L’Italia rifiuta il porto di sbarco al cargo Marina. Un intervento di Vittorio Alessandro*

*già Contrammiraglio e portavoce del Corpo della Guardia costiera

Rimane ancora a 18 miglia a sud di Lampedusa il cargo Marina che ha soccorso due giorni fa decine di naufraghi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Le autorità italiane negano la indicazione di un porto di sbarco, mentre a Lampedusa continuano i cd. sbarchi autonomi, dopo che anche Malta, seguendo l’esempio dell”Italia, ha adottato un provvedimento di chiusura dei porti. Il governo di La Valletta adduce rischi di sostenibilità per il suo sistema sanitario, come l’Italia in precedenza, a fronte della diffusione del Covid 19 in un isola stato che conta all’incirca gli stessi abitanti di una sola città italiana di media grandezza, come Palermo.

Per questo non si può parlare di “stallo” o di “braccio di ferro”, ma di omissione degli obblighi di cooperazione nelle attività SAR che sarebbero imposti non solo a Malta, ma anche al governo italiano, dalla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, dal manuale IAMSAR e della Convenzione di Ginevra del 1951 ( art. 33).

Come ha recentemente affermato l’UNHCR, “nonostante le difficili circostanze in cui si trovano attualmente molti Paesi a causa del COVID-19, la protezione delle vite e dei diritti umani fondamentali deve rimanere in primo piano nel nostro processo decisionale. Il salvataggio in mare è un imperativo umanitario ed un obbligo del diritto internazionale”.

Rimane sullo sfondo il ruolo di Frontex e più in generale dell’Unione Europea, alle prese con il fallimento annunciato della missione IRINI di Eunavfor Med e con una azione di contrasto nel Mediterraneo centrale, rientrante nel cd. law enforcement, che condiziona l’attività dei mezzi della Guardia costiera italiana, e rende aleatorio il rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio stabiliti dal diritto internazionale a carico degli stati.

Si dimentica che tutte le unità della Guardia costiera e della Guardia di finanza, quando operano in assetto Frontex (Law enforcement), sono comunque espressamente vincolate ad anteporre la salvaguardia della vita umana in mare ed il rispetto di tutte le Convenzioni internazionsli in materia di diritti umani e rifugiati, alle esigenze ďi contrasto della cd. Immigrazione “illegale”. Lo impongono, alle unita’ operative ed alle centrali di coordinamento, i Regolamenti europei n.656 del 2014 e n. 1624 del 2016, come tali inderogabili anche dal legislatore nazionale.

Una situazione che se è già drammatica oggi, per le persone bloccate a bordo di navi commerciali prive di qualsiasi dotazione per prestare loro soccorso, diventerà esplosiva nelle prossime settimane quando si moltiplicheranno le partenze dalla Libia, anche attraverso la Tunisia, per effetto dei nuovi equilibri determinati dall’aggravamento della guerra civile e dall’intervento massiccio della Turchia nel conflitto libico e nel controllo delle acque della Cirenaica e della Tripolitania.

( Fulvio Vassallo Paleologo)



Dal Blog Punto nave di Vittorio Alessandro

#DarwinALampedusa. I migranti usciti indenni dal canale di Sicilia sono stati suddivisi in categorie: ci sono i “fortunati” raccolti da unità italiane nelle nostre acque SAR, quelli salvati da unità straniere fuori da quell’area e infine quelli che arrivano da soli (i cosiddetti “sbarchi autonomi”). Solo ai primi il decreto interministeriale dello scorso 4 aprile concede il “Place of safety” (obbligatorio per tutti a norma della convenzione di Amburgo, ma soprattutto per dettato costituzionale), dato che “per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di luogo sicuro”.
La sorte di tali sventurati, dunque: a) se sono stati salvati da una nave straniera, è affidata allo Stato di bandiera: per esempio, il cargo Marina, 6.500 tonnellate, bandiera Antigua Barbuda (remota isola fra le due Americhe), sta attendendo da due giorni che qualcuno assegni un porto in cui poter sbarcare le 78 persone salvate; b) se il soccorso è stato coordinato da Malta o dalla Libia, è affar loro, che pure hanno dichiarato insicuri i propri porti (quelli libici lo sono sempre stati). A questi migranti, in sostanza, benché nessuno lo dica, sono riservati il silenzio e il disinteresse che, in mare, equivalgono a una condanna. Il governo non lo dice, ma si augura che nessuno li veda, salvo che non siano capaci di approdare autonomamente: la via darwiniana alla sopravvivenza in mare.
Così inumana e scombinata è tale disciplina, da dar luogo a conseguenze dolorose o paradossali. La prima (e più grave) è che il grido di allarme non venga ascoltato; che sia rimbalzato da un’autorità all’altra senza che il disimpegno dell’una vincoli l’altra a intervenire (la convenzione di Amburgo prevede anche questo); che la richiesta di soccorso non venga accolta dalle navi in transito o (come è successo) le induca ad avvicinarsi per poi correre via.
Altrettanto grave è che si legittimino gli accordi segreti intercorsi tra Malta e Libia per praticare programmatici respingimenti, ipotesi ora al vaglio della magistratura maltese.
Paradossale è che il decreto venga infranto dallo stesso governo che l’ha concepito, per esempio accogliendo i 183 naufraghi salvati da “Alan Kurdi” e “Aita Mari”, salvo sottoporli ad una interminabile quarantena su una nave noleggiata a peso d’oro; oppure attendendo che i disperati entrino nelle nostre acque SAR per potersi sentire chiamati in causa; o ancora abbandonare le persone salvate su una banchina.
Paradossale, infine, è il decreto datato 12 aprile con cui il Capo della Protezione Civile ha previsto l’ennesimo incarico emergenziale (come se le Prefetture non esistessero): il Soggetto Attuatore preposto “all’assistenza alloggiativa e alla sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro) ai sensi del decreto interministeriale citato in premessa e di quelle giunte sul territorio nazionale in modo autonomo”.
In sostanza, un curatore di pratiche che la norma ha vietato.