Materiali presentati al Convegno su “Salute e benessere psico – sociale dei rifugiati e richiedenti asilo sopravvissuti alle violenze sessuali e di genere“, nell’ambito del Progetto Pro Access, Catania, 11 dicembre 2019,
presso l’ Aula Magna del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Università di Catania
In collaborazione con: Ordine Professionale Assistenti Sociali della Regione Sicilia, Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, Dipartimento Politiche e Servizi Sociali dell’Università di Catania e con il supporto di UNHCR
di Fulvio Vassallo Paleologo
1. L’abolizione per decreto della cd. protezione umanitaria, con il decreto “sicurezza” n.113/2018 e poi con la legge n.132/2018, e le numerose decisioni delle Commissioni territoriali competenti a decidere sulle richieste di asilo, che hanno negato, anche prima dell’entrata in vigore del decreto 113/2018 (decreto sicurezza), il riconoscimento di un qualsiasi status legale a centinaia di donne ( e di minori) provenienti dalla Libia, già vittime di abusi sessuali e di violenza di genere, se non di veri e propri casi di tortura, hanno alimentato un diffuso contenzioso nei tribunali ed una situazione di precarietà e di conseguente emarginazione, che diventa sempre più grave. Nei canali della comunicazione pubblica e sui social questi problemi sembrano ormai rimossi, e se si dà rilievo ai casi di violenza subita da donne italiane da parte di immigrati, si tace del tutto sulle violenze che le donne ed i minori immigrati hanno subito nei paesi di transito prima di arrivare in Europa, violenze che spesso hanno prodotto una situazione di esposizione ad ulteriori abusi anche nei paesi di arrivo. In molti casi poi le violenze non lasciano tracce fisiche evidenziabili a distanza di mesi o di anni, e le procedure di esame delle richieste di protezione, soprattutto in frontiera, diventano sempre più veloci e spesso prive di un serio esame individuale dei casi e di un ricorso giurisdizionale effettivo.
Secondo le stime dell’Oim, in base al Rapporto “Donne rifugiate, la violenza ha molte facce“, circa l’80% delle donne nigeriane arrivate in Italia nel 2016 sono state verosimilmente vittime di trafficking per lo sfruttamento sessuale nel nostro paese o in altri paesi europei, e di violenze e stupri nei campi di raccolta in Libia e durante l’attraversamento del Mediterraneo. Ma secondo i rapporti più recenti le violenze sessuali non riguardano soltanto le donne nigeriane, e sono sempre più frequenti i casi nei quali lo stupro diventa un arma di ricatto o di punizione, rivolta anche contro uomini, soprattutto eritrei, tenuti in condizioni di prigionia a fini estorsivi.
Il peggioramento della condizione di tutti i migranti intrappolati in Libia in questi ultimi anni rende sempre più visibili sui corpi delle vittime i segni di violenze che ormai colpiscono la generalità delle donne e dei minori che ancora riescono a fuggire da quel paese. Diventa per queste ragioni essenziale una rapida conclusione delle operazione di soccorso in mare, spesso osteggiata dai governi, una effettiva capacità di individuazione delle persone che hanno subito violenza ed una immediata presa in carico delle vittime prima che le più vulnerabili si possano ritrovare di nuovo alla mercé dei trafficanti e ingabbiate in un sistema di accoglienza ormai condannato ad un progressivo smantellamento, con l’abolizione di figure professionali essenziali per garantire mediazione, assistenza psicologica e consulenza legale.
La totalità delle donne ( e dei minori) che ancora oggi raggiungono le coste europee, quando non sono intercettate in mare dalla sedicente guardia costiera libica, è stata oggetto di commercio in Libia ed anche una volta raggiunta l’Europa finisce spesso nelle mani degli sfruttatori. Il mancato riconoscimento di un qualsiasi status legale, e la portata ormai residuale dei permessi di soggiorno per le vittime di violenza sessuale e/o di sfruttamento a scopo di prostituzione, hanno svuotato la portata della cd. “protezione sociale”, che negli anni successivi all’entrata in vigore del Testo Unico sull’immigrazione, n. 286/1998 (art. 18), era stata fortemente delimitata dalle interpretazioni restrittive adottate dalle questure italiane su indirizzo del ministero dell’interno.
La più recente contrazione degli arrivi via mare, che ha fortemente ridotto anche il numero delle donne arrivate in Italia dalla Libia, ha segnato un drastico aumento della violenza alla quale vengono esposte, prima nei paesi di transito, e poi in Italia, le donne che comunque sono riuscite a fuggire dai lager e dalle connecting house. Non sono certo le statistiche fornite dal ministero dell’interno che possono fare ritenere che si tratti di una situazione che registri una evoluzione positiva. Chi asserisce che la riduzione delle partenze dalla Libia ha determinato una riduzione delle vittime in mare nasconde il drastico peggioramento della condizioni dei migranti intrappolati o riportati in Libia ed alimenta una propaganda tossica che crea assuefazione davanti alle vittime in mare, e rimozione totale nei confronti di chi subisce violenza o perde la vita in Libia. Le politiche di chiusura piuttosto che contrastare le mafie alimentano la tratta di esseri umani ed accerscono la violenza nei confronti dei soggetti più vulnerabili.
2. Le violenze subite dalle donne migranti non si legano soltanto alle pratiche estorsive imposte per la traversata del Mediterraneo, o per la loro destinazione al mercato della prostituzione. Basti pensare ai casi di violenza domestica subita da donne albanesi che hanno potuto ottenere lo status di rifugiate.
Secondo l’OIM la situazione delle donne migranti, e non solo nigeriane, ma anche di altre nazionalità, come le ivoriane, che attraversano il Mediterraneo rimane generalmente drammatica.“Molte, reclutate nel loro paese per lavorare come domestiche o cameriere, diventano invece vittime di servitù domestica una volta arrivate in Tunisia o in Libia, dove sono sottoposte a maltrattamenti, violenze e privazione della libertà personale, nonché costrette a subire abusi sessuali da parte dei loro sfruttatori. A questa fase ne segue un’altra, che prevede un ulteriore sfruttamento in Europa organizzato da persone che si dicono disposte a farsi carico dell’organizzazione e dei costi della traversata nel Mediterraneo, ma che poi hanno intenzione di sfruttare le vittime una volta giunte in Italia o in altri paesi dell’Unione Europea”.
Sempre più spesso, quando le imbarcazioni affondano per la politica dei porti chiusi che ritarda gli interventi di soccorso, come è accaduto da ultimo in occasioni delle ultime stragi in mare, le vittime sono donne. come le ragazze ivoriane morte lo scorso 7 ottobre 2019 nel corso del naufragio avvenuto al largo di Lampedusa, E ci sono ancora donne tra i corpi delle vittime dell’ultimo naufragio verificatosi il 23 novembre scorso proprio vicino al porto di Lampedusa, durante un tentativo di intervento da parte della Guardia costiera. E sono sempre le donne, spesso in stato di gravidanza dopo gli stupri subiti in Libia, che pagano il prezzo più alto, in termini di sofferenza fisica e psichica, quando il ministero dell’interno nega alle navi delle ONG l’indicazione di un porto sicuro di sbarco.
3. Secondo la Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 10 dicembre 1984 : “ai fini della presente Convenzione, il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o di intimidire o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore e alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”. In base all’art. 7, par. 2, lett. e) dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, “per «tortura» s’intende l’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, ad una persona di cui si abbia la custodia o il controllo; in tale termine non rientrano i dolori o le sofferenze derivanti esclusivamente da sanzioni legittime, che siano inscindibilmente connessi a tali sanzioni o dalle stesse incidentalmente occasionati”. Secondo questa definizione più ampia non occorre dunque che la persona si trovi sotto la custodia o il controllo di un altro soggetto ed il reato può essere commesso da qualunque agente, anche non istituzionale. Nel caso dei migranti provenienti dalla Libia, ormai sistematicamente sottoposti alla pratica delle torture più crudeli, la distinzione tra agenti istituzionali ed appartenenti a milizie private o a gruppi paramilitari controllati dalla criminalità organizzata, in un paese che è rimasto privo di un apparato giudiziario e di polizia statale, appare assai sfuggente, come recenti inchieste giornalistiche hanno ampiamente dimostrato.
L’art. 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo prevede che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Lo stesso divieto è ripreso dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato nel 2012 l’Italia per la violazione dell’art. 3 della CEDU e per i respingimenti collettivi effettuati nel 2009 verso la Libia (caso Hirsi Jamaa), ed una recente sentenza del Tribunale di Roma ha stabilito per le vittime di quel respingimento il diritto al risarcimento ed al rilascio di un visto di ingresso in Italia per motivi umanitari.
4. In base alle Convenzioni internazionali ed alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, tutte le forme di mutilazione dei genitali femminili (FGM/MGF) costituiscono una forma di tortura e di trattamento inumano e degradante e violano diritti umani delle donne, a partire dal principio di non discriminazione, fino al diritto alla integrità fisica ed alla vita. Tutte le donne che ne sono state vittima dovrebbero dunque ottenere uno status di protezione nel paese di arrivo e non dovrebbero correre il rischio di essere respinte o espulse verso il paese di origine. Secondo i giudici di merito (C. App. Catania, 27 novembre 2012, e Trib. Cagliari, 3 aprile 2013, in www.stranieriinitalia.it), anche le mutilazioni genitali femminili vanno riconosciute “come atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale, concludendosi per il riconoscimento dello status di rifugiato quando sia accertata la riferibilità di tali atti alla persona del richiedente”.
Secondo il Tribunale di Genova con Ordinanza del 2 Luglio 2019 va riconosciuto lo status di rifugiato ad una cittadina senegalese che aveva subito una mutilazione genitale. Il Collegio ritiene che “sotto altro assorbente profilo la domanda della ricorrente meriti accoglimento, ovverosia le mutilazioni genitali subite in giovane età, trattandosi di atti di persecuzione che trovano ragione nella sua specifica condizione di genere, ovverosia di appartenenza al genere femminile. (…) E’ allora indubbio che la ricorrente appartenga al “gruppo sociale” delle donne, ed in quanto tale sia stata perseguitata, essendo stata costretta alla mutilazione genitale che costituisce una grave violazione dei diritti delle donne, oltraggiando il loro diritto all’integrità fisica e psicologica, oltre allo stesso diritto alla salute (le donne che hanno subito mutilazioni genitali sono soggette a cicatrizzazioni e altre complicanze che talvolta aumentano il rischio di situazioni ginecologiche critiche) nonché il diritto di essere libere da ogni forma di discriminazione.”
Malgrado il richiamo alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, contenuta nei più recenti documenti internazionali trovi ormai riscontro anche nella giurisprudenza, rimane purtroppo, nella prassi applicata, uno spazio assai ampio di valutazione discrezionale che spesso non tiene conto della oggettiva impossibilità di fare valere i propri diritti davanti ad un giudice indipendente e della diffusa corruzione che caratterizza molti paesi di origine e di transito, giungendo a contaminare persino gli apparati di polizia ed il sistema giudiziario.
5. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, siglata a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata in Italia con la Legge 77/2013 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, definisce la violenza contro le donne: … una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che privata. la Convezione contiene due articoli che si riferiscono specificamente alla protezione internazionale, l’articolo 60 sulle domande di asilo basate sul genere e l’articolo 61 in materia di non-refoulement. In particolare, la convenzione prevede che gli stati contraenti si impegnino a garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951.
La Convenzione di Ginevra del 1951 sul riconoscimento dello status di rifugiato non riconosce espressamente la violenza sessuale come motivo per concedere lo status di protezione. In base all’art. 1 si definisce rifugiato “colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, far rientro nel proprio Paese”.
Soltanto il 20 dicembre 1993 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottava una Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro la donna e nel 1994 presso la Commissione per i diritti umani veniva istituito uno Special Rapporteur per indagare e riferire sui casi di violenze contro le donne, le loro cause e conseguenze. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite definisce la violenza contro le donne: “una forma di persecuzione legata al genere femminile e che si manifesta attraverso azioni violente di tipo fisico, psicologico o sessuale o in qualunque modo dirette a provocare sofferenza nella donna, includendo tra tali azioni anche le minacce, la coercizione e la privazione della libertà, sia nella sfera privata sia in quella pubblica”.
6. Il fenomeno della violenza sulle donne si è talmente diffuso da far ritenere che la richiesta dello status di rifugiato per motivi connessi all’appartenenza al genere potesse rientrare nelle fattispecie contemplate dall’Art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Sempre più sesso, inoltre, le donne migranti, anche quando erano riuscite a fuggire le violenze nei paesi di origine, subivano abusi nel corso del loro viaggio verso il paese nel quale poi cercavano di presentare una richiesta di protezione. Restava però assai controverso se la violenza sessuale e la violenza di genere potessero rientrare nell’ambito dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra e se dunque il genere potesse rientrare nella categoria di “gruppo sociale”oggetto di persecuzione. La mancanza di canali legali di ingresso e la condizione di clandestinità e di emarginazione vissuta dalle donne nel viaggio dai paesi di origine fino ai paesi di transito e di destinazione, le esponeva, in misura crescente con lo scorrere del tempo, a condizioni sempre più frequenti di vulnerabilità alla violenza.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha riconosciuto che gli stati sono “liberi di adottare l’interpretazione per cui le donne richiedenti asilo che sopportano trattamenti disumani per aver trasgredito i costumi sociali della società in cui vivono possono essere considerate come un particolare gruppo sociale, rientrando così all’interno della definizione di rifugiato dell’articolo 1 A (2) della Convenzione delle Nazioni Unite per i Rifugiati del 1951″.
Per quanto concerne la considerazione della violenza sessuale come una persecuzione che rientra nella definizione di rifugiato, la “Nota su alcuni aspetti della violenza sessuale contro le donne rifugiate” che è stata pubblicata su richiesta del Comitato Esecutivo ACNUR stabilisce che: uno stupro od altre forme di violenza sessuale commesse per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a particolare gruppo sociale giustificata dalle autorità, può essere considerata una forma di persecuzione rientrante nella definizione del termine “rifugiato” secondo la Convenzione del 1951 (articolo 1A (2)). Un fondato timore di stupro in tali circostanze, può così fornire la base per il riconoscimento dello status di rifugiato. Di fondamentale importanza rimane però il primo approccio con la vittima, dopo l’ingresso nel territorio nazionale, e la concreta possibilità di stabilire un rapporto di ascolto e comunicazione.
7. Le politiche anti-immigrazione hanno aumentato la pericolosità dei viaggi e la loro durata e sono risultate oggettivamente come un elemento che soprattutto nei paesi di transito, in particolare in Libia, hanno favorito il diffondersi della violenza sulle donne, e quindi sui minori non accompagnati, ed in ultimo persino su uomini di diversa nazionalità. L’esperienza dimostra che le politiche di chiusura e di respingimento, attuate con sanzioni sempre più severe di natura penale e con la minaccia di rimpatrio forzato, agevolano il business dei trafficanti tanto nei paesi di origine e transito quanto nei paesi di destinazione, ed accrescono la violenza che questi infliggono alle loro vittime designate.
Il rafforzamento dei controlli di frontiera e le pratiche di esternalizzazione hanno reso più vulnerabili le donne ed i minori durante tutto il loro viaggio anche quando vengono sottoposti a controlli di frontiera da parte degli agenti statali. In molti casi la violenza sessuale è diventata una pratica connessa alla corruzione, se non alla estorsione, per superare un varco di confine. In questi casi lo Stato diventa direttamente responsabile di un atto di uno dei suoi agenti, anche se tale atto è stato compiuto al di fuori dell’ambito della funzione ufficiale dell’agente statale.
Gli Stati sono anche responsabili delle azioni di agenti non statali che vengano compiuti in nome dello Stato. Uno Stato in quanto tale, nel contesto del traffico, è responsabile degli atti commessi dai suoi agenti, siano essi funzionari dell’immigrazione, guardie di frontiera o poliziotti.
8. La Direttiva 2004/83/CE detta all’art. 15 i requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria individuando il concetto di danno grave che il richiedente asilo potrebbe subire nel paese di origine. Sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione; o b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ( Sentenza della Grande Sezione del 24 aprile 2018), “L’articolo 2, lettera e), e l’articolo 15, lettera b), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, letti alla luce dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che è ammissibile allo status di protezione sussidiaria il cittadino di un paese terzo torturato in passato dalle autorità del suo paese di origine e non più esposto a un rischio di tortura in caso di ritorno in detto paese, ma le cui condizioni di salute fisica e mentale potrebbero, in un tale caso, deteriorarsi gravemente, con il rischio che il cittadino di cui trattasi commetta suicidio, in ragione di un trauma derivante dagli atti di tortura subiti, se sussiste un rischio effettivo di privazione intenzionale in detto paese delle cure adeguate al trattamento delle conseguenze fisiche o mentali di tali atti di tortura, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare“.
La Direttiva 2004/83/CE persegue poi l’obiettivo di ” introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall'”appartenenza ad un determinato gruppo sociale“. Secondo la Direttiva, “in funzione delle circostanze nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale. L’interpretazione dell’espressione «orientamento sessuale» non può includere atti classificati come penali dal diritto interno degli Stati membri; possono valere considerazioni di genere, sebbene non costituiscano di per sé stesse una presunzione di applicabilità del presente articolo; nell’esaminare se un richiedente abbia un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni.
9. La previsione di un maggiore rilievo della violenza o del rischio di tortura, al fine di conseguire il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione internazionale, può essere tuttavia “ridimensionata” dalla limitazione geografica dell’area nella quale si riconosce che la donna possa essere sottoposta al rischio di violenza o ad altro tipo di persecuzione. Sono stati individuati di recente, in applicazione dell’ dell’art. 7 del Decreto sicurezza n.113/2018 13 Paesi sicuri (tra i quali Marocco, Albania, Tunisia, Senegal, verso i quali le espulsioni e i rimpatri sarebbero semplificati anche nel caso di richiedenti protezione internazionale.
La recente introduzione di una “lista di paesi terzi sicuri”, e l’adozione di “procedure accelerate” in frontiera per l’esame delle richieste di protezione, accrescono i rischi di respingimento o di diniego per tutti coloro che nel corso del loro viaggio hanno subito esperienze traumatiche di tortura o di violenza sessuale. Nelle Direttive europee, inoltre, non si riscontrano previsioni precise con riferimento ai casi sempre più frequenti di abusi subiti nei paesi di transito, come la Libia.
La normativa appena riferita, da collegare comunque all’applicazione del decreto legislativo n. 18/2014 del 21 febbraio 2014 (con la modifica di molte disposizioni del d. lgs. n. 251/2007), che ha attuato in Italia la direttiva sulle qualifiche 2011/95/UE, ( recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, di uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria), espone molte persone vittime di violenza sessuale o di genere, già prima del loro ingresso nel territorio nazionale, al rischio del mancato riconoscimento di uno status di soggiorno regolare. Con la ulteriore conseguenza, se non di un rimpatrio, di una caduta definitiva in una condizione di clandestinità, talvolta alla mercé delle stesse organizzazioni che hanno già trafficato la persona prima del suo arrivo in Italia. Se infatti la commissione territoriale deputata ad esaminare le istanze di asilo accerta che il richiedente proviene da una zona ritenuta “sicura”, sia pure all’interno di un paese nel quale sono configurabili condizioni generalizzate di persecuzione o di trattamenti disumani e degradanti , basati sulla differenza di genere, la decisione sfavorevole della commissione può privare il soggetto vulnerabile di un permesso di soggiorno che costituisce l’unica speranza di un esistenza dignitosa.
10. Con l’espressione violenza di genere si indicano tutte quelle forme di violenza – fisica, psicologica o sessuale – che riguardano un vasto numero di persone discriminate sulla base dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale . la Italia è da poco entrata in vigore la legge n.69/2019 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, che si pone nel quadro delineato dalla Convenzione di Istanbul del 2011. Il richiamo al genere può assumere rilievo anche ai fini del riconoscimento di uno status di protezione. La Corte di cassazione, in un caso relativo a cittadina marocchina, vittima di abusi e violenze (proseguiti anche dopo il divorzio) da parte del coniuge, punito dalla giustizia marocchina con una blanda sanzione penale, Sez. 6-1, n. 12333/2017, Rv. 644272-01, sempre facendo riferimento agli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul, riconduce – sia pure agli effetti della protezione sussidiaria (su cui v. postea § 5) – gli atti di violenza domestica all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti, onerando il giudice di verificare in concreto se, pur in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un «soggetto non statuale», ai sensi dell’art. 5, lett. c), cit., lo Stato di origine sia in grado di offrire al richiedente adeguata protezione.
Dopo la “rifusione” della direttiva UE sulle qualifiche degli status di protezione internazionale il D. Lgs. n. 18/2014 ha modificato molte disposizioni del d. lgs. n. 251/2007 e l’art. 29 del T.U. delle leggi in tema di immigrazione e asilo. All’art. 8 del decreto legislativo 251/2007 al comma 1, lettera d)dell’art. 8 , dopo le parole: “ai sensi della legislazione italiana;” venivano aggiunte le seguenti: parole “ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identita’ di genere;”
Per particolare gruppo sociale si intende quindi “quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perchè vi è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identita’ di genere”.
11. Nell’ambito della violenza di genere, assume particolare rilievo quella che si rivolge contro le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender), spesso vittime nel Paese di origine di atti discriminatori o persecutori, inclusa la violenza fisica e psicologica. In molti stati di origine o di transito, inoltre, i rapporti tra persone dello stesso sesso sono penalmente sanzionati, in alcuni casi con la pena di morte.
In relazione all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, al fine di escludere il diritto alla protezione internazionale, o sussidiaria, da parte dello straniero che si dichiara omosessuale, per la Corte di Cassazione, Sez. 1, n. 11176/2019, Rv. 653880-01, non è sufficiente verificare che nello Stato di provenienza l’omosessualità non sia considerata alla stregua di un reato, dovendo altresì essere accertata la sussistenza, in tale Paese, di un’adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte di gravissime minacce provenienti da soggetti privati. In precedenza, la stessa Corte di Cassazione, Sez. 6-1, n. 2875/2018, Rv. 647344-0116 , investita di un ricorso proposto da un cittadino del Gambia perseguitato dalle autorità statuali per il solo fatto di essere omosessuale, ha annullato con rinvio la sentenza di merito che aveva escluso i rischi di persecuzione, rilevando la sussistenza dei requisiti di protezione internazionale: secondo la Corte, la circostanza che l’omosessualità sia considerata come reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza integra una «grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di pericolo». Nell’occasione, il S.C. ha poi ribadito l’irrilevanza, ai fini della valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, della sussistenza o meno del fatto allegato (nella specie: l’accusa di omosessualità del ricorrente), essendo invece compito del giudice accertare ai sensi dell’art. 8, comma 2, e 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, la realtà delle accuse, cioè verificare la loro effettività secondo l’ordinamento straniero e dunque la suscettibilità di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave (v. altresì Sez. 6-1, n. 4522/2015, non massimata; Sez. 6-1, 15981/2012, Rv. 624006-01 e Sez. 1, n. 16417/2017, Rv. 598890-01, che stigmatizzano la persecuzione dell’omosessualità nell’ordinamento giuridico del Paese di provenienza come grave ingerenza nella vita privata, tale da compromettere gravemente la libertà personale dei cittadini omosessuali, ponendoli in una situazione oggettiva di persecuzione che giustifica la concessione della richiesta protezione internazionale; negli stessi termini v. Sez. 1, n. 26969/2018, Rv. 651511-01).
Il Tribunale di Genova, con sentenza del 23 ottobre 2019, osserva ” che l’omosessualità è tutt’ora un reato in Gambia. Nonostante il mutato clima in Gambia a seguito dell’elezione del Presidente Adama Barrow, l’omosessualità continua ad essere un reato punito con pene severissime e deve quindi ritenersi che un omosessuale, oggi, si troverebbe in Gambia nell’alternativa di correre il rischio di essere arrestato e incriminato e rinunciare a vivere ed esprimere liberamente il proprio orientamento sessuale. Per non parlare del clima omofobo che, a prescindere dagli orientamenti governativi, continua ad interessare il paese. Per tali motivi, a persona di orientamento omosessuale proveniente dal Gambia (ed a prescindere, tra l’altro, dall’essere o meno al momento attuale oggetto di persecuzione per tale motivo) deve essere riconosciuto lo status di rifugiato”
L’Uffiicio del Massimario della Corte di Cassazione segnala poi “Nella casistica giurisprudenziale estraibile dalle più recenti pronunce di legittimità, in riferimento alla persecuzione basata sul genere, la sentenza Sez. 1, n. 28152/2018, Rv. 649254-01, che annovera nel concetto di violenza domestica di cui all’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, resa esecutiva in Italia con l. n. 27 giugno 2013, n. 77) 15 le limitazioni al godimento dei diritti umani fondamentali attuati nella specie ai danni di una donna, di religione cristiana, a causa del suo rifiuto di attenersi alla consuetudine del proprio villaggio – secondo la quale la stessa, rimasta vedova, era obbligata a sposare il cognato – anche se le autorità tribali del luogo alle quali si era rivolta, nella perdurante persecuzione da parte del cognato, che continuava a reclamarla in moglie, le avevano consentito di sottrarsi al matrimonio forzato, ma a condizione che si allontanasse dal villaggio, abbandonando i propri figli ed i suoi beni. Secondo la Corte regolatrice, tali atti, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, integrano i presupposti della persecuzione ex art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007, anche se posti in essere da autorità non statali, se – come nella specie – le autorità statali non le contrastino o non forniscano protezione, in quanto frutto di regole consuetudinarie locali. Nella pronuncia vengono richiamate, altresì, a livello di soft law, le linee guida dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) del 7 maggio 2002 sulla persecuzione basata sul genere, il cui punto 25 specifica che si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali legate al suo genere” .
La Corte di Cassazione, Sez. 6-1, n. 25463/2016, Rv. 641904-01, nel solco un precedente conforme (Sez. 6-1, n. 25873/2013, Rv. 628471-01), identifica la costrizione ad un matrimonio non voluto come grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorché le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire protezione adeguata.
12. L’art. 25 del Decreto legislativo n.142 del 2015 riconosceva comunque la categoria di “persone vulnerabili” ricomprendendo tra queste “minori; minori non accompagnati; disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali; persone per le quali e’ accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, vittime di mutilazioni genitali;”.
“La Corte di Cassazione ha evidenziato come la vulnerabilità possa essere accertata anche effettuando il bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ne ha determinato la partenza, così da accertare la condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento. Ha precisato inoltre che la condizione di vulnerabilità può dipendere anche «dalla mancanza di condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa (cfr. Cass. n. 4455/18)“. Putroppo questa importante decisione, che appare del tutto condivisibile, è stata sfruttata dal ministero dell’interno, anche con lo strumento della circolare, che ne ha stravolto la portata, per limitare i casi di riconoscimento della protzione umanitaria.
L’emersione della vulnerabilità e la sua rilevanza nel procedimento per il riconoscimento di uno status di protezione, e dunque di un premesso di soggiorno da parte della questura competente, rimane ancora oggi, un percorso disseminato di ostacoli anche per effetto delle direttive rivolte dal ministero dell’interno alle Commissioni territoriali, tramite la Commissione nazionale per il diritto di asilo, ed inviate quindi alle forze di polizia che si trovano ai valichi di frontiera e nei porti di sbarco. Non sorprende che già prima dell’abrogazione per decreto (sicurezza) della protezione umanitaria, a ottobre dello scorso anno, i casi di riconoscimento di questa forma di protezione erano crollati a circa il 10 per cento delle domande di asilo complessivamente presentate, e che in numerosi casi, poi oggetto di ricorso giurisdizionale, i dinieghi avevano riguardato donne e minori vittime di violenza in Libia.
Secondo il nuovo art. 8 comma 3 bis del decreto 25/2008, come novellato, “ove necessario ai fini dell’esame della domanda, la Commissione territoriale può consultare esperti su aspetti particolari come quelli di ordine sanitario, culturale, religioso, di genere o inerenti ai minori. La Commissione, sulla base degli elementi forniti dal richiedente, può altresì disporre, previo consenso del richiedente, visite mediche dirette ad accertare gli esiti di persecuzioni o danni gravi subiti effettuate secondo le linee guida di cui all’articolo 27, comma 1-bis, del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e successive modificazioni. Se la Commissione non dispone una visita medica, il richiedente può effettuare la visita medica a proprie spese e sottoporne i risultati alla Commissione medesima ai fini dell’esame della domanda.”
13. Le “Linee Guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale” hanno come obiettivo principale quello di assicurare un’assistenza sanitaria in linea con la necessità di tutelare i diritti di titolari e richiedenti lo status di rifugiato e e protezione internazionale, ovvero delle persone che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità, che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale. Le Linee guida ribadiscono che la procedura di riconoscimento della domanda di protezione internazionale e le relative garanzie (tra cui le misure rivolte alle situazioni più vulnerabili) si applicano, senza eccezioni, alle domande presentate sia nel territorio degli Stati che alla frontiera, nonché in acque territoriali e nelle aree di transito. La Direttiva 2013/33/UE obbliga gli Stati ad operare una valutazione individuale delle specifiche esigenze di accoglienza delle persone vulnerabili, tra cui le vittime di tortura e di gravi violenze. Tale valutazione deve essere fatta in ogni fase della procedura e anche laddove la condizione di vulnerabilità emerga successivamente alla conclusione della procedura stessa, soprattutto quando questa si sia svolta con modalità accelerate e dunque sommarie.
14. In base al decreto 113/2018, che ha “abolito” la protezione umanitaria, all’art. 19 d bis del T.U. n.286/98 , si è introdotta una nuova previsione secondo cui “degli stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di particolare gravità debitamente certificate, valido solo nel territorio nazionale”. Una possibilità residuale che va richiamata quando vemgano negati altri status di protezione.
In ogni caso, a mente del novellato art. 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 per un verso, è stabilito che, in “nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione” (comma 1), per altro verso, è sancito che non “sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura” (primo capoverso del comma 1.1.) e nella “valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani” (secondo capoverso del comma 1.1.),
In alcuni casi l’accertamento dell’esistenza della tratta ha spostato l’attenzione dalla vittima ai presunti responsabili di questo grave reato, e quando anche avviene una identificazione tempestiva della vittima di tratta talora si sollecita una dichiarazione sui soggetti colpevoli del reato ma non si approntano tanto tempestivamente strumenti di protezione sociale e legale che dovrebbero precedere e non seguire l’eventuale dichiarazione della donna in ordine alle organizzazioni criminali di cui è stata, e spesso rimane, vittima. Non si può in ogni caso limitare il rilievo della violenza subita dalle donne ai casi di tratta, e non dare rilievo a tutti quegli abusi che comunque i soggetti vulnerabili e tra questi le donne, e ormai anche alcuni uomini, subiscono nel loro percorso di fuga dal paese di origine, o come nel caso della Libia, dal paese di transito.
Purtroppo l’accertamento in sede giudiziaria delle violenze e degli abusi subiti dai migranti in Libia, in particolare da donne e minori, ma di recente anche da uomini, non ha scosso il legislatore ne ha alimentato nell’opinione pubblica quella minima solidarietà verso chi si ritrova a subire torture o trattamenti disumani e degradanti. Anzi, sembra sempre più diffusa una campagna di criminalizzazione scatenata verso quei migranti che sarebbero “colpevoli” di avere intrapreso il viaggio verso l’Europa, come se fosse stato frutto di una libera scelta, e verso quegli operatori umanitari che in condizioni di estrema difficoltà tentavano comunque di salvare loro la vita nelle acque del Mediterraneo. Si è giunti persino al reiterato tentativo di criminalizzare quanti si ribellavano, dopo essere stati intercettati in acque internazionali, alla loro restituzione alle milizie libiche e reclamavano lo sbarco in un porto sicuro.
Non basta dunque evocare accordi tra i paesi europei e le autorità libiche, magari con il coinvolgimento dell’OIM o dell’UNHCR, per fare credere che le condizioni dei migranti, ed in particolare dei soggetti più vulnerabili, intrappolati in Libia, ben oltre il ridotto numero degli internati nei centri di detenzione libici, siano essi “governativi” o gestiti da singole milizie, possano migliorare effettivamente. Come si può ammettere che un migrate che abbia subito ogni sorta di abusi in Libia, possa essere riconsegnato alle stesse autorità che hanno permesso quegli abusi, se non li hanno commessi direttamente? Ma non si può neppure dimenticare la violenza che è stata alla base delle partenze dei paesi di origine, spesso vere e proprie fughe, motivate non solo da ragioni “politiche” o dall’evasione dall’obbligo militare, ma anche da una condizione di abusi di natura sessuale o che ricadevano nel concetto di persecuzione di genere . Come non ritenere “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani le pratiche della infibulazione, i matrimoni forzati o la soggezione alla violenza sessuale senza che le autorità statali garantiscano una tutela effettiva delle vittime ? Sono questi i casi nei quali si dovrebbe tendere al riconoscimento di una protezione sussidiaria e non soltanto di una protezione per casi speciali, che è la residua formulazione di quei “motivi umanitari” che il legislatore non poteva abrogare senza creare una grave lacuna nell’attuazione dell’art. 10 della Costituzione italiana.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, anche la cd, protezione umanitaria costituiva attuazione della norma costituzionale e dunque doveva essere sottratta all’intervento abrogativo del legislatore ordinario, prprio per non lasciare scoperte situazioni come quelle delle donne esposte al rischio di subire violenze in caso di rimpatrio. Va tuttavia ricordato, a tale riguardo, che per effetto delle ultime sentenze a Sezioni unite della Corte di cassazione, rimangono valutabili alla stregua dei criteri che consentivano il riconoscimento della protezione umanitaria tutte le domande di protezione internazionale depositate entro il 4 ottobre 2018 e tutti i casi di ricorso contro un diniego di status già pendenti a quella data. Per il futuro non rimane da auspicare che il legislatore voglia abrogare le disposizioni relative ai divieti di sbarco ed alla protezione concessa solo “in casi speciali”, contenute nei due decreti sicurezza, e che si ritorni ad una politica di apertura verso le vittime di abusi e violenze tanto gravi, che non possono continuare a subirne ancora altri, una volta che hanno raggiunto il nostro paese.