di Fulvio Vassallo Paleologo
1.Ancora una volta una decisione della giurisdizione in materia di protezione umanitaria, al di là della sua effettiva portata, diventa occasione per un totale capovolgimento della narrazione dei fatti ed offre il pretesto per l’ennesimo strumentale attacco a quei giudici che applicano correttamente la legge, tenendo conto del principio di gerarchia delle fonti e del dettato della Costituzione italiana. Per Salvini, ” «Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza». Come al solito non si va oltre gli slogan propagandistici. Come se la portata degli istituti che prevedono il diritto alla protezione, materia sulla quale si è intervenuti con il decreto sicurezza n. 113/2018, poi convertito nella legge n. 132/2018, fosse collegata alla ricorrenza dei divieti di accesso alle acque territoriali stabilite successivamente dal cd. decreto sicurezza bis n. 53/2019. Se un nesso si vuole trovare tra i due provvedimenti questo non si rinviene nelle fonti normative ma nella propaganda diffusa dall’ex ministro dell’interno che, per giustificare misure amministrative, e poi legislative, di interdizione dell’ingresso nelle acque territoriali per le sole ONG, ha confusamente fornito dati infondati sullo scarso numero di “naufraghi” che riuscivano ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale. Come se fosse legittimo abbandonare in alto mare o alle motovedette libiche tutti gli altri. Persone e non numeri da portare in contabilità come un successo personale in vista della campagna elettorale permanente.
Con il deposito di tre diverse decisioni a Sezioni unite (n.29459, 29460 e 29461, due per conflitto armato e l’altra per l’esistenza di legami familiari in Italia) la Corte di Cassazione respinge le ordinanze di rimessione che, in conformità a quanto ritenuto dal ministero dell’interno, sostenevano la natura retroattiva del decreto legge n.113 del 2018 ( poi convertito nella legge 132 dello stesso anno) che aboliva l’istituto della protezione umanitaria. Il decreto Salvini risulta dunque inapplicabile retroattivamente alle domande già pendenti alla data del 5 ottobre 2018 e il riconoscimento della protezione va valutata con la vecchia normativa e quindi alla stregua dei criteri che comportavano in precedenza il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria ex art. 5.6 del Testo unico n.286/98 anche se il permesso rilasciato dovrebbe essere quello “speciale annuale rinnovabile” previsto dal Decreto n.113/2018 (articolo 9, comma 1).
La lettura distorta delle decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione è stata la linea scelta da chi vedeva sconfitta la propria tesi della retroattività del decreto legge n.113/2018, che avrebbe comportato il respingimento della maggior parte delle domande ( si stima attorno a 60.000 richieste di protezione) e dei ricorsi ancora pendenti al momento dell’entrata in vigore del provvedimento ( 5 ottobre 2018). Domande e ricorsi che adesso, dopo il triplice pronunciamento della Corte di cassazione, dovranno essere esaminati con gli stessi criteri previsti in passato per il riconoscimento della protezione umanitaria. Come chiariva già il Procuratore generale presso la Corte di cassazione all’udienza del 24 settembre 2019 di fronte alle Sezioni unite.
Tutte e tre le sentenze della Corte, depositate il 13 novembre scorso, accolgono i ricorsi presentati dal Ministero dell’interno che aveva impugnato pronunce di diverse Corti di appello (Firenze e Trieste) favorevoli al riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in tre distinti procedimenti: il primo riguardava un cittadino bengalese che aveva ottenuto un’assunzione in Italia, il secondo un gambiano che “studia e coltiva i suoi principali legami sociali” nel nostro Paese, mentre in Gambia “non ha rapporti familiari di rilievo”, e il terzo un altro gambiano per il quale i giudici di Trieste avevano riconosciuto la protezione sulla base era “situazione critica dovuta al disordine complessivo del Gambia e alle primitive strutture giudiziarie e carcerarie sotto il profilo della tutela dei diritti individuali, considerato che sarebbe stato sottoposto a procedimento penale ove fosse rientrato nel Paese di provenienza”.
Le Sezioni unite sono state costrette a pronunciarsi per una opposta interpretazione della disciplina sul diritto intertemporale derivante del Decreto 113/2018 da parte di due diverse sezioni della stessa Corte di Cassazione. A gennaio infatti la prima sezione presieduta dal giudice dott. Stefano Schirò aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza, la stessa sezione, la prima civile, aveva poi cambiato orientamento con un diverso giudice, il dott. Genovese, che aveva chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme che abolivano la protezione umanitaria. Nel frattempo migliaia di casi erano stati risolti con criteri incerti che avevano indotto ad un diniego, o venivano sospesi, con migliaia di persone allo sbando, anche per la chiusura di molti progetti di accoglienza, e quindi con un ulteriore aggravamento della situazione degli uffici giudiziari.
Con la Sentenza. n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sembrava risolvere i dubbi in tema di retroattività della nuova disciplina sulla protezione umanitaria. In quella sentenza la Corte rilevava innanzitutto che nel decreto sicurezza, poi convertito nella legge 132/2018,“non vi e’ una espressa disciplina legislativa di carattere intertemporale riguardante i giudizi in corso che seguano ad un accertamento positivo od ad un diniego delle Commissioni territoriali o espressamente rivolta ai procedimenti amministrativi in itinere alla data di entrata in vigore della nuova legge. L’unica regola inequivoca che si può cogliere dall’art. l, comma 9, riguarda il segmento conclusivo dell’accertamento positivo del diritto che, anche ove accertato alla stregua del parametro legislativo applicabile prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non può che assumere la denominazione ed il contenuto indicati nella norma non essendo più legislativamente previsto il permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
La sentenza 4890/2019 aveva quindi affermato la non retroattività della norma abolitrice della protezione umanitaria, contenuta nel decreto sicurezza 113/2018, adottando una motivazione sostanziale che si basava sulla natura della situazione soggettiva inerente la protezione umanitaria. Su questo aspetto vanno messi dei punti fermi perché le successive ordinanze della Cassazione che affermavano al contrario la natura retroattiva della nuova normativa, non richiamavano tali aspetti di diritto sostanziale, e meno che mai il fondamento costituzionale della protezione umanitaria, istituto che nel 2018 il legislatore ordinario avrebbe inteso abrogare. Secondo quella sentenza ed in conformità con la consolidata giurisprudenza della Corte,“ il diritto d’asilo costituzionale è integralmente compiuto attraverso il nostro sistema pluralistico della protezione internazionale, anche perché non limitato alle protezioni maggiori ma esteso alle ragioni di carattere umanitario, aventi carattere residuale e non predeterminato, secondo il paradigma normativo aperto dell’art. 5, c.6, d .lgs. n. 286 del 1998”.
La sentenza n. 4890/2019, aveva così escluso l’applicabilità del decreto “sicurezza” 113/2018 ai procedimenti amministrativi già iniziati davanti alle Commissioni Territoriali o ai giudizi in corso avverso i provvedimenti di accertamento o diniego del diritto, escludendo, in particolare, che si potesse precludere l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria se la Commissione Territoriale non l’avesse già riconosciuto alla data della entrata in vigore del decreto, dunque al 4 ottobre 2018, in adesione peraltro alla prevalente giurisprudenza di merito e sulla base di conclusioni conformi espresse dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
Con tre “ordinanze interlocutorie” (relatore Lamorgese) depositate il 3 maggio 2019, sulla disciplina intertemporale del decreto sicurezza, i giudici della prima sezione civile della stessa Corte di cassazione avevano trasmesso gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle Sezioni unite della Corte. Secondo queste ordinanze le nuove norme “in materia di permessi umanitari contenute nel decreto Sicurezza entrato in vigore lo scorso 5 ottobre devono essere applicate a tutti i giudizi in corso”.
Con la sentenza n. 29459 delle Sezioni unite e con le altre due emesse in conformità e depositate il 13 novembre scorso, la Corte di Cassazione ha affermato che il decreto legge 113/2018 non si applica alle cause in corso perché il diritto alla protezione è espressione di quello di asilo tutelato dalla Costituzione e sorge al momento in cui lo straniero arriva in Italia in condizioni di vulnerabilità per il rischio che siano compromessi i diritti umani fondamentali. La protezione umanitaria “attua il diritto d’asilo costituzionale”, cioè “scaturisce direttamente dal precetto dell’art. 10 della Costituzione”: “il che vale anche per i nuovi istituti” del legislatore, che devono “rispettare Costituzione e vincoli internazionali”, che può soltanto definire i criteri di accertamento e le modalità di esercizio di quel diritto.
Ove si accedesse alla tesi della retroattività dell’abolizione della protezione umanitaria si determinerebbe, secondo quanto osservano i giudici della Cassazione, un grave vulnus costituzionale, in particolare per violazione del principio di uguaglianza ( art. 3) oltre che dell’art. 10 comma 3. Persone che infatti si trovavano nella medesima situazione al momento della presentazione della domanda di asilo, e prima ancora al momento dell’ingresso in Italia, al tempo della manifestazione della volontà di chiedere protezione, potrebbero subire trattamenti diversi a seconda del tempo della decisione da parte della Commissione territoriale o del giudice, in caso di ricorso contro un eventuale diniego.
Secondo il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ” il pericolo di una effettiva ed irragionevole disparità di trattamento è evidente proprio nel caso di cui al ricorso n. 14044/2017 RG, oggi all’esame delle SSUU: il sig. Reza Mustakim Miah ha ottenuto – ben prima della entrata in vigore del decreto-legge n. 113 del 2018 – una sentenza favorevole della Corte di appello di Firenze, che gli ha riconosciuto la protezione umanitaria. Il Ministero ha presentato il ricorso oggi in discussione, sostenendo tra l’altro – a seguito della entrata in vigore del decreto-legge n.113 del 290018 – l’intervenuta abrogazione della protezione umanitaria già concessa. In mancanza di una specifica disciplina transitoria, se si adottasse la tesi della 4 efficacia retroattiva della abrogazione della protezione umanitaria, il sig. Miah si vedrebbe negare un diritto, già riconosciuto dal giudice, senza neppure la possibilità di contraddire alla posizione del Ministero. Ciò sembra essere del tutto contrario, oltre che al principio di eguaglianze e ragionevolezza, anche alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in relazione all’art. 6 della Convenzione ed in particolare alle leggi con effetto retroattivo: tra le molte conformi si veda la sentenza nel caso De Rosa ed altri c. Italia, 11 dicembre 2012, che ha affermato: “§ 47. La Corte ribadisce che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di disciplinare, in materia civile, diritti derivanti da leggi in vigore mediante nuove norme dalla portata retroattiva, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’articolo 6 ostano, fatti salvi motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (sentenze Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis sopra citata, § 49, serie A n. 301- B; Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri sopra citata, § 57). La Corte rammenta inoltre che l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte (si vedano in particolare le sentenze Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi del 27 ottobre 1993, § 33, serie A n. 274, e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, sopra citata, § 46).
Una volta riconosciuta l’esistenza dei vecchi requisiti, il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure sarà quello nuovo ” per casi speciali”, più breve e non convertibile. Secondo le Sezioni unite, “la permanente rilevanza della protezione umanitaria o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore”. Per la Corte “in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”.
2. Con la sentenza n.29459 depositata il 13 novembre scorso, le Sezioni Unite della Corte di cassazione aggiungono poi, ai fini del riconoscimento della protezione, che “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”. Quindi occorre attribuire”rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.
Quanto adesso affermato dalle Sezioni unite della Cassazione non costituisce una novità, come alcuni commentatori vorrebbero fare credere. Già nella circolare ministeriale del 4 luglio 2018 i “parametri” per il riconoscimento della protezione umanitaria venivano ristretti in base ad un precedente giurisprudenziale che si continua a citare nelle ultime decisioni della Cassazione a Sezioni Unite ( la nota sentenza della Cassazione n.4455 del 23 febbraio 2018) in base alla quale i “seri motivi” previsti dalla normativa nazionale per il riconoscimento della protezione umanitaria ( art. 5 comma 6 del Testo Unico n.286 del 1998) sarebbero stati “tipizzati” dalla ratio di tutelare situazioni di vulnerabilità, calate in concreto nella complessiva condizione del richiedente, emergente sia da indici soggettivi che oggettivi”, senza che “nessuna singola circostanza possa di per sé, in via esclusiva, costituire il presupposto per l’attribuzione del beneficio”. Secondo la sentenza n. 4455/2018 della Cassazione, “l’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere”. Un criterio già adottato dai giudici di merito, che però facevano, e continueranno probabilmente in futuro, a fare richiamo ai principi costituzionali ed agli obblighi di fonte internazionale evocati dall’art. 5. 6 del T.U. n. 286 del 1998, che la circolare ministeriale del 4 luglio 2018 sembrava invece ignorare del tutto. Malgrado le numerose sentenze di annullamento adottate dai Tribunali le decisioni delle Commissioni territoriali restavano fortemente condizionate dall’indirizzo impresso dal ministro dell’interno con la sua circolare, in totale dispregio della autonomia di giudizio imposta alle Commissioni dalla normativa europea, e il calo dei casi di riconoscimento della protezione umanitaria continuava indipendentemente dalle oscillazioni della giurisprudenza della Cassazione.
La precedente sentenza della Cassazione n.4455/2018, che ridefiniva le possibilità di riconoscimento della protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale e sembrava rendere più ardua la prova del diritto alla protezione, con riferimento alla situazione nel paese di origine, va comunque letta anche alla luce della successiva ordinanza n.11312/2019 della stessa Corte (sesta sezione civile), secondo cui, prima di respingere la richiesta di protezione, il giudice deve verificare se realmente il rimpatrio mette a rischio la sua vita. In particolare, in questa ordinanza si osserva che “questa Corte ha più volte chiarito che, ai fini dell’accertamento della fondatezza o meno di una simile domanda di protezione internazionale, il giudice del merito è tenuto, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, del d.lgs del 28 gennaio 2008, n.25, a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate e non di formule generiche come il richiamo a non specificate fonti internazionali“.
Il diritto alla protezione dipende, dunque, dalle condizioni di vulnerabilità “per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali” e non può essere riconosciuto considerando in maniera isolata e astratta il “contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza”.
Per tutti e tre i casi decisi adesso dalle Sezioni unite della Cassazione, si dovrà svolgere un nuovo processo d’appello, che tenga conto dei principi enunciati. Occorrerà sempre operare una valutazione comparativa della posizione soggettiva del richiedente con riferimento al proprio Paese a confronto con la situazione di integrazione raggiunta in Italia. Principio che non è nuovo e che è stato affermato anche da precedenti sentenze della Corte di Cassazione, che avevano già comportato una forte riduzione dell’area di applicabilità del vecchio istituto della protezione umanitaria, con la condanna alla clandestinità di migliaia di persone giunte in Italia mediamente da tre o quattro anni, ( già vittime della lunghezza delle procedure e poi dei processi) molte delle quali già inserite nel nostro contesto economico e sociale e per le quali appare del tutto irrealizzabile il progetto, di evidente portata elettorale, di rimpatri di massa con accompagnamento forzato ( e magari anche connessa detenzione amministrativa nei Centri di detenzione per i rimpatri, che ad oggi offrono circa mille posti in tutta Italia).
3. Le ultime sentenze delle Sezioni unite della Cassazione in materia di protezione umanitaria potrebbero sembrare il classico “bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno”, e tutti potrebbero dire di avere avuto ragione, ma in realtà non è così, per due ragioni fondamentali.
a) Innanzitutto escono sconfitti dal giudizio della Cassazione a Sezioni unite coloro che avevano sostenuto una interpretazione retroattiva del Decreto Salvini, come il ministero dell’interno ed i giudici che sul punto specifico, dopo una diversa decisione della stessa sezione della Corte, avevano rimesso la questione alle Sezioni unite.
La qualificazione giuridica del diritto alla protezione umanitaria, almeno fino al 4 ottobre 2018, e la natura meramente ricognitiva del giudizio di accertamento cui esso è assoggettato nella fase amministrativa e giudiziale dell’esame dei presupposti, come adesso riconosce la stessa Cassazione, inducono dunque a ritenere che la nuova disciplina legislativa non sia applicabile ai procedimenti in corso. Rimane incontestabile, ed incontestato, il principio affermato da anni dalla prevalente giurisprudenza di merito e consolidato negli orientamenti della Cassazione, secondo cui il diritto soggettivo, anche nel caso della protezione umanitaria, e comunque in tutti i casi riconducibili all’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana, preesiste alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone, mediante il procedimento amministrativo ed eventualmente giudiziale. Il risultato positivo o negativo dell’accertamento, dipende dal quadro probatorio posto a base della domanda ma non incide sulla natura giuridica della situazione giuridica soggettiva azionata e sulla incontestata natura dichiarativa della verifica amministrativa e giudiziale
Il cittadino straniero che manifesti la volontà di chiedere una qualsiasi forma di protezione matura quindi da quel momento il diritto ad un titolo di soggiorno fondato sui motivi desumibili dal quadro degli “obblighi costituzionali ed internazionali” assunti dallo Stato. Il legislatore può anche mutare la portata del riconoscimento dei casi diversi, dall’asilo e dalla protezione sussidiaria, rientranti nell’ampia copertura dell’art. 10 della Costituzione, ma non può modificare con effetto retroattivo gli effetti maturati rispetto ai presupposti della preesistente normativa, nel caso di specie l’art. 5 comma 6 del T.U. 286 del 1998, in assenza di una specifica disposizione intertemporale, che allo stato non appare certo rinvenibile nella formulazione del decreto “sicurezza” 113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 dello stesso anno.
b)Sul punto della ammissibilità di un terzo regime di protezione che si aggiunge al riconoscimento del diritto di asilo o della protezione sussidiaria già previsto dalla normativa dell’Unione Europea ed imposto da un preciso richiamo costituzionale, si sconfessa apertamente chi voleva “abolire” la protezione umanitaria, per lasciare in vigore solo la disciplina della cd. protezione internazionale ( termine con il quale si riassume il diritto di asilo e la protezione sussidiaria). Un tentativo che era partito con un preciso indirizzo del ministero dell’interno, poi tradotto in la Circolare del 4 luglio 2018 che aveva influenzato non poco le decisioni delle Commissioni territoriali competenti a decidere sul riconoscimento di uno status di protezione.
La Corte di cassazione, a Sezioni unite, conferma in queste tre pronunce come l’istituto della protezione umanitaria costituisca diretta attuazione del dettato costituzionale ( art. 10 comma 3) pur riconoscendo al legislatore ampi poteri per le modalità di riconoscimento, e non certo di “concessione” di tale diritto. Quanto deciso dalla Corte nelle tre decisioni depositate ieri spalanca dunque la via ad una serie di ricorsi alla Corte Costituzionale per verificare quanto il legislatore, con i decreti sicurezza che hanno “abolito” la protezione umanitaria, abbia esercitato quel potere senza violare i principi solidaristici affermati dall’art. 10 della Costituzione, e per rimando anche dalla normativa euro-unitaria, in virtù dell’art. 117 della stessa Costituzione.
La protezione umanitaria era prevista nel testo unico 286/98 (art. 5 c. 6) quando, pur non accogliendo la domanda di protezione internazionale, la Commissione territoriale riteneva di chiedere al questore il riconoscimento di una forma di protezione per seri motivi di carattere umanitario.
Prima del decreto legge n. 113/2008, poi convertito nella legge 132/2018, l’art. 5, comma 6, T.U. immigrazione (d.lgs 286/1998) così disponeva:«Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione». La norma era richiamata dall’art.32, comma 3, del d. lgs.n. 25/08, secondo il quale“nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale, e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286”.
Le Sezioni unite della Corte chiamate a pronunciarsi in materia di protezione umanitaria non costituiscono alcuna svolta, ma richiamano la consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione, secondo cui “ la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale, è stata affermata e mantenuta costante dalle S.U. di questa Corte a partire dall’ordinanza n.19393 del 2009 fino alle più recenti ( ex multis S.U.5059 del 2017; 30658 del 2018; 30105 del 2018; 32045 del 2018; 32177 del 2018). Tale peculiare natura, del tutto coerente con il richiamo al rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali indicati nell’art. 5, c.6, del d.lgs. n. 286 del 1998, ha avuto un notevole rilievo nella ricognizione dei presupposti per l’accertamento del diritto al permesso umanitario, svolta dalla giurisprudenza di legittimità. Si è ritenuto che essi fossero diversi da quelli posti a base delle protezioni maggiori e che la protezione umanitaria avesse carattere residuale (Cass. 4131 del 2011; 15466 del 2014), dal momento che le condizioni di vulnerabilità suscettibili di integrare i “seri motivi umanitari” non possono che essere correlati al quadro costituzionale e convenzionale al quale sono ancorati (Cass. 28990 del 2018)”.
Il legislatore italiano non può dunque sottrarsi, come si vedrà meglio per altre parti del decreto legge n.113/2018, al rispetto degli “obblighi internazionali dello stato italiano”. L’art. 5 comma 6 del Testo Unico 286 del 1998 che si è voluto abrogare costituiva una sorta di clausola di salvaguardia del sistema che consentiva di valorizzare quali ‘seri motivi di protezione umanitari e\o di rilievo costituzionale e internazionale’, particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti, quali, ad esempio, motivi di salute (con rischio di perdita delle opportunità di cura garantite in Italia) o di età, oppure anche una grave instabilità politica e insicurezza del paese di origine, anche se non attraversato da conflitti armati di gravità tale da raggiungere i requisiti che permettevano il riconoscimento della protezione sussidiaria, oppure la diffusione nello stato diprovenienza di episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali che consentivano di concedere l’autorizzazione temporanea al soggiorno ( in passato il permesso ‘umanitario’ biennale) per far fronte alla durata, normalmente non illimitata, delle emergenze umanitarie.
Nella nuova disciplina introdotta dal decreto legge n.113/2018, poi convertito nella legge n.132/2018, si prevede con l’abrogazione del permesso di soggiorno per seri motivi umanitari un nuovo tipo di permesso di soggiorno per “protezione speciale”, legato al rischio che si verifichi un allontanamento verso il paese di origine in violazione del divieto sancito dall’art. 19 commi 1 e 1.1 del d.lgs. n. 286/98, che in particolare vieta l’espulsione o il respingimento verso paesi nei quali la persona possa essere sottoposto a rischio di morte o di tortura, ed anche in casi di “violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Appare evidente, per quanto riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza di merito e dal consolidato indirizzo della corte di Cassazione, che tali casi andranno riconosciuti con una valenza tale da corrispondere al dettato dell’art. 10 comma 3 della Costituzione, restando aperta la possibilità, ove iò non avvenisse, di una applicazione diretta della norma costituzionale, o di una censura di costituzionalità della norma del decreto sicurezza n.113, poi convertito nella legge n.132 del 2018, che ha introdotto la protezione per casi speciali, se di questa norma si dovesse fornire una interpretazione restrittiva, tale da non corrispondere alla più ampia portata dell’art. 10 comma 3 della stessa Costituzione.
Come osserva la Corte di cassazione a Sezioni unite nella sentenza n. 29459/19, se la protezione umanitaria attuava il diritto di asilo costituzionale, come riconosciuto da ultimo anche dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24 luglio 2019, n. 194, “nonostante l’intervenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nell’art. 5.6 del t.u. n.2886 del 1998, anche i nuovi istituti relativi al riconoscimento della protezione per casi speciali devono rispettare la Costituzione ed i vincoli internazionali ( in questo specifico senso la Corte Costituzionale con sentenza n.194 del 2019).
La normativa europea peraltro prevede espressamente che in caso di rifiuto di un permesso di soggiorno e di avvio di una procedura di rimpatrio, gli stati possano “decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari, o di altra natura, un permesso di soggiorno autonomo, o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”( in questo senso la Direttiva rimpatri n. 2008/115/CE all’articolo 6, paragrafo 4).
4. Toccherà adesso alla giurisdizione nel suo complesso, dunque ai singoli giudici ed avvocati, affrontare questa materia tenendo presenti i principi costituzionali e sollevando questioni di costituzionalità nei singoli casi di contrasto con l’attuazione delle norme che avrebbero ridimensionato la protezione umanitaria riducendola a “casi speciali”.
Alla stregua della sentenza della Corte di cassazione n.15466 del 2014, l’istituto della protezione umanitaria veniva riconosciuto come risolutivo del problema della applicabilità diretta dell’art. 10 comma 3 della Costituzione. Ipotesi che si ripropone immediatamente qualora si dovesse ritenere che il legislatore abbia voluto abrogare del tutto questo istituto, cancellando la dizione “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Secondo l’orientamento consolidato negli ultimi anni in Cassazione, «il diritto di asilo è […] interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale» (Cass. civile, sez. VI, n. 10686/2012, confermata da Cass. civile, sez. VI, n. 16362/2016). Secondo questa lettura della normativa costituzionale, la legge cui rinvia l’art. 10, terzo comma, Cost. ha il compito di precisare le condizioni del rilascio e i requisiti del richiedente, di regolare la procedura del riconoscimento e i casi di cessazione ma non può limitare il diritto di asilo a un gruppo di soggetti (gli aventi diritto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria), escludendo tutti coloro che si trovano in altri modi privati dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza”.
Se si dovesse accedere alla tesi dell’”abolizione” della protezione umanitaria, prima per circolare nel luglio dello scorso anno, e poi con decreto, senza attribuire una valenza ampia ai “casi speciali” di protezione, che pure il legislatore richiama nel decreto legge n.113/2018 e nella legge di conversione n.132/2018, si potrebbe verificare una espansione dell’ambito di operatività diretta dell’art. 10, comma terzo della Costituzione, che potrebbe essere immediatamente azionabile davanti al giudice ordinario, anche con riferimento alla integrazione sociale raggiunta in Italia, in relazione ala condizione soggettiva nella quale si troverebbe il richiedente in caso di rimpatrio nel paese di origine.
Quando il Presidente della Repubblica Mattarella, il 4 ottobre 2018, aveva firmato il Decreto Legge “immigrazione e sicurezza” n.113/2018, aveva allegato al provvedimento una lettera in cui si avvertiva “l’obbligo di sottolineare che, in materia», «restano ‘fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo”. Il Presidente della Repubblica ricordava in particolare “quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia” . Obblighi costituzionali ed internazionali che potrebbero essere violati anche in via amministrativa se l’adozione di una “lista di paesi terzi sicuri”, prevista dal decreto sicurezza n.113 del 2018( poi convertito nella legge n.132) dovesse comportare una procedura accelerata e magari una valutazione automatica, in senso negativo, delle richieste di protezione delle persone provenienti da quei paesi.
Come osservato dalla Associazione nazionale magistrati (ANM) a tale riguardo,“venendo, infatti, in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale (così parere approvato dal CSM sul testo licenziato al Senato). Resta, fermo, in ogni caso, come anche raccomandato dalla Commissione Europea, il dovere del giudice di procedere all’esame pieno ed individualizzato della domanda di protezione internazionale, dovendosi comunque indagare a fondo le esigenze di protezione internazionale di ciascun richiedente asilo in ossequio agli obblighi costituzionali ed internazionali ed al fine di evitare il rischio di violare il divieto di trattamenti inumani e degradanti.”
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 194 del 2019 (che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da cinque Regioni a statuto ordinario in riferimento anche all’avvenuta abrogazione del permesso umanitario) ha affermato che “l’effettiva portata dei nuovi permessi speciali potrà essere valutata solo in fase applicativa, nell’ambito della prassi amministrativa e giurisprudenziale che andrà formandosi, in relazione alle esigenze dei casi concreti e alle singole fattispecie che via via si presenteranno. L’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, dunque, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. sull’ immigrazione”. Secondo la Corte Costituzionale, “la doverosa applicazione del dato legislativo in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rivelare che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili. Diversamente questa Corte potrà essere adita in via incidentale, restando ovviamente impregiudicata, all’esito della presente pronuncia, ogni ulteriore valutazione di legittimità costituzionale della disposizione in esame”.
Le decisioni più recenti della Cassazione, per quanto adottate a Sezioni Unite, non andranno dunque nella direzione di una riduzione della conflittualità in questa materia. Né si può scaricare sulla giurisprudenza il peso di scelte legislative di chiara matrice ideologica e propagandistica. Come ricorda il Corriere della Sera ” una prassi sbrigativa da mesi induce molti uffici di questura a eseguire l’espulsione dei richiedenti asilo che dopo un primo rigetto si presentino a reiterare domanda di protezione internazionale, che una norma del decreto Salvini 2018 dispone nemmeno venga presa in considerazione per un esame neanche preliminare degli eventuali nuovi motivi di protezione addotti dal migrante. Ma il Tribunale civile di Milano disapplica appunto questa norma italiana, e al suo posto applica direttamente la contrastante (ma sovra-ordinata) regola della Direttiva comunitaria 2013/32, che (come chiarito già dalla Corte Ue nel caso del Belgio) pretende almeno un esame preliminare» dei possibili “elementi nuovi”. Compito di cui dunque non può essere spossessata la competente Commissione Territoriale (il che ferma intanto le espulsioni). Per un altro verso si nota che la Corte di cassazione, nelle sue più recenti pronunce in tema di protezione umanitaria, a causa anche dell’abolizione del grado di appello, è stata costretta a trasformarsi in un giudice del fatto, ben oltre la sua naturale funzione di giudice di legittimità. Si scontano così le conseguenze dell’abolizione del grado di appello nei ricorsi contro i dinieghi della protezione umanitaria o internazionale.
Spetta ai politici, al Governo ed al Parlamento, nel suo complesso, prendere atto del fallimento, “sul campo” dell’applicazione concreta, del decreto sicurezza 132 del 2018 in materia di “abrogazione” della protezione umanitaria, e adottare quanto prima provvedimenti che ne cancellino gli effetti, che oggi si stanno traducendo in decine di migliaia di persone alle quali si nega il diritto ad esistere legalmente, se non lo stesso diritto alla vita ed alla dignità umana.