Una decisione aberrante del Tribunale dei ministri in contrasto con il diritto internazionale del mare

di Fulvio Vassallo Paleologo

AGGIORNAMENTO DEL 29 NOVEMBRE

Salvini rischia processo per Open Arms e Mare Jonio

” La procura della Repubblica di Palermo,… ha trasmesso al Tribunale dei ministri il fascicolo a carico dell’ex ministro dell’Interno sul procedimento che riguarda la mancata concessione del POS alla nave Open Arms e, scrive il procuratore Francesco Lo Voi, come si legge nell’atto giudiziario diffuso dalla Lega, “della conseguente privazione della libertà personale in pregiudizio di numerosi migranti giunti nelle acque di Lampedusa”.


1.Il Tribunale dei ministri di Roma avrebbe “scagionato” l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, richiedendo lo sorso 21 novembre l’archiviazione per le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio mosse nei suoi confronti per aver negato lo sbarco della Alan Kurdi (appartenente alla Ong Sea Eye) nell’aprile di quest’anno. Come riporta il Corriere della Sera, i giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo hanno affermato che la responsabilità di assegnare un porto sicuro alle navi con a bordo migranti soccorsi in mare spetta allo Stato di primo contatto, che «non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio». Nel caso della Sea Eye, battente bandiera tedesca, dunque,la nave avrebbe dovuto rivolgersi alla Germania per ricevere l’indicazione di un porto sicuro nel quale approdare. Secondo i giudici, ” «nonostante in alcuni casi le coste del Paese di riferimento della nave siano lontane, la normativa non offre soluzioni precettive idonee ai fini di un intervento efficace volto alla tutela della sicurezza dei migranti»,. Dunque ” «L’assenza di norme di portata precettiva chiara applicabili alla vicenda non consente di individuare, con riferimento all’ipotizzato, indebito rifiuto di indicazione del Pos (Place of safety), precisi obblighi di legge violati dagli indagati, e di conseguenza di ricondurre i loro comportamenti a fattispecie di rilevanza penale». Per il Tribunale dei ministri di Roma, le disposizioni normative vigenti al riguardo sarebbero inadeguate, e la indicazione di un “porto di sbarco sicuro” resterebbe affidata a «una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta».

La decisione dei giudici romani rimane nel solco delle argomentazioni che hanno portato all’assoluzione” del ministro dell’interno nel caso Diciotti, che pure batteva bandiera italiana, ma alla quale sembrava legittimo negare l’ingresso e lo sbarco in porto per superiori ragioni di “interesse nazionale”. In qualche modo si tratta adesso di una decisione speculare rispetto a quella già adottata dal Senato per una nave della guardia costiera italiana, sulla scorta del parere adottato dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare vengono praticamente svuotate di qualsiasi efficacia vincolante e le scelte sulla indicazione ( o meno) del porto sicuro di sbarco sembrano rimesse esclusivamente all’area della discrezionalità politica.

Lo scorso anno avevamo già visto un tentativo del ministro dell’interno italiano che, per fermare le ONG, attraverso la criminalizzazione delle loro attività di salvataggio, aveva messo in discussione la loro iscrizione ai registri navali dei paesi di bandiera. Adesso sembra accolta dal Tribunale dei ministri di Roma la tesi dello stesso Salvini, secondo cui lo sbarco dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale dovrebbe avvenire nei paesi di bandiera delle navi soccorritrici. Eppure, all’apertura dell’anno giudiziario 2019 , il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”. Un obbligo di soccorso che va adempiuto tenendo conto delle prescrizioni del diritto umanitario e delle previsioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Anche con riferimento al divieto di respingimenti collettivi affermato dall’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla CEDU e dal’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

2. La propaganda sovranista ha subito salutato la decisione del Tribunale dei ministri di Roma come una “vittoria” dell’ex ministro dell’interno Salvini, che da quando si è insediato, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018, ha sistematicamente eluso gli obblighi di soccorso in mare che incombono agli stati, negando la tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco. L’ex ministro dell’interno torna a sfidare le procure che lo stanno indagando per altri casi di rifiuto della indicazione di un porto di sbarco e sibila ”  «Ora sono curioso di vedere a questo punto cosa decideranno le altre procure». Secondo lo stesso Salvini ” «”Lo Stato di primo contatto non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”. Germania se batte bandiera tedesca, Norvegia se batte bandiera norvegese, ecc. Finalmente un po’ di BUONSENSO“. In effetti lo stesso Salvini, allora ministro dell’interno, il 25 gennaio 2019, scriveva su Facebook sostenendo di aver inviato una lettera al governo olandese chiedendo, tra le altre cose, di “predisporre, con urgenza, gli adempimenti relativi all’organizzazione della presa in carico e del trasferimento in territorio olandese dei 47 migranti a bordo della nave olandese Sea Watch”. Come ricorda l’AGI “anche Luigi Di Maio aveva espresso una posizione simile, che chiamava in causa Amsterdam per l’accoglienza dei migranti salvati nel Mediterraneo dalla nave Sea Watch, gestita da una Ong tedesca ma battente bandiera olandese”. Il governo olandese aveva declinato immediatamente qualsiasi responsabilità. E lo stesso avevano fatto in occasioni successive il governo tedesco ed il governo francese.

Una scelta di “buon senso” che produrrà altre tragedie come gli ultimi naufragi avvenuti nei pressi delle coste libiche e di Lampedusa, nella più totale indifferenza di una parte crescente dell’opinione pubblica italiana. Una scelta “di buon senso” che permetterà di tenere lontane le navi di soccorso delle ONG, ma anche le navi commerciali, ed i pescherecci di diversa nazionalità dalla zona di ricerca e salvataggio nella quale, nel Mediterraneo centrale, più frequentemente si verificano tragedie che in diversi casi rimangono senza testimoni. Una scelta di “buon senso” che contrasta con il diritto internazionale del mare, che nel nostro ordinamento interno può assumere una precisa efficacia cogente, per effetto dei richiami operati dalla Costituzione italiana agli articoli 10, 11 e 117. Un richiamo che il Tribunale dei Ministri di Roma ha evidentemente sottovalutato, ritenendo in sostanza che, nel caso di soccorsi in alto mare, tutto dipenda dagli accordi raggiunti tra gli stati, e che nel tempo che occorre per raggiungere queste intese, le persone possono pure annegare, per i ritardi negli interventi di salvataggio, conseguenza della mancanza di mezzi disponibili, se non delle trattative in corso, o essere condannate a vagare per settimane in acque internazionali.

3. Per quanto riguarda il cd diritto internazionale del mare l’ambito di norme che vincolano direttamente gli stati è certamente ristretto, e prevale il riconoscimento dello strumento convenzionale per dare concretezza al rispetto dei doveri di ricerca  e soccorso in mare. La doverosa tutela della persona umana impedisce però di considerare la singola Convenzione internazionale o peggio alcune sue disposizioni, in una dimensione atomistica, senza tenere conto di tutte le altre Convenzioni internazionali, del diritto umanitario dei rifugiati e degli obblighi di cooperazione tra gli stati per garantire la dignità umana in un quadro di giustizia e di pace

Le Convenzioni internazionali di diritto del mare sono state ratificate anche dall’Italia, con leggi dello stato e non possono essere ridotte al rango di soft law, come se contenessero solo norme di indirizzo e gli stati ne potessero decidere discrezionalmente l’applicazione o la disapplicazione.

Le norme internazionali sulla ricerca e sul salvataggio (SAR) dei naufraghi in pericolo in alto mare sono contenute:nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare(UNCLOS) stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994, che sancisce che ogni Stato contraente deve obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto. Si deve ricordare poila Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS-Safety of Life at Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980 e la Convenzione di Amburgo del 1979 resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994, che ha individuato nel Ministero dei Trasporti l’Autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della Convenzione e nel Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto, l’organismo nazionale che deve assicurare il coordinamento dei servizi di soccorso marittimo ed i contatti con gli altri Stati. Da tutte queste Convenzioni emerge un obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, riguarda sia i comandanti delle navi che gli stessi Stati contraenti. Rientra nell’obbligo di ricerca e soccorso in mare l’individuazione di un porto sicuro dove sbarcare i naufraghi dopo le prime attività di soccorso.

È soprattutto la Convenzione di Amburgo del 1979 (detta anche Convenzione SAR) che stabilisce gli obblighi, le procedure e le modalità organizzative che gli Stati contraenti devono seguire per assicurare la ricerca e il soccorso in mare di persone in pericolo. Era sempre più evidente che una normativa nata per regolare il soccorso in mare quando i casi di soccorso riguardavano principalmente navi commerciali e passeggeri, appariva assai lacunosa quando si trattava di avviare attività di ricerca e salvataggio in favore di imbarcazioni cariche di persone migranti, per le quali non si poteva neppure distinguere tra avvistamento, valutazione della navigabilità e situazione di pericolo immediato (distress). Per effetto del sovraccarico, della mancanza di adeguate riserve di acqua e cibo e soprattutto per l’assenza di mezzi individuali e collettivi di salvataggio, tutte queste imbarcazioni non potevano che trovarsi in una situazione di distress immediato e dunque tale circostanza rendeva impossibile attendere lo scambio di informazioni e l’avvio di una collaborazione ( spesso) contestata tra stati, quando era in gioco il valore fondamentale della vita umana in mare. Una volta avvenuto il primo soccorso restava poi da risolvere il nodo del paese competente ad indicare il porto sicuro di sbarco, nel rispetto delle Convenzioni internazionali che vietavano lo sbarco in paesi che non garantivano i diritti fondamentali della persona.

La formulazione originaria dei diversi capitoli della Convenzione di Amburgo appare rivolta principalmente a regolare i rapporti di collaborazione tra stati, ma se si considerano isolatamente i singoli articoli non contiene disposizioni che risultino vincolanti per gli stati, anche in base alla terminologia adottata. La Convenzione può essere modificata attraverso “emendamenti” che devono essere comunque accettati dalle parti contraenti. Una volta modificata la Convenzione gli emendamenti ne assumono la stessa valenza normativa del Testo che integrano,ma solo per le parti che vi hanno aderito.

Sulla base della Convenzione di Amburgo ogni Stato contraente deve assicurare l’organizzazione di un adeguato “servizio SAR” all’interno dell’area assegnata alla propria responsabilità, oltre a doversi far carico, a certe condizioni, quale primo soggetto investito della segnalazione, anche degli eventi che accadono al di fuori della propria area di responsabilità. Si prevede in capo all’Autorità nazionale che ha coordinato il soccorso anche il dovere accessorio di assicurare che lo sbarco dei naufraghi avvenga in un“luogo sicuro” (c.d. place of safety) .

Il manuale IAMSAR specifica poi le prassi operative nei casi di soccorso in mare e di assegnazione del POS ( Place of safety) seguite per anni anche da parte delle autorità italiane.

Secondo il punto 2.1.7. della Convenzione, “la delimitazione delle regioni di ricerca e di salvataggio non è legata a quella delle frontiere esistenti tra gli Stati e non pregiudica in alcun modo dette frontiere”.

La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione di Amburgo – SAR) obbliga gli Stati parte a “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (punto 2.1.10).

La decisione dei giudici romani che si sono pronunciati sul caso della Alan Kurdi sembra negare la possibilità di configurare un obbligo a carico del ministro dell’interno competente ad indicare alla Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) un porto sicuro di sbarco. Si deve però considerare che i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016, che risultano immediatamente vincolanti per gli stati membri, prevedono espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. In base al Considerando n.8 del Regolamento n.656/2014, richiamato dal successivo Regolamento n.1624/2016, ” durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Si può quindi ritenere che per effetto di questo richiamo le disposizioni delle Convenzioni internazionali del mare ed i relativi emendamenti accettati dagli stati membri dell’Unione Europea diventino vincolanti per tutte le autorità di questi paesi.

Per far fronte ai problemi legati al consenso di uno Stato allo sbarco delle persone tratte in salvo, gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), hanno adottato Emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza(place of safety -POS) inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita.

Nel 2001 entravano in vigore importanti emendamenti alla Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 sulla ricerca ed il salvataggio marittimo. (GU Serie Generale n.120 del 25-05-2001 – Suppl. Ordinario n. 128. In base a questi emendamenti, L’annesso che comprende gli emendamenti sostituisce molte parti del testo della Convenzione, fatti salvi i paragrafi 2.1.4, 2.1..5, 2.1.7, 2.1.10, 3.1.2 e 3.1.3.

L’ Organizzazione marittima internazionale (IMO), ha quindi cercato di chiarire le procedure esistenti per la determinazione di un “porto di sbarco sicuro” attraverso l’adozione di due Risoluzioni di Emendamento rispettivamente alla Convenzione SOLAS (Ris. MSC. 153 (78), 20 maggio 2004) e alla Convenzione SAR (Ris. MSC. 155 (78), 20 maggio 2004), entrate in vigore il primo luglio 2006.
Gli emendamenti ribadiscono l’obbligo per il comandante di soccorrere chiunque venga trovato in difficoltà in mare e per gli Stati responsabili delle rispettive zone SAR di adottare tutte le misure necessarie affinché le operazioni di soccorso e salvataggio vadano a buon fine.

In base al punto 3.1.9 della stessa Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, ” la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

Putroppo sugli emendamenti alle Convenzioni introdotti nel 2004 manca l’accordo del governo maltese, ma se un paese, come l’Italia, li ha ratificati non può sottrarsi certo alla loro operatività.

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano che: 1)in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo che venga a conoscenza di un caso di pericolo,anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento; 2) lo Stato cui appartiene lo MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status.

Da questo complesso quadro di disposizioni contenute in Convenzioni internazionali deriva per gli stati l’obbligo di portare a compimento l’azione di ricerca e soccorso con lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety). Nessuna disposizione di diritto internazionale autorizza gli stati a considerare le persone “al sicuro” su una nave tenuta a tempo indeterminato al di fuori delle acque territoriali. La nave soccorritrice può essere considerata soltanto come un luogo sicuro temporaneo. Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come porto sicuro, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).

La competenza alla individuazione di un porto sicuro di sbarco ricade sullo stato che per primo ha ricevuto la notizia dell’evento di distress e ha predisposto le prime attività di ricerca. Questo, è non altro, corrisponde al concetto di “primo contatto” richiamato nelle Convenzioni internazionali, che non può intendersi dunque come “primo contatto” tra i naufraghi e la nave soccorritrice. Nessuno stato avvertito per primo di un soccorso può rifiutare questa competenza, o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, perché altrimenti sacrificherebbe diritti fondamentali della persona e nei casi più gravi lo stesso diritto alla vita.

Per questa ragione appare fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile, attivando tutte le forme di coordinamento previste dalla Convenzione di Amburgo (SAR). Non possono assumere rilievo, in definitiva, se isolatamente considerati, altre singole previsioni della Convenzione SAR, come ad esempio i punti 3.1.3 e 3.1.4 della stessa Convenzione (relativi all’ingresso delle unità soccorritrici nelle acque territoriali, che pure i giudici romani richiamano, di per sé privi di autonoma valenza normativa come diritto cogente. Piuttosto vanno messi in risalto l’obbligo primario di salvaguardare il diritto alla vita, e gli altri diritti fondamentali della persona, nel quadro del complesso normativo internazionale richiamato dal Regolamento europeo n. 656/2014. Che impone una serie conseguente di obblighi di intervento, tempestivo ed adeguato, agli organi ed alle autorità marittime del primo stato che ha avuto notizia della situazione di “distress“, seppure questa si sia verificata in acque internazionali ed al di fuori della zona SAR per cui risulta competente quello stato.

Per un altro verso, se si criticasse la decisione dei giudici romani che hanno “archiviato” la posizione dell’ex ministro dell’interno Salvini nel caso Alan Kurdi, asserendo, sulla base di una interpretazione atomistica della Convenzione SAR, che la competenza dei soccorsi non spetta all’autorità statale che per prima è entrata in contatto con i naufraghi, che di solito è l’IMRCC di Roma, ma all’autorità competente a seconda della zona SAR nella quale si è svolto l’evento di soccorso, si finirebbe per legittimare gli accordi di cooperazione operativa tra Italia, Malta e Libia ed i respingimenti delegati alle motovedette tripoline, da quando il 28 giugno del 2018 il governo Serraj (GNA), oggi in conflitto con le milizie del generale Haftar (LNA), ha autoproclamato una zona SAR “libica” subito riconosciuta dalle autorità italiane. Con le conseguenze che dovrebbero essere note a tutti, soprattutto ai ministri dell’interno che hanno rapporti diretti con le milizie libiche.

4. In base al Decreto ministeriale 14 luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina in G.U. n. 220 del 2003), successivo alla legge Bossi Fini del 2002 vengono indicate le competenze delle diverse autorità nazionali, in particolare all’art. 6 secondo cui:
1. Ferme restando le competenze dei prefetti dei capoluoghi di regione ai sensi dell’art. 11, comma 3, del testo unico in materia di coordinata vigilanza, nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina militare e delle Capitanerie di porto concorrono a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti, informata la Direzione centrale e sotto il coordinamento dell’organizzazione di soccorso in mare di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994, n. 662, provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria.
2. Al fine di rendere più efficace l’intervento delle Forze di polizia nelle acque territoriali è stabilita una fascia di coordinamento che si estende fino al limite dell’area di mare internazionalmente definita come «zona contigua» nelle cui acque il coordinamento delle attività navali connesse al contrasto dell’immigrazione clandestina, in presenza di mezzi appartenenti a diverse amministrazioni, è affidato al Corpo della guardia di finanza
”.

Non conta la bandiera che batte la nave soccorritrice. Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.

Il Contrammiraglio Nicola Carlone, della Guardia costiera italiana, già nel corso di un’audizione parlamentare del 3 maggio 2017. aveva spiegato che “Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi. Il caso Hirsi lo dimostra”. Lo stesso aveva poi aggiunto che “il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina tuttavia la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), come si dirà meglio in seguito. Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC ( Centrale di comando della guardia costiera) che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate”. Il fatto che la nave soccorritrice possa essere considerata, in base alla Convenzione UNCLOS, come un’estensione del territorio olandese “non è infatti rilevante ai fini del Regolamento di Dublino, che individua il Paese dove devono essere compiuti gli accertamenti necessari per stabilire chi abbia o no il diritto alla protezione internazionale”. I naufraghi soccorsi in acque internazionali vanno sbarcati nel porto sicuro più vicino, soprattutto qualora tra essi vi siano richiedenti asilo, minori non accompagnati, donne con bambini piccoli, altri soggetti in situazioni di vulnerabilità come le persone provenienti dalla Libia che, in misura crescente, sono state vittime di tortura o di abusi sessuali.

5. Bisogna quindi tenere conto del fatto che la maggior parte delle le persone a bordo delle navi che le hanno soccorse intendono fare richiesta di una forma di protezione internazionale, cioè l’asilo politico o la protezione per motivi umanitari, e vanno perciò considerate dei richiedenti asilo. La mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco non può tradursi di fatto in un respingimento collettivo.

L’articolo 10 del Testo unico sull’immigrazione 286/98 prevede l’ipotesi dei respingimenti, cioè la pratica di allontanare dalla frontiera uno o più migranti, ma solo su base individuale, Il Testo unico specifica chiaramente all’art.19 che il respingimento non può avvenire «nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari». La legge italiana, in sostanza, vieta di respingere persone che chiedono di ottenere una qualsiasi forma di protezione internazionale. La mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, come il divieto di ingresso nelle acque territoriali si traduce di fatto in un respingimento collettivo sanzionato da norme cogenti contenute in Convenzioni o in Carte internazionali ratificate dall’Italia, come la Convenzione di Ginevra (art.33), il Quarto protocollo allegato alla CEDU (art.4) e l’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che vietano i respingimenti collettivi. Norme che non possono definirsi di applicazione discrezionale da parte di uno stato, come l’Italia, che ricade sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite e della Corte europea dei diritti dell’Uomo, oltre che della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del Tribunale Penale internazionale.

Quanto deciso dal Tribunale dei ministri di Roma, che avrebbe “scagionato” l’ex ministro dell’interno Salvini, fa leva principalmente sulla qualificazione della nave battente bandiera straniera come territorio dello stato estero, in base alla Convenzione UNCLOS, e sulla efficacia non cogente degli emendamenti approvati nel 2004 in sede IMO alle Convenzioni internazionali di diritto del mare. La decisione adottata dai giudici romani, soprattutto, risente in maniera determinante della modesta ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Roma che si sarebbe sostanzialmente limitata a contestare un reato di lieve entità come l’abuso d’ufficio, ipotesi che richiede una particolare configurazione dell’elemento soggettivo ed una precisa individuazione della catena di comando dalla quale è scaturito il divieto di ingresso nelle acque territoriali e quindi la omessa indicazione di un porto di sbarco sicuro. Mentre appaiono rilevanti aspetti omissivi nello svolgimento delle attività di ricerca e soccorso che i giudici romani hanno evidentemente ignorato.

In base all’art. 69 del Codice della navigazione,”l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire”. In base all’art. 1113 dello stesso Codice della navigazione ” viene punito per omissione di soccorso “chiunque, nelle condizioni previste negli articoli 70, 107, 726, richiesto dall’autorità competente, omette di cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave, di un galleggiante, di un aeromobile o di una persona in pericolo ovvero all’estinzione di un incendio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”. In base alle più recenti modifiche introdotte dal decreto sicurezza bis, e prima ancora secondo le prassi imposte dal ministero dell’interno a partire dal mese di giugno del 2018, si può ritenere che gli stessi obblighi di intervento incombano sull’autorità politica ( il ministro dell’interno) che detta le decisioni all’autorità marittima in materia di soccorso in acque internazionali e di designazione del porto di sbarco sicuro.

6. Per diritto cogente (jus cogens), ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, si intendono quelle norme contenute nei Trattati e nelle Convenzioni internazionali che non possono essere derogate dagli stati. “ È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.

Come si vede la Convenzione di Vienna richiama il diritto cogente ma non chiarisce da quali norme sia composto. Secondo la dottrina più accreditata occorre innanzitutto fare riferimento ai principi affermati dalla  Carta delle Nazioni Unite ( in base all’art. 103 della Carta) e nei Trattati dell’Unione Europea, ai quali oggi possiamo aggiungere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Le norme vincolanti non sono molte, ma certamente vi possiamo ricomprendere quelle relative alla tutela della vita e della dignità dell’Uomo, ed al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona che spettano a qualunque essere umano, senza alcuna possibilità di discriminazione a seconda della nazionalità , del sesso, della religione o della razza.

Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi, «secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso». Per la Corte, «dotato di questo contenuto e di questa estensione il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status
dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva» (articolo 53 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

Secondo l’UNHCR in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003; ecc.). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia), come verso lo “stato di bandiera”, rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso e che magari si trova già all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, viola norme cogenti di diritto internazionale.

Il principio di non refoulement implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. In altre parole, è possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”. Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale. Criminalizzare l’intervento delle ONG ed indicare la competenza dello stato di bandiera per la individuazione del POS ( place of safety) di sbarco, significa negare il diritto fondamentale della persona soccorsa in mare di chiedere protezione ad un qualsiasi paese, perché in tutte le occasioni in cui il governo italiano Conte-Salvini ha tentato di dirottare su altri stati la responsabilità per la individuazione di un porto di sbarco sicuro, questi stati hanno declinato la loro competenza.

Un gruppo di giuristi del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha scritto al governo italiano richiamando l’art. 98 della Convenzione UNCLOS che il decreto legge sicurezza bis sembra trascurare, richiamando soltanto una norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale della libertà di navigazione (art. 19), precisando che la normativa introdotta dalla Convenzione «is con-sidered customary law. It applies to all maritime zones and to all persons in distress, without discrimination, as well as to all ships, including private and NGO vessels under a State flag» . In ordine alle attività SAR ed alla indicazione di un porto di sbarco sicuro TUTTI i naufraghi vanno sbarcati nei tempi più rapidi senza che gli stati possano distinguere a seconda della loro vulnerabilità, della loro età o del loro sesso. Con l’ovvia riserva preferenziale delle evacuazioni per accertate condizioni sanitarie d’urgenza ( MEDEVAC). Una volta a terra potranno avviarsi le procedure di redistribuzione tra diversi paesi, e le procedure di allontanamento forzato, per quanti siano privi di validi documenti di ingresso e non facciano richiesta di protezione. Prima delle procedure hot spot ( vedi art.10 T.U. 286/98), non si potrà distinguere tra minori, vulnerabili, richiedenti asilo e migranti cd. economici.

7. Continuano ad essere ignorate le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa sugli obblighi di soccorso in mare spettanti agli stati. L’archiviazione del procedimento penale instaurato a carico di Salvini per la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco risente di una lettura del diritto internazionale del mare che si basa su una interpretazione aberrante dell’obbligo degli stati concernenti la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Un obbligo che di fatto verrebbe cancellato, stando ad una interpretazione che si presta, se si dovesse consentire il riconoscimento del principio della bandiera che batte la nave soccorritrice, a traversate pari alla metà della circumnavigazione del globo, e comunque a diverse settimane di navigazione, per sbarcare i naufraghi ( si pensi alle numerose navi commerciali che battono bandiera panamense). A meno di ritenere che i giudici romani abbiano voluto adottare una decisione ad navem, nei confronti delle navi private delle Organizzazioni non governative, esattamente come, prima e dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, erano ad navem le misure interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali adottate dal ministro dell’interno contro le ONG e soltanto contro le navi umanitarie.