di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Categorie normative ed esternalizzazione delle frontiere
Posted on26 Febbraio 2020
.Si ritiene generalmente che l’allontanamento e l’anticipazione dei controlli di frontiera nei paesi di transito, come il confinamento o la detenzione dei migranti ritenuti “illegali”, possano ridurre gli arrivi irregolari nel territorio dello Stato e costituire un freno alla presentazione delle domande di protezione internazionale, che non si potrebbero altrimenti respingere se le persone arrivassero ad una frontiera terrestre, aerea o marittima di uno Stato che ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951.
L’aumento degli arrivi di richiedenti asilo ha comportato, più che le alterne fasi dell’economia, una limitazione della mobilità attraverso canali legali dei cd. “migranti economici”, prima in grado di fare ingresso con i visti per lavoro concessi in base ai cd. “decreti flussi annuali”, anche per lavoro stagionale, ed oggi, privati di questa possibilità, praticamente equiparati alla condizione di “clandestini” da rimpatriare o da detenere nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). Senza nessuna possibilità di emersione lavorativa o di altre forme di regolarizzazione successiva. Il canale della protezione umanitaria e internazionale è rimasto l’unico canale di regolarizzazione per quanti facevano ingresso nel territorio dello stato dopo essere stati soccorsi in mare, mentre si chiudevano progressivamente tutte le vie legali di ingresso verso l’Unione Europea. I governi hanno praticamente chiuso tutte le possibilità di ingresso legale per lavoro, e si riducono persino i canali umanitari, da ultimo adducendo anche ragioni di carattere sanitario, si è adottata ovunque una politica di forte contrasto nei confronti di coloro che fuggono da conflitti o da stati caratterizzati da diffuse violazioni dei diritti umani, in modo da porre un limite quantitativo alle persone in grado di ottenere uno status di soggiorno legale ( di recente anche con l’adozione di una “lista di paesi terzi sicuri”). La categoria normativa di richiedente asilo, rilevante sul piano internazionale, ma con riflessi anche sul piano nazionale, è stata così svuotata della valenza che le attribuivano le Convenzioni internazionali e le Costituzioni nazionali. Per completare questa negazione del diritto alla protezione, in Italia, si è abrogata la protezione umanitaria, già prevista dall’art. 5.6 del Testo Unico n.286/98 sull’immigrazione e ormai riconosciuta nella giurisprudenza della Cassazione come un istituto attuativo dell’art. 10 della Costituzione italiana.
L’Unione Europea e i singoli Stati appartenenti all’Unione hanno adottato la politica di esternalizzazione delle frontiere come strumento ordinario di “gestione dei flussi migratori”. Prima l’Unione Europea ha inserito l’esternalizzazione dei controlli di frontiera all’interno delle politiche di “vicinato”, con il Processo di Barcellona avviato nel 2005, in un secondo tempo, a partire dal 2011, dalla crisi migratoria delle cd. primavere arabe, ha puntato su accordi diretti con singoli paesi terzi, come nel caso della Turchia, lasciando ai singoli stati membri il compito di concludere accordi bilaterali o semplici Memorandum d’intesa, come quelli conclusi nel 2007 e nel 2017 ra Italia e governo di Tripoli.
Gli accordi frutto dei processi di esternalizzazione delle frontiere non possono legittimare misure di respingimento indiscriminato o di chiusura dei porti, Secondo il principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra (art.33) “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. E’ dunque possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”.
Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standard garantiti dal diritto internazionale.
Nessuno ha ascoltato i preoccupati appelli dell’UNHCR che sconsiglia da tempo qualunque “ritorno” dei naufraghi in territorio libico. Ma nella prospettiva del sovranismo mondiale ormai le grandi Organizzazioni internazionali contano sempre meno, come i diritti umani che dovrebbero tutelare. Così come sembra non trovare eco nella stampa italiana la secca bocciatura europea della proposta italiana che intendeva costruire gradi piattaforme di sbarco in Libia. Questo paese non garantisce punti sicuri di sbarco ed aree di contenimento dei migranti che in quel paese sono condannati quasi tutti alla condizione di illegalità. Lo afferma da Bruxelles la portavoce della Commissione Europea. In Italia, invece, tutti i gruppi politici, con poche eccezioni, fanno a gara per rilanciare i rapporti di collaborazione con il governo di Tripoli e con la sedicente guardia costiera “libica”.
Ormai in tutto il Mediterraneo prevale la politica dell’abbandono in mare per limitare il diritto di fuga e la libertà delle persone, a partire dal diritto alla vita che dovrebbe essere garantito ad ogni persona migrante, quale che sia la sua condizione giuridica. Di fronte a questi illeciti la comunità internazionale è rimasta inerte, limitandosi a generiche prese di posizione, che non hanno rimesso in discussione gli accordi di collaborazione sul piano tecnico e militare e sul piano del controllo delle frontiere esterne. Ai trafficanti in Libia, o in altri paesi di origine, sono stati concessi ampi spazi, sia in mare che in terra, al punto che i più noti trafficanti di esseri umani continuano a muoversi impunemente da un paese all’altro. Gia’ nel 2017 la sedicente guardia costiera libica dava copertura alle milizie di Zawia guidate da Bija che intercettavano i migranti che tentavano di fuggire verso l’Europa. Fatti che già allora in Europa non si potevano certo ignorare.
Gli strumenti del diritto internazionale hanno mostrato tutti i loro limiti, così come la crisi del multilateralismo si è tradotta in un ruolo marginale delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza, paralizzato dai veti incrociati frapposti di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia e dalla Cina. A livello europeo , in una fase di difficile transizione della quale non si intravede lo sbocco, è mancata una qualsiasi politica estera comune, che non fosse quella volta a incentivare gli accordi di riammissione, le politiche della detenzione amministrativa nei paesi di transito, le procedure sommarie di rimpatrio forzato.
Dove non è arrivata la giustizia internazionale è intervenuta la società civile, con una imponente raccolta di dati e di denunce, attraverso le sessioni del Tribunale permanente dei Popoli. Nel mese di dicembre del 2017 a Palermo, il Tribunale permanente dei Popoli ha condannato l’Italia e l’Unione europea per concorso in crimini contro l’umanità a causa degli accordi stipulati con la Libia e per le politiche di respingimento in mare. Non si poteva negare già allora che l’Italia e l’Unione europea delegassero veri e propri respingimenti collettivi alle milizie imbarcate a bordo dei mezzi della guardia costiera “libica”. Gli stessi mezzi che tentavano di tenere lontane dalla pretesa zona SAR libica, che non corrisponde certo alle acque territoriali, le navi umanitarie delle Organizzazioni non governative. Il Tribunale ha individuato diversi profili di responsabilità penale dei vertici dello Stato, nonché di responsabilità internazionale dell’Italia, a causa della complicità per le torture che continuerebbero ad essere commesse nei campi di detenzione libici e sulle quali già da tempo si è concentrata anche l’attenzione del procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda”. Come osserva M. Ventrone, “invero, la connessione tra la condotta italiana, consistente nella fornitura di assistenza tecnica e finanziaria alle autorità libiche, e le gravi violazioni dei diritti umani che si consumerebbero in Libia è già stata evidenziata dalla dottrina internazionalistica e una responsabilità indiretta dell’Italia su tali illeciti appare difficilmente contestabile.
Più specificamente, il Tribunale Permanente dei Popoli, riunito nella sessione di Palermo dal 18 al 20 dicembre 2017 – considerati i molteplici elementi di prova testimoniale emersi e i documenti acquisiti, valutati gli atti ufficiali italiani e dell’Unione Europea, preso atto delle dichiarazioni rese dai vertici del Governo in replica o risposta ai rilievi formulati in più sedi, anche da parte di esponenti delle Nazioni Unite – valuta che:
– le politiche dell’Unione Europea sulle migrazioni e l’asilo, a partire dalle intese e dagli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione Europea e i Paesi terzi, costituiscono una negazione dei diritti fondamentali delle persone e del popolo migrante, mortificandone la dignità definendoli “clandestini” e “illegali” e ritenendo “illegali” le attività di soccorso e di
assistenza in mare;
– la decisione di arretrare le unità navali di Frontex e di Eunavfor Med ha contribuito all’estensione degli interventi della Guardia costiera libica in acque internazionali, che bloccano i migranti in viaggio verso l’Europa, compromettendone la loro vita e incolumità, li riportano nei centri libici, ove sono fatti oggetto di pratiche di estorsione economica, torture e trattamenti inumani e degradanti;
– le attività svolte in territorio libico e in acque libiche e internazionali dalle forze di polizia e militari libiche, nonché dalle molteplici milizie tribali e dalla c.d. “guardia costiera libica”, a seguito del Memorandum del 2 febbraio 2017 Italia-Libia, configurano – nelle loro oggettive conseguenze di morte, deportazione, sparizione delle persone, imprigionamento arbitrario, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, e in generale persecuzione contro il popolo dei migranti – un crimine contro l’umanità;
– la condotta dell’Italia e dei suoi rappresentanti, come prevista e attuata dal predetto Memorandum, integra concorso nelle azioni delle forze libiche ai danni dei migranti, in mare come sul territorio della Libia;
– a seguito degli accordi con la guardia costiera libica e nell’attività di coordinamento delle varie condotte, gli episodi di aggressione denunciati dalle ONG che svolgevano attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, sono ascrivibili anche alla responsabilità del governo italiano, eventualmente in concorso con le agenzie europee operanti nello stesso contesto;
– l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal “codice di condotta” imposto dal governo italiano, ha indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e ha contribuito ad aumentare quindi il numero delle vittime.
2: Sicurezza nazionale e mobilità umana
Dal Consiglio di Tampere del 1999 alle decisioni a livello europeo e nazionale adottate negli anni successivi si è verificato un progressivo abbattimento dei livelli di garanzia dei diritti umani, e del diritto di asilo, previsti dalle Costituzioni e dalle Convenzioni internazionali seguite al secondo conflitto mondiale. A partire dall’11 settembre 2001 abbiamo assistito all’uso strumentale delle categorie di sicurezza interna ed internazionale, di ordine pubblico e sicurezza nazionale (nei confronti dei migranti considerati come il nemico interno) con una confusione sempre più evidente tra le tante guerre in corso nelle aree più povere del mondo, le minacce del terrorismo internazionale ed i sistemi di difesa dei confini e di esternalizzazione delle frontiere.
I processi di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento diffuso, la frantumazione delle classi sociali e l’aumento dei divari nella distribuzione della ricchezza, su scala nazionale ed internazionale. E’ cresciuta in molti paesi europei l’esigenza di una nuova forza lavoro d’importazione, a condizioni di bassa retribuzione per mantenere la concorrenzialità sul mercato globale. Per un primo periodo si scambiava una possibilità di regolarizzazione, anche successiva all’ingresso (in Italia con le grandi sanatorie dal 1998 al 2008) con la concessione di uno status di cittadinanza inferiore, caratterizzato da una elevata discrezionalità nel rilascio e nel rinnovo dei permessi di soggiorno. A partire dal 2011 queste limitate possibilità di regolarizzazione successiva sono state precluse, ed oggi sono completamente bloccate anche per effetto del blocco sostanziale dei cd. decreti annuali sui flussi di ingresso. La categoria del “clandestino” si è diffusa nell’opinione pubblica anche se priva di alcun riscontro normativo, ed ha assorbito sia quella di migrante irregolare che quella di richiedente asilo.
Le politiche di contrasto delle cd. migrazioni irregolari, e di subordinazione dei lavoratori di origine straniera comunque presenti sul territorio, hanno eroso lentamente il riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali della persona migrante che pure erano, e sono, solennemente sanciti dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Con una preoccupante continuità tra governi di segno diverso, come si è verificato ad esempio nelle pratiche di trattenimento amministrativo degli immigrati irregolari e nei rapporti tra l’Italia e la Libia. Le finalità politiche perseguite hanno travolto il rispetto delle norme di diritto internazionale e lo stesso principio di gerarchia delle fonti richiamato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana.
Quando anche si ritenesse che tra la Libia di Gheddafi e l’attuale governo di Tripoli vi sia una qualche “continuità politica”, l’ Accordo per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di sostanze stupefacenti o psicotrope ed all’immigrazione clandestina firmato a Roma il 13 dicembre 2011, e già prima anticipato dai Protocolli operativi governo Prodi) nel dicembre del 2007, il Trattato di amicizia del 2008, e poi il Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2 febbraio 2017, che ne riprende in sostanza la portata, sono decaduti, in quanto privi di efficacia, ai sensi dell’art. 61 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in forza della clausola “rebus sic stantibus”. Infatti le previsioni di portata operativa, come l’attribuzione di competenze di ricerca e salvataggio, in realtà di intercettazione in acque internazionali, alla cd. Guardia costiera “libica”, sono inattuabili, per sopravvenuta impossibilità di esecuzione, come purtroppo è confermato dal numero crescente di imbarcazioni che continuano a fare naufragio senza che nessuno intervenga.
Anche la giurisprudenza ha offerto la dimostrazione della inapplicabilità degli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli sulla base del riconoscimento del sistema gerarchico delle fonti, ed in base al principio di legalità si esclude che il Memoradum d’intesa stipulato il 2 febbraio 2017 tra il governo italiano e quello libico possa costituire una base legale per le attività di respingimento collettivo in mare delegate dalle autorità italiane alla sedicente guardia costiera “libica”.
Il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza del maggio 2019 sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio 2018 e poi trasbordati sulla nave Diciotti, della Guardia costiera italiana: “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.
NOTA
Gli accordi con la Libia e la lotta ai trafficanti*
di Lucia Tria
*consigliere della Corte di cassazione
3. Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale
In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altri Trattati internazionali di diritto marittimo, i più importanti dei quali sono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas)[16] e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar).
La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti[17]. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».. Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.
Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar,o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, Appare infatti fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile,attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo.
La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979(Convenzione SAR) obbliga specificatamente gli Stati parte a“…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o allecircostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) ed a “ […] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”. (Capitolo 1.3.2). Essa, inoltre, inviata alla cooperazione tra gli Stati, allo scopo primario di garantire l’osservanza del principio dell’integrità dei servizi S.A.R.. A tale scopo, infatti, ciascuno Stato costiero dovrebbe individuare e dichiarare formalmente una propria specifica area di responsabilità (c.d. Area o Regione S.A.R.-S.R.R.) in cui assume l’onere di garantire l’efficiente prestazione dei citati servizi S.A.R., in modo tale da coprire l’intero globo terracqueo.
Ai sensi del cap. 2, par. 2.1.4 e 2.1.5 della Convenzione SAR del 1979 :“Ogni zona di ricerca e di salvataggio viene stabilita mediante accordo tra le Parti interessate (…) Se le parti interessate non raggiungono un accordo sulle dimensioni esatte di una zona di ricerca e di salvataggio, dette Parti fanno tutto il possibile per raggiungere un accordo sull’adozione di disposizioni adeguate che permettano di assicurare un equivalente coordinamento generale dei servizi di ricerca e di salvataggio di detta zona”. Ai sensi del cap. 2, par. 2.1.8 “Le Parti dovrebbero organizzare i loro servizi di ricerca e di salvataggio in modo da poter far fronte rapidamente agli appelli di soccorso”.
In base al punto 3.1.9 della Convenzione SAR (Search and Rescue) di Amburgo del 1979 ,”Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale) . In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. Una norma chiarissima, seppure risulti nella pratica oggetto di frequenti controversie applicative, la cui portata non può essere certo capovolta fino al punto di sostenere che “… il paragrafo 3.1.9 SAR sancisce che l’obbligo dello Stato responsabile della zona in cui viene prestato il soccorso non è necessariamente quello di accogliere le navi nei propri porti quanto di coordinare le operazioni e cooperare affinchè la nave che ha garantito il primo soccorso possa approdare in un luogo sicuro (place of safety), determinato dall’autorità SAR, dove far sbarcare momentaneamente i passeggeri.
La Convenzione Sar del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety): a tal fine gli Stati membri dell’Imo (International maritime organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni Solas e Sar, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il Governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Secondo le Linee guida «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12).
Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. È bene ricordare che per Trattato internazionale si intende qualunque «accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione».
Lo svolgimento del servizio di ricerca e soccorso è disciplinato in Italia dal dPR n. 662/1994 con cui è stata recepita la Convenzione di Amburgo e rientra nella competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera che comunque risulta anche alle dipendenze della Marina militare.
Nessuna disposizione della Convenzione di Amburgo del 1979 e del relativo “Annesso” giustifica il rifiuto di ingresso nelle acque territoriali imposto dal governo italiano con un decreto interministeriale, e successivamente dai governi maltese e di Tripoli, dopo l’azione di ricerca e salvataggio condotta dalla nave umanitaria Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye. Un rifiuto addotto sulla base di una interpretazione errata dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay ( e non di Amburgo), peraltro erroneamente richiamato dal governo italiano e da alcuni commentatori. Questo articolo non autorizza la qualificazione come “passaggio offensivo” dell’ingresso nelle acque territoriali, e quindi in un porto di sbarco, delle navi di qualsiasi bandiera che abbiano effettuato un soccorso in mare e che per le condizioni oggettive del mezzo e per le condizioni soggettive dei naufraghi, tra i quali anche minori di età, hanno diritto allo sbarco immediato ed all’accesso alle procedure di protezione previste dalla Convenzione di Ginevra, dai Regolamenti europei Frontex 656/2014 e 1624/2016, e dalle disposizioni di legge nazionali.
In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone poi gli interventi di soccorso al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC). Una prescrizione che non sempre è stata adempiuta tempestivamente, soprattutto quando sono venute in gioco questioni di competenza che ritardavano l’avvio delle azioni di soccorso, come nel caso, attualmente all’esame del Tribunale di Roma, della strage avvenuta a sud di Malta l’11 ottobre 2013.
La Convenzione SOLAS specifica l’obbligo contenuto nell’art. 98, par. 2, CNUDM, prevedendo l’obbligo per tutti gli Stati parte di adottare le misure necessarie per la comunicazione di situazioni di pericolo e per il coordinamento delle attività nelle loro aree di responsabilità, nonché per il salvataggio delle persone in pericolo nel mare che circonda le loro coste. Tali misure devono comprendere la creazione, l’operazione e il mantenimento dei mezzi e delle attrezzature che si ritiene siano fattibili e necessarie, alla luce della densità del traffico e dei pericoli alla navigazione, e dovranno, nella misura possibile, prevedere adeguati mezzi per localizzare e salvare queste persone.
Le Linee guida IMO, unitamente alle Convenzioni internazionali in materia, dispongono che la responsabilità primaria per la individuazione e/o fornitura di un “luogo sicuro”, che non può certo trovarsi in Libia, ricada sullo Stato costiero responsabile della zona SAR al cui interno si verifica l’operazione di salvataggio marittimo. Nell’ipotesi in cui, tuttavia, “non sia possibile contattare lo Stato costiero responsabile della zona SAR, il comandante della nave soccorritrice può contattare un altro Stato costiero e/o un centro di coordinamento e soccorso che possa fornire assistenza alle operazioni di salvataggio”. Incombe su quest’ultimo stato, pertanto, l’onere di coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio “fino a quando lo stato costiero responsabile della zona SAR non assuma la propria responsabilità”. Quest’ultima previsione assicura che gli interventi di salvataggio marittimo vengano condotti con la tempestività necessaria per salvaguardare la vita umana in mare, anche quando uno Stato costiero non adempia agli obblighi di assistenza all’interno della propria zona SAR. Come si verifica da anni con Malta, e con la Libia, o con quello che ne rimane, come entità statale unitaria.
Occorrerebbe ricordare a questo punto che gli att. 10 e 117 della Costituzione italiana rendono vincolanti nel nostro paese le Convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato ed a cui ha dato esecuzione con atti aventi forza di legge. Una riserva di legge “rafforzata” ricorre proprio in materia di condizione giuridica dello straniero e di diritto di asilo, materie che dovrebbero essere sottratti ad un esercizio sostanzialmente illimitato della discrezionalità politica. Possono bastare le “direttive”, di fatto mere circolari, del ministro dell’interno, ai limiti del conflitto di attribuzione con altre autorità dello stato, a derogare gli obblighi di indicare un porto di sbarco stabiliti dalle Convenzioni internazionali e dalla nostra Costituzione, che non permete di attribuire ai richiedenti asilo la qualifica di clandestino o di richiedente asilo prima dell’esame della loro domanda ( art. 10 Cost.). Prima dello sbarco a terra, dopo una azione che comunque sia qualificata, anche se definita come attività di polizia ( law enforcement) non può eludere i doveri di salvaguardia della vita umana e di non respingimento sanciti dalle Convenzioni internazionali.
Il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R.ha dunque la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Tale responsabiltà permane almeno fino a quando la responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Malta non ha mai accettato queste linee guida. Dunque le autorità italiane, dal ministero dell’interno alla Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC), una volta ricevuta una segnalazione di un evento SAR, non possono dismettere la loro responsabilità di coordinamento addudendo la competenza maltese ( per la notoria mancata accettazione delle Linee guida IMO da parte del governo maltese).
Secondo le medesime linee-guida, “ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco. (par. 6.20)
L’obbligo di soccorrere persone in alto mare che versino in una situazione di “distress” pertanto può e deve essere assolto dal mezzo più vicino all’evento, anche prima che vi sia una autorizzazione esplicita di una qualsiasi autorità di coordinamento SAR, soprattutto nella situazione attuale sulla rotta del Mediterraneo centrale, nella quale è documentato che le autorità di coordinamento nazionali (MRCC) maltese, tunisina e libica rispondono con grave ritardo o non rispondono affatto. La portata del concetto di distress è chiarita dalle Convenzioni internazionali, e non può essere ridimensionata nei confronti dell’Italia per il mancato accoglimento da parte delle autorità maltesi dei più recenti emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS.
Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), come si dirà meglio in seguito. Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. La Libia non era già negli scorsi anni, e non lo è neppure oggi, in grado di garantire, nelle sue diverse e mutevoli articolazioni militari e territoriali, alcun “porto sicuro di sbarco”. L’IMO ammette che ancora oggi non risulta esistente una unica Centrale di coordinamentto libica per le attività SAR (LMRCC), come riconosce in una intervista a Report il rappresentante dell’IMO a Londra.
Appare dunque infondato quell’indirizzo dottrinale, che trova evidente riscontro nelle ultime prassi imposte dal ministero dell’interno, secondo cui lo stato potrebbe comunque impedire l’ingresso nei porti, o addirittura nelle acque territoriali, in quanto tale limitazione al diritto di passaggio “inoffensivo” nelle acque territoriali, e la stessa “chiusura dei porti”, sarebbe giustificata dal diritto di impedire “un attivita’ illecita” che comporterebbe addirittura una minaccia alla “sicurezza delle acque territoriali”, “minacciata da traffici illeciti in cui le navi delle ONG potrebbero essere individuate come partners in crime per attività più simili a taxi del mare che a soccorsi veri e propri ( Mignone). Una tesi che risente di una lettura parziale della normativa internazionale in materia di diritto marittimo, e dello stesso codice della navigazione nazionale, già contraddetta dalla sua evidente inapplicabilità ai casi nei quali le prassi ministeriali di chiusura dei porti si rivolgano verso navi private battenti bandiera italiana, se non addirittura mezzi militari della nostra Guardia costiera, come si è verificato lo scorso anno, con i due “respingimenti” della nave Diciotti, prima a Trapani, e poi davanti le coste di Lampedusa. Casi nei quali risultava più che evidente l’obbligo a carico del ministero dell’interno di indicare nei tempi più rapidi un porto sicuro di sbarco, anche indipendentemente dalle trattative avviate a livello europeo per la successiva redistribuzione dei naufraghi. Non si vede infatti verso quale altro porto avrebbero potuto fare rotta navi battenti bandiera italiana, già presenti nella zona contigua italiana dopo una attivitaà di soccorso in acque internazionali, a fronte del notorio atteggiamento delle autorità maltesi, libiche e tunisine che rifiutano l’ingresso nei loro porti a navi di altri paesi che abbiano soccorso naufraghi in acque internazionali (come documenta il Rapporto per il 2017 della Guardia costiera italiana).
Anche a volere considerare gli articoli 25 paragrafo 2 e 98 paragrafo 1 della Convenzione UNCLOS nel senso di riconoscere in astratto che lo stato può impedire l’ingresso nelle proprie acque territoriali ad una nave straniera, anche quando questa abbia effettuato un’attivita’ di ricerca e salvataggio in acque internazionali, e porti a bordo i naufraghi soccorsi in tali circostanze, non sembra proprio che le autorita’ statali possano stabilire sulla base della mera discrezionalità politica il carattere “offensivo” dell’ingresso nelle acque territoriali, fino al punto di impedire persino l’ingresso in porto, circostanza che non esclude, semmai agevolando, eventuali attività di accertamento del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o di altri piu’ gravi reati.
Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una audizione alla Camera, “Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”. Se si esclude che la Libia possa garantire porti sicuri di sbarco, come escludono l’UNHCR, la Commissione europea e la magistratura italiana, in caso di disaccordo con le autorità maltesi, l’Italia non può eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017. La stessa Guardia Costiera osservava già nel 2018 come ” le Autorità libiche, oltre ad aumentare la presenza in mare seppure limitatamente a specifiche aree, hanno provveduto ad inoltrare all’International Maritime Organization (I.M.O.) una dichiarazione relativa all’istituzione di un’area di responsabilità SAR (Search and Rescue Region – SRR) in data 14.12.2017 che faceva seguito ad una precedente dichiarazione dello scorso luglio successivamente annullata nei giorni precedenti alla nuova dichiarazione. L’arrivo sullo scenario delle unità della Marina Militare e della Guardia Costiera libica ha tuttavia comportato, in talune circostanze, criticità dovute alle difficoltà di comunicazioni sia con le rispettive Autorità di riferimento a terra che con i mezzi a mare impegnati nelle operazioni, in parte mitigata, negli ultimi mesi dell’anno, dall’avvio dell’operazione italiana Nauras”.
Secondo quanto dichiarato dall’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro». Un gruppo di giuristi del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha scritto al governo italiano richiamando l’art. 98 della Convenzione UNCLOS che il decreto legge sicurezza bis richiama soltanto per la norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale della libertà di navigazione (art. 19), precisando che la normativa introdotta dalla Convenzione «is con-sidered customary law. It applies to all maritime zones and to all persons in distress, without discrimination, as well as to all ships, including private and NGO vessels under a State flag» . In ordine alle attività SAR ed alla indicazione di un porto di sbarco sicuro TUTTI i naufraghi vanno sbarcati nei tempi più rapidi senza che gli stati possano distinguere a seconda della loro vulnerabilità, della loro età o del loro sesso. Con l’ovvia riserva preferenziale delle evacuazioni per accertate condizioni sanitarie d’urgenza ( MEDEVAC).
La Convenzione SOLAS specifica l’obbligo contenuto nell’art. 98, par. 2, CNUDM, prevedendo l’obbligo per tutti gli Stati parte di adottare le misure necessarie per la comunicazione di situazioni di pericolo e per il coordinamento delle attività nelle loro aree di responsabilità, nonché per il salvataggio delle persone in pericolo nel mare che circonda le loro coste. Tali misure devono comprendere la creazione, l’operazione e il mantenimento dei mezzi e delle attrezzature che si ritiene siano fattibili e necessarie, alla luce della densità del traffico e dei pericoli alla navigazione, e dovranno, nella misura possibile, prevedere adeguati mezzi per localizzare e salvare queste persone.
Come osserva Papanicolopulu, “Tra le varie misure che lo Stato costiero deve adottare rientra anche quella di dotarsi di imbarcazioni appositamente destinate ad operazione di ricerca e soccorso in mare. A tale riguardo, vi è una certa elasticità nel dato normativo, in quanto non è espressamente richiesto che lo Stato costiero si doti di un numero di mezzi sufficiente a far fronte a tutte le richieste di soccorso. Questo è comprensibile, alla luce delle limitazioni di fatto che molti Stati incontrano, tra cui quelle di tipo economico. Come si è visto, le ONG che operano nel Mediterraneo si sono dotate di imbarcazioni per soccorrere i migranti in pericolo. L’affidamento ad esse di compiti di soccorso da parte degli Stati costieri rientra pienamente nel quadro previsto dalle Convenzioni internazionali che, come illustrato, prevedono la possibilità per gli Stati di avvalersi di imbarcazioni private per adempiere ai propri obblighi di fornire soccorso. Ma vi è di più. Stante l’obbligo dello Stato costiero di fare tutto il possibile per assicurare un efficace sistema di ricerca e soccorso in mare e di avvalersi dei mezzi disponibili a tal fine, il mancato ricorso ai servizi offerti dalle navi delle ONG o, ancora peggio, l’intralcio recato alle operazioni di soccorso condotte da queste navi, si potrebbero configurare come una violazione dei propri obblighi da parte dello Stato costiero”.
Chiunque sia in grado di intervenire per soccorrere vite umane in mare ha dunque l’obbligo giuridico di farlo e in caso contrario si configurerebbe come omissione di soccorso (secondo gli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione), con le eventuali aggravanti dovute a conseguenze drammatiche, in primo luogo naufragio e omicidio colposi”. I poteri-doveri d’intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base delle norme su indicate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per la vita umana lo richieda. L’art. 1158, I Comma Cod. Nav., configura il reato di omissione di soccorso in capo al comandante della nave qualora lo stesso non presti opera di salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del Codice della Navigazione. Obbligo che, evidentemente, sussisteva nel caso in esame in relazione all’art. 490, II Comma, Cod. Nav. Il comandante della nave, di qualsiasi nave coinvolta in un evento SAR che si trovi in prossimità, o comunque più vicina al battello da soccorrere, ai sensi dell’articolo 490, II comma, Cod. Nav., ha l’obbligo di salvataggio (così come recita la rubrica di tale articolo). Obbligo che certamente sussisteva in capo a chi si trovava dinanzi a persone in mare in condizioni di grave pericolo per il sovraccarico dell’imbarcazione, per la distanza dalla costa ed il tempo già trascorso in mare, per la difficoltà di manovra Si tratta di un obbligo che, quando il mezzo soccorritore si trova sulla scena del soccorso, non è differibile in ossequio ad accordi bilaterali o a codici di qualsiasi natura, e neppure, magari per modificare il luogo di sbarco, trasferendo la responsabilità del soccorso ad altra autorità SAR.
Secondo l’art. 69 del Codice della Navigazione (Soccorso a navi in pericolo e a naufraghi), l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire.
Il testo del Regolamento (UE) n. 656/2014, che sostituisce nonché statuisce la cessazione degli effetti della decisione 2010/252/UE (in merito v. A. Del Guercio, Controllo delle frontiere marittime nel rispetto dei diritti umani: prime osservazioni sulla decisione che integra il codice delle frontiere Schengen, in Diritti umani e dir. int., 2011, p. 193 ss.) annullata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 5 settembre 2012 (v. specificamente la causa C-355/10), contiene diverse disposizioni che regolano i molteplici aspetti riguardanti la sicurezza in mare (art. 3), la protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento (art. 4), la localizzazione (art. 5), l’intercettazione nelle acque territoriali, in alto mare, nella zona contigua (rispettivamente: artt. 6-7-8), le situazioni di ricerca e soccorso (art. 9), lo sbarco (art. 10), i meccanismi di solidarietà (art. 12).
Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti.
Lo stesso Regolamento Frontex n.656 del 2014, (Considerando 12) “dovrebbe essere applicato nel pieno rispetto del principio di non respingimento quale definito nella Carta e quale interpretato dalla giurisprudenza della Corte e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Conformemente a tale principio, nessuno dovrebbe essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”. Al Considerando 13 lo stesso Regolamento europeo aggiunge : “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento”.
L’articolo 9 del Regolamento, in particolare, prevede le regole di comportamento da rispettare nel caso di situazioni di ricerca e soccorso gestite da assetti Frontex (che comprendono anche navi della Marina militare italiana)
1. Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova.
2. L’applicazione del presente regolamento non incide sulla ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri, a norma dei trattati, né sugli obblighi degli Stati membri sanciti da convenzioni internazionali, quali la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, la convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi, la Convenzione sulle norme relative alla formazione della gente di mare, al rilascio dei brevetti e alla guardia e altri pertinenti strumenti marittimi internazionali.
Secondo l’art. 10 del Regolamento Frontex n.656/2014 gli Stati dell’Unione europea possono collaborare con paesi terzi che siano titolari di zone SAR riconosciute a livello internazionale, ma nel caso di mancata risposta, o di evidente impossibilità di salvaguardare la vita umana in mare, la dignità e l’accesso alla procedura di asilo a terra, per quanto osservato in precedenza, la responsabilità del coordinamento e della individuazione del porto di sbarco spetta alo stato che “ospita” l’operazione Frontex o Eunavfor Med, a prescindere dalla bandiera della nave europea chiamata eventualmente a realizzare l’intervento SAR ( ricerca e soccorso). Dunque in base al Regolamento n, 656 del 2014, o si ritiene che la Libia garantisca nella sua interezza luoghi sicuri di sbarco, circostanza esclusa anche di recente dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, oppure l’Italia, non può rifiutarsi e deve indicare un luogo di sbarco sicuro nel suo territorio. Chiunque non ottemperi a questo precetto si può rendere responsabile di vari reati, a titolo omissivo, e delle loro possibili conseguenze mortali.
La considerazione del Regolamento europeo, e di altre norme dell’Unione dotate della stessa valenza normativa diretta, è importante perché si tratta di una fonte normativa chiaramente sovra-ordinata rispetto all’ordinamento nazionale che richiama le Convenzioni internazionali di diritto del mare e la Convenzione di Ginevra, come limite estremo di tutela dei diritti fondamentali della persona che le autorità statali ed europee non possono violare. Si stabilisce così un chiaro ordine gerarchico tra le fonti del diritto applicabile nei singoli casi, che le autorità nazionali, militari, civili e giudiziarie devono rispettare, anche al di fuori della sfera di attività, ormai alquanto limitata, delle operazioni Frontex..
Il 14 settembre 2016 veniva approvato in via definitiva il Regolamen europeo 2016/1624 riguardante la Guardia di frontiera e costiera europea ( da altri definita come FRONTEX PLUS) allo scopo di garantire un monitoraggio ed una sorveglianza più efficace alle frontiere esterne e nel Mediterraneo.
Tutto l’impianto della nuova normativa appare orientato alla predisposizione di interventi rapidi alle frontiere esterne, stabiliti sulla base di programmi di interventi elaborati all’interno dell’agenzia e deliberati dal suo Direttore, e di contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso accordi con le autorità dei paesi di origine o di transito, anche in vista di una possibile collaborazione nelle attività di soccorso in mare e di riammissione o di respingimento verso i porti di partenza. Lo stesso regolamento costituisce un fondamento legislativo essenziale, che finora era mancato, per le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera che sino a questo momento erano rimaste frutto di accordi di polizia o Memorandum d’intesa (MoU) privi di una base legale, tanto sul piano internazionale che nel diritto interno. Si tratta in sostanza di una espansione delle attività dell’Agenzia Frontex e di una sua maggiore autonomia alle frontiere esterne e nello stabilire rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento.
La parte più consistente del nuovo Regolamento che istituisce la nuova Guardia di frontiera e costiera europea riguarda il rimpatrio (return) dei migranti giunti irregolarmente in Europa o la loro riammissione nei paesi terzi di transito, in virtù dei nuovi accordi che consentono tali operazioni in forza di un consistente contributo economico europeo, sotto forma di cooperazione allo sviluppo. Nella parte in cui si definiscono i compiti della nuova Guardia costiera europea si fa anche un espresso riferimento ai doveri di salvataggio ma non si riscontra una chiara indicazione sulla possibilità (o sul dovere) di sbarco dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety).
Secondo quanto affermato nei “considerando” Il Regolamento “istituisce una guardia di frontiera e costiera europea per garantire una gestione europea integrata delle frontiere esterne, allo scopo di gestire efficacemente l’attraversamento delle frontiere esterne. Ciò implica affrontare le sfide migratorie e le potenziali minacce future a tali frontiere, contribuendo così a lottare contro la criminalità grave di dimensione transfrontaliera,al fine di garantire un livello elevato di sicurezza interna nell’Unione, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e salvaguardando al contempo la libera circolazione delle persone al suo interno”.
Il nuovo Regolamento prevede con un atto vincolante, perché adottato con procedura legislativa, una collaborazione più intensa tra le autorità di polizia dei diversi paesi UE in vista di un maggiore controllo delle frontiere esterne, necessario per garantire il regime di libera circolazione dettato dal Regolamento Schengen per le frontiere esterne. Lo stesso Regolamento costituisce un fondamento legislativo essenziale per le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera che sino a questo momento erano rimaste frutto di accordi di polizia privi di una base legale. Si tratta in sostanza di una espansione delle attività dell’Agenzia Frontex, che viene dotata di una base legale più ampia, e di una sua maggiore autonomia nello stabilire rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento.
Sono previsti accordi con i paesi terzi per semplificare le operazioni di respingimento e di riammissione, ma non sembra esservi alcun richiamo alla necessità di concordare con questi stessi paesi, come oggi l’Egitto, e domani la Libia, una qualsiasi attività coordinata nelle attività di ricerca e salvataggio al limite tra le acque territoriali e le acque internazionali ( tra le 12 e le 24 miglia dalla costa). Al di là delle solenni dichiarazioni di principio e del richiamo al diritto internazionale ed ai diritti umani gli accordi con paesi terzi che non rispettano quei principi, ed in genere i diritti umani, svuotano di effettività le norme di salvaguardia che il Consiglio ed il Parlamento Europeo hanno inserito dopo un faticoso dibattito interno.
In merito alle attività di ricerca e salvataggio si conferma soltanto quanto già imposto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare in base alle quali una volta che venga dichiarato dalle autorità nazionali un evento SAR tutti i mezzi civili e militari che si trovano nella zona possono essere chiamate ad intervenire dalle stesse autorità nazionali per soccorrere i naufraghi. Come peraltro si è già verificato in questi ultimi due anni sulle rotte del Mediterraneo centrale. Manca qualunque spiraglio per missioni di soccorso che abbiano soltanto carattere umanitario. Non si chiariscono le nozioni da tempo controverse di luogo sicuro di sbarco e di migrante economico. La prospettiva dominante è il controllo delle frontiere esterne come elemento che dovrebbe dare sicurezza all’interno dell’Unione Europea. Dunque il richiamo ai diritti fondamentali rischia di restare esclusivamente sulla carta.
L’art. 4 del Regolamento 1624/2016 richiama espressamente gli obblighi di ricerca e salvataggio sanciti per l’Agenzia europea Frontex dal Regolamento 656 del 2014. La gestione europea integrata delle frontiere consiste dei seguenti elementi: a) controllo di frontiera, comprese, se del caso, misure volte ad agevolare l’attraversamento legittimo delle frontiere e misure connesse alla prevenzione e all’individuazione della criminalità transfrontaliera, come il traffico di migranti, la tratta di esseri umani e il terrorismo, e misure relative all’orientamento in favore delle persone che necessitano di protezione internazionale o intendono presentare domanda in tal senso;b) operazioni di ricerca e soccorso per le persone in pericolo in mare, avviate e svolte a norma del regolamento (UE) n. 656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e del diritto internazionale, che hanno luogo e sono avviate in situazioni che possono verificarsi nel corso di operazioni di sorveglianza delle frontiere in mare; c) analisi dei rischi per la sicurezza interna e analisi delle minacce che possono pregiudicare il funzionamento o la sicurezza delle frontiere esterne; d) cooperazione tra gli Stati membri sostenuta e coordinata dall’Agenzia; e) cooperazione inter-agenzia tra le autorità nazionali di ciascuno Stato membro responsabili del controllo di frontiera o di altri compiti svolti alle frontiere e tra le istituzioni, gli organi,gli organismi e i servizi dell’Unione competenti, compreso lo scambio regolare di informazioni tramite gli strumenti di scambio di informazioni esistenti, ad esempio il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (“EUROSUR”) istituito dal regolamento (UE)n. 1052/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio; f) cooperazione con i paesi terzi nei settori contemplati dal presente regolamento, con particolare attenzione ai paesi del vicinato e ai paesi terzi che sono stati individuati tramite un’analisi dei rischi come paesi di origine e/o di transito dell’immigrazione illegale;
g) misure tecniche e operative nello spazio Schengen che sono connesse al controllo di frontiera e destinate ad affrontare meglio l’immigrazione illegale e a combattere la criminalità transfrontaliera; h) rimpatrio di cittadini di paesi terzi soggetti a decisioni di rimpatrio adottate da uno Stato membro;i) uso di tecnologie avanzate, compresi sistemi d’informazione su larga scala; j) un meccanismo di controllo della qualità, in particolare il meccanismo di valutazione Schengen ed eventuali meccanismi nazionali, per garantire l’applicazione della normativa dell’Unione nel settore della gestione delle frontiere; k) meccanismi di solidarietà, in particolare gli strumenti di finanziamento dell’Unione.
La formulazione degli obblighi di salvataggio appare tuttavia alquanto generica, e rimette in sostanza agli stati membri, competenti per le aree di ricerca e soccorso, il compito di decidere quando intervenire, con la dichiarazione di un evento SAR (per fare scattare attività di ricerca e soccorso) che non rientrano tra i compiti principali della nuova Guardia Costiera europea. Il nuovo regolamento riconduce così in modo molto esplicito ai singoli stati, e quindi ai rapporti bilaterali con i paesi terzi, l’adempimento primario degli obblighi di ricerca e salvataggio. Il ruolo dei mezzi di Frontex, che sarà trasformata nella nuova Polizia delle frontiere e Guardia Costiera Europea rimane sullo sfondo.
In base all’art. 34 del Regolamento n. 1624/2016, titolato alla “Protezione dei diritti fondamentali e strategia in materia di diritti fondamentali”, la nuova Guardia di frontiera e costiera europea “garantisce la tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione dei suoi compiti a norma del presente regolamento in conformità del pertinente diritto dell’Unione, in particolare la Carta, il diritto internazionale pertinente, compresi laConvenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e il suo protocollo del 1967, così come degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non respingimento. A tal fine, l’Agenzia elabora, sviluppa ulteriormente e attua una strategia in materia di diritti fondamentali, che preveda un meccanismo efficace per monitorare il rispetto dei diritti fondamentali in tutte le proprie attività.
Nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un paese, o altrimenti consegnato o riconsegnato alle autorità dello stesso, in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio.
Nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea tiene conto delle particolari esigenze dei minori, dei minori non accompagnati, delle persone con disabilità, delle vittime della tratta di esseri umani, delle persone bisognose di assistenza medica, delle persone bisognose di protezione internazionale, delle persone in pericolo in mare e di chiunque si trovi in una situazione di particolare vulnerabilità.
La guardia e di frontiera e costiera europea presta particolare attenzione ai diritti dei minori in modo da garantire che in tutte le sue attività sia rispettato il loro interesse superiore
L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce dunque un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. La ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità dei diversi attori coinvolti nelle attività di ricerca e salvataggio (Sar) nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale deve tenere conto dei rilevanti profili di diritto dell’Unione europea e di diritto internazionale che, in base all’art. 117 della Costituzione italiana, assumono rilievo nell’ordinamento giuridico interno. Le scelte politiche insite nell’imposizione di Codici di condotta, o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale o dalle autorità di coordinamento dei soccorsi, non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati che devono garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety). Eventuali intese operative tra le autorità di Stati diversi, o la paventata “chiusura” dei porti italiani, non possono consentire deroghe al principio di non respingimento in Paesi non sicuri affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
Secondo l’UNHCR quando i naufraghi si trovano ancora in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003; ecc.). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede ancora espressamente la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Ma anche nei casi di respingimento differito ci sono precisi limiti alla discrezionalità amministrativa, come ricorda la Corte Costituzionale. Sempre nel rigoroso rispetto del principio di legalità che impone ai pubblici ufficiali di operare in questo campo sulla base di apposite previsioni normative che ne giustifichino i poteri.
In proposito si ricorda quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, “… gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4”. Tale articolo stabilisce che “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate” (§ 159). Se si afferma una giurisdizione anche italiana dopo la comunicazione della presenza di imbarcazioni da soccorrere nella cd. SAR libica, inventata apposta per aggirare il divieto di respingimenti collettivi, scattano responsabilità gravi sul piano penale, civile ed amministrativo, sia a livello interno che a livello internazionale.
In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto «Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees», elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione.
Va ricordato anche l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione), secondo cui «Le espulsioni collettive sono vietate» e «Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». In base all’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, le espulsioni collettive, e secondo la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, anche i respingimenti collettivi in acque internazionali (caso Hirsi), sono vietati
Il divieto di respingimento collettivo e la esternalizazione delle prassi di polizia di frontiera nel principio di non respingimento sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, integrato dall’art.3 della Convenzione ONU contro la tortura, quindi richiamato dai Regolamenti europei n.656/2014 e 1624/2016, impedisce di respingere una persona verso uno Stato dove la sua vita sarebbe in pericolo o dove essa rischi di essere sottoposta a tortura o altro trattamento inumano o degradante. Questo divieto, a partire dal caso Hirsi, è stato interpretato dalla Corte europea dei diritti umani come applicabile anche ai casi di respingimento in alto mare. È quindi evidente come respingere una nave con persone soccorse verso un territorio dove queste persone potrebbero subire una violazione di diritti fondamentali costituisca un illecito internazionale.
Il principio di non respingimento è stato ribadito nel rapporto “Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees”, elaborato dall’IMO e dall’UNHCR e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’UNCHR ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione (place of safety). In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’UNCHR ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione
Con particolare riferimento ala violazione del divieto di non respingimento previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, si rinvia a quanto osservato, in ordine alla paventata “chiusura” dei porti italiani, da P. De Sena, (La “minaccia” italiana di “bloccare” gli sbarchi di migranti ed il diritto internazionale)[3]. Osserva De Sena “Sempre sul presupposto che le imbarcazioni rientrino nella giurisdizione italiana, il divieto di accesso a porti italiani, con l’eventuale, conseguente impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone interessate, sembra suscettibile di entrare in contrasto con il divieto di espulsioni collettive fissato dall’art. 4 del Prot. n. 4 alla Convenzione (v. Hirsi c. Italia, Khlaifia c. Italia). È poi appena il caso di sottolineare che, con riferimento alle possibili violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione, poco sopra ipotizzate, nessun effetto avrebbe l’eventuale esercizio della facoltà di deroga, di cui all’articolo 15 della Convenzione, data l’intangibilità dei diritti contemplati dalle suddette disposizioni. D’altra parte, seppure l’articolo 15 sia sicuramente invocabile (e sia stato regolarmente invocato nella prassi) per ragioni di «sicurezza nazionale», e malgrado l’ampio margine di apprezzamento di cui notoriamente godono al riguardo gli Stati parti della Convenzione, è lecito dubitare che l’afflusso di alcune migliaia di migranti in un territorio che conta una popolazione di circa 60 milioni di persone sia, di per sé, qualificabile come un «pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione».
Infine, uno specifico riferimento non può mancare ai rifugiati e richiedenti asilo, che sarebbero evidentemente colpiti dalla misura di cui si discute, se, ed in quanto, essa venisse a configurarsi – come sembra – quale misura interdittiva indifferenziata. È facile rilevare che una simile prospettiva implicherebbe necessariamente una violazione del principio di non refoulement, stabilito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, e pacificamente ritenuto corrispondente al diritto internazionale generale. Inoltre, ove le imbarcazioni cui fosse negato l’accesso ai porti italiani si trovassero nelle nostre acque territoriali, tale diniego risulterebbe incompatibile con la Direttiva 2013/32/UE (c.d. direttiva procedure), la cui applicazione, ai sensi dell’art. 3, deve essere garantita anche nel mare territoriale dello Stato”.
Malgrado la chiarezza del principio di non respingimento, e la interpretazione esemplare che nel 2012 ne ha fornito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi Jamaa contro Italia, i decisori politici, hanno cercato in tutti i modi di imporre prassi operative e di concludere accordi bilaterali per la sostanziale elusione di quel divieto.
Nel Mediterraneo centrale sembra ormai compiuto il percorso politico ed operativo di esternalizzazione dei controlli alle frontiere marittime innescato dal Processo di Khartoum e dagli accordi tra Italia e governo di Tripoli conclusi nel febbraio del 2017. Accordi dai quali è derivato un coordinamento progressivamente sempre più intenso tra autorità libiche ed autorità italiane, soprattutto da quando navi della missione NAURAS della Marina militare sono stabilmente presenti nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli.
In base agli accordi bilaterali stipulati nel tempo dall’Italia con i diversi governi che si sono succeduti a Tripoli, prosegue, con periodici rinnovi e rotazione delle navi, la missione Nauras della Marina militare presente nel porto di Abu Sittah a Tripoli, e dunque continua il coordinamento e l’assistenza garantita da questa missione alle motovedette donate nel tempo dall’Italia ed in atto gestite dalla cd. guardia costiera libica. Coordinamento che sembra non venga intaccato dal nuovo codice di condotta varato dai libici per interdire gli interventi di ricerca e soccorso delle ONG, non soltanto nelle loro acque territoriali, ma nelle acque internazionali in violazione del principio della libertà di navigazione e degli obblighi di soccorso immediato che competono a qualsiasi comandante di una nave che abbia notizia di una imbarcazione in pericolo da raggiungere nel tempo più rapido possibile.
Le conseguenze sono ormai evidenti. Allontanate, o sottoposte a sequestro, quasi tutte le navi delle ONG che non hanno “obbedito” alle intimazioni sempre più minacciose della sedicente guardia costiera “libica”, aumentato il supporto europeo ed italiano ai guardiacoste libici, evidentemente coordinati da assetti militari italiani, svuotate di mezzi di soccorso le rotte dalla Libia all’Italia, gli interventi di intercettazione in acque internazionali delegati alle milizie navali libiche superano ormai il numero di soccorsi effettuati dalle unità militari e private europee, che si concludono con lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). Per chi viene ricondotto in Libia non vi sono possibilità concrete di ricorso contro le misure di trattenimento, e la possibilità di chiedere asilo e’ molto limitata, ai casi di registrazione da parte dell’UNHCR che visita solo una parte dei centri di detenzione gestiti dal Dipartimento libico contro l’immigrazione irregolare (DCIM).
Le acque del Mediterraneo centrale sono state così sottratte a qualsiasi giurisdizione nazionale ed internazionale, e gli atti illeciti che si perpetrano di continuo, in violazione del diritto internazionale del mare e del diritto umanitario, rimangono privi di sanzione e vengono sistematicamente coperti da una rigida censura ( o autocensura) dei mezzi di informazione, quando non sono oggetto di denuncia da parte delle Organizzazioni non governative. Sembra non assumere rilievo la circostanza che la maggior parte delle operazioni di soccorso della cd. Guardia costiera “libica” altro non sono che respingimenti collettivi “delegati” dalle autorità italiane ed europee ai libici che per questo vengono lautamente finanziati, riforniti ed assistiti. Se nella sostanza si tratta di respingimenti collettivi attuati con il concorso di autorità italiane, il diritto internazionale non accorda strumenti effettivi di tutela giurisdizionale, salvo i limitati casi in cui sia possibile proporre una azione giudiziaria individuale da parte di chi e’ stato gia’ riportato in Libia.
La narrazione dei fatti viene rovesciata per criminalizzare gli interventi di soccorso e preparare l’intervento dei giudici penali o delle autorità amministrative con procedimenti che anche quando non si arriva ad una condanna definitiva comportano il fermo delle navi di soccorso, con un aumento esponenziale delle vittime in mare, sempre tenendo conto della forte riduzione delle partenze dalla Libia ( anche oltre il 90 per cento in meno rispetto agli anni dal 2014 al 2017). Eppure i rapporti delle Nazioni Unite sono sempre più dettagliati nella esposizione delle violenze inflitte ai migranti riportati indietro dalla guardia costiera libica ed internati nei centri di detenzione governativi o ceduti ai trafficanti.
E’ il Giudice delle indagini preliminari di Catania che nel provvedimento di convalida del sequestro della nave Open Arms nel mese di marzo del 2018, , senza qualificarlo come tale, tratteggia i connotati di un respingimento collettivo effettuato su ordine delle autorità italiane, che avevano inizialmente assunto la responsabilità SAR e dunque avevano esercitato per una prima frazione temporale una piena giurisdizione sulle persone soccorse in acque internazionali.
Scrive il GIP di Catania : la Difesa di ………. poi, a giustificazione della condotta della ONG e degli indagati in merito alla mancata consegna dei migranti ai libici, richiama il principio di non refoulement (divieto di respingimento), sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
Anche questa eccezione non può essere condivisa, poiché le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli, e perciò non si può parlare minimamente di respingimento, ma solamente di soccorso e salvataggio in mare.
In realtà, quanto riconosciuto dal GIP di Catania “ le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli”, rende chiaramente gli assetti operativi concordati negli ultimi mesi tra la Guardia costiera di Tripoli e le autorità italiane ( Marina militare e IMRCC di Roma). La ricostruzione proposta dal giudice catanese, in buona misura corrispondente con la impostazione politica che ha portato al Memorandum d’intesa con la Libia del 2 febbraio 2017, e poi al Codice di condotta Minniti, che comunque non può essere considerato neppure “normativa secondaria“, perché privo di qualsiasi effetto normativo, potrebbe reggere soltanto se la Libia intera, e non solo una sua piccola parte, aderisse alla Convenzione di Ginevra e la applicasse effettivamente, e se i suoi porti fossero qualificabili come place of safety. Una qualificazione che è esclusa da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, da testimonianze giornalistiche concordanti, e soprattutto dai corpi delle persone che continuano a fuggire dalla Libia, corpi che testimoniano più di mille parole, abusi, stupri, riduzione in schiavitù, commercio di esseri umani che le diverse autorità libiche, seppure supportate da missioni europee, non sono evidentemente in grado di contrastare
Il coordinamento operativo, documentato da atti giudiziari e report internazionali, tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (IMRCC), la Marina militare, con una nave presente nel porto di Tripoli, e la sedicente Guardia costiera “libica, potrebbe configurare un vero e proprio respingimento collettivo attuato anche direttamente con il coordinamento operativo garantito dall’Italia, un respingimento vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Se infatti per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla giiurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività SAR inizialmente segnalate ad autorità italiane, fino a quando non siano prese in carico da altra autorità nazionale, nrl rispetto del principio di non respingimento, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che deve quindi garantire un luogo di sbarco nel Place of Safety più vicino, e non nel porto più vicino. È dunque l’Italia che deve garantire il rispetto del principio di non refoulement (respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e del divieto di respingimenti collettivi, oltre che il divieto di trattamenti inumani o degradanti, pure sanciti dalla CEDU.
Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (casi Banković, e Medvedyev ed altri).
Quando le autorità italiane individuano la responsabilità SAR “libica”, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, sono state segnalate alle autorità italiane, e dunque ricadono già sotto la giurisdizione italiana, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono soccorsi nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.
L’appoggio fornito dal governo italiano alla Guardia costiera libica, che è stata dotata di mezzi e di strutture di coordinamento, è apparso sempre più orientato a eludere le disposizioni vincolanti in materia di soccorso in mare, fissate dalle Convenzioni internazionali. Il portavoce della sedicente Guardia costiera libica ha dichiarato in diverse occasioni che gli assetti militari a sua disposizione non avrebbero svolto attività di ricerca e soccorso che non fossero operate da autorità libiche con i mezzi decisi da Tripoli, dunque con totale esclusione di ogni possibilità di collaborazione con le Ong o con navi di missioni europee ancora presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Anche per questa ragione si sono progressivamente ritirate piu a nord le navi delle missioni Mare sicuro della marina militare italiana, Themis di Frontex e Sophia di Eunavfor Med, ormai limitate solo ad alcuni assetti aerei, con attività di avvistamento. Un avvistamento che sempre più spesso non corrisponde poi a un’effettiva attività di soccorso da parte degli stati costieri dell’Unione Europea. La Commissione europea nel mese di novembre del 2019 ha ribadito che la Libia non deve essere considerata un porto sicuro verso cui riportare i richiedenti asilo, dopo essere stata informata dell’accordo segreto di respingimento collettivo dei migranti stipulato tra Malta e quel paese dilaniato dalla guerra.
Si deve osservare poi come l’aggiramento della sentenza Hirsi Jamaa contro Italia si stia realizzando anche per la peculiare situazione legale e geografica che caratterizza lo stato di Malta, chda tempo e ha concluso con la Libia un accordo di respingimento in mare, e che non ha mai accettato le modifiche (emendamenti) alle Convenzioni SAR e SOLAS che stabiliscono l’obbligo, per lo stato responsabile del coordinamento di una attivita Sar, di garantire nei tempi piu’ rapidi un porto sicuro di sbarco ( place of safety). Per questa ragione le autorità maltesi hanno consentito ai libici , seppure in rare occasioni, la possibilità di entrare nella loro zona Sar ed intercettare imbarcazioni cariche di migranti fino all’inverosimile. Come nel settore del contrabbando di petrolio libico, Malta si conferma uno snodo centrale per le operazioni di intercettazione di migranti nel Mediterraneo centrale, con il consueto intreccio di attori istituzionali e torbidi interessi.
Si è appreso da fonti di stampa estere , successivamente riportate in Italia, che le motovedette libiche sarebbero intervenute su delega delle autorità maltesi per intercettare dei naufraghi che si trovavano già nella zona SAR attribuita a Malta e che si dirigevano verso le coste italiane, in una zona peraltro nella quale le aree SAR maltese ed italiana risultano sovrapposte. Luoghi nei quali si sono verificati numerosi naufragi anche per i ritardi dovuto al mancato coordinamento tra le autorità SAR dei diversi stati. In questa ultima occasione il coordinamento c’è stato, ma tra le autorità maltesi e quelle libiche, e si è tradotto di fatto in un vero e proprio respingimento collettivo. Il coordinamento tra stati fiversi imposto dalle Convenziini Unclos e Sar non puo tradursi nella violazione di diritti fondamentali della persona e dell’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Come riferisce The National, l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha aperto una indagine sul motivo per cui la scorsa settimana Malta avrebbe chiesto alla guardia costiera libica di intercettare una imbarcazione carica di migranti che ormai si trovava all’interno della zona SAR maltese, con una “possibile” violazione del diritto marittimo, come ha dichiarato Vincent Cochetel, inviato speciale delle Nazioni Unite per i rifugiati per il Mediterraneo centrale. Secondo quanto dichiarato da Cochetel ai giornalisti nel corso di un incontro a Roma, “ci sono prove che Malta abbia richiesto assistenza (dalla) guardia costiera libica per intervenire” nella propria regione di ricerca e salvataggio nella giornata del 18 ottobre 2019. Cochetel ha poi aggiunto: “stiamo esaminando le ragioni della richiesta di Malta”, dal momento che Malta potrebbe aver chiesto alla Libia di intervenire per motivi tecnici. Secondo l’UNHCR, “il problema è che i migranti sono sbarcati in Libia. Questa è certamente una violazione delle leggi marittime … È chiaro che la Libia non è un porto sicuro”.
L’intercettazione era stata segnalata da Alarm Phone, una organizzazione indipendente che raccoglie le chiamate dei migranti che hanno bisogno di essere soccorsi in mare. Alarm Phone aveva ricevuto una chiamata con la posizione GPS dalla imbarcazione che trasportava 50 migranti, tra cui 10 donne e cinque bambini, nel primo pomeriggio del 18 e aveva trasferito la richiesta di soccorso alle autorità maltesi. “Ci occuperemo di tutto”, avrebbe affermato un funzionario maltese in servizio alle 14.40 di quel giorno, secondo una trascrizione della chiamata fornita alla Associated Press. Come riporta The National, “nelle ore successive al primo contatto, il centro di soccorso e coordinamento (MRCC) di Malta ha smesso di rispondere alle chiamate di Alarm Phone, che ha cercato di dare seguito al salvataggio. Alle 17:00 sembrava che la barca stesse naufragando mentre un elicottero stava volando sopra. Quasi sette ore dopo, le autorità maltesi informavano Alarm Phone che la barca era stata intercettata dalla guardia costiera libica addestrata dall’UE, a circa 75 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa e 200 km da Tripoli”. Proprio in prossimità di quella zona SAR sovrapposta tra Italia e Malta, che non ha mai accettato le risoluzioni ( emendamenti alle Convenzioni Sar e Solas) IMO del 2004, oggetto da tempo di conflitti di competenza tra le autorità maltesi e quelle italiane.
NOTA
http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-interno_548.php
4. Gli accordi tra Unione europea e autorità libiche Gli accordi bilaterali ed i Memorandum d’intesa tra Italia e Libia. I Codici di condotta.. Il declino amministrativo dei diritti umani e degli obblighi di salvataggio.
Nasceva nel 2014, durante l’operazione di soccorso Mare Nostrum, seguita alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, la teoria del cd. “pull factor“, come se le attività di soccorso in acque internazionali a nord della costa libica, preordinate alla ricerca ed al salvataggio di persone in alto mare, costituissero un fattore di attrazione per le partenze dalla Libia e una agevolazione delle attività delle organizzazioni criminali che da tempo controllavano il territorio, in collusione con le milizie, e gestivano l’imbarco dei profughi verso l’Europa. Alla fine di quell’anno l’operazione veniva chiusa, sotto la spinta della propaganda dei partiti di destra, e subito si registrava una impennata nel numero delle vittime, che culminava con la strage del 18 aprile del 2015, oltre 800 morti dopo un capovolgimento a ridosso di una imbarcazione soccorritrice, le cui cause non sono state mai chiarite. Dopo quella strage l’Unione Europea decideva di estendere il mandato operativo delle navi dell’agenzia FRONTEX nel Mediterraneo centrale fino a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa, dunque a circa 24 miglia dalle coste libiche, e per qualche mese (giugno e luglio) il numero delle vittime risultava quasi azzerato. Anche nei confronti delle missioni di Frontex, che allora sbarcavano tutti i naufraghi in Italia, si scatenava la polemica con tesi rilanciate a tempesta sui canali social, secondo cui le attività di soccorso avrebbero incentivato le partenze favorendo trafficanti e scafisti, Ben presto anche Frontex cominciò a ridurre la presenza dei suoi assetti navali nel Mediterraneo centrale, restringendone il campo di azione e spostandole verso est allo scopo di controllare maggiormente le rotte percorse dalle imbarcazioni cariche di migranti provenienti dall’Egitto. Come dimostrano importanti studi scientifici, il numero delle vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale tornava a crescere in modo esponenziale, ed è in quel periodo, alla fine del 2015, che si nota una crescente presenza di imbarcazioni di soccorso di Organizzazioni non Governative che svolgono un ruolo di supplenza, operando quei soccorsi che le navi militari degli stati svolgevano in misura progressivamente più ridotta. Mentre nel 2014 le imbarcazioni delle poche ONG allora presenti avevano soccorso appena 1450 persone, nel 2015 i soccorsi operati dalle ONG salivano a 20.063 persone, che diventavano ben 46.796 nel 2016, per cominciare poi a decrescere nel 2017 (soprattutto nella seconda pare dell’anno) con 46.601 persone soccorse a nord delle coste libiche, in acque internazionali.
.Malgrado i richiami ai diritti umani ed il tenore complessivo dei Regolamenti europei, nell’estate del 2016 , si e’ arrivati alla conclusione di un Memoriandum di intesa ( MOU) tra EUNAVFOR MED ed i vertici della Guardia Costiera libica. Il programma di azione vede attivamente coinvolti numerosi altri organismi quali EUBAM Libia (EU Border Assistance Mission in Libya), l’agenzia europea Frontex e le Nazioni Unite.
Di fronte della situazione di conflitto armato che si sta aggravando giorno dopo giorno attorno ai porti ed ai terminali petroliferi libici, rimane da chiedersi oggi quale sarà la portata effettiva della collaborazione che la cd. Guardia Costiera libica potrà garantire alle diverse navi europee impegnate in operazioni di ricerca e salvataggio ( Attività SAR – Search and Rescue). Rimane invece certo il destino delle persone che dopo essere state “soccorse” dai mezzi libici in acque territoriali, o in zona contigua, entro le 24 miglia dalla costa, saranno riportate a terra e internate nei tanti centri di trattenimento che esistono da anni in Libia. Luoghi nei quali si verificano abusi di ogni sorta, come documentato da testimonianze univoche ed inoppugnabili di tanti migranti che sono riusciti a fuggire, e hanno comunque raggiunto l’Italia. Dai contenuti pubblicati di questo ennesimo Memorandum d’intesa emerge come, con i finanziamenti dell’Unione Europea, si passerà presto al rilancio dell’addestramento delle Guardie di frontiera e della Guardia costiera “libica”, e quindi ad intese operative sncora piu’ stringenti. La collaborazione tra i libici ed i mezzi navali coinvolti nella missione europea EUNAVFOR MED ( Operazione Sophia), iniziata in realtà da tempo, ha prodotto però qualche “incidente”, ed altri ancora piu’ gravi potrebbe produrre in futuro.
Gli attacchi di mezzi appartenenti alle milizie libiche, variamente denominati come guardia costiera “libica”, ma che in realtà corrispondono alle diverse città, si sono verificati da anni. I media hanno dato notizia che il 17 agosto 2016 un battello veloce della Guardia Costiera libica avrebbe aperto il fuoco sulla nave umanitaria Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere mentre svolgeva attività SAR ( Ricerca e salvataggio) nella stessa zona, oggetto di tanti salvataggi in passato. Salvataggi che oggi sono in forte diminuzione a causa del rallentamento delle partenze dalla costa libica, effetto della situazione di conflitto armato che rende sempre più difficili e pericolosi gli spostamenti dei migranti che attraversano la Libia per imbarcarsi verso la Sicilia. Nel Comunicato della Guardia Costiera libica si fa riferimento al ritiro degli uomini armati dalla nave umanitaria, occupata per 50 minuti, solo dopo avere avuto notizia che la stessa nave “avrebbe fatto parte dell’Operazione Sophia”. Sull’”incidente”, ammesso anche dai libici e riportato dal Guardian, è subito calata la censura internazionale. Come è avvenuto anche qualche giorno più tardi, dopo il sequestro di due operatori umanitari tedeschi che si trovavano su un gommone di servizio alla nave umanitaria Sea Eye al largo di Zawia, rimessi in libertà dopo 48 ore, come se si fosse trattato di un “incidente” per difetto di comunicazione tra l’imbarcazione tedesca ed i mezzi della Guardia costiera libica.
La missione prioritaria di EUNAVFOR MED, che non e’ stata mai autorizzata ad entrare in acque libiche, rimane la difesa dei confini esterni dell’Unione Europea, in acque internazionali, né si vedono all’opera nuovi mezzi di Frontex, o della rinominata Frontex Plus, la nuova Guardia di frontiera e costiera europea, che dovrebbero svolgere attività di ricerca e salvataggio anche in modo autonomo, come previsto dal Regolamento europeo n.656 del 2014.. Attività che allo stato rimarrebbero circoscritte alle acque internazionali, mentre si sta lavorando per delegare ai libici in modo esclusivo gli interventi di controllo ( e di salvataggio) all’interno delle loro acque territoriali. Le immagini di morti nelle acque antistanti la Libia occidentale sono facilmente reperibili in rete e testimoniano la mancata capacità di intervento della Guardia costiera libica, che non ha peraltro mezzi adeguati per intervenire ed è stata spesso sospettata di collusioni con le organizzazioni dei trafficanti, soprattutto davanti Zawia. In realtà sembrerebbe che ciascuna milizia che controlla una città abbia una sua “Guardia Costiera”, seppure formalmente tutte si denominino “Guardia Costiera libica”.
Altrettanto critica si è rivelata la scelta di ritirare la maggior parte delle navi della missione europea TRITON dell’Agenzia FRONTEX, o di posizionarle ben distanti dalla costa libica, in modo da renderle irraggiungibili per i gommoni che usano i trafficanti, mezzi cinesi di pessima qualità, che a stento arrivano, quando il mare lo permette, nelle acque internazionali, oltre 12 miglia dalla costa, dove possono avere qualche speranza di essere soccorsi. L’intento di affidare alle navi commerciali in transito nelle acque a nord della costa libica funzioni di soccorso, al di là di interventi di emergenza, se diventa una scelta politica generale, come si è verificato già nel 2015, dopo la fine dell’Operazione Mare Nostrum, non può che avere conseguenze mortali.
Nell’ultimo semestre del 2018, a Bruxelles si era deciso di ritirare tutti gli assetti navali dell’operazione EUNAVFOR MED , che pure aveva compiti di formazione della cd. guardia costiera “libica”, e di ridurre al minimo la presenza dell’operazione Frontex sulla rotta del Mediterraneo centrale,a fronte delle decine di migliaia di vite salvate dalle due missioni a partire dal 2015. Dopo la fine dell’operazione italiana Mare Nostrum nel dicembre del 2014, si e’ ritenuto come pull factor qualsiasi attività di soccorso che salvi vite in mare e le sottragga alle attività di intercettazione delle motovedette libiche, in gran parte donate dall’Italia. Un prezzo pagato agli elettorati nazionali dai vertici europei in crisi di rappresentanza, prima di una scadenza elettorale che si temeva, ma che in buona parte parte non ha prodotto gli effetti auspicati dai partiti nazionalisti e populisti.
La Marina militare aveva espresso da tempo posizioni assai critiche rispetto alle scelte dell’Unione Europea.L’Italia, “ha messo di fronte all’Europa determinate responsabilità” ha detto Cavo Dragone. I partner Ue hanno infatti ritirato le unità navali dall’Operazione Sophia dopo che il governo italiano ha preteso che i migranti raccolti venissero sbarcati negli Stati di appartenenza delle navi militari e non più tutti in Italia.
In realta’ nei piani per il 2020 della rinnovata missione Eunavfor Med, che perde il richiamo al nome Sofia, si individua la sanzione definitiva di una zona SAR “libica” con il rafforzamento della collaborazione con la sedicente “guardia costiera libica”, obiettivi largamente coincidenti con le politiche praticate dai precedenti governi italiani, guidati dal medesimo proposito, sostenuto dalla cessione e quindi dall’invio a Tripoli di numerose motovedette donate ai libici dall’Italia. Non era del resto un caso che la missione europea Eunavfor Med fosse a guida italiana, e contasse su numerosi assetti navali provenienti dalla Marina militare italiana che curava anche direttamente, nel nostro paese, la “formazione” dei guardiacoste libici.
Le posizioni emerse nei vertici europei del 2019 ,dalla Conferenza dei ministri dell’interno UE a Parigi, al Consiglio europeo informale di Helsinki si dimostrano su una linea di continuità con la politica degli scorsi anni, che ha trovato il suo asse centrale nella esternalizzazione dei controlli di frontiera. Obiettivo della continuità europea in materia di immigrazione, che si continua a sovrapporre al tema della protezione internazionale, è ancora il “rafforzamento” della protezione delle frontiere esterne, “fondamentale per rendere lo spazio Schengen più sicuro e gestire la migrazione in modo più efficiente. Le nuove norme consentiranno a Frontex di fornire agli Stati membri un sostegno più rapido ed efficiente in relazione a vari compiti, compresi i controlli di frontiera e il rimpatrio di chi non ha diritto di soggiorno”. La missione Eunavfor Med viene prolungata di altri sei mesi con la sola presenza di assetti aerei, un espediente adottato a partire dal 31 marzo 2019 per evitare che gli assetti navali europei si possano trovare coinvolti in attivita di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Dunque in piena CONTINUITÀ con il ridimensionameto della missione e della sua riconversione ad attivita di intelligence, decisa dal Consiglio europeo lo scorso anno.
La bozza dell’accordo europeo sui migranti stipulata nel settembre 2019 a Malta si mantiene sulla linea di considerare le ONG un fattore di attrazione ( pull factor) e prelude alla loro ulteriore criminalizzazione.I punti principali dell’accordo, prevedono la esternalizzazione delle frontiere in Libia e le “piattaforme” in quel paese per lo sbarco delle persone soccorse nel Mediterraneo centrale, che non costituisce affatto “un primo passo verso la riforma del Regolamento di Dublino”, ma solo un tentativo di “umanizzazione del disumano” la detenzione amministrativa in territorio libico Prima che su questo siano realizzate complessive situazioni di sicurezza. In numerose occasioni l’UNHCR, che ha ritirato dalla Libia la maggior parte dei suoi operatori internazionali, ha ribadito che non è nelle condizioni di garantire la sicurezza delle persone internate nei centri detenzione. Altri passaggi della bozza di Malta, che peraltro non ha avuto il riscontro del Consiglio europeo che si attendeva, ricalcano il codice di condotta per le ONG voluto dal governo Gentiloni nell’estate del 2017: al punto 6 dell’accordo per esempio si allude al pull factor, come se la presenza delle ONG incentivasse le partenze dalla Libia. La stessa accusa infamante lanciata da anni, con le peggiori calunnie, dai sovranisti europei e dalle destre italiane. Sulla stessa linea del precedente ministro dell’interno Minniti (governo Gentiloni) si mantiene l’ultimo ministro dell’interno Lamprgese che auspica un rafforzamento della collaborazione con la sedicente guardia costiera”libica” e rilancia l’idea di un nuovo codice di condotta per le ONG, come se fosse possibile attraverso questo strumento di autoregolazione rimettere in discussione gli obblighi a carico degli stati tenuti ad un intervento immediato ed a una tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco dei naufraghi (POS- Place of safety).
Persino l‘ex Commissario europeo all’immigrazione Avramopoulos riconosce tuttavia che le ONG non devono essere criminalizzate e che occorre una politica con intese di carattere permanente che stabiliscano le modalità di sbarco dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo. Sembra dunque unanime la considerazione che la Libia non possa garantire porti di di sbarco sicuri. Una dichiarazione che è stata fatta propria anche dalla portavoce della precedente Commissione Europea, senza però portare ad un blocco degli accordi dell’Italia con la sedicente guardia costiera libica. Come un minimo di coerenza e di rispetto dei diritti umani avrebbe imposto.
Il Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli era concluso il 2 febbraio 2017 e veniva poi ratificato (ma non in sede legislativa) dall’Unione Europea nella Conferenza di Malta del 3 febbraio successivo. Un ruolo crescente veniva attribuito alla sedicente “Guardia costiera libica” che si avvaleva dell’assistenza e del supporto operativo delle autorità italiane presenti a Tripoli, nel porto militare di Abu Sittah, con la missione NAURAS, parte dell’operazione MARE SICURO. Ben presto la portata effettiva degli obblighi di soccorso in acque internaziinali, stabilità dal diritto internazionale, veniva intaccata da atti di rilievo convenzionale o amministrativo.
Le ONG diventavano allora oggetto di una campagna di delegittimazione e di criminalizzazione senza precedenti frutto anche, alla fine di luglio del 2017, dell’adozione di un Codice di Condotta che pur richiamando gli obblighi di soccorso dettati dalle Convenzioni internazionali, e senza avere alcun valore legale vincolante, attribuiva vasti poteri di intervento in acque internazionali alle cd. Guardia costiera “libica”, prima ancora che fosse istituita una zona SAR “libica” e prima che fosse costituita una Centrale operativa di coordinamento (MRCC), che di fatto sarebbe stata gestita dalle autorità marittime italiane ( almeno fino al 28 giugno 2018).
Il Codice di condotta Minniti, prevede che “conformemente al diritto internazionale pertinente, l’impegno a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata,e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue (SAR) da parte della Guardia costiera libica: al fine di non ostacolare la possibilità di intervento da parte delle Autorità nazionali competenti nelle proprie acque territoriali, nel rispetto degli obblighi internazionali”.
Il Codice di condotta NON impone quindi alcun obbligo di adempiere agli ordini di autorità libiche in acque internazionali, a maggior ragione se gli eventi SAR sono stati dichiarati e coordinati inizialmente da comandi italiani come IMRCC di Roma, e riconosce la superiore valenza normativa degli obblighi di ricerca e soccorso, e degli altri doveri, come il principio di non respingimento, o il divieto di respingimenti collettivi, derivanti da Convenzioni internazionali, che nei provvedimenti della Procura di Catania sono totalmente ignorati.
Come si osserva in dottrina,”il Codice di condotta ONG si posiziona a metà strada tra un documento che intende codificare le norme applicabili alle ONG e un documento interno che regola le loro operazioni. In esso non si trovano accenni (salvo una nota) a norme di diritto del mare e di diritto marittimo che pure regolano la navigazione e il soccorso in mare. Non essendo esso il prodotto dei processi di creazione delle norme di diritto internazionale, il suo contenuto non è vincolante di per sé, ma solo nella misura in cui esso riprende norme giuridicamente vincolanti del diritto internazionale”. Si rileva ancora come “ un ultimo punto su cui vale la pena soffermarsi concerne l’impegno previsto dal Codice «a cooperare con l’MRCC [Maritime Rescue Coordination Centre], eseguendo le sue istruzioni ed informandolo preventivamente di eventuali iniziative intraprese autonomamente perché ritenute necessarie ed urgenti». Il Codice non precisa di quale MRCC si tratti, ma questo potrebbe essere sia quello italiano con sede a Roma, sia quello libico. Per quanto riguarda la cooperazione con il MRCC italiano, la disposizione appare ridondante, in quanto questa è di fatto la prassi seguita dalle ONG, che spesso agivano proprio dietro invito del MRCC di Roma. La collaborazione con il MRCC libico, invece, potrebbe porre problemi di rispetto delle norme internazionali in materia di diritti umani e diritto dei rifugiati poiché è verosimile che il MRCC libico richieda alle ONG di sbarcare le persone soccorse nei porti libici.
Nessun Codice di condotta può permettere di violare impunemente il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti affermato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, o il divieto di respingimenti collettivo, affermato oltre che dalla CEDU, anche dall’art. 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Una votazione di una istituzione politica, adottata non in sede legislativa, sul Codice di condotta Minniti, come quella richiamata dal GIP di Catania, in ordine al documento conclusivo dell’indagine conoscitiva elaborata dalla Commissione Difesa del Senato nel maggio del 2017, presieduta dal senatore La Torre, non può dotare di valenza normativa un codice di condotta che rimane vincolante come codice di comportamento soltanto le parti che lo hanno sottoscritto, e che neppure prevede le violazioni contestate oggi alla Open Arms, non conferendo particolari poteri alle autorità libiche in acque internazionali.
Il GIP di Catania (nel caso della convalida del sequestro della open arms nel mese di marzo del 2018), riconosce che il Codice di condotta “non costituisce un compendio di regole, la cui violazione determina automaticamente l’insorgenza di un reato, e della conseguente sanzione penale”. Anche se poi aggiunge, “però la infrazione di questo autoregolamento rivela il rifiuto di operare all’interno di precisi precetti prefissati dallo Stato italiano, e solo all’interno dei quali l’ingresso nel Territorio Nazionale non viene più ritenuto clandestino ( le violazioni del Codice di Condotta, quindi, comportano la qualificazione di quei comportamenti che determinano l’ingresso di clandestini in Italia come contrarie al dettato della fattispecie criminosa di cui all’art. 12 del T.U. sull’immigrazione)”. Insomma un Codice di Condotta che ha una diversa valenza a seconda del luogo di sbarco dei naufraghi, anche quando questo avviene per determinazione finale delle autorità italiane ( come è avvenuto nel caso dell’ingresso della Open Arms a Pozzallo autorizzato dalla Centrale Operativa della Guardia costiera nella giornata del 17 marzo scorso).
Un rapporto del mese di giugno del 2017 redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite documentava intanto come ” gruppi armati, alcuni dei quali hanno ricevuto un mandato o almeno un riconoscimento dalla Camera dei rappresentanti o dal Consiglio di presidenza, non sono stati sottoposti a un controllo giudiziario significativo. Ciò ha ulteriormente aumentato il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani, inclusi rapimenti, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. I casi indagati dal gruppo comprendono abusi”. Secondo lo stesso rapporto, “Abd al-Rahman Milad (alias Bija), e altri membri della guardia costiera, sono direttamente coinvolti nell’affondamento delle barche dei migranti usando armi da fuoco. A Zawiyah, Mohammad Koshlaf ha aperto un rudimentale centro di detenzione per i migranti nella raffineria di Zawiyah. Il gruppo di esperti scientifici ha raccolto informazioni su abusi contro i migranti da parte di diverse persone (cfr. Allegato 30). Inoltre, il gruppo di esperti scientifici ha raccolto notizie di cattive condizioni nei centri di detenzione dei migranti a Khums, Misratah e Tripoli. Secondo lo stesso rapporto “il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawiyah, Mohamed Koshlaf, noto anche come Kasib o Gsab (v. punti 105 e 258), è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr.81 Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della guardia costiera di Zawiyah, Abd al-Rahman Milad (alias Bija) (vedi anche punti 59, 105 e 258), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti.” A tutti gli organi inquirenti, ed alle autorità politiche, intente a regolamentare le ONG, dunque, già nell’estate del 2017, ed anche prima, per le attività di indagine in corso, doveva risultare chiara la situazione dei migranti che fuggivano dalle coste della Tripolitania in quel periodo e l’elevato grado di collusione, se non la piena identificazione, tra la cd. guardia costiera libica ed i trafficanti spesso travestiti da miliziani. In quello stesso periodo le imbarcazioni delle ONG cominciavano a ricevere minacce ed a subire anche fuoco di intimidazione da parte di unità navali di diversa natura, apparentemente appartenenti alla cd. Guardia costiera libica.
Come si evince da un Rapporto di Human Rights Watch del 2017, Il 10 maggio e il 23 maggio di quell’anno, le navi di pattuglia delle forze di guardia costiere libiche in acque internazionali sono intervenute nei soccorsi già in corso da parte di organizzazioni non governative, hanno usato comportamenti minacciosi che potrebbero provocare il panico e non sono riusciti a fornire giubbotti di salvataggio a persone in cerca di salvataggio da navi non idonee. Il 23 maggio 2017 , gli operatori umanitari assistevano – e filmavano – agenti della guardia costiera libica che sparavano colpi in aria. Venivano quindi raccolte testimonianze corroboranti da parte dei sopravvissuti secondo cui gli ufficiali avevano sparato anche colpi in acqua dopo che i migranti erano saltati in mare”. In quella data tre navi delle ONG erano coinvolte in una operazione SAR ( ricerca e salvataggio) sotto il coordinamento della Guardia cosiera italiana (IMRCC): Save the Children’s con la Vos Hestia, l’Aquarius, di Medici senza frontiere; e lo Iuventa, di Jugend Rettet. Sotto il coordinamento del Centro ufficiale di coordinamento per il salvataggio marittimo in Italia (IMRCC) di Roma, i soccorritori lavoravano insieme per diverse ore per trasferire i migranti dai gommoni fatiscenti alle loro imbarcazioni. Gia’ nel 2017 dunque, durante le operazioni di soccorso, la Guardia costiera libica circondava i mezzi di soccorso e sparava colpi in mare in prossimità dei gommoni terrorizzando i migranti che si gettavano in acqua. Come si è verificato ancora nei giorni scorsi , nel caso della nave Alan Kurdi, un’arma pesante da fuoco veniva puntata sulle imbarcazioni soccorritrici.
Le dichiarazioni di numerosi naufraghi soccorsi dalle ONG e recenti interviste in Italia condotte dall’UNHCR confermano che persone sbarcate a terra da mezzi della sedicente guardia costiera “libica” dopo essere state intercettate in acque internazionali, sono state immediatamente vendute ai trafficanti, e queste testimonianze si ripetono giorno dopo giorno, sempre più circostanziate, rese da naufraghi provenienti da Tripoli, da Zawia, e da Bani Walid.
La situazione in Libia diventava sempre più caotica con rischi gravissimi per i civili e per i migranti ingabbiati tra le diverse milizie che si contendevano il territorio, mentre in mare non sono neppure chiari ancora oggi i rapporti tra la cd. Marina “libica” e le diverse guardie costiere che fanno capo alle singole città e che svolgono anche il compito di garantire i mezzi di servizio delle piattaforme offshore e la sicurezza delle navi commerciali che trasportano petrolio dai terminali verso l’Europa. Appare comunque certo che numerose operazioni della Guardia costiera di Tripoli sono monitorate dagli assetti aerei delle missioni europee FRONTEX ed Eunavfor Med.
L’Unione Europea peraltro, ancora priva di una Commissione nel pieno dei suoi poteri, dimostra una totale incapacità nel garantire gli interventi di soccorso nel Mediterraneo centrale ed una qualsiasi influenza sul processo di riconciliazione tra le diverse fazioni libiche. In questo modo non si garantisce né in Libia, né altrove, quello che si definisce come “stato di diritto” al quale dovrebbe essere ancorato il rispetto del principio di legalità nella lotta contro il traffico di esseri umani. In tutti i paesi di transito verso il Mediterraneo, ed in Libia in particolare, la corruzione tra i politici e le collusioni con i trafficanti, per queste ragioni, prosperano, malgrado i continui proclama dei capi di governo. A pagare sono sempre e soltanto i migranti, con i loro corpi.
In questo quadro la partita della proroga tacita del Memorandum d’intesa firmato da Gentiloni e Minniti il 2 febbraio del 2017, un accordo che non è mai passato dalle aule parlamentari, in violazione dell’art. 80 della Costituzione, benché comportasse ingenti impegni di spesa ed avesse una natura evidentemente “politica”, appare una partita truccata, perché si dimentica che lo stesso Memorandum fa riferimento al Trattato di amicizia italo-libico sottoscritto da Gheddafi e Berlusconi nel 2008, e quindi richiamato dalle intese stipulate nel 2012 dal ministro dell’interno Cancellieri, ai tempi del governo Monti. Tutti questi atti internazionali sono da considerare privi di efficacia perché in Libia si è verificato un mutamento di governo avvenuto per vie extralegali, la guerra civile del 2011 ed adesso se ne sta verificando un altro, con l’occupazione di vaste parti del territorio libico da parte del generale Haftar che non si riconosce più da tempo nel governo provvisorio di riconciliazione nazionale (GNA) presieduto da Serraj a Tripoli.
Il Memorandum d’intesa sottoscritto da Gentiloni il 2 febbraio del 2017 che è andato in proroga automatica, mirava appunto ” al fine di attuare gli accordi sottoscritti tra le Parti in merito, tra cui il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione firmato a Bengasi il 30/08/2008, ed in particolare l’articolo 19 dello stesso Trattato, la Dichiarazione di Tripoli del 21 gennaio 2012 e altri accordi e memorandum sottoscritti in materia”. Quando anche si ritenesse che tra la Libia di Gheddafi e l’attuale governo di Tripoli vi sia una qualche “continuità politica”,l’ Accordo per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di sostanze stupefacenti o psicotrope ed all’immigrazione clandestina firmato a Roma il 13 dicembre 2011 e reso operativo nel 2007 con l’adozione di due protocolli operativi, i Protocolli operativi( con il governo Prodi) nel dicembre del 2007, il Trattato di amicizia del 2008, ed il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, che ne riprende in sostanza la portata, sono decaduti, in quanto privi di efficacia, ai sensi dell’art. 61 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in forza della clausola “rebus sic stantibus”, in quanto le previsioni di portata operativa, come l’attribuzione di competenze di ricerca e salvataggio alla cd. Guardia costiera “libica”, sono inattuabili, per sopravvenuta impossibilità di esecuzione, come purtroppo è confermato dal numero crescente di imbarcazioni che vengono abbandonate in alto mare per giorni senza che nessuno intervenga.
A fronte della incertezza sulla validità del Trattato tra Italia e Libia del 2018, e delle previsioni dettate dai Protocolli operativi del 2007 e dal Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 , risultano privi della originaria efficacia, a fronte della situazione di divisione della Libia e, se si considera l’intera estensione delle coste libiche, non si doveva arrivare alla proroga automatica del Memorandum. Sembra tuttavia che lo stato italiano e le autorità governative di Tripoli abbiano manifestato l’intenzione di dare seguito a quegli accordi, apportandovi alcune modifiche, anche se la loro scarsa trasparenza non permette di comprendere verso chi sono orientati davvero i consistenti flussi finanziari che prevedono. In assenza di una qualsiasi certezza sulla effettiva destinazione delle somme devolute alle diverse autorità libiche, persino a singoli “sindaci”, rimangono privi di base legali gli ingenti trasferimenti di danaro e mezzi che continuano a provenire da parte delle autorità italiane ed europee in favore di non meglio identificate autorità libiche, soprattutto nel caso di esponenti della Guardia costiera o del Dipartimento contro l’immigrazione illegale (DCIM), o dello stesso governo Serraj.
Un inchiesta di ‘Avvenire’ dimostra come nella trattativa Italia-Libia aperta nel 2017 per fermate i flussi migratori verso il nostro Paese i funzionari del governo italiano avesssero trattato, nella riunione che si sarebe svolta nel CARA di Mineo,e poi a Roma al Viminale e presso la sede del Comando della Guardia costiera,, anche con un pericoloso criminale, che già l’Onu aveva indicato come un boss mafioso libico, e trafficante di esseri umani, di base a Zawia.
Questo tipo di rapporti non sono certo una novità. Come scriveva già anni fa Nancy Porsia ” However, as of early 2015, officials of Zawiya’s GC began exploiting the political and security vacuum and started to impose a toll on migrant smugglers operating in the area, as a local security services’ member said on condition of anonymity after two failed attempts on his life. In the last two years, human smugglers have been paying off the Coast Guard in Zawiya in order to get their dinghies through, otherwise migrant vessels sent by them would be stopped and brought to the detention centre Al Nasser in Zawiya.”
La giornalista Nancy Porsia, adesso sotto scorta per le minacce ricevute dalla Libia, ricorda come “l 17 agosto 2016, il personale a bordo della nave Médecins Sans Frontières (MSF) Bourbon Argos era stato assalito da uomini armati non identificati che prima sparavano alla loro nave e poi si imbarcavano su di essa. Nella sparatoria contro la nave per aiuti umanitari la Bourbon Argos veniva danneggiata da colpi ma non erano riferite notizie su vittime. Il gruppo armato è stato recentemente identificato come guardia costiera di Zawiya, come il portavoce della guardia costiera libica Ayoob Qassem ha confermato in un’intervista. Qassem ha dichiarato: “Era un incidente causato da entrambe le parti. A causa del contrabbando diesel in mare aperto in Libia, la Guardia Costiera di Zawiya veniva inviata dalla raffineria di petrolio situata nel porto di Zawiya per un pattugliamento in mare. Una volta che l’unità CG ha individuato la nave, il personale militare inizialmente pensò che fosse una petroliera. Ma abbiamo parlato e risolto il malinteso ”. Parlando per quanto riguarda l’incidente in mare che ha coinvolto la nave di MSF, il colonnello Reda Essa, a capo della Guardia costiera libica del settore centrale, responsabile delle acque territoriali che si estendono da Sirte a Garabulli, ha sottolineato che al momento dell’incidente l’unità di pattugliamento della guardia costiera non aveva alcuna informazione sul traffico marittimo e che gli incidenti potrebbero essere evitati con un protocollo di comunicazione più sofisticato”. È in questa direzione che si stanno muovendo gli stati ai quali l’Unione Europea ha delegato la gestione delle rotte del Mediterraneo centrale.
Sempre nel 2016, un reportage di Lucia Goracci per Rai News mostrava le immagini di un recupero di naufraghi da parte della cosiddetta Guardia costiera libica che lasciava andare i trafficanti e trasferiva in un centro di detenzione i migranti.
Mentre la situazione sul terreno in Libia sfuggiva a qualsiasi controllo, e le condizioni di transito e di sofferenza dei migranti peggioravano giorno dopo giorno, proprio alla fine del primo ciclo di formazione della cd. Guardia Costiera libica a bordo delle navi dell’operazione Sophia, mentre sparivano tutte le navi di Frontex, o si ritiravano a sud di Malta, con interventi SAR sempre più sporadici, partiva un attacco violento contro gli operatori umanitari. Il 29 novembre 2018, il rappresentante ONU per la Libia Martin Kobler, definiva la presenza delle navi delle ONG internazionali come un fattore di attrazione ( pull factor), subito spalleggiato dai vertici europei come il Commissario all’immigrazione, il greco Avramopoulos. Quindi partiva l’attacco più velenoso, diretto proprio contro i comandanti e gli equipaggi delle navi umanitarie che, dopo essere stati esposti al piombo dei libici, venivano direttamente accusati di collusioni con i trafficanti. Il 4 dicembre scorso le notizie venivano diffuse da una fondazione olandese, paese nel quale stanno prevalendo posizioni di sbarramento, se non di aperta xenofobia, nei confronti dei migranti in fuga cerso l’Unione Europea. Il 7 dicembre 2016 questi attacchi contro le ONG “colpevoli” di “collusione” con i trafficanti libici in attività di “contrabbando” di esseri umani, erano stati ripresi da ambienti che sembrerebbero riconducibili alla destra rosso-bruna europea, evidentemente con vasti riferimenti ai servizi segreti, per il tipo di informazioni delle quali questi siti di informazione potevano disporre. Infine erano i vertici di Frontex ad accusare le organizzazioni umanitarie di collusione vera e propria con le organizzazioni dei trafficanti, proprio alla vigilia del Consiglio Europeo del 15 dicembre 2016 che avrebbe dovuto ridefinire la politica europea in materia di contrasto dell’immigrazione e distribuire le risorse necessarie, sempre più ingenti per esternalizzare i controlli di frontiera e coinvolgere con i “Migration Compact i” paesi di origine e di transito.
Come ricorda con ampia documentazione Flavia Pacella, “Gli accordi italo-libici sono stati oggetto di aspre critiche da parte, in particolare, delle Nazioni unite. L’Alto Commissario per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha definito l’assistenza fornita dall’Italia e dall’Unione Europea alla Guardia costiera libica come disumana. In particolare, secondo Al Hussein, gli interventi in Libia avrebbero peggiorato la situazione dei migranti, la cui sofferenza è stata definita un “oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Similmente, il Comitato contro la tortura, rilevando come la gestione dei migranti in Libia sia in larga parte in mano a gruppi paramilitari, ha esplicitamente affermato che il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 è stato sottoscritto a dispetto delle notizie di sistematiche e generalizzate violazioni dei diritti umani poste in essere contro i migranti nei centri di detenzione, integrando così una politica di respingimento sistematico dei migranti diretti in Italia. Inoltre il Comitato ha espresso preoccupazione in merito a recenti informazioni secondo cui alcuni gruppi armati che gestiscono il traffico di migranti sarebbero stati addirittura finanziati dal Governo libico per trattenere i migranti in Libia. In particolare, secondo alcune agenzie di stampa e ONG, le autorità di Tripoli avrebbero concluso un accordo con una potente milizia che controlla il traffico di migranti nella regione di Sabrata, la c.d. Brigata Anas Dabbashi, al fine di arrestare le partenze per l’Italia. In cambio, la milizia avrebbe ottenuto piena legittimazione a operare sul territorio come forza di sicurezza”.
Per quanto detto, in ordine alla frammentazione del territorio libico, alla guerra civile in corso, ed alla contiguità della sedicente Guardia costiera “libica” con le milizie di diverse città, variamente colluse o direttamente infiltrate dai trafficanti, come a Zawia, appare di dubbia efficacia, sotto il profilo del diritto internazionale, la autoproclamazione di una zona SAR libica, adottata dal governo di Tripoli, dopo alterne vicende, il 28 giugno del 2018, e subito accolta con favore dalle autorità italiane. La zona SAR libica infatti è una diretta conseguenza della operatività degli accordi intercorsi in precedenza tra Italia e Libia e la sua creazione, per quanto risalente ad una decisione unilaterale delle autorità di Tripoli, ha nella sostanza una fonte prevalentemente pattizia, legata come è ad un forte sostegno italiano, dopo le riserve dell’IMO che nel dicembre del 2017 avevano portato alla sospensione di una prima dichiarazione dei libici che sostenevano di avere istituito una zona SAR di loro competenza. Ma questi nuovi accordi soddisfano il requisito della non contrarietà ai diritti umani ed alle norme cogenti di diritto internazionale’
Anche se il Memorandum d’intesa con il governo di Tripoli è stato prorogato automaticamente il 2 novembre 2019 senza una contraria volontà del governo italiano, lo stesso Memorandum ed il Trattato di amicizia Italia-Libia da cui discende, con i protocolli operativi del dicembre del 2007 sono da considerare inefficaci, e le attività che si svolgono in mare in collaborazione con la Guardia costiera libica rimangono prive di basi legali. Come rimane privo di basi legali l’invio di altre motovedette a Tripoli. Sembra ormai evidente che l’obiettivo prevalente di queste motovedette donate dal governo italiano sia quello di bloccare le operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, stando almeno alle chiare minacce contenute nel Codice di condotta che le autorità di Tripoli vorrebbero imporre alle ONG, in quella che non ritengono soltanto come una zona di responsabilità per i soccorsi, ma come una vera e propria area di esercizio della sovranità, sulla falsariga di quanto anticipato da Minniti nel 2017 con un Codice di condotta che appare speculare a quello adesso proposto dai libici. E pensare che il ministro Lamorgese vorrebbe ancora lavorare apportando modifiche sulla base di quel documento, del tutto privo di rilevanza giuridica e in contrasto con il diritto internazionale, per il ruolo attribuito alla sedicente guardia costiera “libica”, che impedisce il rispetto degli obblighi di ricerca e soccorso imposti agli stati.
Il decreto emesso il 15 settembre dal Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale (GNA) libico con sede a Tripoli prevede che le organizzazioni non governative che operano soccorsi nel mediterraneo centrale, in quella che viene definita come “zona SAR libica”, che sarebbe coordinata da un fantomatico “centro di coordinamento”, devono “fornire periodicamente tutte le informazioni necessarie, anche tecniche relative al loro intervento, al Centro di coordinamento libico per il salvataggio”; “non bloccare le operazioni di ricerca e salvataggio” esercitate dalla guardia costiera locale e “lasciarle la precedenza d’intervento”; “informare preventivamente il Centro di coordinamento libico” di iniziative autonome, anche se ritenute “necessarie” e “urgenti”.
Le ONG si dovrebbero limitare all’esecuzione delle istruzioni del centro e si impegnano a informarlo preventivamente su qualsiasi iniziativa anche se è considerata necessaria e urgente”. Secondo il nuovo codice di condotta libico, “il personale del dispositivo è autorizzato a salire a bordo delle unità marittime ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza, senza compromettere l’attività umana e professionale di competenza del paese di cui la nave porta la bandiera”. Si aggiunge inoltre che “tutte le navi che violano le disposizioni del presente regolamento verranno condotte al porto libico più vicino e sequestrate. E non verrà più concessa alcuna autorizzazione”.
Secondo l’art. 12 del Codice di questo nuovo condotta italo-libico, dunque, “i naufraghi salvati dalle organizzazioni non vengono rimandati nello stato libico tranne nei rari casi eccezionali e di emergenza”, ma il personale libico “è autorizzato a salire a bordo ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza”. Una ipotesi che va ben oltre il “diritto di visita”, che è previsto dalle convenzioni internazionali, che potrebbe legittimare veri e propri atti di pirateria internazionale. Nel decreto adottato a Tripoli è specificato che dopo il completamento delle operazioni di ricerca e soccorso, “le barche e i motori usati nelle operazioni di contrabbando saranno consegnati allo Stato libico”, mentre “salvo le comunicazioni necessarie nel contesto delle operazioni di salvataggio e per salvaguardare la sicurezza delle vite in mare, le unità marittime affiliate alle Organizzazioni s’impegnano a non mandare nessuna comunicazione o segnale di luce o altri effetti per facilitare l’arrivo d’imbarcazioni clandestine verso loro”. In questo punto sembra evidente una manina che ha redatto una norma corrispondente a quanto previsto nel codice di condotta Minniti, che a sua volta subiva il condizionamento imposto da quelle organizzazioni della estrema destra che, già nel 2017, in collusione con i servizi, creavano false accuse nei confronti delle ONG impegnate nei soccorsi in mare.
Si conferma così una piena continuità dei governi che si succedono in Italia e delle istituzioni europee, che evidenzia una consapevole contiguità con la guardia costiera libica, infiltrata dai trafficanti, come documentato dalle Nazioni Unite già molto tempo prima che scoppiasse il caso Bija, il trafficante di Zawia adesso reintegrato nella cd. guardia costiera libica, che, con i suoi documenti originali, ha ottenuto nel 2017 un visto di ingresso dall’ambasciata italiana a Tripoli ed ha potuto partecipare ad una delegazione in visita, oltre che al Cara di Mineo, alla sede del Comando centrale della Guardia costiera a Roma ed al Viminale. Nè si vede adesso come e a quali fini si darà esecuzione al recente ordine di arresto nei confronti di Bija emesso da un Tribunale libico. Sarà forse un modo per dimostrare che comunque in Libia esiste un brandello di stato di diritto e che dunque la Libia ( di Serraj) è uno stato con il quale si può collaborare per bloccare persone in acque internazionali e riconsegnarle ai loro carcerieri libici ? Dal Rapporto delle Nazioni Unite del 2017 si ricavava la compromissione di talune guardie costiere libiche, come quella della città di Zawia, con i trafficanti di esseri umani, ed al tempo stesso con gli stessi trafficanti che operano nel contrabbando di petrolio. Una materia che dovrebbe essere ben nota a chi aveva invitato Bija in Italia, a chi gli aveva rilasciato il visto a Tripoli, ed a chi lo aveva ricevuto a Mineo ed a Roma. Ed anche alla Procura di Catania che dal 2016 ha aperto una indagine sui traffici di petrolio tra Zawia, Malta e la Sicilia, eseguendo anche diversi arresti. Eppure da quel periodo ad oggi si e’ continuato ad indagare solo sulle ONG, anche con il ricorso ad infiltrati.
Non crediamo che i propositi di modifica del Memorandum d’intesa con il governo di Tripoli possano migliorare la condizione delle persone internate nei centri di detenzione in Libia o intercettate in acque internazionali e riportati a terra. Anche se il governo italiano sta facendo scadere il termine del 2 novembre in modo da garantire continuità al Trattato di amicizia Italia-Libia, agli Accordi ed ai Memorandum d’intesa con le autorità di Tripoli, la partita non è chiusa affatto e si dovrà giocare sul piano della corretta informazione e della trasparenza dell’azione politica. Aspettiamo che la politica, quella vera, batta un colpo. Giuristi e giornalisti non si faranno certo intimidire dalle minacce di trafficanti in divisa come Bija, dai loro collegamenti italiani, e dal clima di odio che si è scatenato in Italia contro tutti coloro che si sono opposti alla collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica”, utilizzata, oltre che per condannare ai lager- se non a morte per naufragio- i naufraghi soccorsi in mare, per colpire in Italia gli avversari politici e speculare sulla criminalizzazione della solidarietà. In uno stato costituzionale il diritto internazionale ed il diritto penale non dipendono dai like sui social media o dalle maggioranze elettorali.
5. Il caso Cap Anamur. Assolto l’intervento umanitario. E oggi ?
Posted on19 Marzo 2018
Nei giorni in cui si torna a criminalizzare l’assistenza umanitaria in favore dei migranti soccorsi in acque internazionali potrà risultare utile leggere la sentenza del Tribunale di Agrigento del 7 ottobre 2009 con la quale, dopo cinque anni di processo, venivano assolti tutti gli imputati del caso Cap Anamur. Un caso che dal 2004 in poi ha costituito una svolta nelle politiche e nelle prassi di contrasto dell’immigrazione irregolare via mare. In quella occasione il Tribunale di Agrigento aveva pronunciato una sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Elias Bierdel, del comandante Schmidt e del suo secondo, imputati di agevolazione dell’ ingresso di clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 naufraghi alla deriva cento miglia a sud di Lampedusa. E’ stato anche disposto il dissequestro del deposito cauzionale che era stato versato dopo il sequestro della nave, restituita al comitato Cap Anamur e poi venduta.
Il messaggio chiaro della sentenza di Agrigento è che gli stati devono rispettare il diritto internazionale del mare, che vieta anche i respingimenti collettivi, ed il divieto di refoulement affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33). I soccorsi in mare sono atti dovuti, che gli stati devono garantire, ed ai quali i comandanti delle navi sono direttamente vincolati, come adempimento di un dovere, in una situazione che si può generalmente definire come distress, situazione di necessità. Un arresto giurisprudenziale di grande importanza in un momento nel quale a livello europeo e nazionale si vorrebbero riscrivere a colpi di direttive e circolari, addirittura “codici di condotta” imposti dal ministero dell’interno per via amministrativa, le regole del diritto internazionale del mare per giustificare le operazioni SAR (ricerca e soccorso) in acque internazionali, all’interno di una inesistente zona SAR libica, con delega dei soccorsi alla cd. Guardia costiera “libica. La sentenza costituisce una importante affermazione dello stato di diritto di fronte al tentativo delle autorità amministrative italiane di configurare “a posteriori” una fattispecie di responsabilità penale, in violazione del principio di legalità e della responsabilità personale sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale. La sentenza di Agrigento costituisce il primo riconoscimento giurisdizionale che le attività di soccorso in acque internazionali sono comunque scriminate per essere state eseguite in adempimento di un dovere ( di soccorso) e/o in stato di necessità. Un principio giurisprudenziale che nel tempo si è consolidato.
Nel processo intentato contro alcuni pescatori tunisini nel 2007,per avere soccorso naufraghi in acque internazionali e averli condotti in un porto italiano, fu contestato il reato di resistenza a nave da guerra, ma alla fine i due comandanti, condannati in primo grado dal Tribunale di Agrigento, furono assolti dalla Corte di Appello di Palermo, dopo alcuni mesi di ingiusta detenzione. In quell’occasione, nella quale si era registrata una vasta mobilitazione a livello europeo, la Corte d’Appello di Palermo ha dato ragione alla difesa riconoscendo lo “stato di necessità” (motivato dalle gravi condizioni di salute dei profughi salvati) che aveva spinto i marinai a non rispettare l’ordine di fermo prima dell’ingresso nelle acque territoriali, impartito dalle autorità marittime italiane. Anche in quel caso era stato contestato un comportamento “violento” durante le manovre di “diversione” attuate dalla Guardia costiera, un comportamento “violento” che i giudici di appello avevano poi escluso.
6. Dopo il codice di condotta Minniti (2017) i primi processi penali contro la solidarietà in mare. Il sequestro della Juventa a Lampedusa il 2 agosto 2017.
Alla fine del 2016 si apriva una stagione nella quale le attività di contrasto dell’immigrazione irregolare e la lotta agli scafisti si intrecciavano sempre di più con le operazioni di ricerca e salvataggio in mare (SAR) e con la delicata questione dell’accesso al territorio italiano, ed europeo, delle persone in fuga, non solo dai loro paesi, ma anche dalla Libia già preda di un violento conflitto interno, potenziali richiedenti protezione internazionale o umanitaria.
Un uso spregiudicato dei social, in particolare da parte di alcuni blogger che trovavano vasta eco negli organi di informazione ufficiali, contribuiva a capovolgere il rapporto tra realtà dei fatti e ricostruzione giuridica delle responsabilità, in modo da caricare le responsabilità più gravi sulle ONG (organizzazioni non governative) che avevano dovuto sostituire gli assetti navali statali dopo la fine dell’Operazione Mare Nostrum (nel dicembre del 2014) ed il progressivo ritiro delle navi impegnate nella missione Triton di Frontex a partire dal mese di settembre del 2015.
Nello stesso periodo si compivano i primi passi nella attuazione del Piano europeo sulle migrazioni ( cd. Piano Juncker) adottato nel maggio del 2015, che si caratterizzava per la esternalizzazione dei controlli di frontiera e per gli accordi con paesi terzi che non rispettavano i diritti umani, purchè riuscissero in qualsiasi modo a ridurre le partenze verso gli stati appartenenti all’Unione Europea. Un piano che nel marzo del 2016 portava alla conclusione dell’Accordo tra gli stati dell’Unione Europea e la Turchia, senza neppure un atto collegiale del Consiglio o della Commissione, per fermare la fuga dei profughi siriani ammassati sulle sponde del Mediterraneo orientale.
Già nel 2017 le modalità degli interventi di ricerca e soccorso operati dalle ONG nelle acque del mar libico erano rigidamente codificate, anche prima del tentativo di imposizione di un codice di comportamento da parte del ministro Minniti. Innanzitutto dal Diritto internazionale del mare ( le tre Convenzioni, UNCLOS, SAR e SOLAS) poi dal Regolamento di Frontex n. 656 del 2014 ed infine dai rigorosi codici di comportamento delle ONG, come quelli adottati da MSF, concordati con la Guardia costiera italiana. E che tale coordinamento ci fosse e risultasse idoneo a salvare migliaia di persone, nel pieno rispetto delle normative vigenti, lo confermano i rapporti di attività della Guardia costiera italiana.
Dopo essere stata attirata verso le acque territoriali italiane con il pretesto di portare a terra alcuni naufraghi già soccorsi da una nave della marina militare italiana, il 3 agosto del 2017, nel porto di Lampedusa, si disponeva il sequestro della nave umanitaria Juventa della ONG tedesca Jugend Rettet. Si era alla vigilia dell’entrata in vigore del Codice di condotta Minniti, che la associazione tedesca Jugend rettet non aveva sottoscritto, come del resto Medici senza Frontiere, per alcuni suoi contenuti che nel tempo si sono rivelati contrari agli obblighi di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali, in particolare per quanto concerneva il ruolo attribuito alla sedicente Guardia costiera “libica”, in base agli accordi del 2 febbraio 2017 conclusi tra il governo italiano e le autorità di Tripoli.
La contestazione del reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina come presupposto del sequestro seguiva ad una intensa campagna di disinformazione, ed a mesi di attacchi contro le ONG, ritenute “colpevoli” di salvare troppe vite umane in mare, nella zona SAR libica ( allora istituita soltanto sulla carta come progetto da realizzare). e di non “collaborare” abbastanza con le autorità di polizia nel “contrasto dell’immigrazione illegale”, in particolare nella caccia a trafficanti e scafisti. Accuse precise formulate dalla Procura di Trapani nel corso di una conferenza stampa. Queste accuse seguivano agli attacchi da parte di Frontex, di diversi settori politici delle destre europee e di buona parte dei grandi mezzi di informazione, oltre che dal governo Serraj, concentrati sulle attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, allora operati dalle cd. Organizzazioni non governative sotto lo stretto coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC di Roma) e delle autorità europee a capo delle missioni Triton di Frontex ed Eunavfor Med (Sophia).
Secondo quanto riferito allora dai mezzi di informazione, la Procura di Trapani, sulla base di un vasto materiale probatorio che ad oggi non si conosce ancora per intero, salvo alcuni video visibilmente artefatti e singolari testimonianze di persone presenti a bordo della nave Vos Hestia di Save The Childen ( secondo l’organizzazione si tratterebbe di almeno un agente imbarcato “sotto copertura”), tre o più componenti della nave Juventa, battente bandiera olandese, si sarebbero accordati con alcuni scafisti che scortavano un barcone stracolmo di migranti per imbarcarli a bordo della nave della ONG e trasportarli quindi in Italia. Negli episodi contestati si sarebbe verificata addirittura la “restituzione” di una imbarcazione poi riutilizzata dai trafficanti, con una presunta “collaborazione” tra i fiancheggiatori degli scafisti e componenti del battello di appoggio usato dalla nave di Jugend Rettet. Eppure tutte e tre le operazioni di soccorso contestate agli operatori umanitari a bordo della Juventa erano avvenuti sotto il coordinamento della Centrale operativa della guardia costiera italiana, e della nave Vos Hestia di Save The Children, presente sul luogo del salvataggio come “SAR Coordinator on place”.
Il Tribunale di Trapani, prima, e quindi, nel mese di aprile del 2018, la Corte di Cassazione ,convalidavano il sequestro della nave Juventa, mentre l’indagine si andava progressivamente allargando, coinvolgendo, con riferimento ai tre episodi contestati ( su decine di casi di intervento) anche la nave che spesso svolgeva funzioni di SAR Coordinator on place, la Vos Hestia di Save the Children, che in questo ruolo operava in diretto contatto con la Guardia costiera italiana e con la Centrale operativa di Roma (IMRCC). In tempi successivi gli agenti ” sotto copertura” imbarcati a bordo della Vos Hestia, che avevano denunciato gli operatori umanitari tedeschi, hanno ritrattato in parte quanto riferito, accusando il capo della lega come mandante dell’operazione di disinformazione, e poi hanno lamentato di essere stati abbandonati dalle istituzioni per le quali asserivano di lavorare. Si era però già verificato un danno di immagine irreparabile per tutte le organizzazioni umanitarie che sostituivano gli stati nel salvataggio in mare. Nel 2018 la Procura di Palemo chiedeva l’archiviazione, poi disposta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, di una indagine avviata sulla base di segnalazioni analoghe a quelle che nel 2017 erano state inviate alla Procura di Trapani, con riferimento a diverse ONG, tra cui la stessa Jugend Rettet. Il processo aperto a Trapani rimane invece ancora in una fase di stallo perché i giudici non hanno ancora disposto la chiusura delle indagini preliminari.
NOTA
7. La cd. zona SAR (ricerca e salvataggio)“libica”, sequestri e processi penali del 2018 ( da Open Arms a Sea Watch)
Gli sforzi tesi ad incrementare la cooperazione operativa con le autorità del governo di Tripoli , sempre più coinvolto in un crudele scontro militare con l’esercito del generale Haftar (LNA), si concretizzavano nel dicembre del 2017, e quindi sul piano formale nel mese di giugno del 2018, nella autoproclamazione di una zona SAR ( ricerca e salvataggio) “libica”, anche se in realtà in Libia non esisteva una Centrale unica di coordinamento dei soccorsi (MRCC). Questo ruolo veniva sovente svolto dalla missione Nauras della marina militare italiana, presente, proprio da quel momento in poi, nel porto militare di Tripoli ( Abu Sittah). Un importante articolo del giornale Avvenire conferma le attività di coordinamento svolte a Tripoli dalla missione italiana Nauras.
Tra le attività di supporto della missione Nauras a Tripoli, rientrava infatti, già prima del 28 giugno 2018, anche “l’importante compito di aiutare i libici a interfacciarsi con la Centrale operativa della Guardia costiera a Roma che coordina le operazioni di ricerca soccorso nel Mediterraneo centrale”. Questo coordinamento italiano delle attività di intercettazione in mare, affidate gia’ nella prima parte del 2018 alla cd. Guardia costiera “libica“ e ribadito anche dal ministro Toninelli, risultava da una specifica documentazione acquista agli atti del processo di convalida innescato dal sequestro della nave Open Arms da parte della Procura di Catania (nel mese di marzo del 2018).
La istituzione di una zona SAR ( ricerca e salvataggio) “libica”, riconosciuta anche dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare collegata alle Nazioni Unite) permetteva di intensificare gli attacchi contro le ONG, “colpevoli”, in occasione di eventi SAR, di non avere obbedito agli ordini di “stand by” impartiti dalle autorità italiane che imponevano di sospendere le attività di recupero dei naufraghi in modo da attendere l’arrivo delle motovedette libiche. Che in realtà potevano operare solo con la collaborazione degli assetti aerei delle residue operazioni europee, e con l’assistenza garantita dalle unità navali italiane operanti a nord delle acque libiche ( operazione Mare sicuro) e dalla missione Nauras presente a Tripoli. I mezzi di soccorso appartenenti agli stati europei venivano ritirati più a nord in modo da lasciare campo libero ai libici e In questo modo le autorità italiane e maltesi cercavano di ridurre il numero delle persone alle quali avrebbero dovuto prestare assistenza, garantendo un porto sicuro di sbarco. Unico intralcio restavano le Ong che si ostinavano a soccorrere i naufraghi nei tempi piu rapidi, anche allo scopo di garantire loro un porto sicuro di sbarco in conformità delle Convenzioni internazionali. Testimoni scomodi delle politiche di abbandono in mare condivise da tutti gli stati dell’Unione Europea.
Di fatto nessun grosso trafficante veniva arrestato in Libia, l’unico arresto di un certo rilievo , di quello che avrebbe dovuto essere il capo dei trafficanti libici, si rivelava un clamoroso scambio di persona, mentre centinaia di pseudo “scafisti” venivano arrestati allo sbarco, ma erano poi assolti dalle accuse sollevate nei loro confronti dalle autorità di polizia. La Procura di Catania, come i giudici di altri Tribunali, riconosceva la non punibilità degli “scafisti” per forza. Non si trattava di casi isolati, ma, a partire dal 2017, di decine e decine di sentenze di assoluzione di presunti scafisti arrestati e poi rimessi in libertà, sempre più spesso anche minori. Dalle testimonianze raccoltè dai giudici emergevano le terribili violenze alle quali erano sottoposti coloro che finivano in mano alle milizie colluse con i trafficanti.. Le prove dei gravi abusi subiti in modo sistematico dai migranti intrappolati in Libia non modificavano di un millimetro la politica di abbandono in mare e le prassi di rafforzamento e coordinamento della sedicente guardia costiera libica.
All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 , il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”. Un obbligo di soccorso che va adempiuto tenendo conto delle prescrizioni del diritto umanitario e delle previsioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Anche con riferimento al divieto di respingimenti collettivi affermato dall’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla CEDU e dal’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Respingere una nave che ha effettuato un soccorso (SAR) verso l’alto mare, con la certezza che nessuno dei paesi confinanti ( come aree SAR) provvederà al soccorso tempestivo dei naufraghi, mette a rischio la vita di persone innocenti, già vittime di gravi abusi in Libia, e corrisponde ad una grave lesione del diritto di chiedere asilo previsto dall’art. 10 della Costituzione e del diritto internazionale, oltre che ad un atto disumano, come rileva Amnesty International, che nessuna norma di legge potrà mai ratificare. Le autorità politiche e di polizia di uno stato, a partire dal minostro dell’interno, non possono dunque ritenere derogabili le prescrizioni del diritto internazionale marittimo, in nome di un “superiore interesse nazionale alla difesa dei confini”.
La decisione circa lo sbarco delle persone soccorse si riferisce a due principi generali di diritto internazionale, che possono entrare in conflitto tra di loro: la sovranità dello Stato sul suo territorio e il divieto di respingimento (non refoulement) che vale allo stesso modo nelle acque territoriali, nella zona contigua e nelle acque internazionali, come affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2012 con la sentenza di condanna dell’Italia sul caso Hirsi. Per entrare in un porto di uno Stato occorre avere il consenso di quello Stato, consenso che può essere rifiutato dallo Stato in nome del principio di sovranità nazionale, a meno che non vi sia una situazione di forza maggiore che metta a rischio i diritti fondamentali della persona ( diritto alla vita, diritto alla salute, diritto di asilo).
Il Protocollo contro il traffico umano allegato alla Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale sancisce il principio inderogabile secondo cui “Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento”.Il soccorso in mare e l’ingresso nelle acque territoriali, dunque, non possono essere equiparati ad attività di trasporto di immigrati irregolari. Ma anche ove si procedesse in questa direzione lo stato italiano non potrebbe esimersi dall’assunzione di responsabilità in ordine allo sbarco delle persone soccorse. Il dovere dello stato, e dunque del ministro dell’interno, di indicare un porto sicuro di sbarco non può essere oggetto di una periodica negoziazione politica volta alla redistribuzione dei naufraghi tra diversi paesi quando il conseguente ritardo delle trattative comporta il loro trattenimento a tempo indeterminato sulla nave soccorritrice e di fatto un respingimento collettivo in frontiera con grave pregiudizio dei diritti fondamentali delle persone.
8. Direttive e circolari per i divieti di ingresso nelle acque territoriali (2018- 2019)
Il capovolgimento del rapporto tra realtà dei fatti e rappresentazione delle responsabilità era pienamente compiuto e sfociava nei due decreti sicurezza adottati ad ottobre del 2018, per abolire la protezione umanitaria, e poi a maggio del 2019, per bloccare i soccorsi operati dalle ONG in acque internazionali, entrambi su proposta del ministro dell’interno, e vicepresidente del Consiglio dei ministri Salvini, che su questi provvedimenti basava per intero la sua personale campagna elettorale in vista delle elezioni europee nel maggio del 2019. Quello che prima era deciso con provvedimenti non formalizzati, comunicati magari attraverso i social, diventava adesso potere di imperio rimesso al ministro dell’interno, che poteva, a sua esclusiva discrezione, sia pure con il formale “concerto” dei ministri della difesa e delle infrastrutture, vietare l’ingresso nelle acque territoriali alle navi private che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali. Un potere che si è arrivati ad esercitare anche nei confronti di navi battenti bandiera italiana, alle quali si è impedito l’ingresso solo perché avevano operato i soccorsi in acque rientranti nella cd. zona SAR libica, e dunque, secondo il ministro dell’interno, avrebbero dovuto riconsegnare ai libici le persone salvate da morte certa in mare.
Le raccomandazioni del Presidente della Repubblica, che giungeva pure a formulare precisi “rilievi”, restavano del tutto inascoltati, ed anzi i provvedimenti venivano aggravati nel corso del loro iter parlamentare. Ai prefetti veniva attribuito ( e tuttora permane) un potere immenso, che permetteva di bloccare le attività di soccorso delle navi umanitarie anche nel caso queste non avessero commesso alcun reato e non costituissero più oggetto di misure di sequestro preventivo da parte della magistratura, al fine di accertare altri reati a carico di soggetti diversi. La misura del sequestro amministrativo, e la possibile applicazione di una sanzione spropositata, permettevano di tenere lontane la maggior parte delle ONG e di trasformare il Mediterraneo centrale in un grande deserto liquido, in cui tutti vedevano dall’alto lo svolgersi dei viaggi, ma nel quale non interveniva più nessuno per salvare vite in pericolo. La guardia costiera “libica” aveva gioco facile nel riportare a terra migliaia di persone, immediatamente riconsegnate, dopo lo sbarco in porto, alle milizie ed ai torturatori dai quali erano fuggite.
I rapporti delle Nazioni Unite sulle violenze commesse dalla Guardia costiera libica e la situazione di estrema pericolosità dei centri di detenzione libici anche per effetto della guerra civile in corso, non impedivano al ministro dell’interno Salvini di “congratularsi” con la guardia costiera libica per le intercettazioni sempre più frequenti operate in acque internazionali con l’assistenza di assetti militari italiani ed europei. Va rilevato come anche il procuratore di Agrigento, nel corso di una audizione in Parlamento, abbia ribadito come la Libia non garantisca porti sicuri di sbarco e come dunque non siano legittimi gli ordini di riconsegna dei naufraghi alla sedicente guardia costiera libica. Lo stesso procuratore ha poi escluso qualsiasi coinvolgimento delle ONG nel traffico di migranti. Il ministro dell’interno rinnova invece i suoi attacchi contro gli operatori umanitari accusati di collusione con i trafficanti. Salvini non può continuare ad aizzare i suoi sostenitori contro gli operatori umanitari ed i cittadini solidali, e non può svolgere le sue funzioni pubbliche diffamando le Organizzazioni non governative che operano soccorsi in mare e salvano vite umane.
Secondo quanto osservava già nel 2017 il Contrammiraglio Carlone in una relazione resa in Parlamento, nell’ambito delle attività del Comitato parlamentare Shengen, “”non vi dovrebbe essere nessuna differenza tra un’operazione S.A.R. ed un’operazione di polizia diretta al controllo delle frontiere esterne europee in quanto, in applicazione del principio di “non refoulement” nonché del regolamento europeo che disciplina le operazioni FRONTEX e del discendente piano operativo, anche le persone che fossero ritenute non in pericolo e, quindi, intercettate in mare e non soccorse, dovrebbero comunque essere portate a terra, nel territorio del Paese che ospita la specifica operazione nazionale od europea (cioè l’Italia, per quanto riguarda l’operazione TRITON; la Grecia, per quanto riguarda l’operazione POSEIDON; la Spagna, per l’operazione INDALO). In realtà la differenza risiede nel fatto che l’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, come si è visto, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia al di fuori delle acque territoriali (“law enforcement”) è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale.
La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero é ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a terra delle persone soccorse. Qualora invece la stessa imbarcazione fosse ritenuta ancora idone a navigare, seppure verso le acque territoriali italiane, o maltesi, potrebbe scattare solo il tracciamento, nell’ambito di una operazione di polizia marittima, definita come law enforcement. Solo nel primo caso ricorrerebbe una situazione di “distress” immediato che imporrebbe di procedere senza alcun indugio alla dichiarazione di un evento SAR e quindi all’intervento di soccorso ( con conseguente obbligo di sbarco in un porto sicuro”.
Per queste ragioni costituisce grave infrazione del diritto europeo ed internazionale, e possibile fonte di responsabilità penale, qualunque disposizione amministrativa o ministeriale, come le“Direttive” adottate nel 2018 dal ministero dell’interno in materia di operazioni SAR, che vada contro l’applicazione effettiva delle prescrizioni delle Convenzione UNCLOS, SAR e SOLAS e delle relative linee guida dell’IMO, che privilegiano il diritto alla vita e gli obblighi di soccorso, rispetto al diritto degli stati di impedire l’ingresso nelle acque territoriali. . Soprattutto se in questo momento storico, di conflitto civile in Libia, si continuasse a dare esecuzione al “Memorandum d’intesa” del 2 febbraio 2017 tra Italia e governo di Tripoli.
Nel caso della SEA WATCH 3 (2019) il ministro dell’interno ha rifiutato per due giorni lo sbarco a terra anche quando era già confermata la disponibilità di diversi paesi europei che avevano dichiarato di volere accogliere i naufraghi soccorsi della nave e bloccati sulla nave in condizioni disumane per due settimane. “La soluzione per le persone a bordo della Sea Watch è possibile solo una volta sbarcate”. Così il commissario europeo Dimitris Avramopoulos, diceva da giorni spiegando che Bruxelles “è coinvolta da vicino nel coordinarsi con gli Stati membri per ricollocare i migranti” quando saranno a terra. Alla fine era stata anche offerta la disponibilità di cinque paesi europei. Come ha riferito La Stampa il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, ha presentato su questo caso un esposto alla Procura della Repubblica di Roma.
Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale ed ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma anche che il cd. decreto sicurezza bis non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Il dovere di soccorso dei naufraghi” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.
Si tratta di una pronuncia importante, che non chiude però la fase di criminalizzazione delle attività umanitarie in favore dei migranti in fuga dalla Libia, perchè nel senso comune degli italiani sembra prevalere il capovolgimento del principio di realtà e la negazione dello stato di diritto. La procura della Repubblica ha poi negato l’autorizzazione richiesta dal prefetto di Agrigento che ha adottato un decreto di espulsione della comandante Carola Rackete, come ordinato dal ministro dell’interno.
La Corte di cassazione ha recentemente confermato la decisione assunta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, che escludeva la legittimità dell’arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete. In questo caso non è stato accolto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento.
La terza sezione penale della Corte di Cassazione, dopo una camera di consiglio svolta il 16 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso presentato la scorsa estate dal procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella contro l’ordinanza, firmata il 2 luglio 2019 dal gip Alessandra Vella che decise di non convalidare l’arresto di Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla comandante per avere, il 29 giugno dello stesso anno, forzato un tentativo di impedire l’attracco in banchina della nave già entrata in porto a Lampedusa. La sentenza della Corte, nelle motivazioni che sono state pubblicate oggi, richiama puntualmente tutti gli obblighi di soccorso stabiliti dal diritto internazionale, secondo una ricostruzione gerarchicamente ordinata delle fonti.
Sarà importante valutare adesso quale sarà la reazione della Procura della Repubblica di Agrigento ancora impegnata nel processo nei confronti della comandante Rackete, quella Procura che sugli stessi principi ha basato le indagini nei confronti del senatore Salvini, dopo il caso Gregoretti, sul caso Open Arms sul quale si sta pronunciando il Senato, nella Giunta per le autorizzazioni a procedere.
Secondo la Corte di Cassazione (Sentenza n. 6620, depositata il 20 febbraio 2020) “ Il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individui. Il giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod.proc.pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. Egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di Lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della Rackete in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod.proc.pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto.
La Corte di Cassazione ritiene che: “Tenuto conto che la privazione della libertà personale della Rackete era avvenuta in quel preciso contesto fattuale, descritto alle pagg. 8-11 dell’impugnata ordinanza, il Giudice ha escluso la legittimità dell’arresto perché effettuato, quanto alla sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod nav., in assenza del requisito di “nave da guerra” della motovedetta V.808, e, quanto al reato di cui all’art. 337 cod.pen., in presenza di una causa di giustificazione, ex art. 51 cod.pen. “.
Secondo i giudici della Cassazione, All’esito di un percorso esegetico delle fonti normative di rango internazionale, che sono vincolanti per lo Stato italiano e per tutti coloro che sono tenuti nel loro operare all’osservanza della legge italiana, il Giudice ha ritenuto configurabile in capo alla capitana della nave la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere di soccorso che, a mente dell’art 385 cod.proc.pen., comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e di fermo. È ben vero che, sulla base dell’inequivoco dato testuale della norma processuale, detto divieto opera a condizione che la causa di non punibilità sia riconoscibile nel contesto dei fatti che hanno richiesto l’intervento d’urgenza (“quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare”). Non di meno, contrariamente all’assunto del ricorrente, non è certo la presenza di una articolata motivazione del provvedimento ad escludere di per sé che l’esimente “appaia” sussistente. L’articolata motivazione, al contrario, si giustifica proprio in forza della complessità della vicenda, della delicatezza del bene giuridico compresso (la libertà individuale), della conseguente necessità di ricostruire con attenzione e precisione le fonti normative, anche di rango internazionale, idonee a fondare la sussistenza della causa di giustificazione dell’art. 51 cod.pen. e il suo esatto contenuto. Sono questi gli elementi, indicati dal Giudice, a costituire il parametro della valutazione della ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto.
La Corte di Cassazione condivide dunque “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod.proc.pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.
Per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.
Secondo la Corte di Cassazione, “In conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. Il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate. Non è ammessa, infatti, una privazione della libertà personale da parte della polizia giudiziaria quando, avuto riguardo alle circostanze del caso, ricorrano nel concreto cause di giustificazione idonee ad escluderne la rilevanza penale, in termini di ragionevolezza, sulla scorta degli elementi di conoscenza in capo a coloro che hanno operato la misura privativa della libertà personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, Rv. 227721 – 01).
Ci sarebbe da auspicare, ma le più recenti contorsioni delle forze politiche in Parlamento non lasciano molto da sperare, che i principi sanciti adesso dalla Corte di Cassazione vengano riconosciuti anche dal legislatore con l’abrogazione degli articoli 1 e 2 del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che permettevano, e permettono tuttora al ministro dell’interno, di impedire o ritardare lo sbarco in un porto sicuro dei naufraghi soccorsi da mezzi privati, soprattutto nel caso in cui questi appartengano alle organizzazioni non governative, ritenute “complici dei trafficanti”, “taxi del mare”, “fattori di attrazione (pull factor)“, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso i chiari principi affermati dalla Corte di cassazione dovrebbero spazzare via. Sarà importante che tali principi, soprattutto nella parte che ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Juventa), ancora nella fase delle indagini preliminari a quasi tre anni dai fatti, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata.
L’orientamento espresso dalla Corte di cassazione appare coerente con il prevalente giudizio dei giudici di merito e consolida un indirizzo giurisprudenziale che dovrà essere tenuto presente anche nei prossimi procedimenti penali per reati ministeriali relativi ai casi Gregoretti ed Open Arms.
L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Lo afferma una importante sentenza del Giudice delle indagini preliminari di Trapani, sul caso Vos Thalassa/Diciotti ed in modo meno esplicito lo stesso principio era stato già alla base di decisioni precedenti di altri giudici, nell’ambito di procedimenti di convalida del sequestro di alcune navi delle ONG, impegnate nel soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale.
In quella occasione, di fronte ad un divieto di ingresso in porto frapposto dal Viminale, Di Maio, allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e vicepresidente del Consiglio, ha espresso una posizione che appare di rilievo anche rispetto al recente caso Gregoretti. In un intervento alla trasmissione televisiva Omnibus su La7, mentre la nave Diciotti restava al largo del porto di Trapani, dopo avere preso a bordo i naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa, affermava che «non è immaginabile chiudere l’ingresso a una nave italiana» e aggiungendo che “se si tratta di una nave italiana, che è intervenuta in una situazione che dovremmo chiarire, bisogna necessariamente farla sbarcare”.
Nel mese di agosto del 2019, “alla luce della documentazione prodotta (medical report e relazione psicologica” e “della prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza” il TAR del Lazio, con un decreto cautelare monocratico ha giustificato “la concessione della richiesta” per “consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli”. Nel suo provvedimento il giudice amministrativo scrive che “il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”. Il Tar rileva che “la stessa amministrazione intimata (ovvero il Ministero dell’Interno) riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress“, cioè in situazione di evidente difficoltà” e “per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo”.
Il gip del tribunale di Agrigento Stefano Zammuto ha poi disposto la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”
Come ha ricordato il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio lo scorso anno, “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.
9. Il principio di legalità alla prova del decreto sicurezza bis: il caso Open Arms in Parlamento.
Posted on16 Febbraio 2020AuthorFulvio Vassallo Paleologo
di Fulvio Vassallo Paleologo
9.1. il blocco della Open Arms davanti Lampedusa tra il 14 ed il 20 agosto 2019
La vicenda della Open Arms appare assai diversa rispetto a ai casi Diciotti e Gregoretti, già esaminati dal Senato con esiti opposti, perché si trattava di una nave appartenente ad una ONG e il divieto di sbarco imposto dall’ex ministro dell’interno non era stato condiviso dalle altre autorità di governo, pure richiamate dal decreto sicurezza n. 53/2019 ,che veniva convertito in legge proprio negli stessi giorni nei quali la nave spagnola soccorreva i naufraghi in zona SAR “libica”, dopo il consueto diniego delle autorità maltesi che, per i naufraghi soccorsi nella zona SAR libica, si rifiutavano di indicare. un luogo di sbarco sicuro.
Con il recente voto del Senato sul caso Gregoretti sembra che sia stata sconfitta la tesi della insindacabilità delle scelte “politiche” di Salvini relative alla cd. “chiusura dei porti”. La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo, si è pronunciata anche sul caso Open Arms, la nave della omonima ONG,spagnola che tra il 14 ed il 20 agosto dello scorso anno era stata bloccata all’ancora davanti al porto dell’isola di Lampedusa, prima che intervenisse il sequestro da parte della Procura di Agrigento, che finalmente permetteva lo sbarco a terra dei naufraghi, alcuni dei quali, in preda alla disperazione, si erano già lanciati in mare per raggiungere a nuoto la costa. Il capo di imputazione formulato a carico del senatore Salvini è ancora una volta per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per aver trattenuto indebitamente a bordo della Open Arms ormeggiata a poche centinaia di metri da Lampedusa le 164 persone soccorse in tre distinti eventi SAR.
Le difese articolate dal senatore Salvini davanti alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ricalcano gli slogan lanciati dal momento del suo insediamento al Viminale e non corrispondono né alla dinamica dei fatti accertati dai giudici, né alle contestazioni tecnico-giuridiche puntualmente formulate dal Tribunale dei ministri di Palermo. L’ex ministro dell’interno afferma infatti che “l’indicazione del Pos (Place of Safety, approdo sicuro) spettava alla Spagna o a Malta (e non certo all’Italia) e il comandante della nave ha deliberatamente rifiutato il Pos indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia come già aveva fatto nel marzo 2018 ricavandone un processo per violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” . Una ricostruzione dei fatti che non va oltre la mera propaganda. Come il tema della competenza dello stato di bandiera, uno dei cavalli di battaglia del ministro, e della sua alleata Giorgia Meloni, in ogni ipotesi di soccorso operato dalle ONG, prima e dopo l’adozione del decreto sicurezza bis. Per Salvini, “l’Italia non aveva alcuna competenza e alcun obbligo con riferimento a tutti i salvataggi effettuati dalla nave spagnola Open Arms in quanto avvenuti del tutto al di fuori di aree di sua pertinenza”, infatti spiega l’ex ministro dell’interno, “è sicuramente lo Stato di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio che deve indicare il Pos nei casi di operazioni effettuate in autonomia da navi ong”. Una tesi che è stata ripresa di recente anche dal nuovo ministro dell’interno Lamorgese.
La difesa del senatore Salvini si concentra quasi esclusivamente alla competenza (asseritamente) primaria dello stato di bandiera della nave, ma non fornisce alcuna base legale per il reiterato rifiuto di indicare un porto di sbarco sicuro e per la conseguente prolungata privazione della libertà personale dei naufraghi che si trovavano a bordo della Open Arms, bloccata all’ormeggio davanti al porto di Lampedusa, nei giorni dal 14 al 20 agosto 2019, per i quali i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo hanno ipotizzato i reati di sequestro di persona e di rifiuto ingiustificato di atti di ufficio. Converrà partire dunque da una ricostruzione più attendibile, perchè basata su documenti e testimonianze raccolti dai giudici, dei giorni che seguirono i soccorsi operati dalla Open Arms in acque internazionali all’inizio di agosto dello scorso anno.
Già il primo agosto 2019, giorno nel quale veniva effettuato il primo soccorso di decine di naufraghi nella cosiddetta zona SAR (Ricerca e salvataggio) “ libica”, il Ministro dell’Interno pro-tempore, di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, con decreto emesso ai sensi dell’art. 11 comma 1-ter D. lgs. N. 286/98, come modificato dal D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019. Successivamente la Open Arms operava altri due interventi di soccorso, uno in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, l’altro nella zona SAR maltese salvando la vita di decine di persone tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati. Tutte le competenti autorità venivano informate dei soccorsi. I libici non rispondevano, le autorità spagnole invitavano il comandante a rivolgersi alla centrale operativa della Guardia costiera maltese (MRCC Malta) che però rifiutava di assumere la responsabilità dei primi due eventi occorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, salvo ad offrire tardivamente la propria disponibilità per i naufraghi soccorsi nel terzo intervento, quando la Open Arms si trovava vicino l’’isola di Lampedusa, in condizioni meteo tanto critiche che anche la guardia costiera italiana, ne escludeva la possibilità di allontanamento verso Malta.
Venerdì 9 agosto 2019 veniva presentato dal team legale di Open Arms, presso le Procure di Roma e di Agrigento, un esposto-denuncia in cui si chiedeva “di verificare se nella situazione corrente, in cui si sta determinando una prolungata presenza a bordo delle 121 persone salvate – 32 minori, 28 dei quali hanno dichiarato di essere non accompagnati” -, non si presenti una fattispecie di reato. E, nel caso, di individuarne i responsabili e di “adottare gli opportuni provvedimenti” affinché cessi la situazione di privazione della libertà in cui quelle stesse persone si trovano.
In una nota del Tribunale dei minori di Palermo del 9 agosto 2019 questo Tribunale faceva sapere “che “come è ben noto le Convenzioni Internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D Lvo 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno.”. Lo stesso Tribunale proseguiva affermando che “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici.”
Durante il periodo, nel corso del quale stazionava in acque internazionali a sud-ovest di Lampedusa in attesa di assegnazione di un POS, ed anche successivamente, in diverse occasioni la Open Arms richiedeva (congiuntamente a RCC Malta ed a I.M.R.C.C.) di effettuare delle evacuazioni mediche di migranti in precarie condizioni di salute(MEDEVAC), che alla fine venivano eseguite. Dopo l’ennesimo rifiuto delle autorità maltesi che impedivano persino l’avvicinamento della Open Arms all’isola di Malta per cercare ridosso a fronte di un progressivo peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave faceva rotta verso l’isola di Lampedusa.
Nello stesso giorno, il 14 agosto, il Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (terza sezione) sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale, “al fine di consentire l’ingresso della Nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli)”. Si deve richiamare l’importanza della decisione del Tribunale amministrativo del Lazio che sospendeva gli effetti del divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato nei connfronti della Open Arms il primo agosto 2019. “Alla luce della documentazione prodotta (medical report e relazione psicologica” e “della prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza” il TAR del Lazio, con un decreto cautelare monocratico ha giustificato “la concessione della richiesta” per “consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli”. Osservava il TAR Lazio, “considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”
Il TAR Lazio riteneva pertanto,” quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”.
Dopo la decisione del giudice amministrativo, l’ex ministro dell’interno, il 14 agosto 2019, reiterava il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che però non veniva sottoscritto come atto di concerto da parte di altri ministri, annunciando ricorso urgente al Consiglio di Stato (del quale non si hanno altre notizie) sostenendo che “Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”.
Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo, invece,” Open Arms aveva inviato (alle autorità maltesi, n.d.a.) in data 13.8.2019 una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli (si pensi che a bordo vi era anche un bambino di soli 9 mesi); RCC Malta, con messaggio delle ore 21,17, rispose a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”.
Il nuovo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture. Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonchè le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità” . Senza la firma di “concerto”degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità. Il ministro dei Trasporti Toninelli motivava così la sua decisione di non firmare il nuovo divieto: “Emettere un nuovo decreto identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti – spiega – esporrebbe la parte seria del governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. Questo non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti di Open Arms. La nostra linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici, poi l’Europa e in primis la Spagna inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo”.
La circostanza che diverse persone soccorse dalla Open Arms, come in altri casi precedenti, siano state evacuate con procedura d’urgenza MEDEVAC , (cinque evacuazioni MEDEVAC in due settimane per oltre venti persone,verso Lampedusa e La Valletta) non esclude, ma anzi costituisce conferma delle condizioni degradanti nelle quali per effetto del divieto di ingresso e dunque dello sbarco in un porto sicuro, sono state tenute per giorni naufraghi soccorsi in mare dopo essere riusciti a fuggire dalla Libia, dunque in condizioni fisiche e psicologiche già particolarmente difficili. Non si può ammettere che le persone soccorse in mare, e tra queste minori e donne già vittime di abusi e in stato di gravidanza, siano tenute per quindici giorni in queste condizioni perché gli stati non concordano sui criteri di indicazione dei porti sicuri di sbarco o sulle competenze nelle zone SAR ( di ricerca e salvataggio) che loro competono.
Nella notte tra il 14 ed il 15 agosto la nave Open Arms ,con la scorta di due mezzi della Marina italiana, faceva ingresso nelle acque territoriali ormeggiandosi di fronte al porto di Lampedusa, come convenuto con le autorità marittime locali. Dopo una successiva richiesta pervenuta da Open Arms , ormai a ridosso di Lampedusa, che sollecitava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, il 15 agosto lo stesso ministro dell’interno sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14.8.2019 del Presidente del Consiglio Conte, con cui lo si era invitato “ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione”. Salvini escludeva che i migranti a bordo della nave fossero sotto la giurisdizione italiana , sostenendo invece che dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello stato di bandiera, affermando anche di avere dato mandato di impugnare il decreto di sospensiva del Tar Lazio, impugnativa di cui però non risulta alcuna traccia. Nello stesso giorno, in risposta al Presidente del Tribunale per i Minori di Palermo e al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale, con riferimento ai minori non accompagnati trasportati a bordo della Open Arms: ribadiva la giurisdizione spagnola in materia, e reiterava il suo rifiuto di compiere gli atti di ufficio richiesti per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Il 16 agosto il Presidente del Consiglio rispondeva ad una ennesima nota del ministro dell’interno, sollecitando lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, che ormai si trovava in acque territoriali italiane e prospettando la possibilità di configurare l’eventuale rifiuto come un’ipotesi di illegittimo respingimento, comunicando anche la disponibilità già offerta da altri paesi europei di accogliere parte dei dei migranti della Open Arms, “indipendentemente dalla loro età”. Solo a quel punto l’ex ministro dell’interno autorizzava lo sbarco dei minori non accompagnati che soltanto il 18 agosto su decisione della Prefettura di Agrigento e dietro comunicazione dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro dell’Interno, venivano fatti sbarcare a Lampedusa. Nella stessa giornata cinque naufraghi si gettavano in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa di Lampedusa, ed erano stati recuperati da membri dell’equipaggio della stessa Open Arms. Una successiva ispezione a bordo del Procuratore della Repubblica di Agrigento accertava “condizioni emozionali estreme in un clima di altissima espressione” ove “il vissuto di morte collegato a un eventuale rimpatrio e la percezione di vita affrontando a nuoto lo specchio di mare” che li separava dall’Isola di Lampedusa “comportavano una marginalizzazione del rischio individuale e collettivo che si inseriva in un contesto di scarso controllo critico – cognitivo, con conseguente pericolo di agiti comportamentali inappropriati (mettere a repentaglio l’incolumità fisica e la vita medesima) senza possibilità, da parte di terzi, di contenere dette condotte né di arginare un ulteriore sviluppo di gravi situazioni psicopatologiche”.
Le contestazioni del Tribunale dei ministri di Palermo
Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, la condotta riferibile personalmente al ministro Salvini consistente nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) alla Open Arms, nel peiodo intercorrente tra il 14 ed il 20 agosto 2019 sarebbe risultata “ illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Gli stessi giudici rilevano invece come, “durante il primo segmento della vicenda, protrattosi sino al 14.8.2019, si delineasse già un obbligo esclusivo per lo Stato italiano di indicare un POS, quanto meno in relazione al concomitante obbligo gravante, in virtù delle medesime norme, sulle autorità maltesi. In effetti, in capo a queste si profilavaanche il più stringente criterio di collegamento della titolarità della zona in cui era avvenuto almeno il secondo soccorso, circostanza questa strenuamente contestata da Malta e, specularmente, sostenuta dal comandante della Open Arms; alla luce di questo criterio, le richieste di sbarco e di ridosso immediatamente successive vennero, infatti, indirizzate dal comandante della Open Arms esclusivamente a Malta”.
A seguito dei reiterati rifiuti frapposti dalle autorità maltesi, che si dichiaravano tardivamente disponibili soltanto ad accettare lo sbarco dei 39 naufraghi soccorsi dalla Open Arms in zona SAR di competenza maltese nel terzo evento di salvataggio, secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, “si ritiene che l’obbligo di indicare un POS, a partire dal 14.8.2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane“.
In questa occasione non sarà facile per l’ex ministro dell’interno chiamare in causa altri ministri o lo stesso Presidente del consiglio. Come si è visto, infatti, il premier Conte, infatti, aveva scritto a Salvini per sollecitare lo sbarco immediato dei minori. Il giorno di Ferragosto Salvini aveva risposto che la responsabilità non era dell’Italia ma dello Stato di bandiera, la Spagna, “anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani”, arrivando a negare che a bordo della nave si trovassero minori non accompagnati. Per il Viminale, infatti, non vi erano evidenze per escludere che gli stessi viaggiassero accompagnati da adulti che ne avevano la responsabilità, comunque ricadente sul comandante della nave. Lo stesso Salvini, inoltre, aveva già dato mandato all’Avvocatura generale dello Stato “per impugnare il decreto di sospensiva del Presidente del Tar del Lazio, che di fatto aveva rimosso ogni ostacolo all’ingresso della nave in acque territoriali”. Impugnativa della quale si sono perse le tracce, dopo la convulsa fase delle comunicazioni diffuse dal ministro dell’interno attraverso i canali più disparati.
Dopo lo sbarco dei naufraghi, conseguente al sequestro della nave, il gip del tribunale di Agrigento disponeva la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, anche in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.
La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di soccorsi operati da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.
Come rilevano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo,“va anzitutto evidenziato l’indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini sin da quando, apprendendo dell’intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all’inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d’intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell’ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l’evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”.
Sulla cd. zona SAR “libica”, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 , il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato molto chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”.
La difesa “anticipata” sui media dall’ex ministro dell’interno si è basata, anche nel caso Open Arms qui in esame, come già nei precedenti casi Diciotti e Gregoretti, sull’affermazione della natura di atto politico insindacabile attribuita ai divieti di ingresso nelle acque territoriali, che escluderebbe la ricorrenza di reati ministeriali. Come se si fosse trattato di difendere i “confini della Patria” o le politiche nazionali di contrasto dell’immigrazione “clandestina”. Secondo il Tribunale dei ministri di Palermo Matteo Salvini nel non concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019 avrebbe violato le convenzioni internazionali “… mentre è stata poi stralciata la posizione del capo di gabinetto, prefetto Piantedosi. Come afermano i giudici palermitani,”la condotta omissiva ascritta agli indagati, consistita nella mancata indicazione di un Pos alla motonave Open Arms, è illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”.
“L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Lo afferma una importante sentenza del Giudice delle indagini preliminari di Trapani, sul caso Vos Thalassa/Diciotti ed in modo meno esplicito lo stesso principio era stato già alla base di decisioni precedenti di altri giudici, nell’ambito di procedimenti di convalida del sequestro di alcune navi delle ONG, impegnate nel soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale. Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna anche in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale.
Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano che: 1)in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo che venga a conoscenza di un caso di pericolo,anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento; 2) lo Stato cui appartiene lo MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status.
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo rilevano come “la Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi disituazioni SAR, con la precisazione che essi “dovrebbero coprire gli incidenti che si verificano all’interno della propriaregione SAR e, se necessario, dovrebbero coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui viene fornita l’assistenza (v.paragrafo 6.7) o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quandoil RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadonoprincipalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabileper aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”
Nessuna disposizione di diritto internazionale autorizza gli stati a considerare le persone “al sicuro” su una nave tenuta a tempo indeterminato al di fuori delle acque territoriali. La nave soccorritrice può essere considerata soltanto come un luogo sicuro temporaneo. Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come porto sicuro, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).
Esiste dunque un preciso dovere per le autorità SAR, informate di un evento di soccorso, di coordinare le attività di soccorso ed indicare alle navi soccorritrici, siano essere militari o private, un porto sicuro di sbarco più vicino.
Una volta che la Centrale nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso – anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza Sar – questo impone alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio.
Se, come risulta dai rapporti delle Nazioni Unite e come ha riconosciuto persino il ministro degli esteri del precedente governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, la Libia non garantisce «porti di sbarco sicuri», spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della Guardia costiera di Roma, su indicazione del ministro dell’interno, indicarne uno con la massima sollecitudine, anche se l’evento Sar si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa Sar libica. Eventuali inadempimenti di tali obblighi potranno essere sanzionati a livello nazionale o internazionale. Non si può ammettere che in mare ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione, soltanto per effetto della qualificazione come “clandestini”.
E’ dunque l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente Sar dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima. La cessione della competenza ad operare interventi Sar in acque internazionali non dovrà comunque pregiudicare la dignità e la vita delle persone che si devono soccorrere. In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea.
Si deve considerare che i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016 prevedono espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R.continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sul S.A.R. In base al Considerando n.8 del Regolamento n.656/2014, richiamato dal successivo Regolamento n.1624/2016, ”durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Si può quindi ritenere che per effetto di questo richiamo le disposizioni delle Convenzioni internazionali del mare ed i relativi emendamenti accettati dagli stati membri dell’Unione Europea diventino vincolanti per tutte le autorità di questi paesi.
Ai fini della individuazione del porto di sbarco sicuro non può assumere rilievo la bandiera che batte la nave soccorritrice, soprattutto quando questa ha già fatto ingresso nelle acque territoriali.. Come ha ricordato in diverse occasioni l’Autorità garante per le persone private della libertà personale, “l’interdizione all’ingresso costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale…) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. Come osserva Giancarlo Guarino, già Ordinario di Diritto Internazionale all’Università di Napoli Federico II, “il riferimento ripetuto del Governo italiano al fatto che le navi delle ONG battono bandiera di vari Paesi è irrilevante,…perché non si tratta di navi pubbliche ma private e quindi il principio per cui lo Stato della bandiera assume anche la responsabilità di chi si trovi a bordo della nave non vale”.
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emerge che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente suiresponsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.
Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”. Nei suoi documenti ” L’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.
Il Contrammiraglio Nicola Carlone, della Guardia costiera italiana, già nel corso di un’audizione parlamentare del 3 maggio 2017. aveva spiegato che “Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi. Il caso Hirsi lo dimostra”. Lo stesso aveva poi aggiunto che “il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina tuttavia la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), come si dirà meglio in seguito. Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC ( Centrale di comando della guardia costiera) che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate”. Il fatto che la nave soccorritrice possa essere considerata, in base alla Convenzione UNCLOS, come un’estensione del territorio olandese “non è infatti rilevante ai fini del Regolamento di Dublino, che individua il Paese dove devono essere compiuti gli accertamenti necessari per stabilire chi abbia o no il diritto alla protezione internazionale”. I naufraghi soccorsi in acque internazionali vanno sbarcati nel porto sicuro più vicino, soprattutto qualora tra essi vi siano richiedenti asilo, minori non accompagnati, donne con bambini piccoli, altri soggetti in situazioni di vulnerabilità come le persone provenienti dalla Libia che, in misura crescente, sono state vittime di tortura o di abusi sessuali.
Il testo del Regolamento (UE) n. 656/2014, contiene diverse disposizioni che regolano i molteplici aspetti riguardanti la sicurezza in mare (art. 3), la protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento (art. 4), la localizzazione (art. 5), l’intercettazione nelle acque territoriali, in alto mare, nella zona contigua (rispettivamente: artt. 6-7-8), le situazioni di ricerca e soccorso (art. 9), lo sbarco (art. 10), i meccanismi di solidarietà (art. 12).
Il Regolamento europeo su Frontex n. 656/2014, direttamente vincolante nell’ambito della giurisdizione italiana ed europea, definisce il Place of Safety come il «… luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento…».
Il porto di sbarco definibile come “place of safety” deve trovarsi all’interno di un paese che garantisca l’effettiva applicazione della Convenzione di Ginevra e delle altre Convenzioni internazionali che salvaguardano i diritti della persona umana. Questo paese oggi non è certo la Libia, o quello che ne rimane, nei diversi governi che si contendono il controllo del paese, anche perché la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Secondo lo stesso Regolamento ( al Considerando 8), “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”.
Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
Si deve infine ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionale di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 CNUDM) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.). Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”
Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi che intaccano i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attivita’ dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety.
I dati smentiscono peraltro l’affermazione che il blocco delle navi delle ONG sarebbe stato finalizzato alla difesa dei confini o al contrasto della cd. immigrazione “clandestina”. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al 30 settembre 2019, erano circa 80.800 i migranti arrivati attraverso le tre rotte del Mediterraneo (Occidentale, Centrale ed Orientale) verso l’Europa, con un calo del 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (102.700). Nei primi nove mesi dello scorso anno erano arrivate in Grecia circa 46.100 persone, 23.200 in Spagna e appena 7.600 in Italia. Inoltre, circa 1.200 persone sono arrivate via mare a Cipro, mentre circa 2.700 persone, sempre nello stesso periodo, sono state sbarcate a Malta.
Non si vede dunque come si possa ritenere che l’ex ministro Salvini, impartendo al comandante della Open Arms i divieti di ingresso in porto nel periodo dal 14 al 20 agosto del 2019 abbia “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” (art. 9 comma 3 L. Cost. n. 1/1989). Come ricordano i giudici del Tribunale di ministri di Palermo, “la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 81 del 5.4.2012, ha affermato che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo: e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”.
Appare incontrovertibile come che la decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave Open Arms, non abbia contribuito alla sicurezza dei cittadini o alla difesa delle frontiere, ma abbia prodotto in modo diretto e immediato, effetti pregiudizievoli alla sfera giuridica individuale dei migranti soccorsi da settimane e ristretti a bordo della stessa nave, come non si sarebbe verificato se il ministro dell’interno si fosse limitato ad una scelta politica di carattere generale senza violare la normativa interna ed internazionale che stabiliscono procedure vincolate per lo sbarco dei naufraghi soccorsi in alto mare.
Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.
Non entriamo qui nel merito dei successivi sviluppi del processo penale per i reati di rifiuto di atti di ufficio e sequestro di persona, che potrebbe seguire al voto favorevole del Senato sulla autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms qui in esame. Non si può pensare tuttavia che la magistratura possa essere l’unica autorità dello stato che risolva la questione dei poteri che si è assegnati con il decreto sicurezza bis il ministero dell’interno a guida del senatore Salvini, e che adesso vengono esercitati con modalità ben diverse dall’attuale ministro dell’interno Lamorgese.
Purtroppo il rischio che si ritorni a pratiche interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali, e dunque dei soccorsi operati in acque internazionali da parre delle Organizzazioni non governative, rimane assai alto. Vanno accertate tutte le responsabilità della catena di comando e dei ministri che hanno ritardato lo sbarco dopo le operazioni di soccorso, o hanno impedito gli interventi di ricerca e soccorso (SAR) imposti agli assetti aero-navali italiani in base alle Convenzioni internazionali, ma occorre abrogare anche il decreto sicurezza bis nelle parti che riconoscono al ministro dell’interno i poteri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e sanzionano i soccorsi umanitari delle ONG, concedendo ai prefetti il potere di adottare la confisca amministrativa delle navi soccorritrici, con effetti che perdurano anche quando la magistratura penale esclude ogni responsabilità in capo ai soccorritori.
11 . Ci sarà un giudice a Berlino ? Processi per i casi Diciotti e Gregoretti
Le sentenze dell magistratura che a più riprese, a partire dal dissequestro disposto dal Tribunale di Ragusa della nave Open Arms definiva la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco, non scalfivano l’orientamento dell’opinione pubblica e le scelte dei decisori politici e degli organi di polizia alle loro dipendenze.
Anche sui soccorsi operati da navi appartenenti alla Guardia costiera o dedite ad attività commerciali, come i rimorchiatori di servizio delle piattaforme petrolifere offshore ubicate nel Mediterraneo centrale, nei casi Asso 25 e Vos Thalassa (Diciotti), si scatenava una devastante operazione mediatica, che aveva anche risvolti di natura penale, non solo contro i migranti accusati di gravi reati, o dei responsabili delle ONG, ma anche nei confronti dei comandi militari delle unità appartenenti alla Guardia costiera, progressivamente esautorata dei suoi compiti di intervento in acque internazionali, a favore della guardia di finanza.
Altre volte le autorità italiane indicavano i porti tunisini come Place of safety dove sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali. La Tunisia non garantisce porti sicuri di sbarco, è dimostrato dai fatti. Si è arrivati ad indicare alla SEA WATCH 3 un place of safety in un porto tunisino. Ma quando giungeva davanti al porto di Zarzis una imbarcazione privata che aveva soccorso in acque internazionali naufraghi che erano partiti da Zuwara (Libia), si vedeva negato dalle autorità tunisine il diritto di ingresso in porto, dopo che le autorità italiane e maltesi si erano rifutate di adempiere gli obblighi di salvataggio loro imposti dalle Convenzioni internazionali.
Malgrado alcune procure procedessero al dissequestro delle navi umanitarie o all’archiviazione delle indagini avviate su notizie di reato infondate confezionate dalle autorità di polizia, la condanna delle ONG, colpevoli di essere diventate “taxi del mare” si anticipava sui giornali e sui canali social e si trasformava in una vera e propria campagna d’odio, rimasta ancora oggi priva di un riscontro giudiziario definitivo. Una campagna d’odio e di disinformazione che non si arrestava neppure quando i soccorsi in acque internazionali erano operati da unità della Guardia costiera italiana.
Il caso Diciotti del mese di agosto del 2018 rappresentava la più clamorosa violazione dello stato di diritto perpetrata ai danni del diritto internazionale e della Costituzione italiana, soprattutto per la decisione del Senato che negava l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’interno, una decisione che a fronte delle motivazioni addotte dal Senato, i magistrati non sottoponevano neppure alla Corte Costituzionale, per la possibile ricorrenza di un conflitto di attribuzioni. Le responsabilità di un ministro sono state cancellate da un voto politico che non tiene conto delle reiterate violazioni del diritto internazionale che l’art. 117 della Costituzione richiama come fonte di obblighi rilevanti anche nell’ordinamento interno.
I giudici del Tribunale dei ministri di Catania avevano osservato come ”«la decisione del Ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica […] di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base ad un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri» (p. 40). Proprio a questo riguardo, peraltro, la motivazione evidenzia come, nel perseguire tali finalità di ordine politico, la decisione del Ministro abbia finito per travalicare precisi limiti di ordine costituzionale e sovranazionale che dovrebbero invece informare l’agire delle istituzioni. Si richiama, sul punto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 105 del 2001, che pur prendendo atto dei molteplici interessi pubblici coinvolti nella gestione dei flussi migratori, ha ribadito il carattere inviolabile dell’art. 13 Cost., spettante ai singoli in quanto essere umani, e dunque a prescindere dalla loro eventuale condizione di migranti irregolari. Ancora, si richiama la sentenza resa nel 2016 dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Khlaifia ed altri c. Italia, che ha già condannato il nostro Paese per la violazione dell’art. 5 della Convenzione, in un caso simile a quello in esame, dove i migranti appena sbarcati erano stati arbitrariamente trattenuti (anche) a bordo di navi”.
La successiva decisione di archiviazione dello stesso tribunale dei ministri di Catania, relativa ad un diverso procedimento penale avviato dalla Procura di Roma, per la stessa vicenda della Diciotti, a carico di Salvini, del Presidente del consiglio Conte e di altri ministri dell’attuale governo, non smentisce questa valutazione ma tiene soprattutto conto del voto politico espresso dal Parlamento che ha negato l’autorizzazione a procedere, per un “superiore interesse nazionale” relativo al controllo delle frontiere.
Non si può che prendere atto, a fronte delle contraddizioni evidenti nel parere della giunta per le autorizzazioni a procedere che a febbraio 2019 negava la autorizazione, e poi nelle motivazioni adottate di riflesso dal Senato, come dal Tribunale dei ministri di Catania non sia stato sollevato alcun conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale. E dunque, rischiando la decisione parlamentare “di porsi in una zona franca dell’ordinamento, non suscettibile di alcuna valutazione giurisdizionale neppure in sede di conflitto di attribuzioni.” Che poi è esattamente quello che è successo, e continua a succedere, con le decisioni politiche di “chiusura selettiva dei porti”, come si verificava con i successivi divieti di ingresso nelle acque territoriali imposti dall’ex ministro dell’interno, che ha continuato ad impedire addirittura lo sbarco di naufraghi da navi della Guardia costiera italiana (caso Gregoretti). Senza che gli organi della giurisdizione potessero concretamente intervenire.
Mercoledì 12 febbraio 2020 il Senato si è pronunciato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Salvini sul caso del blocco dello sbarco dei naufraghi soccorsi nell’estate del 2019 dalla nave Gregoretti della Marina militare italiana.
La ventata propagandistca che ha caratterizzato la procedura di richiesta alla Giunta per l’ autorizzazione a procedere a carico del senatore Matteo Salvini conclusa con il voto del Senato ha offuscato le ragioni di fondo e lo stesso svolgimento dei fatti sui quali il Tribunale dei ministri di Catania, malgrado la istanza di archiviazione del procuratore Zuccaro, aveva richiesto di proseguire il processo nei suoi confronti.
Le motivazioni addotte dall’ex ministro dell’interno nel corso del dibattito in Giunta, e poi le sue dichiarazioni, nelle quali si dichiara vittima di un “aggressione politica”, puntano interamente sul consenso che la sua scelta ha riscosso tra gli elettori, e sulla doverosità della “difesa dei confini nazionali” ed addirittura della “Patria” rispetto allo sbarco dei naufraghi soccorsi in mare dalla nave della Marina militare italiana Gregoretti, tenuta per giorni all’ormeggio nel porto di Augusta (Siracusa) con il divieto, imposto dallo stesso Salvini, di fare sbarcare a terra le persone che si trovavano a bordo, inclusi i minori non accompagnati ed altri soggetti in condizione di forte vulnerabilità. L’ex titolare del Viminale, insiste anche sulla natura collegiale del divieto di sbarco adottato nei confronti della Gregoretti, “la difesa della patria è un sacro dovere, ritengo di aver difeso la mia patria, non chiedo un premio per questo ma se ci deve essere un processo che ci sia. In quell’Aula non andrò a difendermi, ma a rivendicare quello che, non da solo, ma collegialmente abbiamo fatto”.
La valutazione della corresponsabilità di altri ministri da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere non può sovrapporsi alla valutazione dell’autorità giudiziaria, ed alla successiva verifica processuale, restando riservata alla giunta soltanto la mera valutazione di un interesse pubblico, in quanto più precisamente la stessa Giunta può ” negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” ( art. 9, comma 3, legge Costituzionale 16 gennaio 1989, n.1). Una valutazione che non dipende certo dalla collegialità dell’attività del governo, che comunque può ben radicare, ma solo nella competente sede giurisdizionale, la configurazione di ipotesi di concorso nel reato. Non si può comunque qualificare come“vicenda relativa al recupero in mare dei migranti della nave “Gregoretti”, la distinta fase della trattativa intercorsa tra il governo italiano, autorità di altri stati e la stessa Commissione Europea al fine di ottenere il trasferimento e l’accoglienza dei naufraghi in altri paesi europei, una trattativa che poteva (anzi, doveva) svilupparsi una volta sbarcati a terra in un un porto sicuro italiano.
E’ stata sconfitta quindi la tesi della insindacabilità delle scelte “politiche” di Salvini che aveva impedito per giorni lo sbarco dei naufraghi a bordo della Gregoretti, già ormeggiata nel porto industriale di Augusta (Siracusa) al dichiarato fine di costringere gli stati europei ad accettare la redistribuzione dei naufraghi.
Il richiamo alle attività della Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea , la disponibilità offerta da cinque stati europei soltanto cinque giorni dopo il soccorso in acque internazionali, e l’esistenza di una richiesta formale in data 26 luglio 2019 da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri perchè alcuni stati europei accogliessero una parte dei nafraghi, come la successiva riunione di “coordinamento” convocata il 2 agosto 2019 dalla Commissione europea tra gli stati che avevano offerto una qualche disponibilità, non possono costituire ragioni per attribuire all’intero governo la responsabilità invece propria dell’allora ministro dell’interno. Che impediva lo sbarco in un porto sicuro, in aperta violazione non solo del diritto internazionale, ampiamente richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri, ma dello stesso diritto interno, sia sotto il profilo del mancato rispetto delle procedure di sbarco imposte dall’art. 10 comma 3 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, e per quanto concerne i minori non accompagnati dalla legge n.47/2017, che delle norme cogenti a tutela della libertà personale, presidiate, in caso di violazione, dalla previsione del reato di sequestro di persona da parte del pubblico ufficiale.
Coloro che con grande superficialità escludono già oggi la possibilità di configurare il reato di sequestro di persona nel caso della indebita privazione della libertà personale subita dai naufraghi trattenuti per giorni a bordo della nave militare Gregoretti, farebbero forse meglio a ricordare la portata del reato di sequestro di persona nelle applicazioni della giurisprudenza.
Il principio di riserva assoluta di legge, ribadito dall’art.13 della Costituzione italiana in materia di libertà personale, costituisce un principio fondamentale dell’assetto democratico previsto dalla Costituzione. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, “L’elemento oggettivo del delitto di sequestro di persona consiste nella privazione della libertà personale intesa come libertà di muoversi nello spazio e cioè come libertà di locomozione. Non è necessario, a tal fine, che la privazione sia totale, ma è sufficiente che il soggetto passivo non sia in grado di vincere, per realizzare la sua piena libertà di movimento, gli ostacoli frapposti né ha rilevanza la maggiore o minore durata di tale privazione” (v. Cass. Pen., sez. I, n. 18186/2009 ). Il sequestro di persona può essere configurato dunque quando la condotta del soggetto agente privi la vittima delle libertà fisica e di locomozione, sia pure in modo non assoluto, per un tempo apprezzabile (Cass. Pen. sez. III n. 15443/2014). Per la Cassazione, “il concetto di privazione della libertà personale implica necessariamente l’idea di una condizione non momentanea. Tuttavia la durata più o meno lunga dell’impedimento è indifferente ai fini della configurazione del sequestro di persona, bastando che esso si protragga per un tempo giuridicamente apprezzabile tale da determinare la lesione del bene giuridico protetto.” (Cass. Pen., sez. V, n. 375/1980) . Per la Corte di Cassazione ad esempio può integrare il reato di sequestro di persona compiuto da un pubblico ufficiale anche l’indebito trattenimento di una persona, anche soltanto per alcune ore, presso un posto di polizia ferroviaria, come in qualsiasi caso di fermo illegale ( Cass. Pen. sez. VI, n.23423/2010).
Per quanto attiene al profilo soggettivo il reato di sequestro di persona previsto dall’art.605 del codice penale richiede, secondo la prevalente giurisprudenza, soltanto il “dolo generico”, dunque la consapevolezza e la volontà di limitare illegittimamente la libertà personale. Nel caso in esame il prolungato trattenimento dei naufraghi a bordo della nave Gregoretti non trovava fondamento in una specifica previsione legislativa, ma si basava soltanto sulla mera volontà del ministro dell’interno che, in diverse dichiarazioni, affermava che non avrebbe indicato un porto di sbarco in Italia fino a quando non fossero arrivati da altri stati europei impegni precisi in ordine al ritrasferimento dei naufraghi verso questi stati. Non rientrava nei poteri legittimamente attribuiti al ministro dell’interno il potere di vietare lo sbarco di naufraghi da una nave militare già ormeggiata in acque territoriali, come la Gregoretti, considerando che comunque ad una nave d guerra, che già costituisce territorio dello Stato, non risultava applicabile il decreto sicurezza bis (n.53/2019), varato dal governo nel mese di giugno del 2019. L’esercizio di poteri limitativi della libertà personale da parte del pubblico ufficiale si giustifica soltanto nei rigorosi limiti stabiliti dall’art. 13 della Costituzione italiana e dunque nella stretta osservanza del principio di legalità. Nel caso del divieto di sbarco imposto lo scorso anno alla nave Gregoretti già ormeggiata ad Augusta ( Siracusa) non si riscontra alcuna base legale a fondamento della determinazione personale del ministro dell’interno. Il fine perrseguito non può mai giustificare i mezzi, a maggior ragione nel caso dei poteri esercitati da un pubblico ufficiale in ordine alla limitazione della libertà personale.
La “Memoria del Senatore Matteo Salvini per la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari”, costituisce un chiaro esempio di scarso rispetto dello stato di diritto, basato sulla Costituzione, da parte dell’ex ministro dell’interno, che dopo avere sostenuto per mesi di volere “chiudere i porti”.
Come scrive Luigi Ferrajoli “deve pur esserci un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il sovrano o la maggioranza della pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove quando i medesimi poteri ne pretendono l’assoluzione”. In nessun caso dunque il consenso elettorale può legittimare scelte in contrasto con il principio di legalità e con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali.
La nave Gregoretti aveva preso a bordo i 50 migranti che erano stati soccorsi da un peschereccio, dedito ad attività di pesca, l’ “Accursio Giarratano” e altri 91 erano salvati invece da un pattugliatore della Guardia di finanza. Entrambi gli interventi erano avvenuti in acque Sar (Ricerca e soccorso) maltesi. In quella occasione le affermazioni di Salvini erano inequivocabili. «Ho dato disposizione – avvertiva nella mattinata del 26 luglio 2019 il ministro dell’Interno – che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in tutta Europa di tutti i 140 migranti a bordo»
Un comunicato della Guardia costiera italiana, reso noto il 28 luglio 2019, apriva uno spiraglio di luce, dopo un lungo periodo di silenzi stampa, sugli sviluppi della guerra contro i soccorsi in mare ingaggiata dal titolare pro-tempore del Vimimale nel corso del 2019, per dimostrare al suo elettorato l’efficacia dell’azione di contrasto contro l’immigrazione “illegale”. Una guerra a colpi di direttive ministeriali e decreti legge, che, dopo essere stata diretta contro le navi umanitarie delle ONG, ha coinvolto anche unità navali appartenenti a corpi dello stato.
A questo punto, spiega la nota stampa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto, le motovedette intervenute hanno “trasbordato i rimanenti 135 migranti su Nave Gregoretti della Guardia Costiera dotata di un team medico del Cisom in grado di assistere adeguatamente i naufraghi in attesa di indicazioni relative al successivo trasferimento verso un place of safety”. …” Il primo porto che la CP920 ha raggiunto, Catania, è stato deciso “in previsione del peggioramento delle condizioni meteo la nave ha poi assunto rotta verso la Sicilia Orientale”. A Catania, spiegano dal Comando, la Gregoretti stata rifornita di viveri e medicinali. Ma pare che il porto di Catania non fosse abbastanza al riparo dalle avverse condizioni meteo marine – stando al comunicato stampa – per fermarvi ben ormeggiata la Gregoretti. Una spiegazione che non convince affatto, anche alla luce dei bollettini meteo di quelle ore. Secondo lo stesso comunicato della Guardia costiera italiana, “nella serata di ieri, (27 luglio 2019, n.d.a.) allo scopo di consentire riparo dal peggioramento delle condimeteo in zona – spiega il comunicato della Guardia Costiera – è stato disposto a Nave Gregoretti, su concorde parere del Ministro Toninelli e previa informazione al Viminale, di dirigere verso il porto di Augusta dove l’unità è giunta intorno alle ore 03:00 di questa mattina”
La disponibilità, resa nota dal governo tedesco, non ha certo interferito con le decisioni dell’ex ministro Salvini, mosso esclusivamente da una finalità propagandistica, che ha mantenuto indebitamente per altri tre giorni i naufraghi a bordo della Gregoretti, minori compresi, cedendo sullo sbarco dei minori solo di fronte al rischio sempre più concreto, dopo 4 giorni (96 ore) di indebito trattenimento, di altre denunce penali per la violazione della legge n.47 del 2017 e dell’art.13 della Costituzione italiana che impone la convalida giurisdizionale di tutte le misure che, a qualsiasi titolo, siano limitative della liberta’ personale. Come è stato rilevato da giornalisti, politici e giuristi di diversa estrazione, le giustificazioni fornite dal Senatore Matteo Salvini a fondamento delle sue decisioni di non autorizzare lo sbarco dalla Gregoretti, nel porto sicuro più vicino, dei naufraghi, soccorsi in diverse occasioni da una pluralità di mezzi operanti in attività SAR ( Search and rescue) nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale, non reggono nè dal punto di vista del rispetto delle fonti normative, nè in considerazione del ricorrente tentativo di scaricare la propria responsabilità ministeriale sul governo nel suo complesso.
12. I respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis ( legge 8 agosto n.77 in Gazzetta Ufficiale al n. 186 del 9 agosto 2019)
L’entrata in vigore del Decreto Legge n.53 del 2019 ( cd. Decreto sicurezza “bis” poi convertito nella legge 8 agosto n.77)), con una norma di dubbia costituzionalità, ha permesso al ministro dell’interno, dopo una serie di direttive/diffide del tutto prove di basi legali, di impartire ordini alla guardia di finanza, ed alla guardia costiera, in evidente violazione con i doveri imposti dalle Convenzioni internazionali che vietano di trattenere a tempo indeterminato sulla nave soccorritrice i naufraghi soccorsi in mare, anche quando si tratti di portare a compimento attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement).
In particolre, il cd. “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019), con l’articolo 1, recante misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione, inseriva nell’articolo 11 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il nuovo comma 1-ter, con il quale si attribuiva al Ministro dell’interno, nella sua qualità – riconosciutagli dall’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121 – di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento al comma 1-bis del medesimo articolo 11, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, il potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, con l’eccezione del naviglio militare (nel quale rientrano anche le navi militari e le navi da guerra, a mente degli articoli 239 e seguenti del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66) e delle navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ovvero quando, in una specifica ottica di prevenzione, ritenga necessario impedire il cosiddetto «passaggio pregiudizievole» o «non inoffensivo» di una specifica nave in relazione alla quale si possano concretizzare – limitatamente alle violazioni delle leggi in materia di immigrazione – le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sottoscritta a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 2 dicembre 1984, n. 689. Il provvedimento di divieto “e’ adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.». Il decreto sicurezza bis escludeva dunque espressamente dall’area della sua applicabilità le navi militari battenti bandiera italiana.
In questo modo il ministro dell’interno, attraverso la norma introdotta dal decreto legge sicurezza bis (art.1), con gli ordini di interdizione della navigazione impartiti alle autorità marittime, si è riservato di fatto il potere di conformare e determinare la ricorrenza di una serie di fattispecie penali, oltre che di sanzioni amministrative, sulla base dei rapporti di servizio e delle notizie di reato formulate dalle autorità di polizia alle sue dipendenze. Una possibilità di conformare la valenza effettiva delle norme penali, per mezzo di provvedimenti amministrativi, attribuita al ministro dell’interno, in violazione dei principi di legalità e di separazione dei poteri sanciti dalla Costituzione.
Si è così formalizzato un contorto sistema normativo penale e amministrativo che risulta in violazione al principio di gerarchia delle fonti e che potrà portare ad una duplicazione della pena nei confronti degli stessi soggetti, ponendo anche il problema del coordinamento tra il procedimento amministrativo, demandato al prefetto ed il procedimento penale. Un coordinamento che nel decreto legge n.53/2019 adesso convertito in legge, rimane assolutamente oscuro, oscurità che potrebbe portare anche ad una declaratoria di illegittimità costituzionale, valutando i tempi delle diverse procedure, il sovrapporsi di differenti ipotesi di confisca delle navi, e l’ammontare elevatissimo delle sanzioni pecuniarie imposte dal prefetto, al di fuori di qualunque criterio di adeguatezza e proporzionalità, rispetto ai fatti contestati. Tutto ciò, a carico di persone non ancora condannate in via definitiva. Si sono adotatte così misure fortemente dissuasive delle attività di soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale, con conseguenze spesso mortali.
Come ha osservato il Garante Nazionale per le persone private della libertà personale, Mauro Palma, nel suo parere sul Decreto legge n.53 del 2019, “lo Stato costiero può eccezionalmente sospendere temporaneamente, senza discriminazioni di diritto o di fatto tra navi straniere, il diritto di passaggio inoffensivo in zone specifiche di mare, quando ciò sia indispensabile per la propria sicurezza. Tuttavia, una lettura della norma che consideri la fattispecie del salvataggio in mare (che continua fino allo sbarco in un luogo sicuro – place of safety) come una violazione delle norme in materia di immigrazione dello stato costiero e, di conseguenza, come una ipotesi di passaggio non inoffensivo appare non in linea con gli obblighi internazionali di soccorso previsti in vario modo da norme contenute nelle più importanti convenzioni sul diritto del mare (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, Convenzione SOLAS del 1974 e Convenzione SAR del 1979) e dagli artt. 485 e 489 del Codice della Navigazione italiano.
L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
“Nel documento si sottolineava che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. In precedenza, la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, ancora prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco.
A partire dall’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis”, nel giugno del 2019, il Ministro dell’interno faceva ampio uso del potere di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e quindi nei porti italiani, a navi delle ONG che avevano operato attività SAR ( di ricerca e soccorso) in acque internazionali, in conformità a quanto previsto dalle Convenzioni internazionali, e dal diritto interno, anche per gli espressi richiami operati alle fonti sovranazionali dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. Continuava nel frattempo una intensa collaborazione della Marina italiana, con la sedicente guardia costiera “libica”, mentre venivano bloccate le attività di ricerca e soccorso fino allora operate dalle navi della Guardia costiera ( come la Diciotti e la Dattilo) con un accresciuto ruolo della guardia di finanza, utilizzata piuttosto che per soccorrere, per notificare ai comandanti delle ONG i provvedimenti di divieto di ingresso nelle acque territoriali impartiti dal ministro dell’interno. Il “concerto” con gli altri ministri, previsto dal decreto sicurezza bis , si riduceva ad una mera formalità, mentre il Presidente del Consiglio veniva solo “informato” dei divieti. In diverse occasioni lo stesso ministro dell’interno pro tempore Salvini continuava ad affermare che i divieti di ingresso erano imposti al fine di ottenere l’assunzione della responsabilità dei soccorsi da parte dello stato di bandiera della nave, se non la redistribuzione dei migranti, anche se soccorsi da navi italiane come la Mare Ionio di Mediterranea, verso altri paesi europei.
Appariva evidente come lo scopo immediato della nuova normativa introdotta con il Decreto legge n.53/2019 fosse il respingimento delle navi umanitarie e l’inasprimento delle sanzioni contro chi si rende “colpevole” di soccorso, per avere operato in modo “autonomo”, senza obbedire, in altri termini, agli obblighi di riconsegna alla guardia costiera libica. Per avere impedito che i naufraghi fossero rigettati nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti. Nessun porto libico può essere qualificato quale luogo di sbarco sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati (Ginevra, 28 luglio 1951) ed essendo la situazione in suddetto Stato, oggi frammentato in più entità territoriali con diversi governi, caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti umani, come ribadito nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia relativa al caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, e come confermato fino ad oggi da tutti i rapporti delle diverse agenzie e missioni delle Nazioni Unite (UNHCR, OIM, UNSMIL). Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, ( art. 19, comma 2) i naufraghi non posso essere qualificati generalmente come irregolari prima del loro sbarco a terra. Nessuno può essere allontanato dal territorio nazionale o con l’esercizio di poteri di sovranità dello stato, senza una identificazione individuale e senza la possibilità di chiedere protezione. L’unico limite incontrato dalla discrezionalità degli stati è infatti rappresentato dalla presenza tra i migranti soccorsi in mare di minori , di rifugiati o richiedenti asilo: lo Stato interveniente e lo Stato costiero devono, quindi, rispettare il principio di non refoulement anche nell’individuazione del luogo ove le operazioni di soccorso in mare possono essere considerate terminate.
E’ dunque da considerare che, se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, o ne vieta l’ingresso in porto, in assenza di provvedimenti individuali, come tali oggetto di un possibile ricorso, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili , come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Una violazione tanto più evidente se gli spazi geografici (Stati terzi, come ad esmpio la Tunisia, o autorità militari in alto mare, come quelle maltesi) verso cui la nave, con i naufraghi ancora a bordo, venga respinta, non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, a partire dalla possibilità di accesso ad una procedura imparziale per il riconoscimento della protezione.
La previsione dell’art.11 ter va letta alla stregua dell’art.10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 come successivamente emendato non consente di distinguere diverse regole di sbarco a seconda della bandiera che batte la nave soccorritrice. infatti, secondo questa norma, ” lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento foto dattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati
Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, si afferma che :”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
13 . La politica dei “porti chiusi” ai tempi del COVID-19. Ruolo di Frontex e degli attori nazionali nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare (SAR)
13.1.Il 31 gennaio scorso il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, il COVID-19. Una decisione che è passata sottotraccia, e che ha avuto rilevanti conseguenze sull’adempimento degli obblighi di soccorso in mare stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Da quella data un profluvio di decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) ed ordinanze di Presidenti di regione e sindaci, hanno costituito un fitto reticolo normativo, di carattere amministrativo, che ha imposto il cd. distanziamento sociale, ed ha influito sulla indicazione di un porto sicuro di sbarco, imposta dal diritto internazionale del mare e sulla successiva destinazione dei naufraghi nel sistema di prima accoglienza. Frutto di questo stato di emergenza è stato di recente il decreto interministeriale impropriamente definito come “porti chiusi”.
Lo “stato di emergenza” è previsto dalla legge 225 del 24 febbraio 1992 in materia di Protezione Civile che prevede che venga emanata la delibera da parte del Governo in casi eccezionali. Secondo questa legge, ” al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) come (,calamita’ naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari) il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti.”
Come ricorda Ilenia Massa Pinto, “la Delibera del Consiglio dei Ministri dichiara che è in atto il tipo di evento emergenziale più grave tra quelli previsti dalla normativa sulla protezione civile: la lett. c) si riferisce infatti alle «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». E l’art. 24 prevede che con la dichiarazione dello stato di emergenza il Consiglio dei ministri autorizzi l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25, che possono essere adottate «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea”.
Come ha osservato David Puente, “la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 con la quale viene “dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza in conseguenza di un rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” è un provvedimento che non ha forza di legge così come precisato dall’art.3 della legge n.20/1994. Articolo 3 dove si prevede che “nei confronti dei provvedimenti emanati a seguito di deliberazioni del Consiglio dei Ministri e degli atti del Presidente del Consiglio dei Ministri” debba esserci l’obbligo del “controllo preventivo di legittima da parte della Corte dei Conti” in quanto si tratta di provvedimenti ed atti “non aventi forza di legge”!
Il decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020 n. 13, specifica alcune norme di rango costituzionale che possono essere derogate , tra queste, ma l’elenco non è tassativo, la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e la libertà di professare la propria fede religiosa (art. 19 Cost, il diritto all’istruzione e alla cultura (artt. 9-33-34 Cost.), la libertà personale (art. 13)[; la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 ss. Cost).
L’art. 3 di questo decreto legge elenca le forme attraverso le quali le misure di contenimento introdotte dal decreto possono essere adottate: «uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale».
In casi di estrema necessità ed urgenza, le misure di contenimento potranno essere adottate dal Ministro della salute, dai Presidenti di regione e dai sindaci, ai sensi dell’art. 32 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, dell’art. 117 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e dell’art. 50 del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
I provvedimenti con cui il ministro dei Trasporti, con un decreto interministeriale ha deciso il divieto di ingresso nelle acque territoriali soltanto alle navi battenti bandiera straniera che avessero soccorso naufraghi al di fuori della zona SAR italiana, limitata a poche miglia a sud di Pantelleria e Lampedusa, risulta dunque un atto di natura amministrativa che in base ai poteri conferiti al Governo ed alla Protezione civile dovrebbe fare fronte all’emergenza da COVID-19 proclamata sull’intero territorio nazionale.
il Decreto interministeriale del 7 aprile scorso stabilisce nel suo articolo 1 (ambito di applicazione) che “per l’intero periodo di stato di emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of safety (“liogo sicuro”), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”. La portata normativa del provvedimento non va oltre, perchè l’altro articolo del provvedimento, l’art. 2 (Disposizioni generali) si limita a stabilire i termini temporali di efficacia, che scatta “dalla data della sua adozione”, e che dunque non può avere effetto retroattivo, e “per la durata del periodo di emergenza sanitaria di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020”.
Appare davvero pretestuosa la motivazione del provvedimento adottato adesso dal capo della Protezione civile, sulla base del decreto interministeriale, secondo cui, tenuto contro della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e dell’attuale “situazione di criticità dei Servizi sanitari regionali”, e dell’”impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, ” non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri ( luoghi di sbarco sicuri, n. d.a.), senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie,logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19″. Per quanto si richiami la dichiarazione del 30 gennaio 2020 con la quale l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato la natura pandemica del COVID 19, non si rinviene ancora alcun caso di positività ai migranti soccorsi negli ultimi mesi dalle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, e non sembra comunque che tale tipo di argomentazione, seppure collegata alla dichiarazione dello stato di emergenza adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso, possa sospendere l’applicazione delle norme internazionali, europee ed interne che nella interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, fino alla sentenza della Corte di cassazione dello scorso febbraio, ribadiscono l’obbligo degli stati di completare le operazioni di salvataggio da chiunque svolte, garantendo con la massima tempestività un luogo sicuro di sbarco. Per luogo sicuro di sbarco non si può intendere una nave traghetto messa a disposizione per contenere i naufraghi per un lungo periodo di quarantena, anche per i rischi di contagio che un ambiente così ristretto e privo di aria naturale potrebbe determinare, nella malaugurata ipotesi in cui anche uno solo dei naufraghi risultasse positivo al Covid-19.
La giustificazione del decreto interministeriale consistente nella motivazione che “le attività assistenziali e di soccorso da attuarsi nel “porto sicuro” possono essere assicurate dal paese di cui le unità navali battono bandera laddove abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in assenza del coordinamento del IMRCC Roma”, si risolve in una grave reiterazione delle motivazioni sottese alle ordinanze adottate dal precedente ministro dell’interno Salvini contro le navi umanitarie e risulta in contrasto con il diritto internazionale che non consente allo stato nella cui zona SAR si trovi già l’imbarcazione soccorritrice di respingere a tempo indeterminato i naufraghi, trattenuti a bordo contro la loro volontà in condizioni di estremo disagio fisico e psichico. Non è del resto dimostrato o dimostrabile che le imbarcazioni che hanno provveduto a salvare vite in mare abbiano le dotazioni necessarie, in termini di sicurezza, autonomia e viveri per raggiungere il paese di bandiera con il loro “carico umano”. Come non appare possibile, e questo lo ribadisce bene la Corte di cassazione e la giurisprudenza italiana, che le trattative con i governi di altri paesi siano svolte sotto il ricatto del trattenimenti idebito dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice. Un copione triste che abbiamo già visto con le scelte del governo di cui Salvini era ministro dell’interno, e che adesso viene riproposto in versione “emergenza da COVID-19”, in assenza di altri presupposti legali, e potremmo aggiungere morali e politici.
Le altre premesse giustificative del decreto interministeriali si risolvono nel richiamo ai diversi provvedimenti adottati dal governo dopo la dichiarazione dello stato di emergenza COVID 19 il 31 gennaio scorso, per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia, provvedimenti che non sembrano però idonei a sospendere l’applicazione dello stato di diritto e la applicabilità delle norme internazionali in materia di ricerca e soccorso dei naufraghi o delle persone comunque in pericolo (distress) in acque internazionali. Ed appare certamente fuori luogo il richiamo a provvedimenti come il DPCM 11 marzo 2020 con il quale si riducono o si sopprimono “i servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, aereo e marittimo”, o al Decreto interministeriale n. 120 del 17 marzo 2020 con il quale si disciplinano “le misure di ingresso delle persone fisiche in Italia e le relative prescrizioni al fine di evitare la diffusione ed il contagio del COVID-19”. Misure di carattere amministrativo che evidentemente non fondano alcun potere del ministro delle infrastrutture circa la decisione di impedire lo sbarco in un porto italiano soltanto dei naufraghi soccorsi da una nave battente bandiera straniera, atteso che continuano regolarmente gli sbarchi “autonomi” e quelli effettuati con l’assistenza di mezzi della Guardia di finanza. Se vi sono pericoli di carattere epidemiologico non si vede perchè non possono essere affrontati con procedure di quarantena e di accertamenti sanitari, come peraltro è avvenuto fino a poche settimane nel caso di soccorsi operati da altre navi umanitarie, da ultimo la Ocean Viking di SOS Mediterraneé.
Dopo le premesse, peraltro prive di efficacia normativa, il Decreto interministeriale del 7 aprile scorso stabilisce nel suo articolo 1 (ambito di applicazione) che “per l’intero periodo di stato di emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of safety (“liogo sicuro”), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”. La portata normativa del provvedimento non va oltre, perchè l’altro articolo del provvedimento, l’art. 2 (Disposizioni generali) si limita a stabilire i termini temporali di efficacia, che scatta “dalla data della sua adozione”, e che dunque non può avere effetto retroattivo, e “per la durata del periodo di emergenza sanitaria di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020”.
Risulta così evidente come si è voluto in questo modo rafforzare la valenza operativa del decreto sicurezza bis del 2018 costituendo i presupposti per consentire al ministero dell’interno di negare, soltanto alle navi straniere, e dunque alle ONG che non battono bandiera italiana, la indicazione di un porto sicuro di sbarco, che invece la Giurisprudenza riconosce come obbligo delle autorità marittime e di governo dello stato. La sostituzione improvvisa del prefetto di Agrigento lascia presagire un nuovo divieto di ingresso in linea con gli indirizzi politici del governo e con il decreto interministeriale. Si vuole al contempo attribuire rilevanza penale al comportamento dei comandanti delle navi umanitarie che dopo avere soccorso naufraghi in acque internazionali hanno il diritto-dovere di sbarcarli in un porto sicuro (place of safety-POS), definizione che è data dal diritto internazionale del mare, e dalle norme di rango legislativo che lo recepiscono in Italia, e che non può essere artificiosamente stravolta da un provvedimento amministrativo di natura discrezionale, seppure motivato dallo stato di emergenza proclamato il 31 gennaio scorso per il diffondersi del COVID-19.
Il decreto interministeriale tradisce la sua vera finalità, che mira a costituire ulteriori premesse per iniziative dei prefetti e della magistratura che portino al sequestro delle navi umanitarie ed alle incriminazioni dei comandanti e dei capi missione, quando nell’individuare i casi di soccorso che sarebbero compresi nel divieto di sbarco in un porto italiano, atteso che l’Italia intera non potrebbe garantire un place of safety (POS), un porto di sbarco sicuro, fa riferimento esclusivamente ” ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”. Sarebbe dunque il “coordinamento” delle attività SAR da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana, ormai indirizzata dalle scelte del ministro dell’interno, che distinguerebbe i soccorsi per i quali i porti italiani resterebbero aperti, pure in presenza della panedmia da COVID-19, da quelli per i quali l’Italia non sarebbe in grado di garantire porti sicuri di sbarco, quelli operati dalle ONG e comunque da navi battenti bandiera straniera, al di fuori della zona SAR italiana e senza il “coordinamento” delle autorità italiane.
Si tratta di un atto comunque soggetto ad un sindacato giurisdizionale che dovrà accertare il rispetto del principio di uguaglianza, del principio di legalità, ed i requisiti di merito del provvedimento. Si dovrà valutare in sostanza se vietare il passaggio inoffensivo nelle acque territoriali, e lo sbarco in un porto sicuro in Italia, costituisca un mezzo appropriato per contrastare la diffusione dell’epidemia nel nostro paese, o non costituisca piuttosto, come già verificato dopo il cd. decreto sicurezza bis dello scorso, e prima ancora con le “Direttive” dell’ex ministro dell’interno Salvini, un esercizio abusivo della discrezionalità amministrativa, oltre che per motivi di propaganda, all’evidente fine di ottenere un risultato politico nella trattativa con gli altri partner europei, con la chiamata in causa dello stato di bandiera della nave soccorritrice.
13.3 . Si può ritenere che tra i “principi generali” dell’ordinamento italiano, che non sono derogabili in base alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo, ricorra, oltre al principio di non refoulement, affermato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il dovere primario di salvaguardare la vita umana in mare e di realizzare operazioni di ricerca e soccorso in conformità alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, anche per l’espresso richiamo che si fa a tali Convenzioni negli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, il diritto alla salute ed il divieto di respingimenti collettivi costituiscono limiti alla sovranità dello Stato ed ai poteri discrezionali dei singoli ministri o dell’intero governo. Lo affermano in più occasioni i Tribunali internazionali, come nei casi Hirsi, Sharifi e Khlaifia decisi dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con tre sentenze di condanna nei confronti dell’Italia.
L’articolo 15 del capitolo V della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) 1974 fissa le regole di base in ordine alle operazioni di ricerca e soccorso. Secondo questa norma, “Ciascun Governo contraente si impegna ad assicurare che tutte le necessarie disposizioni siano prese per la sorveglianza e per il soccorso delle persone in pericolo in mare in prossimità delle loro coste»; ed inoltre: “Ciascun Governo contraente si impegna a fornire notizie concernenti i mezzi di salvataggio di cui dispone e gli eventuali progetti di modifica di tali mezzi”.
Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso alla Convenzione SAR del 1979 sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare defatiganti trattative tra stati al fine della ripartizione dei naufraghi. Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona in pericolo.
Le parti sono invitate a coordinare i loro servizi e mezzi nazionali, creando dei centri e sottocentri di coordinamento (RCC e RSC), questi ultimi dotati di mezzi per telecomunicazioni con le unità navali ed aeree e con gli RCC e RSC adiacenti. Il terzo capitolo dell’Annesso alla Convenzione SAR prevede il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso di ciascun Paese con quelle dei Paesi vicini e le procedure per le autorizzazioni da concedere
.per l’accesso di unità navali e/o aeree di soccorso di tali Paesi nelle o al di sopra delle acque territoriali nazionali. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio. Il quinto capitolo dell’Annesso definisce le fasi di emergenza per gli scopi operativi che caratterizzano un’operazione SAR, dalla ricezione di un messaggio di soccorso (allertamento) fino alla fase di intervento dei mezzi e loro coordinamento (fase di soccorso). secondo quanto previsto dal Paragrafo 5.1.9, “Ciascuna unità che è a conoscenza di un caso di pericolo adotta immediatamente delle misure a seconda delle sue possibilità al fi ne di prestare assistenza o dà l’allarme alle altre unità in grado di prestare assistenza ed avverte il centro di coordinamento di salvataggio o il centro secondario di salvataggio della zona in cui siè verificato il caso di pericolo”.
Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar,o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, Appare poi del tutto fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile,attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo. Se si ritenesse come paese competente per la indicazione del porto di sbarco sicuro quello di bandiera della nave soccorritrice, l’intero sistema del soccorso in mare risulterebbe inficiato, e non si può prevedere che tale regola operi esclusivamente a danno delle navi delle Organizzazioni non governative, e non anche per i soccorsi operati dalle navi commerciali, o da quelle militari, incluse quelle delle missione Eunavfor MED denominata IRINI, che infatti sbarcheranno in Grecia tutti i naufraghi che soccorreranno nell’ambito della loro attività.
La formulazione del decreto interministeriale recentemente adottato dl governo italiano con il “concerto” di ben quattro ministri, contiene ancora un erroneo richiamo ad una singola norma di una Convenzione internazionale, l’art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS (non quindi alla Convenzione di Amburgo, come riportano i media incessantemente)). Secondo questa previsione lo stato potrebbe vietare l’ingresso di una nave nelle acque territoriali qualificando il suo passaggio come “non inoffensivo”. Risulta non inoffensivo il passaggio nel mare territoriale quando è “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in attività come ” il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. La previsione costituisce una deroga al principio della libertà di navigazione affermata dall’art. 19 della Convenzione UNCLOS al primo comma. Come norma in deroga non può essere estesa a casi diversi da quelli espressamente previsti per la sua applicazione. La sovranità degli stati non si può tradurre in una applicazione discrezionale delle Convenzioni internazionali che hanno sottoscritto e ratificato.
Questo stesso richiamo non può essere comunque utilizzato in modo isolato, al limite della strumentalizzazione, perché nei casi di soccorso in alto mare si verrebbe a stravolgere il fondamentale principio (art. 98 della Convenzione UNCLOS) che obbliga gli stati a prestare attività di assistenza e di coordinamento a qualsiasi imbarcazione in mare che abbia operato attività di ricerca e salvataggio, a prescindere dal tipo di imbarcazione, dalla bandiera che batte, dallo stato giuridico dei naufraghi e dalla natura civile o militare dei mezzi navali che hanno partecipato alle operazione di soccorso.
In base all’art. 19 comma 2 della Convenzione Unclos, ” il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. La disposizione ripresa dal decreto sicurezza bis avrebbe natura “meramente esemplificativa”, ma la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Non trova alcuna giustificazione, nè fondamento nelle Convenzioni internazionali, una limitazione all’ingresso nelle acque territoriali per le sole navi di soccorso che battono bandiera straniera. Navi che non violano le leggi sull’immigrazione ma adempiono ad obblighi di salvataggio che gli stati omettono da tempo.
A prescindere dallo stato di bandiera, quando una nave carica di persone soccorse in acque internazionali si trovi al limite o all’interno della cd. “zona contigua” alle acque territoriali, ricade sotto la giurisdizione dello stato, sia per l’adozione delle misure di carattere penale ed amministrativo, sia in modo corrispondente per quanto riguarda gli obblighi di sbarco e di assistenza dei naufraghi, con particolare riferimento ai minori ed ai soggetti più vulnerabili. Obblighi di assistenza che non potranno essere assolti inviando soltanto scorte di vestiario e rifornimenti di viveri o provvedendo alle esigenze sanitarie più urgenti, senza trovare una soluzione immediata di sbarco a terra.
Sulla base delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, secondo quanto osservano sinteticamente Irini Papanicolopulu e Giulia Baj ,” l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli Stati sia i comandanti di navi . Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo a una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare”.
Occorre che il governo nazionale, e poi il governo regionale, adottino un Piano sbarchi per dare soluzioni immediate all’accoglienza in quarantena dei numerosi migranti che continuano a sbarcare autonomamente sul territorio siciliano, piuttosto che accanirsi nel respingimento delle poche navi umanitarie che ancora soccorrono naufraghi nel Mediterraneo centrale.
14.
Omissione di soccorso istituzionale. I più recenti accordi segreti tra Malta e la guardia costiera”libica”. Se questa è Europa.
Posted on23 Febbraio 2020AuthorFulvio Vassallo Paleologo
Le Organizzazioni non governative avevano già denunciato lo scorso anno gli accordi segreti tra Malta e la sedicente guardia costiera “libica”, dopo che motovedette partite da Tripoli, probabilmente le stesse assistite e coordinate dalla centrale operativa della missione italiana NAURAS presente nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah), avevano intercettato un barcone carico di nauftaghi sconfinando nella zona SAR (Search and Rescue) maltese.
Adesso da Malta arrivano conferme molto circostanziate sulla portata dei protocolli di collaborazione tra le autorità maltesi e la sedicente guardia costiera “libica”. Un consigliere dell’ex primo ministro maltese, nel corso della sua testimonianza davanti alla Commissione d’inchiesta sull’attentato che ha causato la morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, ha dichiarato:
“Il mio intervento ha impedito ai migranti di entrare a Malta. Mi coordinavo con le forze armate di Malta e la guardia costiera libica. Quando sapevamo dove erano le barche, informavamo le autorità libiche di salvare queste persone. L’ho fatto fino a quando non mi sono dimesso ”.
Chi sostiene di avere salvato vite, collaborando con le motovedette libiche, in reaaltà ha riconsegnato persone, donne e banbini compresi, ad autorità colluse con i trafficanti e incapaci di garantire la vita e la dignità dei naufraghi, privati del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro. Da anni le Nazioni Unite avvertono che la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco.
Questi accordi, confermati anche dall’agenzia Reuters, si inserivano nel quadro delle politiche europee di supporto (law enforcement) alle milizie libiche per bloccare quella che si definisce soltanto come “immigrazione irregolare”, e trovavano un precedente importante, più manifesto, negli accordi stipulati il 2 febbraio 2017 dal governo italiano con il governo di Tripoli, poi ratificati il giorno successivo dalla Conferenza di Malta. Tra le priorità individuate dagli accordi di Malta volte a contenere il flusso dei migranti irregolari dalla Libia verso l’Italia. e confermate ancora pochi giorni fa, la formazione, equipaggiamento e supporto per la guardia costiera nazionale libica e altre agenzie pertinenti .
Un importante fonte giornalistica inglese ha documentato come dietro gli accordi stipulati da Malta e dall’Italia con la guardia costiera “libica” ci sia ancora oggi l’Unione Europea. Una notizia che non sorprende, se si considerano i fondi trasferiti agli stati in questione per supportare le milizie libiche e la guardia costiera da cui promanano, e soprattutto la traformazione delle missioni Frontex ed il ritiro di tutti gli assetti navali della missione EUNAVFOR MED – SOPHIA, sulla quale non ci si ritrova d’accordo neppure per imporre l’embargo di armi ai gruppi armati che si contendono la Libia. La sorveglianza aerea ancora garantita dall’Unione europea serve soltanto per aumentare le intercettazioni, dunque i respingimenti, delegati ai libici, ma risulta meno efficace per garantire efficaci azioni di ricerca al fine di salvare vite e portare le persone verso un porto sicuro di sbarco.
Secondo un documento riservato del Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS) al Comitato dei rappresentanti permanenti ( COREPER) del 12 febbraio scorso riportato dal Morning Star “ l’Unione Europea continuerà a sostenere la Guardia costiera libica”. Il documento riservato pubblicato dal giornale inglese afferma infatti che “il rafforzamento delle capacità e l’addestramento della guardia costiera e della marina libiche rimane invariato come compito di supporto”, mentre poco dopo, il Commissario europeo Borrell ha confermato in una conferenza stampa che le “nuove” navi dell’Operazione di sorveglianza attiva dell’UE sarebbero state ritirate se ci fossero prove del loro ruolo di “fattore di attrazione” per i migranti, confermando quindi l’intenzione di lasciare le navi delle ONG e qualche mezzo commerciale, come unici assetti navali di soccorso nel Mediterraneo centrale.
Anche se non si è ancora raggiunta nessuna intesa sulla prosecuzione dell’operazione EUNAVFOR MED (SOPHIA), la posizione politica comune da parte del Consiglio dell’Unione Europea sembra dare copertura a quegli accordi bilaterali tra Italia, Malta e la guardia costiera “libica” che hanno prodotto la rarefazione dei mezzi di soccorso militari e privati nel Mediterraneo centrale, per lasciare spazi di intervento sempre più ampi alle motovedette delle milizie libiche, che nello scorso anno sono riuscite ad intercettare più della metà delle persone che comunque, a caro prezzo, riescono ancora ad allontanarsi dalle coste libiche, andando incontro ad un destino di morte. Come si è verificato atttorno al 10 febbraio con la scomparsa di un gommone carico di 91 persone, scomparso dopo il primo avvistamento, senza che si avesse notizia di un qualsiasi intervento di soccorso o di intercettazione, anche da parte dei libici.
Sembra che nelle ultime settimane la situazione sul terreno in Libia e gli attacchi portati dalle milizie del generale Haftar ai centri di detenzione dei migranti, che il governo italiano continua definire come “centri di accoglienza”, abbiano costretto la guardia costiera “libica” a ridurre drasticamente la sua operatività, al punto che in alcune occasioni avrebbe persino contattato qualche ONG per portare a compimento azioni di soccorso in quella zona SAR “libica” che, se prima era già una finzione, adesso si è completamente dissolta, a fronte del conflitto civile che ha ormai raggiunto anche il porto di Tripoli. Come riferisce il Times of Malta, “fonti sul campo hanno affermato che la mossa iniziale per arrestare le intercettazioni libiche sembra essere collegata a una crisi del sistema di detenzione che è stata esasperata dall’escalation del conflitto dall’aprile 2019, a seguito dell’avanzata di Tripoli del sud da parte delle forze della Libia orientale sotto la comando del generale Khalifa Haftar”.
Continuano intanto ad essere pubblicati ( e ignorati dai media italiani) i documenti che confermano come sulla base di accordi bilaterali , tanto dall’Italia, quanto da Malta, si sia conferita da tempo una ampia delega alla sedicente guardia costiera “libica” per la intercettazione dei barconi, carichi di persone in fuga dalla Libia, anche quando si trovino già in acque internazionali, anche oltre i limiti della cd. zona SAR “libica”. Emerge così un sistema integrato di respingimento collettivo, che si camuffa dietro gli obblighi di coordinamento tra stati responsabili di zone SAR confinanti, dettati dalle Convnzioni internazionali di diritto del mare. Le prove del coordinamento italiano non mancano, e sono emerse proprio nei procedimenti penali intentati contro le ONG. Prove che rimangono, anche se i relativi procedimenti vengono archiviati. Rimane da comprendere oggi, dopo che si sono verificati attacchi aerei anche contro il porto di Tripoli, quale sia la residua operatività della misssione italiana NAURAS, presente in quel porto dal 2017, in attuazione del Memorandum d’intesa stipulato il 2 febbraio di quell’anno tra l’Italia ed il governo di Tripoli, per prestare assistenza e garantire coordinamento alla sedicente guardia costiera “libica”.
In questi giorni la stampa maltese dà ampio rilievo alla scoperta di documenti che provano gli accordi intercorsi tra il Governo de La Valletta e la guardia costiera libica, ed al contempo i gravi abusi subiti dai migranti intercettati in acque iternazionali, addirittura nella zona SAR maltese e riportati indietro in Libia, nelle mani degli stessi trafficanti dai quali erano fuggiti a caro prezzo. Una denuncia che si collega alle denunce di collusione tra i trafficanti libici e la sedicente guardia costiera “libica”, documentate alcuni mesi fa da pochi giornalisti coraggiosi e poi rimosse dall’attenzione dell’opinione pubblica, senza che neanche la magistratura riuscisse ad indagare in profondità su questa materia in modo da riaffermare il principio di legalità nei rapporti tra le autorità italiane e quelle libiche. Sembra ormai provato come in realtà gli accordi tra Italia e Malta con la sedicente guardia costiera “libica” siano sotto l’egida dell’Unione Europea e dell’agenzia Frontex. Le menzogne dei libici hanno ormai i giorni contati. Nel tempo potrebero essere accertate anche le responsabilità di politici e di agenti istituzionali italiani ed europei.
Rimangono ancora aperti alcuni procedimenti penali contro rappresentanti delle ONG che non avrebbero obbedito alle indicazioni di abbandonare ai libici i naufraghi individuati in mare o che non hanno potuto trovare nel porto de La Valletta un place of safety(POS), per il diniego del governo maltese, un governo che come emerge adesso dai documenti più recenti, aveva stretto un accordo segreto con la sedicente Guardia costiera “libica”. Se questi processi dureranno ancora, sarà ancora maggiore la quantità di prove che le indagini difensive permetteranno di raccogliere sulle collusioni tra le missioni europee, le autorità italiane e il governo di Tripoli, inclusa la sedicente guardia costiera “libica”.
In una lettera indirizzata al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, inviata lo scorso 13 febbraio, il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa esorta il governo italiano a introdurre nel Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 3 febbraio 2017 maggiori garanzie sui diritti umani. Pur rilevando che sono in corso discussioni per modificare in questo senso alcune parti del Memorandum, il Commissario invita l’Italia a riconoscere le realtà attualmente prevalenti sul terreno in Libia e a “sospendere le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica che comportano il ritorno in Libia di persone intercettate in mare”.
Sembra sempre più difficile dunque, anche dopo il recente intervento della Corte di cassazione sul caso Rackete, che qualcuno riesca a provare un intento elusivo dei comandanti e dei capomissione delle ONG, dopo il soccorso di naufraghi in acque internazionali, diretto ad introdurre in Italia migranti “clandestini”, come ha sostenuto per tutto il periodo del suo mandato di governo il senatore Salvini, e come sembrerebbe emergere in qualche procedimento penale ancora aperto, a Ragusa (Open Arms)ed a Trapani (Iuventa), mentre sono state archiviate la maggior parte delle accuse rivolte contro le ONG in altre sedi giudiziarie.
Di certo, come si è verificato nei confronti dell’Italia, anche gli accordi segreti tra Malta e la sedicente guardia costiera “libica” saranno sottoposti al giudizio della Corte penale internazionale. Quali che siano i risultati ed i tempi, probabilmente assai lunghi, di intervento della Corte, sarà comunque possibile individuare precise responsabilità personali, che potrebbero poi assumere rilievo anche negli ordinamenti interni se le diverse procure intensificheranno i rapporti di collaborazione con la Corte penale internazionale su temi tanto delicati.
Di certo, nel tempo, la politica dei “porti chiusi” non ha ridotto le vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale, se si considera la forte riduzione delle partenze in questi ultimi due anni.
Una responsabilità morale e politica, ormai evidente, anche se ancora non acceratata in sede giudiziaria, che comunque dovrebbe imporre una netta svolta nei rapporti con le diverse autorità che oggi si contendono la Libia, privilegiando gli sforzi per riprendere un processo di riconciliazione nazionale e di rispetto dei diritti umani delle persone migranti. e dei libici tutti. In questa direzione andrebbe interrotta ogni collaborazione con l’attuale guardia costiera “libica”, che ancora oggi fa “sparire” le persone, e rilanciata una missione europea ( meglio se internazionale) di ricerca e soccorso in alto mare, con la cancellazione della finzione della cd. zona SAR “libica”, con l’apertura di canali legali di evacuazione dalla Libia e con la creazione di spazi di sicurezza per la stessa popolazione civile residente, ormai da anni in preda agli scontri tra milizie.
Come osserva l’OIM, “È necessario rinforzare un sistema di ricerca e soccorso in mare, che possa essere di ampio raggio e guidato direttamente dagli Stati. Allo stesso tempo occorre realizzare con urgenza un meccanismo di sbarco veloce e strutturato, che preveda che gli stati del Mediterraneo si prendano uguali responsabilità nell’assicurare un porto sicuro per coloro che sono stati soccorsi. L’impegno delle navi ONG che operano nel Mediterraneo dovrebbe essere riconosciuto e dovrebbe essere messo un termine a ogni limitazione o ritardo nelle operazioni di sbarco”.
Se gli Stati dell’Unione Europea e l’Italia si potranno ancora definire paesi democratici che rispettano i diritti umani, a partire dalla salvaguardia della vita umana in mare e dal diritto di chiedere asilo, si vedrà dall’impegno che sapranno esprimere in questa direzione.
15. Vedere per non salvare: il ruolo di Frontex nel Mediterraneo centrale
Posted on2 Maggio 2020AuthorFulvio Vassallo Paleologo
Non sorprende neppure troppo, a questo punto, il voto del Parlamento europeo che ha respinto una Risoluzione, già abbastanza moderata, presentata dalla Commissione LIBe (Libertà civile) sugli obblighi di soccorso in mare. Il testo di compromesso proposto dalla Commissione LIBE conteneva 18 raccomandazioni agli Stati membri per una maggiore cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio in mare. In particolare il punto 9 del testo richiedeva agli Stati membri di «mantenere i porti aperti alle imbarcazioni delle Ong», mentre il punto 16 chiedeva alla Commissione un impegno a lavorare su un meccanismo di distribuzione dei migranti «equo e sostenibile».
Il voto va inquadrato all’interno della profonda crisi che sta vivendo la nuova Commissione europea prima ancora di insediarsi, dopo che alcuni suoi componenti di spicco sono stati bocciati dall’aula, che ha così evidenziato la debolezza congenita di Ursula Van der Leyen, che non è stata ancora capace di proporre una vera politica alternativa ai partiti sovranisti e populisti in Europa. Il voto negativo sulla mozione proposta dalla Commissione LIBE allontana, comunque lo si interpreti, le prospettive di una modifica del Regolamento Dublino III e danneggia l’Italia perché cancella le prospettive di ricollocazione verso altri paesi UE dei naufraghi soccorsi in mare, tracciate dalla Conferenza di Malta del mese scorso. Lega e Cinque stelle, peraltro, nella passata legislatura, sia pure a parti invertite, la Lega si era astenuta ed i Cinque stelle avevano votato contro, avevano congiuntamente bloccato le proposte di riforma del Regolamento Dublino III.
Da un Unione Europea ch, attraverso il COREPER, quindi a livello di comitato, sta trattando in sede riservata con l’IMO ( Organizzazione marittima internazionale con sede a Londra) sulla base del riconoscimento di una zona SAR libica e del ruolo della sedicente Guardia costiera libica, un Europa che ha ritirato gli assetti navali che prima operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale nell’ambito delle missioni Triton di Frontex e Sophia ( Eunavfor Med), non ci si poteva attendere altro. E’ la stessa Europa che ha valutato positivamente il Memorandum di intesa tra Italia e governo di Tripoli (che neppure rappresenta l’intera Libia) siglato nel febbraio del 2017 (Conferenza di Malta), è la stessa Europa che chiude ogni possibilità di ingresso legale, sia per i richiedenti asilo che per i cd, migranti economici, è la stessa Europa che sta rinforzando la nuova agenzia Frontex, adesso ridenominata Guardia di frontiera e costiera europea, puntando soltanto sull’abbattimento delle garanzie di difesa delle persone dopo l’arrivo ( con le procedure accelerate negli Hotspot) e sull’intensificazione delle operazioni di rimpatrio forzato, con il rafforzamento degli organici dell’agenzia FRONTEX. E’ la stessa Europa che assiste senza intervenire alle stragi in mare nel Mediterraneo, che ha creato ai confini dell’area Schengen nuovi campi di concentramento, che vorrebbe in Africa le piattaforme di sbarco delle persone bloccate in mare e riportate nei paesi di transito in uno stato in preda alla guerra civile, come la Libia. Con queste politiche l’Unione Europea si sta avviando verso il suicidio, a beneficio dei grandi blocchi ( Stati Uniti, Russia, Cina) che ormai controllano il mondo, bloccando le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unte in difesa dei diritti umani, utilizzando per estendere il loro dominio sugli stati più piccoli i partiti sovranisti e populisti.
La mancata approvazione della Risoluzione proposta dalla Commissione Libe del Parlamento europeo, che tentava in qualche modo di fare cessare la criminalizzazione delle operazioni di salvataggio in mare, non rimuove gli obblighi di ricerca e soccorso derivanti dal diritto internazionale in capo ai governi ed alle autorità militari ed amministrative che da questi dipendono. Il voto negativo di Bruxelles non legittima certo i provvedimenti di sequestro che ancora bloccano nei porti siciliani (la Sea Watch, La Mare Jonio e, da due anni a Trapani, la Iuventa) imbarcazioni che potrebbero salvare la vita di migliaia e migliaia di persone. Quel voto rafforza però quei partiti che della “guerra alle ONG” hanno fatto il cavallo di battaglia delle loro campagne elettorali, per nascondere la portata disumanizzante delle loro politiche sociali ed economiche.
13.1. Recenti dichiarazioni del primo ministro maltese Abela respingono le critiche rivolte al suo governo che ha organizzato operazioni di push-back verso la Libia avvalendosi di imbarcazioni private per intercettare i migranti in acque internazionali, e riportarli direttamente a Tripoli, oppure quando questo risulta impossibile per le denunce delle ONG, per detenerli in navi hotspot al largo de La Valletta, dopo che i porti di Malta sono stati dichiarati non sicuri (unsafe), per la crisi del sistema sanitario derivante dalla pandemia del Covid-19.
Secondo quanto dichiarato a The Malta Independent da Abela con riferimento al gommone intercettato dal paschereccio Dar al Salam nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, sarebbe “categorically denied that there was any pushback of any migrants.
“A rescue was carried out; had it not been for the Maltese government which coordinated that rescue then a lot of lives at sea would have been lost, because the EU passed by with a Frontex plane and kept on going”. Quindi Abela aggiunge ” perché l’UE è passata con un aereo Frontex e ha continuato “. Un accusa gravissima che va chiarita nelle sedi opportune, a Malta ed a Bruxelles. E forse anche a Roma.
Secondo il primo ministro maltese, “Malta coordinated the rescue and saw that the migrants were taken to a port which was open; so, there was no pushback; in fact we saved a lot of lives”, he added. “Gafa’s only involvement, he repeated, was not to coordinate the operation but to contact Libyan authorities to facilitate the rescue. “Nothing was paid, nothing was promised”. Una giustificazione che non regge perchè il porto di Tripoli che risultava formalmente “aperto” era stato oggetto di bombardamenti fino a qualche giorno prima, al punto che una nave della missione italiana Nauras, la Gorgona aveva dovuto mollare gli ormeggi nel giorno di Pasquetta, e non poteva certo definitsi come un “porto sicuro di sbarco”, a fronte delle notorie violenze, se non sevizie, inflitte ai naufraghi riportati a terra.
Il governo di Malta ha adottato il provvedimento di “chiusura dei porti” dopo il decreto interministeriale con cui il governo italiano disponeva analoga misura, non nell’interesse delle persone che dovevano sbarcare, ma per le prevalenti ragioni di salute pubblica connesse al diffondersi della pandemia.Come se il COVID 19 potesse sospendere gli obblighi di salvaguardia della vita umana in mare a carico degli stati.
Piuttosto che rafforzare la cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, nel Mediterraneo centrale, nel momento in cui l’aggravamento del conflitto civile libico costringeva un numero crescente di persone alla fuga ( e restituiva spazi alle organizzazioni dei trafficanti), Italia e Malta con la loro decisione di chiusura dei porti e di conseguente disimpegno delle unità statali di soccorso dalle attività SAR in alto mare, hanno condannato all’abbandono in mare centinaia di persone. Ed altre nei prossimi mesi saranno condannate anche a morte per naufragio, se, come sembra, queste politiche si inaspriranno ancora con il coinvolgimento di unità navali semiclandestine, appartenenti a privati che i governi utilizzano per quelle operazioni di respingimento per le quali potrebbero incorrere in pesanti responsabilità internazionali.
Nele sue ultime dichiarazioni il premier maltese Abela richiama il ruolo di monitoraggio che Frontex con la missione Themis svolge nel Mediterraneo centrale dal 2018, solo con aerei però, dopo che, alla fine della precedente operazione Triton (2015-2018) la maggior parte degli assetti navali offerti dai singoli stati membri erano stati ritirati o dislocati lontano dalle rotte battute dai migranti che ancora riuscivano a partire dalla Tripolitania. Si riteneva che la presenza delle navi europee costituisse un fattore di attrazione (pull factor) e rendesse più facili le attività dei trafficanti.
Già a partire dal 2017, proprio da Frontex, era partita una campagna di aggressione e denigrazione nei confronti delle Organizzazioni non governative che operavano con navi umanitarie per supplire alla carenza di mezzi statali, progressivamente ridotti, nell’espletamento delle attività di ricerca e salvataggio sulla “rotta libica”.
Nel tempo la teoria del cd. pull factor ( fattore di attrazione), diffusa in modo massiccio anche da politici e giornalisti più attenti al vantaggio elettorale che alla vita delle persone, apriva la strada alla criminalizzazione delle ONG ed a una serie di processi che oggi, seppure conclusi nella maggior parte dei casi con archiviazioni, salvo che a Ragusa ( Open Arms), Agrigento (Sea Watch) e Trapani (Iuventa), hanno tuttavia spostato l’attenzione e il giudizio negativo della popolazione su chi salvava vite in mare e non su chi, con le proprie scelte politiche od operative, quelle vite metteva a rischio. Anche a Malta, come in Sicilia, diversi processi bloccavano le navi delle ONG e diminuivano in modo sostanziale le possibilità di soccorso in alto mare, che le navi commerciali ed i pescherecci si rifiutavano di assolvere anche quando si trovavano vicini ai barconi carichi di disperati in fuga dalla Libia.
Dal 2018 con la missione Themis l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex, su indirizzo del Consiglio Europeo, stabiliva che i porti di sbarco dei naufraghi soccorsi nel Mediteraneo centrale sarebbero stati anche in paesi diversi dall’Italia e comunque nel luogo più vicino ai soccorsi. Una regola che non sempre, nella prassi applicata, si è tradotta nel rispetto delle norme sancite dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che impongono lo sbarco più rapido in un porto sicuro che deve essere indicato dalle autorità che hanno coordinato le attività SAR, o che dopo essere state informate dell’evento di soccorso, sono comunque intervenute con loro mezzi, anche al di fuori della propria area di competenza.
Per le missioni Frontex, inoltre, dal 2018 si prevedevano due nuove aree di pattugliamento: una ad est, tra Turchia, Grecia e Albania e una ad ovest tra Tunisia e Algeria. In questo modo, con la riduzione degli assetti navali, si sguarnivano le zone SAR nel Mediterraneo centrale, con il riconoscimento di una vasta area di responsabilità alle autorità di Tripoli. Secondo Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex, Themis avrebbe dovuto essere “una missione che contribuirà a fronteggiare e contrastare non solo l’immigrazione clandestina, ma anche il traffico di droga, il contrabbando e l’eventuale arrivo di terroristi”. Sotto gli occhi di tutti, ormai, lo scarto tra i propositi, le risorse impiegate ed i risultati conseguiti. Mentre l’area operativa di Triton si estendeva a circa 30 miglia ed oltre dalla costa italiana, ma nel 2015 arrivava fino a 30 miglia dalla costa libica, le navi di Themis in genere non pattugliavano più di 24 miglia dalle coste italiane, e poi venivano ritirate dai paesi membri.
La rimodulazione della missione di Frontex Themis, con il mantenimento dei soli assetti aerei, a partire dal 2018 e la “guerra” mediatica, giudiziaria e amministrativa innescata contro i soccorsi umanitari operati dalle ONG, scaricavano una crescente pressione migratoria su Malta, e sulle coste più esposte della penisola italiana, su Lampedusa soprattutto, e quindi più recentemente sulle coste meridionali della Sicilia, con un incremento dei cd. sbarchi autonomi.
Il premier maltese denuncia adesso la mancanza di solidarietà dell’Unione Europea che non condivide gli impegni di redistribuzione dei naufraghi che sembravano derivare dalla bozza preliminare del cd. Accordo di Malta, stipulato nel settembre dello scorso anno. Ma si rifiuta di applicare il medesimo principio di solidarietà quando si tratta, se non di chiedere l’intervento delle motovedette italiane che rimangono ferme in porto per ordini superiori che ne limitano l’operatività al di fuori delle acque territoriali, quantomeno di inviare mezzi di salvataggio maltesi di AFM ( le forze armate maltesi) e di approntare soluzioni di prima accoglienza in linea con le Direttive dell’Unione Europea.
Come risulta dai dispacci via Twitter di Alarmphone, le autorità italiane ricevono tutte le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà e vengono coinvolte nel monitoraggio dei barconi da soccorrere, come si è verificato da ultimo in occasione del soccorso operato 30 miglia a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, nel quale perdevano la vita 12 naufraghi, ma non inviano mezzi navali in acque internazionali, come invece avveniva fino al 2018. Al punto che Malta, che a sua volta dichiara di non avere motovedette disponibili per l’emergenza sanitaria in corso, affida i soccorsi ad una navetta privata, senza segni di riconoscimento, che si camuffa da peschereccio. Mentre in realtà sembra specificamente destinata ad attività illecite di push back con nomi e bandiere sempre diversi, al fine di collaborare con la guardia costiera libica per i respingimenti collettivi vietati dalle Convenzioni internazionali. Una collaborazione che le autorità maltesi giustificano ancora oggi, in nome dell’emergenza COVID 19, ma che dura da tempo, con un paese terzo in guerra che non garantisce il rispetto dei diritti umani, una cooperazione operativa mediata da oscuri personaggi, che rimarrebbe interdetta dalle indicazioni delle Nazioni Unite (UNHCR). Una collaborazione che deriva direttamente dagli accordi bilaterali stipulati da Malta con il governo di Tripoli, sulla scorta, ancora una volta, degli accordi stipulati dal governo di Roma nel febbraio del 2017 con le autorità di Tripoli.
Come ha dichiarato Carola Rackete, “t’s not only about Malta. They do this with the acceptance of the EU, which has since years supported illegal push backs to Libya by Libyan actors. EU Governments must be prosecuted for these crimes, bc they are responsible for death and suffering of people returned to Libya”.. Dopo il richiamo del premier maltese alle attività di tracciamento degli aerei europei, che avvistano e poi vanno via, i vertici dell’agenzia FRONTEX non possono limitarsi ad affermare che dopo i primi avvistamenti la responsabilità dei soccorsi incombe sotanto ai singoli stati che dispongono di mezzi navali e sono competenti in base alla distribuzione delle zone SAR ( ricerca e salvataggio) riconosciuta dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare delle Nazioni Unite).
Questa affermazione potrebbe sostenersi se si basasse su un rigoroso rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio imposti dalle Convenzioni internazionali agli stati. Ma così non è, come è confermato dall’ultimo respingimento illegale operato dai maltesi verso la Libia. Nel 2018, all’avvio dell’operazione Themis, la portavoce di Frontex, Isabella Cooper, dichiarava all’agenzia Reuters: “continueremo a seguire la legge marittima internazionale che impone di portare le persone recuperate nel posto sicuro più vicino”. Che cosa è cambiato oggi ? Frontex può ignorare la sorte che attende i naufraghi intercettati dai libici o respinti dai maltesi grazie alle sue attività di tracciamento aereo ?
Quando gli stati ritardano gli interventi di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali o affidano le operazioni di soccorso ad imbarcazioni private che poi effettuano push back illegali in Libia, tutto questo non può avvenire impunemente sotto gli occhi dei militari che conducono le attività di tracciamento dagli aerei di Frontex impegnati nel Mediterraneo centrale. Ed ancora più grave sarebbe se gli assetti aerei di Frontex collaborassero con la sedicente guardia costiera “libica”, per orientare le motovedette sulle imbarcazioni avvistate in mare in evidente situazione di distress, per il sovraccarico e la mancanza di mezzi di sicurezza e di rifornimenti. Ancora oggi i libici hanno ripreso in alto mare una imbarcazione carica di migranti e la hanno ricondotta nel porto di Zuwara come informa con un tweet ( non si va oltre) l’OIM Libia.
Il rappresentante dell”UNHCR per il Mediterraneo centrale Vincent Cochetel ha criticato il ritardo negli interventi di ricerca e soccorso operati a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile. “Questa barca non avrebbe mai dovuto essere lasciata alla deriva”, ha scritto Vincent Cochetel in un tweet.“La perdita di vite avrebbe potuto essere evitata. Coloro che considerano la Libia un porto sicuro dovrebbero visitare i sopravvissuti nel terribile centro di detenzione in cui si trovano. Nessuno può onestamente ignorare oggi a quale” salvataggio “porta la Guardia costiera libica”.
Frontex è estranea alle intercettazioni operate dai libici o vi collabora attivamente ? Negli scorsi anni era emersa in Italia, anche in sede giudiziaria, una forte sinergia tra la sedicente Guardia costiera libica, le navi della missione italiana Nauras ( di Mare Sicuro) presente a Tripoli e la Centrale di coordinamento di Roma della Guardia costiera (IMRCC), anche con comunicazioni dirette, in occasione del blocco e della riconduzione in libia di imbarcazioni cariche di migranti. Non risulta che tale collaborazione, derivante dal Memorandum tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017, si sia oggi interrotta, e Frontex non è certamente estranea alle attività di contrasto coordinate dagli stati previste dal Memorandum Italia-Libia.
Le testimonianze dei naufraghi intercettaiti in acque internazionali da motovedette libiche dopo essere stati individuati da aerei di Frontex in perlustrazione sono inequivocabili, sia sulla presenza degli assetti aerei europei sulle loro teste mentre i libici li riportavano indietro, che sulle torture e sugli abusi subiti dopo lo sbarco a terra. .
I Regolamenti Frontex n. 656 del 2014 e n. 1624 del 2016, integrati dalle decisioni del Consiglio europeo dello scorso anno non possono derogare quegli obblighi di salvaguardia della vita umana in mare e dei diritti umani delle persone migranti che i Regolamenti europei richiamano espressamente, anche se nella prassi operativi cedono spesso alle sigenze di law enforcement, consistenti nel contrasto di quelle che si definiscono ancora migrazioni “illegali”, ma che in realtà rappresentano le uniche modalità di fuga dei migranti intrappolati nel conflitto libico e ridotti a merce di scambio tra le milizie. L’analisi rischi 2020 dell’agenzia Frontex, pur dando notizia del rischio contagi da COVID-19, rimane nel solco delle logiche di esternalizzazionene di law enforcement contro l’immigrazione “illegale” adottate negli anni precedenti. Non si prevede, di fronte alla imminente chiusura delle frontiere marittime, alcun specifico intervento di ricerca e salvataggio o di garanzia dei diritti umani che vada oltre le esigenze di contenimento e di repressione proprie dell’agenzia, affidate da ultimo soltanto ad assetti aerei.
L’Agenzia Frontex si è distinta da anni per la sua opacità, oltre che per la totale autonomia, anche nei rapporti con gli stati terzi, al fine di favorire rimpatri e respingimenti. Sarebbe adesso tempo che i competenti organi della giustizia internazionale e dell’Unione Europea chiedessero conto all’agenzia delle sue attività di monitoraggio nel Mediterraneo centrale e del grado di collaborazione che garantisce alle autorità maltesi, italiane e libiche nelle operazioni di respingimento e soccorso che vengono realizzate sotto gli occhi degli agenti europei, anche quando sono affidate a navi private prive di bandiera e di segni identificativi.
Proprio per la situazione di emergenza che si è determinata, anche in mare, a seguito del COVID-19, per effetto della chiusura dei porti alle navi che hanno soccorso naufraghi nel Mediterraneo centrale, sarebbe essenziale che l’Unione Europea, o almeno alcuni paesi che operino nell’ambito della cd. cooperazione rafforzata, si dotino di un piano europeo per gli sbarchi, che sono e resteranno su numeri ben più ridotti rispetto agli anni dal 2014 al 2017. Occorre che l’Unione europea sospenda il Regolamento Dublino e programmi il ritorno dei mezzi di soccorso statali, delle guardie costiere, in particolare, rispetto ai quali le navi umanitarie delle ONG, che vanno immediatamente liberate dalle minacce di processo e dagli ostacoli burocratici, possono avere un ruolo complementare, ma non sostitutivo. La missione navale Eunavfor Med IRINI va rimodulata ed ubicata nelle acque del Mediterraneo centrale, accrescendo la mission del soccorso in mare, oggi residuale, senza distanziarsi dalle rotte più battute dai gommoni che partono dalla Libia.
In questo quadro la collaborazione di Frontex e di Eunavfor Med con gli stati membri, e con i paesi terzi, dovrà garantire il rispetto rigoroso delle Convenzioni internazionali che i Regolamenti europei n.656 del 2014 e n.1624 del 2016 richiamano espressamente, a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, che vieta il respingimento verso paesi non sicuri ( art. 33).
L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, in suo recentissimo documento chiede “un maggiore coordinamento, solidarietà e condivisione delle responsabilità, in vista dell’aumento dei movimenti di rifugiati e migranti nel Mar Mediterraneo”.
Secondo l’UNHCR,“Nonostante le circostanze estremamente difficili che devono affrontare attualmente molti paesi a causa del COVID-19, la protezione delle vite e dei diritti umani fondamentali deve rimanere in prima linea nel nostro processo decisionale. Il salvataggio in mare è un imperativo umanitario e un obbligo ai sensi del diritto internazionale.
Per l’Agenzia delle Nazioni Unite, “I problemi legittimi di salute pubblica possono essere affrontati attraverso la quarantena, i controlli sanitari e altre misure. Tuttavia, il salvataggio ritardato o l’incapacità di sbarcare le barche in pericolo mettono in pericolo la vita. Un porto sicuro per lo sbarco dovrebbe essere fornito senza indugio, insieme a un rapido accordo su come condividere la responsabilità tra gli Stati per l’hosting delle persone una volta raggiunta la sicurezza sulla terra ferma”.
Che impegno garantisce oggi Frontex in questa direzione, tenendo conto che l’Agenzia dovrebbe mantenere un rapporto di interlocuzione diretta con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ?
. Come sono stati impiegati i fondi sempre più ingenti destinati a Frontex, adesso ridefinita come Guardia di frontiera e costiera europea, che sono stati aumentati anno dopo anno? Come si stanno dispiegando oggi i mezzi della Guardia Costiera e Polizia di frontiera europea prevista dal Regolamento 1624 del 2016, che alcuni definiscono come una Frontex Plus, di cui mantiene la personalità giuridica? In cosa consistono davvero le attività di formazione della Guardia costiera libica condotte da Frontex a bordo delle navi di Eunavfor Med e quali risvolti operativi hanno ? Quale è oggi il livello effettivo di collaborazione tra gli assetti aerei di Frontex e la sedicente Guardia costiera “libica”? Dove sono finite le 11 navi di Frontex Triton che facevano parte della missione nel Mediterraneo centrale nel 2017 ?
Anche se Frontex e le autorità italiane ritengono di non dovere chiarire le modalità con le quali nel Mediterraneo centrale avviene il tracciamento aereo delle imbarcazioni che salpano dalla Libia, con il loro carico di disperazione, ed addirittura si cerca di oscurare i tracciati di monitoraggio, ci saranno tempi e modi, a livello europeo e nazionale, per stabilire le responsabilità dell’agenzia e degli stati con i quali collabora. Se non sarà il Consiglio ad imporlo, ciascun membro del Parlamento europeo sarà moralmente impegnato a verificare che le attività di una agenzia dell’Unione Europea come Frontex, seppure dotata di autonoma personalità giuridica, rimangano nei limiti del mandato e non si rivelino funzionali ad operazioni illegali di push back. Sulle quali dovrebbe intervenire anche la magistratura, quando vanno perdute in mare vite di persone, di uomini, donne e bambini, in oerazioni SAR che comunque vedono coinvolte a vario titolo le autorità di coordinamento di stati diversi. Sembra che non ci siano più neppure scafisti da arrestare, forse perchè nei processi, come avvenuto in passato, potrebbero venire fuori circostanze imbarazzanti per i governi.
Per lo stesso motivo vanno abrogate le misure amministrative, come le Ordinanze della Protezione civile, che in Italia hanno imposto divieti di sbarco, utilizzando in modo strumentale la qualificazione dei porti come “non sicuri”. Normative che sono in contrasto con le Convenzioni internazionali che forniscono la nozione di “place of safety” per i naufraghi e non invece, con riguardo alla sicurezza sanitaria dei cittadini dei paesi di ingresso. Non si vede davvero, anche nel momento attuale, in che modo la salute pubblica possa essere minacciata da un numero tanto esiguo di persone, soccorse in mare sul punto di fare naufragio, da sottoporre comunque agli opportuni protocolli sanitari. Di tutti i naufraghi finora soccorsi a sud di Lampedusa e sbarcati in Italia non risulta un solo caso di accertata positività al virus Covid 19.
La rilocazione dei naufraghi in altri paesi europei non può essere la condizione, quasi un ricatto, per consentire il loro sbarco a terra in un porto sicuro, come purtroppo si sta verificando ancora oggi, dietro la giustificazione dell’emergenza dei sistemi sanitari nazionali derivante dal COVID 19. Una emergenza che però può essere fatta valere da tutti i paesi europei. Ed allora che fine faranno i naufraghi soccorsi in acque internazionali, se non faranno naufragio o se non saranno riconsegnati ai libici, saranno condannati ad un limbo interminabile a bordo di navi hotspot ?
Lunedì 27 aprile di pomeriggio, in Commissione Libe al Parlamento europeo. Discutevano di come intervenire in Libia e continuare a finanziare la sedicente Guardia costiera “libica” ai tempi del Covid 19, mentre in tutto il paese infuria una guerra civile che e’ alimentata da Turchia e da Egitto in prima battuta, con il concorso, da entrambe le parti, di tutte le principali potenze mondiali. Nel Mediterraneo centrale, intanto, si continua a morire per abbandono in mare ed omissione di soccorso. Gli stati vengono sistematicamente meno agli obblighi di coirdinamento e soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali, ma Frontex preferisce fornire dati fuorvianti, come dare i numeri in termini di aumento percentuale (al 400 per cento) senza indicare i numeri assoluti, sempre bassissimi. Poche centinaia di persone al mese riescono ad arrivare in Europa dopo essere fuggiti dai lager libici. Ma ogni argomento e’ buono per attaccare le Ong e chi cerca di salvare vite in mare.
NOTA
Lo stato di emergenza sanitaria e la chiusura dei porti: sommersi e salvati
di Alessandra Algostino
ordinario di diritto costituzionale, Università di Torino
16. Le indagini del Tribunale Penale internazionale sui soccorsi nel mediterraneo centrale e sulla Guardia costiera “libica”
Come riferisce il Guardian “L’UE e gli stati membri dovrebbero essere perseguiti per la morte di migliaia di migranti che sono annegati nel Mediterraneo in fuga dalla Libia, secondo una dettagliata relazione legale depositata al Tribunale penale internazionale (CPI).
Il documento di 245 pagine richiede un’azione punitiva sulla politica migratoria dell’UE basata sulla deterrenza a partire dal 2014, che presumibilmente “intendeva sacrificare la vita dei migranti in difficoltà in mare, con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. I due principali autori del rapporto sono Juan Branco, che ha lavorato in passato alla ICC e al ministero degli esteri francese, e Omer Shatz, un avvocato israeliano che insegna all’università Sciences Po di Parigi. L’accusa di “crimini contro l’umanità” si basava anche su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’UE incaricata di proteggere le frontiere esterne dell’UE, che ha avvertito che il passaggio dalla politica di salvataggio italiana di Mare Nostrum avrebbe potuto portare a un ” più alto numero di vittime “, come se le ONG costituissero un vero e proprio “pull factorLa relazione depositata alla Corte Penale internazionale afferma che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi … e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione [in Libia] dove vengono commessi crimini atroci “. Sarebbe davvero tempo che la magistratura italiana tenga conto della documentazione raccolta in queste occasioni, anche al fine di svolgere una autonoma attività di indagine, con i poteri assai più ampi dell’autorità giudiziaria nazionale, al fine di impedire che gli abusi segnalati da anni possano proseguire nella impunità più totale dei responsabili.
Nel sostegno italiano ed europeo alle milizie libiche e nelle attività di coordinamento, supporto e rifornimento della sedicente Guardia costiera “libica” si sono individuati e documentati veri e propri crimini contro l’umanità, di cui si sarebbero resi responsabili i vertici politici nazionali e i dirigenti delle agenzie europee che si sono occupate di “contrasto dell’immigrazione irregolare”. Punto di svolta dei rapporti tra Italia, Unione Europea e Libia ( meglio sarebbe parlare di governo di Tripoli) il Memorandum d’intesa sottoscritto il 2 febbraio 2017, poi recepito il giorno successivo dalla Riunione informale dei capi di stato o di governo europei riuniti a La Valletta (Malta).
I primi ministri italiani Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Il ministro dell’Interno Marco Minniti. E poi Matteo Salvini. Ma anche il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Sono questi i nomi che compaiono nelle 250 pagine che compongono l’esposto presentato alla Corte Penale internazionale dell’Aja dall’esperto di internazionale dell’Istituto di studi politici di Parigi, l’israeliano Omer Shatz, e dal giornalista franco-spagnolo Juan Branco, consigliere di WikiLeaks. L’accusa è di crimini contro l’umanità a seguito delle politiche migratorie dell’UE nel Mediterraneo centrale. In particolare — si legge nella denuncia di cui il Corriere ha avuto il testo in anteprima -«esternalizzando le pratiche di respingimento dei migranti in fuga dalla Libia alla Guardia costiera libica, pur conoscendo le conseguenze letali di queste deportazioni diffuse e sistematiche (40 mila respingimenti in 3 anni), gli agenti italiani e dell’UE si sono resi complici degli atroci crimini commessi contro nei campi di detenzione in Libia». Secondo la denuncia, resa nota dal Corriere della sera, “«Attraverso un complesso mix di atti legislativi, decisioni amministrative e formali accordi, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito alla guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo». Una decisione che avrebbe permesso agli Stati membri di aggirare il diritto marittimo e internazionale.
Il documento chiede alla Corte penale internazionale un’azione punitiva sulla politica migratoria dell’UE basata dopo il 2014 sulla deterrenza, che presumibilmente “intendeva sacrificare la vita dei migranti in difficoltà in mare, con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. L’accusa e’ che funzionari e politici hanno consapevolmente creato la “via di migrazione piu’ letale del mondo”, con la conseguenza che oltre 12.000 persone hanno perso la vita. L’accusa di “crimini contro l’umanita’” si basa in parte su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’UE incaricata di proteggere le frontiere esterne dell’Unione, che, dicono gli avvocati, ha avvertito che il passaggio dalla fortunata politica di salvataggio italiana di Mare Nostrum potrebbe portare a un “piu’ alto numero di vittime “. La denuncia sostiene che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi… e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione (in Libia) dove vengono commessi crimini atroci”. Secondo l’atto di accusa inoltrato al Tribunale penale internazionale, “I funzionari dell’Unione europea e degli Stati membri avevano una conoscenza precoce e piena consapevolezza delle conseguenze letali della loro condotta”.
Secondo lo statuto della Corte Penale internazionale, costituisce crimine contro l’umanità, infatti, l’“attacco (i) esteso o sistematico (ii) diretto contro ogni popolazione civile (iii), realizzato consapevolmente (v) in esecuzione del disegno politico di uno Stato o organizzazione (iv)”. Si può dunque osservare come gli ” accordi in parola potrebbero astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale ex art. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Infatti, ” la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Come ricorda Flavia Pacella, l’8 maggio 2017” la Procuratrice generale della Corte penale internazionale (d’ora in avanti CPI), nel suo tredicesimo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulla situazione in Libia, esprimeva la propria preoccupazione con riferimento alla natura e alla portata dei crimini presumibilmente commessi a danno dei migranti in transito nel Paese nordafricano, dichiarando di valutare l’apertura di un’indagine in merito. Nel successivo rapporto sulla situazione in Libia, risalente all’8 novembre 2017, la Procuratrice ha affermato che, sulla base delle informazioni acquisite dal suo Ufficio, “alcuni crimini presumibilmente commessi contro i migranti in Libia potrebbero rientrare nella competenza della Corte”, confermando in tal modo di considerare l’ipotesi di aprire un’indagine”.
Come ricorda bene Flavia Pacella, “nel caso di specie la Procuratrice generale avrebbe l’onere di provare che i nostri ministri hanno agito con (i) la coscienza e volontà di agevolare le autorità libiche e (ii) con la consapevolezza che attraverso tale cooperazione, nel corso normale degli eventi, si sarebbero verificati o aggravati gli abusi nei confronti dei migranti. In particolare, la Procura dovrebbe sostenere che, sebbene le autorità italiane abbiano agito con il fine primario e astrattamente legittimo di interrompere i flussi migratori in entrata (e non certo di contribuire alla commissione di crimini contro l’umanità nei confronti dei migranti), il fatto che esse abbiano concluso gli accordi con la volontà di fornire un aiuto materiale alle autorità libiche e nella piena consapevolezza che, nel normale corso degli eventi, si sarebbero verificati gravissimi abusi, vuol dire che i ministri italiani hanno accettato il rischio (conosciuto)di agevolare la condotta criminosa degli autori principali. In punto di fatto, non vi può essere dubbio sulla sussistenza della piena volontà da parte delle autorità italiane di agevolare e assistere le controparti libiche, chiaramente desumibile tanto dalla lettera degli accordi quanto dalle dichiarazioni degli stessi Ministri. Similmente, anche con riferimento alla consapevolezza dell’esistenza di un sistema consolidato di abusi, sembra potersi dare una risposta affermativa. Infatti, come sottolineato da Amnesty International, sia prima che dopo la conclusione degli accordi vi sono state numerose pubblicazioni di agenzie di stampa, ONG e organizzazioni internazionali, che hanno svelato le estese e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei migranti in transito in Libia. Dunque, in estrema sintesi, non sembra affatto possibile sostenere che i ministri italiani, al momento della conclusione degli accordi, ignorassero il gravissimo sistema di abusi cui i migranti erano sottoposti, così come sarebbe parimenti infondato ritenere che le nostre autorità non siano a conoscenza degli effetti di tali accordi in termini di un sostanziale aggravamento della condizione dei migranti”. In definitiva, secondo la stessa fonte, “è opportuno sottolineare che la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti”.
d) I tempi e lo stesso esito finale del giudizio davanti alla Corte penale internazionale appaiono assai incerti, ma comunque i poteri di indagine che competono alla Procura presso la Corte stanno permettendo la raccolta di una mole impressionante di documentazione, che oltre alle gravissime violazioni subite dai migranti nei centri di detenzione libici, tema centrale delle indagini, riguarda anche le prassi operative della sedicente “Guardia costiera libica” in mare.
Si tratta di una documentazione che potrebbe essere utilizzata anche in altre sedi giurisdizionali internazionali ed interne. Abbiamo visto in precedenza come gli obblighi internazionali di soccorso siano assunti anche nei Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016, direttamente vincolanti nell’ordinamento interno dei singoli stati. Le violazioni di tali Regolamenti potrebbero essere rilevate dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, anche nell’ipotesi che il singolo giudice nazionale rilevi la contrarierà di una prassi, o di un provvedimento legislativo o amministrativo alle prescrizioni relative agli obblighi di ricerca e soccorso ed alla successiva indicazione di un porto di sbarco sicuro. Potrebbe ipotizzarsi dunque, nell’ambito di procedimenti che riguardino queste materie un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo ed un successivo adeguamento del giudice nazionale alla decisione della stessa Corte.
Sembra sempre più difficile arrivare a condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ormai paralizzata dalle pressioni dei rappresentanti governativi e dall’aggravamento delle formalità procedurali. Il diniego di misure cautelari sui ricorsi proposti in via di urgenza dalla ONG Sea Watch, quando la nave era bloccata per giorni davanti ai porti siciliani senza la indicazione di un porto sicuro di sbarco, sono stati davvero un punto di non ritorno. Ed anche occasione di innesco di una spregiudicata controffensiva del ministero dell’interno che si è avvalso di questo diniego per legittimare i successivi divieti di ingresso nelle acque territoriali imposti alle ONG. Anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, soprattutto con riferimento all’accordo UE-Turchia, sono arrivate risposte insufficienti. E non si vede come sarà possibile fare arrivare ricorsi ai tribunali internazionali e garantire sicurezza ai ricorrenti, nelle attuali condizioni di violenza generalizzata che si riscontrano in Libia.
Occorre garantire certezza sulle zone SAR (Search and Rescue) in Mediterraneo. Le Nazioni Unite non possono tollerare che una loro agenzia dichiari la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco e poi un’altra agenzia come l’IMO continui a riconoscere una zona SAR “libica” che permette lo sbarco di persone che, anche se vengono consegnate al Dipartimento della polizia “libica” contro l’immigrazione (DCIM), sono immediatamente esposte ad abusi di ogni genere.
Le autorità italiane sono titolari di obblighi di soccorso ,e quindi di tempestiva indicazione di un vicino porto sicuro di sbarco, che nessuna trattativa o intesa sopraggiunta a livello internazionale o europeo può condizionare o escludere. Spetta agli organi della giurisdizione garantire l’accertamento delle responsabilità nell’assolvimento di questi obblighi e l’effettivo adempimento dei doveri di solidarietà stabiliti dalla Carta Costituzionale e dalle Convenzioni di diritto del mare. Nel successivo accertamento dei fatti e delle responsabilità le autorità amministrative e le assemblee parlamentari dovranno rispettare il principio di indipendenza della magistratura senza incidere, come si è verificato nel caso Diciotti, sullo svolgimento dell’attività giurisdizionale con decisioni di carattere politico. Se gli strumenti della giurisdizione interna ed internazionale non riusciranno a rendere giustizia alle vittime ed a imporre doveri di soccorso agli stati, occorre rafforzarne la funzione e la indipendenza, ma senza pensare che i tribunali possano offrire tutte le soluzioni che la politica, per effetto del populismo sempre più diffuso, non riesce ad individuare, senza violare i diritti fondamentali della persona ed il principio di non discriminazione. Non basta che alla politica della propaganda sia seguita una linea di governo che in materia di immigrazione si caratterizza per l’assenza quasi totale di comunicazioni ufficiali. Occorre, e ancora non si intravede, soprattutto nei rapporti con i paesi di origine e transito, una svolta politica, una vera discontinuità, per non assecondare la deriva identitaria e nazionalista che anche in Italia rischia di travolgere lo stato di diritto e le residue possibilità di convivenza pacifica e di coesione sociale.
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the Commissioner urges the Maltese government to fully meet its human rights obligations towards migrants, including asylum seekers and refugees, who cross the Mediterranean to reach Europe.
“In accordance with their obligations under international maritime and human rights law, the Maltese authorities should respond effectively and urgently to any situation of distress at sea of which they become aware”, she writes. She also urges them to investigate and address all credible allegations of delay or non-response to any such situation.
Noting that Libya cannot be considered a place of safety, the Commissioner calls on Malta’s government to refrain from any action that would result in the return to and disembarkation in Libya of persons rescued or intercepted at sea. This also includes refraining from issuing instructions to private vessels to disembark rescued persons in Libya, and not handing over responsibility to the Libyan Coast Guard or related entities when the foreseeable consequence of this would be disembarkation in Libya. In addition, she urges the government to ensure full accountability for situations in which action by the Maltese authorities has directly or indirectly led to such returns.
While acknowledging the challenges – now exacerbated by the COVID-19 pandemic – that sea crossings and arrivals have posed for Malta for a considerable time, she reiterates that such challenges cannot negate clear obligations to save lives at sea and to ensure prompt and safe disembarkation.
The Commissioner stresses that she will continue to call for more solidarity from Council of Europe member states with those countries, like Malta, which are on the frontline of migration movements to Europe, and for better co-operation to ensure the effective preservation of life and the protection of the human rights of those at sea, including through responsibility sharing for adequate search and rescue capacity and the timely disembarkation of those rescued. She also underlines the need to ensure that humanitarian considerations always take priority over disagreements between member states about disembarkation.
Referring to her Recommendation ‘Lives saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean’, the Commissioner stresses the need for all Council of Europe member states, including Malta, to seek constructive co-operation with civil society, especially NGOs that engage in search and rescue activities and those that monitor and defend the human rights of migrants at sea. “It is crucial that states refrain from criminalising, stigmatising or otherwise harassing human rights defenders, and that they ensure an enabling environment for their work”, she writes.
- Read the Commissioner’s letter addressed to the Prime Minister of Malta
- Read the reply by the Maltese authorities