Dopo il presunto speronamento, il caso è chiuso, nessun accertamento sui colpi sparati dalla Guardia di finanza su un peschereccio tunisino.

di Fulvio Vassallo Paleologo

Una vicenda che aveva assunto un grande rilievo mediatico, riferita come un tentativo di speronamento di un pschereccio contro una motovedetta della Guardia di finanza che lo aveva intercettato durante attività di pesca illegale all’interno delle acque territoriali italiane. Una serie di foto e video utilizzati per costruire accuse che poi si sono rivelate delle vere e proprie “fake news”, mentre non erano una montatura e non si potevano cancellare facilmente i fori dei colpi sparati sulla cabina di pilotaggio del peschereccio tunisino “Mohanel Anmed” da una motovedetta della Guardia di finanza che pensava in questo modo di fermare la fuga dei pescatori, intercettati a circa 10 miglia da Lampedusa, e poi bloccati nelle acque internazionali.

Secondo fonti di stampa “Il giudice monocratico del tribunale di Agrigento, Giuseppe Miceli, ha convalidato l’arresto del comandante del peschereccio tunisino “Mohanel Anmed”, arrestato con l’accusa di resistenza e violenza contro nave da guerra e rifiuto di obbedire a nave da guerra. Il trentenne, difeso dall’avvocato Francesco Gibilaro, durante l’interrogatorio si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nei suoi confronti è stata applicata la sola misura cautelare del divieto di dimora a Lampedusa. L’uomo, come immortalato in un video diventato virale, dopo essere stato sorpreso a pescare in acque territoriali, avrebbe ignorato l’alt delle motovedette della Capitaneria di porto e della Guardia di finanza, e avrebbe invertito la rotta nel tentativo di fuggire”.

Come osserva Mauro Seminara su MediterraneoCronaca, “Il repentino dissequestro dell’imbarcazione, arrivato ancor prima che la procura firmata dall’armatore all’avvocato palermitano Michele Calantropo venisse depositata in Tribunale, pone l’oggetto dei colpi di mitragliatrice fuori dal procedimento e, salvo che la Procura voglia aprire un inchiesta d’ufficio o che l’armatore non intenda fare ricorso per i danni subiti, i fori di proiettile potrebbero presto scomparire sotto qualche mano di stucco e con la sostituzione del vetro di cabina”.

Si deve assistere così ad un classico tentativo di chiudere un caso spinoso “a tarallucci e vino” dopo che i media avevano capovolto per giorni la dinamica dei fatti. Nessuno speronamento era dimostrabile in base alle riprese video. Soltanto attività di pesca vietata in acque italiane, sanzionabile con una multa. Adesso il peschereccio e l’equipaggio sono gia’ ripartiti da Lampedusa per la Tunisia cosi’ da eliminare il rischio di testimonianze e perizie balistiche “scomode” per chi ha ordinato di sparare centinaia di colpi ad altezza d’uomo. Non si conosce che fine abbia fatto il comandante, che certo non sarà più a Lampedusa, ma che altrove rimane a piede libero, nè quale tipo di procedimento sarà intentato a suo carico, a meno che non chieda il classico patteggiamento che metterebbe la parola fine ad una vicenda che presenta molti profili ancora oscuri.

Una vicenda vergognosa che la magistratura dovrebbe accertare in tutti i suoi risvolti anche per garantire che episodi simili non si ripetano piu’. Per garantire il diritto alla vita dei lavoratori del mare che non decidono loro dove i pescherecci vanno a gettare le reti. Comunque risulteranno compromessi i rapporti con la Tunisia e sembrano ormai sconfitti i tentativi di collaborazione tra gli armatori italiani e quelli tunisini, sui quali si e’ abbattuto il fuoco scatenato da una motovedetta della guardia di finanza. Gli sconfinamenti continueranno comunque, da entrambe le parti. E prima o poi potrebbe scapparci il morto.

La guerra del pesce nel Canale di Sicilia continua anche in quel tratto di acque internazionai che accordi illegali ( perchè contro il diritto internazionale) hanno assegnato alla sedicente Guardia costiera libica, con la istituzione di una zona SAR di ricerca e salvataggio lasciata al controllo esclusivo delle autorità delle diverse città libiche. Rimangono ancora in carcere in Libia, sequstrati da una censura strettissima, anche in Italia, i lavoratori marittimi italiani e tunisini sequestrati dalle milizie libiche di Haftar. Magari da una delle tante motovedette donate nel tempo dagli italiani alle diverse guardie costiere libiche. La politica non trova soluzioni per questo caso. A tanto hanno portato la militarizzazione del Mediterraneo e gli accordi bilaterali con i paesi terzi mirati esclusivamente al respingimento collettivo dei migranti ed all’abbandono in mare dei naufraghi.