La vera maggioranza di governo si rivela complice delle violenze commesse dai libici

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Dopo il Senato anche la Camera dei deputati ha approvato – con il voto favorevole del centrodestra – la risoluzione sulle missioni internazionali. A causa delle divisioni interne sugli interventi in favore del governo di Tripoli e della sedicente guardia costiera “libica” , il testo è stato votato per parti separate: la prima votazione, che ha escluso il capitolo del finanziamento alla missione in Libia, ha ottenuto 453 sì, nessuno voto contrario e 9 astenuti.

La seconda votazione, relativa agli interventi sulla Libia, ha registrato 401 sì, 23 no e un’astensione. Tra i voti contrari quello di Matteo Orfini, Secondo Orfini, “qualche anno fa avremmo potuto fare finta di non sapere. Oggi no, oggi sappiamo che dire Guardia costiera libica vuol dire traffico di esseri umani, stupri, torture, omicidi. Finanziarla significa finanziare chi uccide, chi stupra, chi tortura”.

2. All’indomani del voto in Senato, il 16 luglio, la ministro dell’interno Lamorgese si è recata a Tripoli dove ha incontrato il premier Serraj, il vicepresidente del Consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro dell’Interno Fathi Bashagha e quello degli Esteri Mohamed T.H.Siala. Lamorgese ha concordato con i libici l’intensificazione dei rapporti di collaborazione in campo economico e sul fronte del contrasto dell’immigrazione “clandestina”, sottolineando però con una sua dichiarazione la “”necessità di attivare operazioni di evacuazione dei migranti presenti nei centri gestiti dal Governo libico attraverso corridoi umanitari organizzati dalla UE e gestiti dalle agenzie dell’Onu: Oim e Unhcr”.

Al centro dei colloqui con i libici è stata comunque “l’esigenza di gestire il controllo delle frontiere e i flussi dell’immigrazione irregolare sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare e in terra”, come ha dichiarato la ministro dell’interno italiana, che auspica che la visita serva ad “imprimere un’accelerazione a tutte le attività di collaborazione” tra Italia e Libia con “una nuova e più stringente tabella di marcia” per prevenire l’immigrazione irregolare. A questo proposito sarebbe stata “condivisa l’esigenza di perfezionare la cooperazione tra le forze di polizia, attraverso progetti di formazione, anche al fine di rafforzare le capacità operative nella lotta contro le reti di trafficanti di migranti e la criminalità transnazionale”. Risultati da raggiungere “anche attraverso un partenariato strategico in grado di sostenere l’azione del governo libico che ha già conseguito importanti risultati”1. Evidente il riferimento implicito della Lamorgese all’elevato numero di migranti intercettati in acque internazionali dalle motovedette libiche assistite dalla Marina miltare italiana ( Missione Nauras) e riportati sulle coste libiche.

L’obiettivo dichiarato dal governo italiano sarebbe addirittura replicare con la “Libia” l’intesa raggiunta nel 2016 tra gli stati europei e la Turchia, in modo da contenere le partenze verso l’Europa. Un obiettivo che, alla luce dell’attuale situazione di guerra civile in Libia, appare assai difficile da conseguire, mentre è provato da numerose indagini giornalistiche, rimaste prive però di un tempestivo riscontro giudiziario,, l’elevato “grado di coesione” tra le milizie che sostengono il governo Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e le organizzazioni di trafficanti, basate soprattutto a Zawia ed a Sabratah, i principali punti di partenza dei barconi diretti verso le coste italiane.

3. Il Mediterraneo centrale è ormai affollato di navi militari, ben oltre la fallimentare missione europea IRINI, anche per il conflitto in Libia, ma le persone che fuggono da quel paese, in preda alla guerra civile, rimangono per giorni abbandonate in alto mare, perchè si attende l’arrivo dei guardia coste libici. Per questo motivo, qualsiasi ritardo negli interventi, magari in attesa che intervengano i libici o i maltesi, come il silenzio sulle effettive modalità dei soccorsi, sulla loro esatta ubicazione, sulla nazionalità dei naufraghi e sull’intervento di assetti militari di altri paesi, che finiscono per agevolare respingimenti in Libia, costituisce una grave complicità dei governi nei gravi crimini che continuano ad essere comemssi in territorio libico ai danni delle persone migranti. Non si riesce ancora ad imporre agli Stati il tempestivo avvio delle attività di ricerca e soccorso in alto mare che sarebbero imposte dalle Convenzioni internazionali. Basta incrociare i tracciati dei voli degli aerei di Frontex con i rilevamenti sui luoghi nei quali avvengono i soccorsi, meglio, le intercettazioni, da parte della Guardia costiera libica, per rilevare il grado di collusione tra le autorità militari europee e le milizie libiche. Nessuno può ritenere che oscurando le missioni di sorveglianza aerea si possa riuscire a garantire il salvataggio di vite umane senza assumersi alcuna responsabilità circa la loro successiva destinazione.

Non sembra che le dichiarazioni sul rispetto dei diritti umani in Libia rilasciate dalle autorità di Tripoli agli esponenti del governo italiano abbiano margini di credibilità alla luce del fatto che si ripetono da anni, senza che la stuazione dei migranti bloccati in Libia alla mercè delle milizie colluse con i trafficanti, sia significativamente migliorata. La situazione di degrado e violenza che subiscono i naufraghi riportati indietro dalla sedicente Guardia costiera “libica” è confermata e documentata nei più recenti rapporti delle Nazioni Unite ancora operanti in Libia in alcuni punti di sbarco e nei pochi centri di detenzione che riescono a visitare. Per le Nazioni Unite non ci sono dubbi sulla sorte delle persone intercettate in acque internazionali nella cd. zona SAR “libica” e riportate in Libia dalla sedicente Guardia costiera libica. Questo il tenore di un recente comunicato congiunto di tutte le agenzie ONU presenti in Libia:“Siamo anche consapevoli delle affermazioni secondo cui le chiamate di soccorso ai pertinenti centri di coordinamento per il salvataggio marittimo sono rimaste senza risposta o sono state ignorate, il che, se vero, mette seriamente in discussione gli impegni degli Stati interessati a salvare vite umane e rispettare i diritti umani. Nel frattempo, la Guardia costiera libica continua a riportare le navi sulle sue coste e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani. Queste strutture sovraffollate sono ovviamente ad alto rischio di essere attaccate dal COVID-19”.

Chiunque continua ancora a rappresentare la realtà dei soccorsi nel Mediterraneo centrale con il richiamo ad una zona SAR “libica” nega la realtà dei fatti, perché non esiste una intera zona di mare sotto il controllo di una unica centrale di coordinamento nazionale (MRCC) in Libia, e soprattutto perché la sedicente Guardia costiera libica, per quanto assistita dagli assetti italiani ed europei, non ha le capacità operative per garantire la salvaguardia della vita umana in mare nella vastissima zona che le si è assegnata.

Diverse associazioni, tra le quali Statewatch, hanno sottoscritto una lettera aperta con cui si invita l’IMO a revocare la zona di ricerca e salvataggio libica (SAR), a causa del suo status irregolare e delle prassi che subordinano il diritto marittimo, il diritto internazionale e i diritti dei migranti agli obiettivi della politica sull’immigrazione. Nella lettera si denuncia il riconoscimento di zone SAR esclusive, riservate ad un singolo stato, al fine di ritardare i soccorsi, per consentire respingimenti e suggerire che la nazionalità degli equipaggi delle navi di salvataggio possa essere utilizzata come motivo valido per ostacolare il completamento dei soccorsi. Inoltre, secondo la denuncia, questo riconoscimento di una competenza “esclusiva” dei libici viene utilizzato per punire i cittadini europei per aver salvato persone che altrimenti sarebbero state abbandonate al loro destino. Da tempo l’Imo che ha sede a Londra non risponde a queste denunce e gli stati che si avvalgono della finzione di una zona Sar libica si guardano bene dal sollecitare un diverso atteggiamento di questo organismo che rientra pur sempre nella organizzazione delle Nazioni Unite. Anche su questo regna il silenzio, oppure disinformazione all’ennesima potenza, per non mettere in discussione le politiche migratorie europee ed italane.

Cosa si attende da parte delle Nazioni Unite, per sospendere lil riconoscimento effettuato dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare) nel giugno del 2018. che pure è un organismo delle stesse Nazioni Unite, di una zona SAR “libica” che da tempo costituisce l”escamotage” per legittimare i respingimenti collettivi delegati alle motovedette donate al governo di Tripoli e coordinate da assetti aerei e navali italiani ed europei ?

4. Un atto di accusa assai documentato è stato depositato alla Corte Penale Internazionale, che stava già indagando sulla sedicente Guardia costiera libica, per denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale ed europeo commesse dagli stati e dall’Agenzia europea FRONTEX nel Mediterraneo centrale a partire dalla fine imposta all’operazione italiana di soccorso in acque internazionali MARE NOSTRUM, conclusa nel dicembre del 2014.

La denuncia sostiene che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi… e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione (in Libia) dove vengono commessi crimini atroci”. Secondo l’atto di accusa inoltrato al Tribunale penale internazionale, “I funzionari dell’Unione europea e degli Stati membri avevano una conoscenza precoce e piena consapevolezza delle conseguenze letali della loro condotta”.

La Corte Penale internazionale, che sta ancora indagando sui crimini commessi in Libia a partire dal 2011 dopo la caduta di Ghedafi 3, impiegherà molti anni per arrivare ad una sentenza. Per questa ragione occorre valorizzare anche davanti ai giudici nazionali la imponente documentazione che è stata raccolta dagli avvocati internazionalisti che hanno presentato il ricorso alla Corte dell’Aja. Si tratta di una documentazione, e di testimonianze, che possono avere uno specifico rilievo penale, anche alla luce del diritto interno, e dunque di materiali che potrebbero rientrare in indagini condotte da una magistratura italiana che voglia ripristinare il principio di legalità e lo stato di diritto, rilevanti anche nelle relazioni internazionali a partire dalla valenza degli accordi con i libici e dalle prassi attuative che vedono direttamente coinvolte autorità italiane che dunque ricadono sotto la competenza della giurisdizione nazionale, anche se gli effetti dei loro atti si producono al di fuori dei confini italiani.

Come riporta l’Avvenire, venerdì 17 luglio “per la prima volta in Italia ci sarà un processo con l’accusa di avere eseguito un respingimento di massa illegale verso la Libia: 101 migranti e potenziali richiedenti asilo tra cui minori non accompagnati. La procura di Napoli ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per il comandante della nave Asso 28 e per un rappresentante dell’armatore che nel luglio 2018 avevano riconsegnato ai libici decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali. Come riferisce Nello Scavo, “a disposizione dei magistrati, oltre alle indagini svolte dalla capitaneria di porto di Napoli, ci sono anche le registrazioni audio delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave Open Arms”.

5. Come è documentato da una importante intervista di Flore Murard Yovanovitch all’avv. Ousman Noor, pubblicata sul Manifesto di oggi, “il Centre Suisse pour la Défense des Droits des Migrants (CSDM), un’organizzazione no profit fondata nel 2014 e con sede a Ginevra, Svizzera, ha inviato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura una richiesta di indagine formale ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti concernenti la condotta dell’Italia nel Mediterraneo centrale, che attraverso l’addestramento e l’equipaggiamento della Guardia costiera libica sta portando alla tortura di massa, lo stupro e alla riduzione in schiavitù migliaia di rifugiati e migranti ricondotti in Libia. 50.000 persone per l’esattezza, dall’inizio del Memorandum of Understanding con la Libia del 2017”. Secondo l’avvocato Ousman Noor, “ormai sono anni, che esistono le prove documentate della sistematica tortura in Libia di migliaia di profughi ricondotti in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli (rapporti Nazioni Unite e gruppi di diritti umani). L’Unhcr, l’Oim e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno anche chiesto di interrompere immediatamente la collaborazione con i libici. Affidando i respingimenti alla Guardia costiera libica, l’Italia viola gli impegni assunti con la Convenzione contro la tortura. La cooperazione dell’Italia con la Libia facilita, infatti, gli orribili abusi di migliaia di persone in cerca di sicurezza e rifugio, e la loro tortura da parte di attori libici. Sia i funzionari del governo italiano che di altri paesi europei hanno anche riconosciuto pubblicamente quanto sta accadendo. Nella nostra richiesta d’inchiesta dimostriamo che riconducendo i migranti in Libia, la Guardia costiera libica agisce per conto dell’Italia”. L’avvocato dell’organizzazione svizzera aggiunge che “ci sono anche lì prove schiaccianti che su imbarcazioni affollate, respinte e alle quali è stato vietato di sbarcare nei porti di Malta o d’Italia, inutili sofferenze fisiche – mancanza di cibo, di acqua, bruciature, ecc… – e psicologiche, sono inferte su persone vulnerabili e già esposte per giunta alla tortura in Libia. Pratiche che sono riconducibili alla tortura, ed è un aspetto che, dopo questo caso, vogliamo portare avanti con il Csdm”.

6. Il coordinamento operativo, documentato da atti giudiziari e report internazionali, tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (IMRCC), la Marina militare, con una nave presente nel porto di Tripoli, e la sedicente Guardia costiera “libica, potrebbe configurare un vero e proprio respingimento collettivo attuato anche direttamente con il coordinamento operativo garantito dall’Italia, un respingimento vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Se infatti per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla giiurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività SAR inizialmente segnalate ad autorità italiane, fino a quando non siano prese in carico da altra autorità nazionale, nel rispetto del principio di non respingimento, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che deve quindi garantire un luogo di sbarco nel Place of Safety più vicino, e non nel porto più vicino. È dunque l’Italia che deve garantire il rispetto del principio di non refoulement (respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e del divieto di respingimenti collettivi, oltre che il rispetto del divieto di trattamenti inumani o degradanti, pure sancito dalla CEDU.

Quando le autorità italiane individuano la responsabilità SAR “libica”, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di imbarcazioni in acque internazionali, sono state segnalate alle autorità italiane, e dunque ricadono già sotto la giurisdizione italiana, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono impegnati nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.

7. Le proposte che dopo la fase più acuta del cd. lockdown fanno i governi per il ritorno alla “normalità”, ovvero per la cosiddetta “ripartenza”, ripropongono, attraverso gli accordi bilaterali con governi che non garantiscono l’effettivo rispetto dei diritti umani, come quello di Tripoli, reiterano i vecchi strumenti della chiusura delle frontiere e della clandestinizzazione della forza lavoro migrante. Non saranno certo le operazioni di push back delegate ai libici, come i processi penali contro i soccoritori o lo schieramento dell’esercito, o ancora la chiusura dei porti con il divieto di sbarco o la collaborazione con i respingimenti effettuati dai maltesi, a difendere il “popolo italiano” da arrivi di massa, e da un nemico subdolo come il virus Covid-19. Che sta dilagando in tutto il mondo senza subire alcun freno alla sua diffusione per effetto del regime di chiusura delle frontiere che quasi tutti gli Stati hanno stabilito e progressivamente inasprito. Adesso che, per ragioni economiche, le frontiere si vanno riaprendo, con i dati sull’infezione in costante crescita dei casi in tutto il mondo globalizzzato, i rischi maggiori per una seconda ondata di contagi non provengono certo dalle rotte marine dei migranti, che riescono ancora a fuggire dalla Libia, o che partono dalla Tunisia, un paese in ginocchio per la crisi economica seguita alla pandemia. Piuttosto che moltiplicare le zone rosse e sbarrare le frontiere, proibendo persino lo sbarco dei naufraghi già in porto,o scambiando per migranti semplici pescatori, come sta avvenendo in queste ore nel porto di Augusta (Siracusa), sarebbe meglio che le autorità statali e regionali si attrezzino con un sistema più efficiente di medicina territoriale, aumentando i presidi di rilevazione del’infezione, e potenziando la sanità pubblica in vista dello scontato aumento dei casi di Covid 19 alla fine dell’estate. Non per “colpa” dei migranti, che possono essere controllati al momento dello sbarco, ma per l’incremento della mobilità dei cittadini europei per motivi di lavoro, di studio e di turismo.

8. Lo stato di emergenza proclamato in occasione della pandemia da COVID-19 rischia di subordinare i diritti umani dei migranti e la libertà di azione di chi li soccorre e presta loro assistenza, ad un astratto interesse generale “nazionale”, di carattere sanitario, che si presta come grimaldello per scardinare i diritti fondamentali che vanno riconosciuti ovunque si trovi a qualunque persona quale che sia la sua nazionalità o il suo stato giuridico (come ricorda l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998). Non si può accettare  che la situazione di progressiva erosione dei diritti umani riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, determinata magari dai condizionamenti imposti dagli stessi soggetti politici che poi sfruttano le immagini di abbandono e desolazione che derivano dalle loro politiche, possa continuare ancora ad aggravarsi nella lunga fase di “convivenza” con la pandemia da COVID-19. Occorre una  proposta complessiva e coraggiosa di svolta politica sui temi dell’immigrazione e del soccorso in mare, dal punto di vista legislativo e della politica estera,  e quindi delle prassi applicate,  che segnino una vera discontinuità con quanto finora avvenuto, e che si continua a verificare, malgrado il parziale cambio di governo.

9. La dichiarazione di uno stato di emergenza sanitaria per effetto della pandemia da Covid-19, non sospende gli obblighi internazionali degli stati, tenuti a completare le operazioni di soccorso in mare fino allo sbarco a terra dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). Fino a quando sarà esteso lo stato di emergenza proclamato dal governo italiano anche con riferimento allo sbarco in porto dei naufraghi soccorsi da navi battenti bandiera straniera ?

Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso alla Convenzione di Amburgo che costituisce parte integrante della convenzione sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare defatiganti trattative tra stati al fine della ripartizione dei naufraghi, prima che questi possano toccare terra. Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona in pericolo. Adesso queste azioni devono completarsi con il rispetto dei protocolli sanitari, ma anche con il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali delle persone. In nessun caso posssono ritenersi legittimate dal’emergenza sanitaria in corso le pratiche di abbandono in mare di persone in evidenti condizioni di distress ( pericolo immediato)

Il quinto capitolo dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo (SAR)definisce le fasi di emergenza per gli scopi operativi che caratterizzano un’operazione di ricerca e salvataggio, dalla ricezione di un messaggio di soccorso (allertamento) fino alla fase di intervento dei mezzi e loro coordinamento (fase di soccorso). secondo quanto previsto dal Paragrafo 5.1.9, “Ciascuna unità che è a conoscenza di un caso di pericolo adotta immediatamente delle misure a seconda delle sue possibilità al fi ne di prestare assistenza o dà l’allarme alle altre unità in grado di prestare assistenza ed avverte il centro di coordinamento di salvataggio o il centro secondario di salvataggio della zona in cui siè verificato il caso di pericolo”. Non si possono scambiare le attività SAR in acque internazionali, quando è in pericolo la vita delle persone, con “eventi migratori”, come si legge in un recente comunicato della Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC).

Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività SAR, o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi, come in diverse occasioni è stato affermato dal ministro dell’interno Lamorgese.  Appare poi del tutto fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile,attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo. Se si ritenesse come paese competente per la indicazione del porto di sbarco sicuro quello di bandiera della nave soccorritrice, l’intero sistema del soccorso in mare risulterebbe inficiato. Non si può prevedere che tale regola operi esclusivamente a danno delle navi delle Organizzazioni non governative, e non anche per i soccorsi operati dalle navi commerciali, o da quelle militari, incluse quelle delle missione Eunavfor MED denominata IRINI, che infatti sbarcheranno in Grecia tutti i naufraghi che soccorreranno nell’ambito della loro attività.

10. Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. È bene ricordare che per Trattato internazionale si intende qualunque «accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione». Una importante sentenza del Tribunale di Trapani ( sul caso Vos Thalassa) aveva affermato la nullità degli accordi con la Libia, nel rispetto del principio di gerarchia delle fonti e della vigenza effettiva del Diritto internazionale, come imposto dagli articoli 10, 11 . Adesso una sentenza della Corte di Appello di Palermo ribalta questo indirizzo e senza neppure entrare nel merito delle considerazioni di diritto internazionale sviluppate dal Tribunale di Trapani, riafferma la legittimità degli accordi con la sedicente guardia costiera “liibica”. Non rimane che attendere il pronunciamento della Corte di Cassazione, prima di riportare anche questo caso, se necessario, davanti ai Tribunali internazionali ed ai Rapporteurs delle Nazioni Unite.

Al di là del voto del Parlamento italiano e della linea politica sostenuta dal governo Conte bis nei rapporti con la Libia e con gli altri paesi del nordafrica, occorre sospendere – se occorre con il ricorso alla giustizia internazionale- l’attuazione del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia concluso il 2 febbaio del 2017 e ratificato il giorno successivo dalla “riunione informale dei Capi di Stato e di Governo europei” di Malta.In caso contrario altre migliaia di persone continueranno ad essere abusate nei campi di detenzione in Libia ed abbandonate al loro destino nelle acque del Mediterraneo centrale.

La “guerra” ai soccorsi in mare che si combatte nel Mediterraneo centrale è certamente più lontana ( anche nel cuore degli italiani) dalla “guerra” contro il COVID-19, una guerra che, soprattutto nelle regioni settentrionali continua a  fare ancora vittime tutti i giorni. Vittime vicine, visibili, a differenza delle migliaia di vittime disperse in mare o incatenate nei centri di detenzione in Libia, sotto bombardamento oppure merce di scambio tra milizie e trafficanti. Per tutte queste vittime, la tragicità della morte disintegra i tentativi di manipolazione e di occultamento. Se qualcuno pensa che si possano bloccare gli sbarchi di migranti in fuga dalla Libia eliminando le ONG ed impedendo i soccorsi, o ritirando i mezzi della Marina e della Guardia costiera che in passato operavano attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, si troverà presto smentito. E si dovrà affrontare una grave emergenza perché gli sbarchi incontrollati saranno molto più numerosi di quelli conseguenti ai soccorsi operati dalle navi umanitarie italiane e straniere. Le conseguenze dell’allontanamento delle ONG si riverbereranno anche sullo stato di salute delle persone che arriveranno comunque a sbarcare a terra. E nelle prossime settimane saranno centinaia, se non migliaia di persone, che arriveranno sulle coste italiane, ennesima riprova che non erano le ONG a costituire un fattore di attrazione (pull factor).

Ci vorranno poi altre politiche per concordare con gli stati che sono titolari di zone SAR limitrofe interventi coordinati per il salvataggio e lo sbarco in un porto sicuro, senza lasciare perire in mare altre migliaia di innocenti e senza alimentare milizie che in Libia, da tutte le parti, stanno dimostrando una crescente crudeltà. Sarà necessario un approccio al conflitto civile libico, ed alle crisi nei paesi di origine, che privilegi i soccorsi più tempestivi in mare e la soluzione dei problemi che sono all’origine delle partenze, come la guerra, la corruzione o la dittatura, ed anche le crisi sanitarie, adesso che il COVID 19 si diffonde in tutto il mondo, piuttosto che puntare esclusivamente sul contenimento, a qualsiasi costo, degli arrivi in Europa.

La società civile e le organizzazioni non governative, per quanto oggetto di pesanti attacchi, proseguiranno nel loro lavoro quotidiano di denuncia. anche con riferimento ai casi di imbarcazioni in difficoltà in alto mare, non soccorse con la dovuta tempestività, o di persone riportate in Libia ed ancora esposte ad ogni genere di abusi. Nessuno potrà dire: io non sapevo.