello europeo. Il direttore generale di Frontex è da tempo sotto accusa anche davanti la Commissione europea per i push-back che sono stati eseguiti in Egeo con il coinvolgimento diretto di unità e personale dell’agenzia, e giusto in questi giorni è stato costretto ad uscire dal tradizionale silenzio che ha mantenuto per anni, ed a rendere conto delle attività degli agenti di Frontex coinvolti nei respingimenti in mare, garantendo il pieno rispetto delle obbligazioni di ricerca e soccorso previste dal Diritto internazionale del mare. Si può prevedere però, a questo punto, che per difendersi su quest’ultimo evento l’Agenzia rilanci le sue accuse contro le ONG, che sono state le principali fonti delle denunce, raccolte anche da Human Rights Watch sulle omissioni di soccorso e sui respingimenti collettivi in mare, e cerchi di scaricare le proprie responsabilità su chi invece ha sempre anteposto la salvaguardia della vita umana allo sbarramento delle frontiere.

I tweet lanciati dalla Open Arms in quest’ultima occasione, pubblicati anche su Facebook, danno la prova di una giornata di ordinario abbandono in mare. La giornata ha poi avuto un epilogo ancora più tragico, i soccorsi inviati verso Open Arms si sono limitati inizialmente ad una motovedetta che starebbe per raggiungere la nave spagnola in queste ore, mentre stiamo scrivendo, e purtroppo si è registrata un’altra vittima. Una vittima, un bambino di pochi mesi, che forse, se si fosse intervenuti immediatamente con un elicottero di soccorso si sarebbe potuto salvare. Quando un elicottero si è poi levato in volo da Lampedusa, la tragedia era ormai compiuta. Sembra che l’elicottero stia procedendo adesso ad altre evacuazioni mediche (MEDEVAC) da Open Arms che sta facendo rotta verso nord. Vedremo in quanto tempo le autorità italiane indicheranno alla nave un porto sicuro di sbarco, se le autorità maltesi offriranno qualche disponibilità, e quali attività ispettive verranno svolte a bordo della Open Arms una volta che i naufraghi saranno scesi a terra o trasferiti su una nave quarantena. Quello che purtroppo è certo è che lo sciacallaggio dei partiti di destra non si arresterà neppure davanti ad una tragedia che assume ogni ora che passa contorni sempre più gravi, ed altre persone potrebbero essere disperse in mare.

Come riporta Repubblica un bambino di sei mesi “ è morto tra le braccia dei medici di Emergency a bordo della Open Arms. Il piccolo era stato salvato nella tarda mattinata nel naufragio del gommone con 120 persone a bordo andato a fondo a 30 miglia dalla costa di Sabratha ma le sue condizioni erano apparse subito disperate tanto che dalla Ong spagnola era stato sollecitata un’evacuazione medica d’urgenza per portare il bimbo in ospedale. Ma i soccorsi non sono arrivati in tempo e il bimbo è morto in serata portando a sei le vittime accertate di questo naufragio annunciato, visto che già martedì sera il centralino Alarm phone aveva rilanciato l’Sos partito dall’imbarcazione che era in mare già da due giorni”.

Il giornalista Sergio Scandura, inviato di Radio Radicale, ha documentato con tracciati molto precisi le fasi degli interventi degli aerei “Osprey” di Frontex nella zona del naufragio nelle ore precedenti al naufragio. Vittime che forse potevano essere evitate se gli Stati avessero inviato più tempestivamente le loro missioni di soccorso. Ma occorreva evitare questi interventi SAR ( ricerca e soccorso) che sarebbero stati imposti dal diritto internazionale del mare, perché nella vasta zona SAR “libica” occorreva lasciare campo libero alle motovedette tripoline. E poi le autorità italiane non potevano intervenire certo in quella zona SAR che l’IMO assegna a Malta, anche se questo paese non ha chiaramente i mezzi per presidiarla in modo da garantire il salvataggio delle vite umane in mare. In realtà da tempo Malta e l‘Italia collaborano con i libici per favorire il maggior numero di intercettazioni in acque internazionali e la riconduzione dei naufraghi in territorio libico. Ci si dovrebbe chiedere anche che cosa hanno visto, e perché non intervengono mai in interventi di soccorso, le unità della missione della Marina militare Mare Sicuro, che sono stabilmente operative nella zona attorno alle piattaforme petrolifere offshore ubicate in acque internazionali, a circa settanta miglia a nord di Zuwara e di Zawia. Proprio sulla rotta che percorrono i barconi diretti verso Lampedusa. Una rotta battuta abitualmente anche dai rimorchiatori di servizio alle piattaforme, denominati ASSO, che in alcune occasioni sono stati utilizzati per respingimenti collettivi.

2.La tragedia dell’11 novembre, come le altre che l’hanno preceduta nel silenzio generale e nella più totale indifferenza dei governi europei, è frutto di una politica omicida avallata dall’Unione Europea e delegata agli Stati che hanno concluso accordi di collaborazione con i paesi della costa nordafricana, a partire dal Memorandum d’intesa siglato con il govrno di Tripoli nel 2017, e dal riconoscimento di una zona SAR “libica” ottenuto dall’IMO nel giugno del 2018. Da allora, in una ampia fascia di acque internazionali a sud di Malta e Lampedusa sono stati ritirati gli assetti navali di Frontex e degli Stati europei che potevano comunque garantire una qualsiasi possibilità di soccorso, e si è combattuta una guerra accanita contro le Ong che erano rimaste operative, malgrado accuse infondate basate su relazioni falsificate dei servizi, mentre numerosi processi penali intentati contro gli operatori umanitari si concludevano senza condanne, come si è verificato da ultimo davanti al Tribunale di Ragusa.

Le responsabilità di queste stragi si possono individuare nelle autorità politiche e militari che hanno impedito i soccorsi nel Mediterraneo centrale per permettere alle motovedette libiche finanziate dall’Unione europea ed assistite dall’Italia di potere riprendere il maggior numero di migranti in fuga dalla Libia, oltre diecimila in quest’ultimo anno. La pandemia da COVID e le conseguenti misure emergenziali hanno svilito sempre più il valore della vita umana nelle acque del Mediterraneo, mentre i partiti populisti rilanciavano la loro campagna dì odio contro i soccorsi umanitari e persino contro gli “sbarchi autonomi”, contro tutti coloro che, comunque riuscivano a completare la loro traversata, “colpevoli” di avere salvato la vita, di avere raggiunto da soli Lampedusa, magari di avere costretto le unità della nostra Guardia costiera a soccorrerli, dopo che sui loro fragili barchini avevano varcato il limite delle acque territoriali. (12 miglia).

Nel corso del 2020 l’Unione Europea è rimasta senza una politica sulle migrazioni e il “Patto” approvato dalla Commissione il 23 settembre scorso non è altro che una bozza che è stata già bocciata da Orban e dai leader dei paesi sovranisti che si stanno coagulando attorno al cosiddetto “Gruppo di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca). La Raccomandazione approvata dalla Commissione Europea sui soccorsi in mare nel Mediterraneo lo stesso 23 settembre ha invece un impatto superiore, che è sfuggito ai commentatori, e sancisce la sostanziale delega agli Stati per quanto concerne i rapporti con i paesi terzi e in particolare conferma il supporto fornito anche in termini economici agli accordi degli Stati dell’Unione con la Turchia e con il governo di Tripoli per intercettare e respingere i migranti in mare. Rimane quindi confermata la delega alla sedicente Guardia costiera “libica” per le attività di intercettazione in acque internazionali, in quella che continua ad essere definita come SAR libica, anche se è sempre più evidente il coinvolgimento delle autorità italiane ed europee (FRONTEX) nelle operazioni che permettono ai libici di bloccare in alto mare le imbarcazioni dirette verso Malta e la Sicilia e di riportare i migranti a bordo verso i centri di detenzione in Libia.

Non sorprende neppure troppo, a questo punto, il voto del Parlamento europeo che qualche mese fa ha respinto una Risoluzione, già abbastanza moderata, presentata dalla Commissione LIBE (Libertà civile) sugli obblighi di soccorso in mare. Il testo di compromesso proposto dalla Commissione LIBE conteneva 18 raccomandazioni agli Stati membri per una maggiore cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio in mare. In particolare il punto 9 del testo richiedeva agli Stati membri di «mantenere i porti aperti alle imbarcazioni delle Ong», mentre il punto 16 chiedeva alla Commissione un impegno a lavorare su un meccanismo di distribuzione dei migranti «equo e sostenibile». Ma la necessaria modifica del Regolamento Dublino III appare sempre più lontano.

L’Unione Europea ha delegato da tempo agli stati membri più esposti agli sbarchi, Italia e Malta  nel Mediterraneo centrale, ampi poteri di negoziazione con i paesi terzi ai quali vanno ricollegate precise responsabilità. Ed altre ampie deleghe si stanno approntando per l’agenzia Frontex, in una sorta di fuga dalle responsabilità che nasconde l’assenza di una vera “governance” europea. Anche perché in materia di immigrazione ed asilo a Bruxelles non si decide nulla contro il voto di Orban e degli altri leader sovranisti europei.

La delega dei poteri di intervento in acque internazionali alla sedicente “Guardia costiera “libica”, con la creazione, nel 2018, di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata alla competenza esclusiva di questa autorità, ha prodotto migliaia di vittime, ed ha permesso la progressiva eliminazione delle navi di soccorso, prima di quelle delle missioni Triton e Themis di Frontex, che comunque potevano essere chiamate ad intervenire in interventi di salvataggio, poi di quelle della guardia costiera italiana, infine di tutte le navi umanitarie delle ONG, con la sola eccezione della imbarcazione di Open Arms.

3.E’ aumentato intanto il supporto operativo alla sedicente Guardia costiera libica, con la missione NAURAS della Marina militare italiana ancora presente, malgrado gli scandali, a Tripoli, ed in prospettiva a quella tunisina con la quale si sta arrivando ad ipotizzare un vero e proprio “blocco navale”. Come aveva chiesto Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, Non per soccorrere ma per intercettare in acque internazionali, a rischio di fare annegare tante altre persone. Una violazione palese delle regole sulle attività di ricerca e salvataggio imposte dal diritto internazionale.

La negazione dei diritti umani dei migranti nelle acque del Mediterraneo centrale, imposta dai partiti di governo in Italia ed a Malta per fare fronte alla ventata populista e sovranista che sta spazzando le democrazie europee, ha moltiplicato in questi ultimi anni i casi di abbandono in mare e di respingimento collettivo delegati alle autorità libiche. Ovunque la corruzione costituisce un legame inconfessabile tra organizzazioni criminali e apparati di polizia, come è stato confermato dai recenti arresti di uomini della Guardia costiera libica, di fatto esponenti dei clan mafiosi di Zawia ( caso Bija). Con i quali si è collaborato per anni, per intercettare persone in fuga dai lager libici ed anche al fine di garantire la sicurezza degli impianti petroliferi ubicati in questa importante città portuale.

La Commissaria dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha chiesto all’Italia di sospendere la collaborazione con la Guardia Costiera Libica. È quanto si legge in una lettera inviata il 13 febbraio al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma resa pubblica solo venerdì 21. “Chiediamo all’Italia di riconoscere fino in fondo l’attuale situazione in Libia e di definire il tempo che necessariamente occorrerà affinché eventuali cambiamenti, proposti con il nuovo accordo sull’immigrazione, abbiano un impatto”, recita parte del testo, riferendosi all’annuncio di revisione del Memorandum d’Intesa sottoscritto nel 2017 tra Roma e Tripoli. La cessione della competenza ai libici, chiamati ad operare interventi Sar in acque internazionali, non può comunque pregiudicare la dignità e la vita delle persone che si devono soccorrere

Non si possono ammettere ritardi per conflitti di competenza tra le autorità italiane e quelle maltesi. In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato.

Si deve inoltre considerare che, se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, o ne vieta l’ingresso in porto, in assenza di provvedimenti individuali, come tali oggetto di un possibile ricorso, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti in espellibili e non respingibili, come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951.

La Corte di cassazione, con la sentenza del 16-20 febbraio di quest’anno, ha ribadito la piena vigenza degli obblighi di soccorso stabiliti a carico degli Stati dal diritto internazionale, confermando la mancata convalida dell’arresto di Carola Rackete nel caso Sea Watch ( Lampedusa -2019). La Corte ha delineato un sistema gerarchico delle fonti e principi di diritto che ribaltano il principio della responsabilità dello stato di bandiera propugnato ancora dal Viminale e  rendono ancora più evidenti le responsabilità delle autorità italiane ( e in parte maltesi) che limitano alle acque territoriali l’impiego delle proprie unità militari e negano alle navi cariche di naufraghi un porto di sbarco sicuro. Ma sembra che, con i corpi delle persone, sia naufragato anche il diritto internazionale.

Nel Mediterraneo centrale, dopo il blocco delle navi delle ONG mancano mezzi di soccorso. Una interpretazione distorta del diritto internazionale del mare, in particolare della Convenzione SOLAS, è anche alla base dei provvedimenti di fermo amministrativo delle navi umanitarie. Il ministro dell’interno italiano, in una intervista rilasciata il 9 novembre ha rilanciato la prassi omicida dei fermi amministrativi delle navi umanitarie, che ha svuotato di mezzi di soccorso il Mediterraneo centrale. Gli accertamenti di una squadra speciale del Corpo delle Capitanerie di porto che ha condotto minuziose ispezioni ha portato, nella verifica tecnica delle dotazioni delle navi soccorritrici. a valutare le navi umanitarie come se i naufraghi fossero da considerare passeggeri di un traghetto.

La tesi dei “taxi del mare” continua evidentemente a condizionare anche il governo  attualmente in carica e le autorità marittime italiane qualificano gli eventi di soccorso come “eventi migratori” per evitare di intervenire al di fuori delle acque territoriali. Il rimpallo di competenze tra le autorità italiane e quelle maltesi non può giustificare la mancanza del coordinamento, richiesto dalle convenzioni internazionali, per la salvaguardia della vita umana in mare.

4.La responsabilità per le vittime nel Mediterraneo centrale non si può scaricare soltanto sui cattivi trafficanti che hanno fatto partire i migranti verso le coste italiane. Nè si può pensare che le navi delle ONG, anzi una sola nave delle ONG, possano supplire al mancato intervento di mezzi militari destinati per loro natura al soccorso in acque internazionali. Esistono responsabilità dirette dei politici e dei militari che hanno ordinato e praticato le politiche di abbandono in mare a partire dal 2017 ad oggi. Come di tutti coloro che hanno sobillato l’opinione pubblica contro i cd. “taxi del mare”. Probabilmente queste responsabilità non saranno accertate da nessun tribunale italiano, e sono assai dubbi i tempi della giustizia internazionale. I processi penali che sono stati intentati contro le ONG, e soprattutto i processi penali che ancora sono pendenti nei confronti dell’ex ministro dell’interno Salvini, sui casi Gregoretti a Catania ed Open Arms a Palermo, potrebbero essere le ultime occasioni per accertare le catene di comando che hanno lasciato morire negli anni migliaia di persone, abbandonate ai libici, o private di soccorsi tempestivi. Come del resto si è verificato fino ad oggi. Dove non vorrà o non potrà arrivare la magistratura, la società civile ed i giornalisti indipendenti documenteranno comunque tutte le fasi di quelle scelte politiche e di quelle prassi operative che si vanno configurando sempre di più come una serie di crimini sistematici ed istituzionalizzati contro l’umanità.