di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Una recente sentenza della Corte di Appello di Palermo ha “ribaltato” la precedente decisione del Tribunale di Trapani che lo scorso anno ha assolto due migranti accusati nel 2018 di avere “dirottato” nel Canale di Sicilia un rimorchiatore battente bandiera italiana, il Vos Thalassa, al fine di evitare, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali, di essere ricondotti in Libia. La quarta sezione della Corte di Appello di Palermo ha così stabilito una condanna a 3 anni e 6 mesi per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina, a carico di due dei 67 migranti raccolti a bordo della Vos Thalassa, in realtà naufraghi, e non “clandestini”, come li definisce la sentenza, che erano stati soccorsi l’8 luglio 2018 in zona Sar libica da questo rimorchiatore, e poi trasbordati sulla nave Diciotti della Guardia costiera italiana, con la quale erano giunti a Trapani. Dopo il diktat dell’allora ministro dell’interno Salvini, che richiedeva espressamente, prima il respingimento collettivo di tutti i naufraghi e poi l’arresto di coloro i quali, con la loro ribellione, si erano opposti alla prospettiva di essere riportati in Libia. Mentre la nave Diciotti della Guardia costiera italiana veniva bloccata all’ingresso del porto di Trapani, alcuni Ministri del governo da poco in carica, avevano definito come “facinorosi” i naufraghi, arrivando a chiedere che fossero sbarcati “in manette” dalla nave militare italiana (Diciotti) sulla quale erano stati trasbordati. Lo sbarco in porto aa Trapani vveniva soltanto dopo un intervento del Presidente della Repubblica.
La sentenza emessa dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani il 23 maggio 2019, rilevava che «il potere della autorità libiche di impartire a quelle italiane direttive in vista del rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese…deriva dall’accordo stipulato tra Italia e Libia nel 2017», che però, in assenza di una approvazione parlamentare ai sensi dell’art.80 della Costituzione, sarebbe «giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa». La decisione del giudice trapanese, che, sulla base dei rapporti delle Nazioni Unite, rileva l’esposizione ad abusi dei migranti internati nei centri di detenzione libici, equipara le eventuali riconsegne di migranti alla Guardia costiera libica ad un «respingimento collettivo», vietato dalle Convenzioni internazionali. E infatti si osserva come. «se si riflette un momento sul fatto che i67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro (…)
La sentenza della Corte di Appello di Palermo “ribalta” questa impostazione, e dopo essere stata pubblicata con ampi stralci dal Corriere della sera, che all’epoca dei fatti aveva seguito con particolare attenzione la vicenda, dando anche spazio alle dichiarazioni dell’armatore della nave, che escludeva qualsiasi “dirottamento“, è finita in mano alla propaganda sovranista. Che ha prontamente colto l’occasione per un ulteriore difesa della linea di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e di collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica”, politica perseguita dall’ex ministro dell’interno Salvini, ma in realtà avviata già in precedenza da governi diversi, a partire dal 2007, per efffetto degli accordi stipulati nel tempo con le autorità di Tripoli. Il 30 luglio 2018, ad esempio, un’altro rimorchiatore battente bandiera italiana,“in assistenza alla piattaforma di estrazione ‘Sabratah’ della Mellita Oli & Gas”, l’Asso 28, aveva riportato a Tripoli oltre cento naufraghi intercettati in acque internazionali. Ed ancora di recente, si sono confermati i finanziamenti alla sedicente Guardia costiera “libica”, ritenuta l’unica autorità competente ad operare in quella che si continua a definire come zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”. Anche se la Libia, in preda da anni alla guerra civile, non esiste più come stato con un governo che ne controlli l’intero territorio, e non dispone di un servizio SAR unico che, in conformità alle Convenzioni internazionali, garantisca la salvaguardia del diritto alla vita dei naufraghi. Le autorità europee, come l’agenzia FRONTEX, e gli stati che hanno concluso con Tripoli accordi di collaborazione per contrastare “l’Immigrazione clandestina”, come Malta e l‘Italia, continuano comunque a collaborare con la sedicente Guardia costiera libica e ne assistono i mezzi navali, per le operazioni di “law enforcement” ( contrasto dell’immigrazione “clandestina”), nel caso dell’Italia con la missione NAURAS della Marina militare italiana presente a Tripoli.
2. Esamineremo qui le principali motivazioni della sentenza della Corte di Appello di Palermo, largamente anticipate sui media, per verificare se possa risultare’ “ideologico” richiamare il principio di gerarchia delle fonti e la valenza del diritto internazionale in base all’art.117 della Costituzione, mentre non sarebbe “ideologico” ritenere che i migranti che fuggono dalla Libia, ma anche dalla Tunisia, siano tutti migranti “volontari” o che sia possibile, e legittimo, disporre respingimenti collettivi in Libia sia pure a carico di persone sospettate di avere commesso reati. Come avviene purtroppo sempre più spesso in questi ultimi tempi, la qualifica di un giudizio come “ideologico” esclude una confutazione con argomenti di merito e gioca sull’alternativa secca tra “vero” e “falso”, anche quando i fatti non sono riducibili a categorie ben delimitate e sono stati oggetto di valutazioni di segno opposto. Come si è verificato nel tempo a proposito del Memorandum d’intesa concluso il 2 febbraio 2017 tra il governo italiano e le autorità di Tripoli, e come è confermato dal dibattito, ancora in corso, sul sostegno offerto dall’Italia alla sedicente Guardia costiera “libica”.
In sintonia con l’indirizzo giurisprudenziale adottato dalla Corte di Appello di Palermo, la politica sembra confermare che: gli accordi con i libici non si toccano, anche se, dopo le agenzie delle Nazioni Unite, il Papa avverte che il destino di chi rimane intrappolato in Libia è un destino di morte e di torture. Non si può certo parlare, neppure sul piano strettamente giuridico, di “partenze volontarie” dalla Libia, in tutti i casi si tratta di migranti forzati, che fuggono da un territorio in preda alla guerra civile e nel quale non sono garantiti da nessun governo i diritti fondamentali della persona, come avvertono l’UNHCR e lOIM, che invitano gli Stati a non respingere naufraghi verso quel paese.
Secondo quanto riferito dal Corriere della sera il 10 luglio scorso, “l”assoluzione dei due migranti dirottatori (definiti dai giudici di appello come «clandestini») deriverebbe da un «approccio ideologico», e costituirebbe una interpretazione addirittura «criminogena» del concetto di «legittima difesa applicata al diritto del mare», che potrebbe «creare pericolose scorciatoie”, ammetendo «condotte dotate di grande disvalore penale ai limiti dell’ammutinamento»: al punto che «chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare da una unità italiana, sicuro di potere minacciare impunemente l’equipaggio qualora esso dovesse disobbedire a un ordine impartito dalla Guardia Costiera di uno Stato» (la Libia) «che, piaccia o no, è riconosciuto internazionalmente».
Per la Corte di Appello di Palermo, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe dunque configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché «i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione».
3. Le motivazioni addotte dai giudici della Corte di Appello di Palermo sono articolate secondo uno schema argomentativo che fa desumere una scarsa attività dei difensori, con la mancata partecipazione al giudizio di secondo grado dell’avvocato che aveva assistito i migranti nel processo di primo grado, sostituito da altro difensore “prontamente disponibile”, che si è limitato a qualche eccezione procedurale, respinta dalla Corte. Non emergono specifiche attivita’ istruttorie svolte dalla Corte di Appello a supporto della sua decisione, e le risultanze probatorie, in particolare alcune testimonianze, sono stralciate dalla sentenza di primo grado. Non vengono neppure affrontati i complessi problemi di diritto sovranazionale trattati dalla Procura di Trapani nel suo ricorso e l’intero impianto della decisione dei giudici di Appello punta sulla questione dell’esimente della legittima difesa. L’esclusione dei presupposti della legittima difesa riportata al piano del giudizio di fatto sembra peraltro ridurre lo spazio di un ricorso alla Corte di Cassazione. Nè si può prevedere adesso se, nei termini previsti, sarà proposto un ricorso alla Suprema Corte contro questa sentenza di condanna, che “ribalta” l’assoluzione stabilita dal Tribunale di Trapani. Di certo quanto stabilito dai giudici di Palermo assume una notevole rilevanza mediatica e politica, a fronte del rinnovato rapporto di collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, deciso pochi giorni fa, con un voto del Senato sulle missioni italiane all’estero, che dovrà essere confermato dal voto della Camera dei deputati.
4. La principale argomentazione offerta dai giudici della Corte di Appello di Palermo per escludere la ricorrenza di un caso di legittima difesa sembra poggiare sul principio, che si ritiene come consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui “la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell’ingiustizia dell’offesa, ma per difetto della necessità della difesa”. (Sez. I sentenza n. 2654 del 23 gennaio 2012). In altri termini, sempre secondo la Corte di Appello di Palermo, i migranti si sarebbero posti in stato di pericolo volontariamente, “sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio, di tal che l’intervento di soccorso non può in alcun modo essere considerato, nella dinamica causale che caratterizzò l’evento, come un fatto imprevedibile, bensì come l’ultimo di una serie di atti programmati, finalizzati a raggiungere il suolo europeo, con una serie di tappe prefissate”.
Secondo gli stessi giudici “venne dunque posta in essere una condotta da parte dell’organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità ( la partenza su un barcone di legno stipato di persone e chairamente inadatto alla traversata del Canale di Sicilia) atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale, e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti in suolo italiano”. Per questa ragione non sarebbe stato possibile ritenere operante la scriminante della legittima difesa, come aveva ritenuto invece il Tribunale di Trapani, in quanto le “azioni minacciose” poste in essere dai due migranti ribelli, asseritamente ai danni del Comandante, del primo Ufficiale e di un marinaio, non sarebbero state poste in essere per “la necessità di difendere il proprio diritto dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio ( per i migranti) di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte del Vos Thalassa di un ordine impartito da uno stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi”.
Sembra non assumere rilievo per i giudici della Corte di Appello di Palermo tanto la gravità e l’attualità del pericolo corso dai naufraghi raccolti a bordo della Vos Thalassa, quanto testimoniato nel processo di primo grado da alcuni migranti che avevano descritto con dettagli agghiaccianti le violenze subite in Libia prima della partenza, non certo volontaria, verso le coste italiane. Una donna, in particolare, aveva testimoniato, davanti al GUP di Trapani, di essere stata rinchiusa per giorni, prma dell’imbarco, all’interno di una casa adoperata dai trafficanti (probabilmente una connecting house) e di avere subito più volte violenze sessuali. Come sarebbe potuto avvenire di nuovo in caso di suo ritorno a terra, in base a quanto documentato dalle agenzie delle Nazioni Unite sulla sorte dei migranti riportati in Libia. La situazione di qiesta persona e delle altre soccorse dal rimorchiatore Vos Thalassa non era certo “volontariamente determinata”, ma era frutto di una condizione di grave e continuata violenza e di totale privazione dei diritti umani, ai quali neppure il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, riusciva a porre rimedio. Ma anche questo punto dela motivazione fornita dal Tribunale di Trapani, nel successivo giudizio di appello rimane privo di rilievo. La valutazione anticipata della situazione di pericolo nella quale si sarebbero messi i naufraghi soccorsi dalla Vos Thalassa, operata dai giudici della Corte di appello di Palermo al fine di escludere la ricorrenza della legittima difesa, sembrerebbe muovere da un presupposto, potremmo dire ideologico, e non giuridico, che se può avere un fondamento in qualche massima della Corte di Cassazione relativamente a vicende criminali avvenute in circostanze di fatto assai diverse, andrebbe attentamente rivalutato alla luce della normativa sovranazionale e delle specifiche circostanze di fatto verificatesi nel caso del soccorso in mare, in acque internazionali, da parte di un rimorchiatore battente bandiera italiana.
Sotto il profilo tecnico giuridico poi, il richiamo alla scriminante della legittima difesa viene escluso con argomentazioni che non appaiono condivisibili. Infatti, il pericolo che dà luogo alla scriminante dell’art. 52 del Codice Penale deve essere attuale. L’anticipazione della previsione del “pericolo attuale”, al momento in cui i migranti si consegnano ai trafficanti, appare contraria a tutte le norme non solo codicistiche, ma anche sovranazionali. Come se il ricorso all’unico canale di uscita dalla Libia, dal momento che sono quasi inesistenti le vie di fuga legali, privasse le persone di ogni loro diritto. Come se le finalità di lotta all’immigrazione irregolare dovessero prevalere sulla tutela dei diritti fondamentali della persona. Esattamente l’opposto di quanto previsto dalla Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine organizzato e dal Protocollo addizionale sul traffico di esseri umani allegato alla stessa, secondo cui (art.16) ,”Nell’applicazione del presente Protocollo, ogni Stato Parte prende, compatibilmente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo, come riconosciuti ai sensi del diritto internazionale applicabile, in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti”.
Si aggiunga che il pericolo evidenziato dal gruppo di migranti che si era ribellato a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa quando questo, su indicazione aveva fatto rotta verso un porto libico , era determinato dal paventato ritorno negli stessi luoghi nei quali i migranti, nella migliore delle ipotesi, sarebbero stati rinchiusi in un centro di detenzione, alla mercè delle milizie e dei trafficanti.
La Corte di Cassazione afferma che l’accertamento della legittima difesa putativa, così come di quella reale, deve essere effettuato con giudizio ex ante – e non già ex post – delle circostanze di fatto, rapportato al momento della reazione e dimensionato nel contesto delle specifiche e peculiaricircostanze concrete al fine di apprezzare solo in quel momento l’esistenza dei canoni della proporzione e della necessità di difesa, costitutivi, ex articolo 52 del codice penale , dell’esimente della legittima difesa. Non si vede come questo principio di diritto possa essere affermato in favore di cittadini italiani, ed invece escluso quando si tratta di stranieri, che comunque si trovano a bordo di una imbarcazione battente bamdiera italiana, dunque in territorio italiano. Nella sentenza della Corte di Appello di Palermo sul caso Vos Thalassa, questo principio è completamente ribaltato, lasciando il giudizio ex ante non già al giudice, ma alla parte, e non nel momento in cui l’attualità del pericolo diviene attuale, bensì nell’atto genetico di una condotta neutra quale è quella di lasciare il Paese di origine, e poi quello di transito, in stato di guerra civile, per sottrarsi a conflitti, persecuzioni politiche e fame.
5. Non si rinviene peraltro traccia, nel processo di primo grado, e nella sentenza della Corte di appello, dell’organizzazione criminale che avrebbe fatto partire i migranti dalla Libia e tantomeno dei nessi o dei patti che avrebbero legato i suoi componenti ai migranti imputati per essersi ribellati alla prospettiva di essere riportati in Libia. Peraltro, da anni, come si ricava da rapporti ben documentati, costituisce fatto notorio il trattamento dei naufraghi intercettati in mare dalla sedicente Guardia costiera “libica” e riportati a terra. Come del resto costituiva, e costituisce ancora oggi, fatto notorio la circostanza che il governo di Tripoli non riesce ad esercitare la sovranità sull’intero paese, in buona parte controllato dall’Esercito definito come Libyan National Army (LNA) del generale Haftar, al punto che deve la sua sopravvivenza ad accordi con le milizie che rappresentano le principali città costiere della Tripolitania, controllando altresì i porti e le relative autorità marrittime. In Libia non esiste una centrale di coordinamento unica della Guardia costiera –MRCC (che le Convenzioni internazionali imporrebbero), ma si ha soltanto una coordinamento tra le diverse guardie costiere che controllano singoli tratti delle acque territoriali libiche (JRRC) e assetti aerei stranieri . Sono peraltro accertati i rapporti tra i trafficanti e importanti rappresentanti della cosiddetta “Guardia costiera libica”. Tutti elementi di fatto già oggetto di indagine a livello internazionale anche da parte della Corte Penale internazionale, se non accertati nelle sentenze della giurisprudenza italiana, come risulta confermato il “sostanziale” coordinamento delle motovedette libiche da parte di assetti militari italiani, già rilevato dal giudice delle indagini di Catania nel marzo del 2018 sul caso Open Arms. Un coordinamento operativo che, dopo il riconoscimento di una zona SAR libica, nel giugno del 2018, ha assunto il carattere di una assistenza tecnica fornita dalla missione Nauras a Tripoli e di un tracciamento dei barconi, in collaborazione con Frontex, con ampia delega alle motovedette libiche di intervenire anche al di fuori delle proprie acque territoriali.
6. Per tali ragioni non sembra facile escludere la ricorrenza delle cause di giustificazione messe in evidenza dal giudice di primo grado, tutte basate su solidi riscontri documentali, e sull’applicazione rigorosa del principio di gerarchia delle fonti, per ritenere invece assodati, come fa la Corte di appello di Palermo, “comportamenti anche dotati di grande disvalore penale, quali atti di resistenza, al limite dell’ammutinamento, come quelli avvenuti a bordo del Vos Thalassa, che possono mettere a rischio la vita dell’intero equipaggio e dei trasportati”. Come se disobbedendo agli ordini del comandante fosse automaticamente riscontrabile una violenza e come se questa, a fronte della asserita conseguente disobbedienza “ad un ordine impartito dalla Guardia costiera di uno stato, che, piaccia o no, é riconosciuto internazionalmente”, potesse esporre lo stesso equipaggio “anche a pericolose reazioni militari”. Non si comprende bene da parte di quale entità militare. Secondo i giudici della Corte di appello di Palermo, una volta assodata la resistenza agli ordini del comandante, estrinsecata con un comportamento gestuale asseritamente violento e minaccioso, insomma, non ci sarebbe alcuno spazio per configurare una legittima difesa di un proprio diritto in favore dei due imputati. perchè questi si sarebbero messi volontariamente in una condizione di pericolo affidandosi ai trafficanti per partire dalla Libia. Come se i due imputati fossero stati gli unici a ribellarsi di fronte alla prospettiva di essere riportati in Libia.
I due migranti che vengono descritti, in base ad una parte dei verbali di polizia depositati nel processo di primo grado, come violenti, sono stati dunque condannati per i reati di resistenza e violenza, reati ritenuti assorbenti rispetto al contestato reato di agevolazione dell’ingresso irregolare. Secondo il Collegio, “alla luce delle emergenze probatorie sopra evidenziate, gli imputati , identificati tra i soggetti agenti più attivi nella protesta, posero in essere azioni minacciose e violente nei confronti dell’equipaggio del Vos Thalassa, creando una grave reazione di pericolo per la navigazione a tutti gli imbarcati sul natante, costringendo il comandante della nave prima ad interrompere la navigazione verso la Libia, ove, sotto l’egida dei comandi della Guardia costiera italiana, gli era stato ingiunto di fare rotta per sbarcare i migranti, e, successivamente, a far rotta verso nord, e dunque verso l’Italia, ove erano inizialmente diretti a bordo del barcone intercettato, con ciò avendo commesso sia il reato di resistenza, essendosi opposti ad un atto d’ufficio del comandante, pubblico ufficiale perchè incaticato delle operazioni di soccorso, sia quello di violenza per averlo sucecssivamente costretto ad invertire la rotta verso nord, e a chiedere l’ausilio della nave Diciotti, ove vennero trasbordati per poi fare ingresso nel territorio italiano”. Rimane da chiedersi a questo punto se i migranti che, per salvarsi dagli abusi e dalle violenze subite in Libia, sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per raggiungere le coste europee, quando vengano soccorsi in acque internazionali, da un mezzo privato di uno stato dell’Unione Europea, siano ancora portatori di un nucleo minimo di diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita ed dal diritto di non subire respingimenti collettivi e quindi trattamenti inumani o degradanti.
7. Si deve rilevare innanzitutto che i naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana, si trovavano in territorio italiano sin dal momento in cui erano saliti a bordo di questa imbarcazione, e che se fossero stati ricondotti in Libia a bordo della stessa, avrebbero potto subire trattamenti inumani o degradanti e si sarebbe potuto configurare un respingimento collettivo, vietato dall’art. 4 del quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, analogo a quello disposto dal ministero dell’interno nel 2009, quando la motovedetta della Guardia di finanza Bovienzo riportò a Tripoli alcune decine di migranti intercettati in acque internazionali. Per quel respingimento collettivo (caso Hirsi), e per i trattamenti inumani e degradanti che ne derivarono, l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con una sentenza che non può essere ignorata dai giudici italiani. Anche nel 2018 e ancora oggi sono migliaia i naufraghi intercettati in acque internazionali e riportati a terra dalla sedicente Guardia costiera “libica” ed a chiunque si trovi intrappolato in quei territori sono ben note le conseguenze di questi respingimenti collettivi. I naufraghi raccolti dalla Vos Thalassa potevano certo rappresentarsi cosa li avrebbe attesi al loro ritorno in Libia.
Quello che sorprende, nella decisione dei giudici di Appello di Palermo, è la rimozione del contesto di fatto nel territorio libico dal quale nel 2018 erano stati fatti partire i migranti e delle norme di diritto internazionale del mare e di diritto dei rifugiati, che avevano indotto il Tribunale di Trapani a ponderare gli interessi nazionali ed i diritti fondamentali in gioco, concludendo per il riconoscimento di una causa di giustificazione, la legittima difesa appunto. Come aveva affermato il giudice di primo grado, sembra evidente che la possibilità di configurare un respingimento collettivo in contrasto con il diritto internazionale e dell’Unione europea incide direttamente sulla possibilità di configurare la legittima difesa, in quanto “incide sul presupposto della sussistenza del diritto violato, rispetto al quale gli imputati avrebbero opposto una legittima resistenza”. Eppure su questo punto decisivo, nella sentenza di appello non si rinvengono argomentazioni in grado di smentire l’articolato quadro di ricostruzione gerarchica delle fonti normative, sovranazionali ed interne, proposto dal Tribunale di Trapani.
Come si è già osservato in dottrina, la sentenza del Tribunale di Trapani fornisce una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”.
La sentenza della Corte di Appello di Palermo sembra sottovalutare la rilevanza del diritto internazionale nell’ordinamento interno, e non affronta neppure il punto centrale della decisione del Giudice trapanese basata su un puntuale richiamo alle norme di diritto internazionale contenute in un documentato rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) del 2018, che viene a costituire parte integrante della motivazione della sentenza di primo grado. Secondo quanto osservato nel rapporto dell’UNHCR riportato nella sentenza del Tribunale di Trapani, “Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’Uomo. Da tale excursus emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa – non solo i due soggetti identificati, ma anche tutti gli altri concorrenti nel reato, stavano vedendo violato il loro diritto ad essere ricondotti in un luogo sicuro e, specularmente, che l’ordine impartito dalle autorità Libiche alla Vos Thalassa fosse palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo”.
8. Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione, III Sez. pen., sent. n. 112, 16 gennaio 2020, “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Ritenere che la Libia possa costituire un “luogo sicuro”, e che questa circostanza possa essere percepita dai migranti già prima dell’imbarco, o ancora in caso di respingimento o di ritorno su mezzi della sedicente Guardia costiera libica, contrasta ancora oggi, come contrastava già nel 2018, con la realtà dei fatti e con il combinato disposto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Per questa ragione non si può ritenere che i migranti che sono costretti ad affidare la loro vita ai trafficanti, per fuggire dalle torture e dagli abusi che subiscono tutti i giorni in territorio libico, abbiano determinato volontariamente una situazione di pericolo di gravità superiore a qulla da loro sofferta in Libia. Come è confermato dalle numerose testimonianze di quanti affermano che preferirerebbero morire in mare piuttosto che essere riportati a terra, anche se purtroppo il numero delle vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale, come delle persone riprese dalla sedicente guardia costiera “libica”, non accenna a diminuire.