di Fulvio Vassallo Paleologo
1.L’aggressione turca contro il Rojava e le popolazioni curde è stata soltanto l’ultima e più drammatica fase della guerra che si sta combattendo nel Mediterraneo contro i diritti umani. Non a caso l’attacco ordinato da Erdogan è stato preceduto da una intensificazione delle partenze di profughi in fuga verso le isole greche ed il “sultano” ha prontamente ricordato all’Unione Europea gli accordi conclusi nel 2016 volti a bloccare ogni via di fuga dei siriani, e dei potenziali richiedenti asilo provenienti da paesi come il Pakistan, l’Afghanistan, l’Iraq. Accordi che adesso dovranno essere rinnovati e che rimangono al centro delle politiche di esternalizzazione dei controlli alle frontiere dell’Unione Europea.
Alla logica concentrazionaria, ormai dominante in Turchia, corrisponde la utilizzazione dei profughi siriani come massa d’urto, sia nel nord della Siria, per cancellare l’esperienza del Rojava democratico, perpetrando crimini di guerra per ottenere una “fascia di sicurezza” che si vorrebbe riempire di campi di raccolta, che nel Mediterraneo, dove gli arrivi in Grecia si stanno moltiplicando anche se le intese con L’Unione Europea e con l’agenzia Frontex stanno consentendo detenzioni arbitrarie e respingimenti collettivi.
Come scrive Alberto Negri, ” sull’orlo della Brexit l’Europa ingurgita tutto, pronta con la Germania in testa a pagare ancora Erdogan per tenersi una parte dei profughi siriani, a respingere i nuovi rifugiati curdi e con la Francia che, forte dell’uscita prossima della Gran Bretagna, mette il veto al processo di adesione di Albania e Macedonia”.
La violazione sistematica dei diritti umani, che si sta verificando nei territori siriani, e nelle acque del Mediterraneo, non sta ottenendo risultati da propagandare come fattore di deterrenza delle migrazioni forzate, mentre quotidianamente sono visibili i crimini contro l’umanità che vengono commessi dalle autorità statali. Secondo lo statuto della Corte Penale internazionale, costituisce crimine contro l’umanità, infatti, l’“attacco (i) esteso o sistematico (ii) diretto contro ogni popolazione civile (iii), realizzato consapevolmente (v) in esecuzione del disegno politico di uno Stato o organizzazione (iv)”. Si può dunque osservare come gli ” accordi in parola potrebbero astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale exart. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Infatti, ” la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano.
Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti. Considerazioni non diverse si potrebbero prospettare anche in merito dell’aggressione della Turchia nei confronti della popolazione curda del Rojava, fondata sul ricatto che Erdogan può permettersi nei confronti dell’Europa, condizionata dai timori dell’arrivo di un numero di nuovo assai elevato di potenziali richiedenti asilo e rifugiati. Da questo punto di vista non possono sottrarsi alle loro responsabilità gli stati che nel 2016 hanno concluso accordi con il governo turco, accordi poi ratificati dagli organismi europei.
Aumenta intanto il numero delle vittime, anche per il ricorso sistematico, in Siria come in Libia, a milizie paramilitari che vengono inserite organicamente negli apparati militari degli stati che collaborano con l’Unione europea nelle pratiche di contrasto di quella che viene sbrigativamente definita come immigrazione “illegale” . Anche se si tratta di persone, in molti casi soggetti vulnerabili, come vittime di tortura, donne e minori non accompagnati, che avrebbero diritto di accedere ad un territorio sicuro ed a una procedura imparziale per il riconoscimento di uno status legale di protezione. La tutela della persona umana, e dello stesso diritto alla vita, viene così subordinata alla discrezionalità degli apparati militari ed alla funzione di deterrenza degli arrivi in Europa.
Secondo un recentissimo rapporto delle Nazioni Unite, al 30 settembre scorso, erano circa 80.800 i migranti arrivati attraverso le tre rotte del Mediterraneo (Occidentale, Centrale ed Orientale) verso l’Europa, con un calo del 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (102.700). Nei primi nove mesi di quest’anno sono arrivate in Grecia circa 46.100 persone, 23.200 in Spagna e appena 7.600 in Italia. Inoltre, circa 1.200 persone sono arrivate via mare a Cipro, insieme circa 2.700 persone sono sbarcate a Malta. Non sono state soltanto le isole greche, soprattutto Lesvos, la meta dei migranti fuggiti ( o lasciati fuggire) dalla Turchia. Molti profughi hanno continuato a spostarsi via terra dalla Grecia attraverso i Balcani occidentali, con solo un piccolo numero di persone rimaste nei Balcani occidentali e in cerca di asilo. Quest’anno, al 30 settembre, il Ministero della Sicurezza aveva riferito che circa 21.800 la gente era arrivata in Bosnia ed Erzegovina, con migliaia di persone che si radunavano nel nord-ovest vicino al confine con la Croazia.
Alle frontiere esterne dell’Unione Europea (UE), centinaia di rifugiati e migranti continuano a subire trattamenti inumani o degradanti e vengono e rispediti da un confine all’altro senza possibilità di chiedere asilo. Si registrano respingimenti collettivi illegali dal confine della Croazia con la Bosnia ed Erzegovina e dal confine della Croazia con la Serbia, ovunque si pratica la detenzione arbitraria e si utilizzano apparati violenti per i controlli di confine.
Gli ultimi arrivi in Grecia, evidentemente frutto delle politiche di Erdogan in Turchia, hanno messo in ginocchio il sistema di accoglienza in tutto quel paese, in particolare a Samos e a Lesvos. Sulla pelle dei profughi siriani si sta giocando una partita sporca che salda le crisi del medio oriente alla frontiera del Mediterraneo. Con conseguenze che si stanno producendo di riflesso anche sulla cd. “rotta balcanica”. In questa situazione non si può certo attendere che l’Unione europea concentri la sua attenzione e le sue risorse sul Mediterraneo centrale, anche perché in Italia non ricorre alcuna “emergenza sbarchi”.
Alla fine dello scorso settembre erano circa 30.700 i rifugiati e i migranti
presenti sulle isole dell’Egeo greco di cui circa 25.900 erano accolti in condizioni di estrema precarietà in cinque centri di accoglienza e identificazione (RIC), quasi cinque volte più della loro capacità massima
di 5.400 persone. Il recente incendio del centro di accoglienza di Mooria a Lesvos ha ulteriormente aggravato questa situazione, peggiorando sia le condizioni di accoglienza che le prospettive di registrazione dei richiedenti asilo e di trasferimento verso altri paesi europei.Il blocco che persiste, da parte del Consiglio, sulla riforma sostanziale del Regolamento Dublino III, già votata dal Parlamento europeo, contribuisce a rinforzare le reti di trafficanti in Europa, costringendo un numero ancora assai elevato di persone a tentare l’attraversamento irregolare delle frontiere interne.
2. Le conseguenze della politica dei “porti chiusi” e della complementare strategia di criminalizzazione e denigrazione delle Ong – iniziata già con il provvedimento del precedente ministro dell’Interno Marco Minniti e il codice di condotta delle Ong, che adesso si vorrebbe riproporre – sono ormai evidenti: con l’annichilimento delle flotte non governative votate al soccorso in mare, nei mesi estivi si è registrato uno spaventoso aumento del tasso di mortalità in mare. La stessa strategia si è implementata nelle acque dell’Egeo, anche con la partecipazione di unità della Guardia costiera italiana, nell’ambito di missioni Frontex. La guerra globale alle ONG ha comportato un numero elevato di vittime, pure nel quadro di una generale diminuzione delle traversate del Mediterraneo.
Nei primi nove mesi del 2019, si ritiene che circa 1.041 persone siano morte o scomparse nel Mar Mediterraneo mentre fuggivano verso Europa – un calo del 43% rispetto allo stesso periodo del 2018. La rotta dalla Libia all’Europa rimane la più letale con il 63% dei morti ed un numero imprecisato di dispersi. Si ritiene che altre 315 persone siano morte in mare tra il Nord Africa e la Spagna e 66 persone sono morte durante la traversata tra la Turchia, la Grecia o Cipro. Sono sempre più numerose le persone che vengono inseguite in alto mare dalle unità navali libiche coordinate da assetti militari europei ed italiani, fino al punto di essere poi intercettate dagli stessi libici, in acque internazionali rientranti nella competenza SAR (search and rescue) delle autorità maltesi. Come si è verificato proprio nella giornata di ieri.

Ormai in tutto il Mediterraneo prevale la politica dell’abbandono in mare, e gli assetti aerei italiani ed europei ( di Frontex e dell’operazione Sophia di Eunavfor Med) smistano gli allarmi solo per consentire operazioni di intercettazione e di riconduzione dei naufraghi al porto di partenza, non per salvare vite umane e garantire lo sbarco nel porto sicuro più vicino, come sarebbe imposto dal diritto internazionale. I naufraghi sono ridotti alla condizione di migranti illegali, se non di clandestini, e spesso, per giorni e giorni, vengono abbandonati in mare al loro destino. Queste vittime, questi dispersi sono figli e figlie, fratelli e sorelle delle vittime e dei desaparecidos in Siria ed in Libia.
Questi abusi e queste vittime sono frutto di violazioni sistematiche dei diritti umani, che si perpetrano per limitare il diritto di movimento e la libertà delle persone, a partire dal diritto alla vita che dovrebbe essere garantito ad ogni persona migrante, quale che sia la sua condizione giuridica. La stessa violazione sistematica dei diritti umani che in nome della sicurezza delle frontiere si sta perpetrando in Siria, con l’aggressione alle popolazioni curde del Rojava.
Di fronte a questi illeciti la comunità internazionale è rimasta inerte, limitandosi a generiche prese di posizione, che non hanno rimesso in discussione gli accordi di collaborazione sul piano tecnico e militare e sul piano del controllo delle frontiere esterne. Ai trafficanti in Libia, o in altri paesi di origine, sono stati concessi ampi spazi, sia in mare che in terra, al punto che i più noti trafficanti di esseri umani continuano a muoversi impunemente da un paese all’altro. Il caso Bija è solo la punta dell’iceberg. Gia’ nel 2017 la sedicente guardia costiera libica dava copertura alle milizie di Zawia guidate da Bija che intercettavano i migranti che tentavano di fuggire verso l’Europa. Fatti che in Europa non si potevano ignorare.
Gli strumenti del diritto internazionale hanno mostrato tutti i loro limiti, così come la crisi del multilateralismo si è tradotta in un ruolo marginale delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza, paralizzato dai veti incrociati frapposti di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia e dalla Cina. A livello europeo , in una fase di difficile transizione della quale non si intravede lo sbocco, è mancata una qualsiasi politica estera comune, che non fosse quella volta a incentivare gli accordi di riammissione, le politiche della detenzione amministrativa nei paesi di transito, le procedure sommarie di rimpatrio forzato.
Alle frontiere esterne si ricorre sempre più spesso a “procedure accelerate” per cancellare i diritti di difesa e trasformare nel più breve tempo possibile i potenziali richiedenti asilo in migranti economici da espellere o respingere. Di fatto, a livello europeo, anche se è stato sconfitto alle elezioni, il populismo ha imposto la sua agenda, ed è mancata una posizione di vera discontinuità, o una qualsiasi alternativa, rispetto alle politiche delle destre basate sullo sbarramento delle frontiere esterne, sulla limitazione della libertà di circolazione e sull’esclusione sociale.
Gli ultimi sviluppi in Siria ed in Libia confermano come le politiche nazionali condizionate dal populismo e sul conseguente abbattimento della rappresentanza democratica in Europa, sfociano irrimediabilmente nella guerra, guerra di aggressione della Turchia in Siria, guerra civile in Libia, in uno scacchiere nel quale gli stessi attori sono impegnati con alleanze a geometria variabile. In Libia proprio la Turchia che sta aggredendo i curdi in Siria garantisce il maggiore sostegno, anche militare, al governo di Tripoli presieduto da Al Serraj. Quello stesso governo che ha concluso un accordo di cooperazione militare con l’Italia nel febbraio del 2017 e che adesso vorrebbe aiuti ancora maggiori, mentre in realtà il suo potere reale si basa ancora sulle milizie, presenti anche a bordo delle motovedette della sedicente guardia costiera, che abusano i migranti e li vendono alle organizzazioni criminali. Esattamente come in Siria la Turchia si sta avvalendo di bande paramilitari di miliziani che operano violenze anche sulla popolazione civile e non rispettano i diritti umani garantiti, anche in tempo di guerra, dalle Convenzioni internazionali.
3. Il ruolo assegnato alla “Guardia costiera libica”, termine improprio perchè in Libia di guardie costiere ce ne sono diverse, militari e civili, rimaneva, e rimane, sempre più confuso, soprattutto con il dilagare della guerra nelle città costiere, al contempo terminale del traffico di petrolio ( e del relativo contrabbando) e delle partenze dei migranti gestite dalle medesime organizzazioni criminali colluse, se non immedesimate, con le milizie che controllano i territori. Sono anni che sono noti gli elevati livelli di corruzione all’interno delle milizie che di fatto controllano i porti libici, e tutti i traffici che vi passano, intestandosi il ruolo di “Guardia costiera libica.” Ma in Italia è un argomento che non si può toccare, come è confermato dalle minacce che di recente hanno raggiunto i giornalisti che si sono occupati di questa materia. Sono molte le persone che anche nel nostro paese preferirebbero che determinati accordi restassero chiusi nei cassetti.
Adesso, entro poche settimane gli accordi bilaterali Italia-Libia del 2017 dovranno essere disdetti o rinnovati, una scelta che comporterà comunque pesanti conseguenze sui soccorsi in acque internazionali e sulle persone ancora intrappolate nei centri di detenzione in Libia, che non saranno certo salvate da chi, come Minniti, propone piani di evacuazione irrealizzabili fino a quando si continuerà a collaborare con le stesse milizie che sono in contatto con i trafficanti, senza liberare invece le navi umanitarie e senza promuovere azioni coordinate di soccorso in mare con vere e proprie missioni navali, come si fece nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum. Nessuna autorità garantisce in Libia il rispetto dei diritti umani dei migranti trattenuti nei centri di detenzione governativi, che molto spesso finiscono nelle mani di milizi colluse con i trafficanti. Anche se nei punti di sbarco non manca la presenza di qualche operatore libico dell’UNHCR o dell’OIM, che fornisce generi di prima necessità. Ma il diritto alla vita ed alla libertà personale, come il diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti, non sono garantiti dalle organizzazioni delle Nazioni Unite, che lo riconoscono esplicitamente da anni.

Le generiche condanne della violenza della guerra, o la mera commiserazione per le vittime delle frontiere, che rendono il Mediterraneo un mare di morte, non modificano una situazione di avvilente arretramento di quei valori democratici e di quei diritti umani sui quali si sono fondate l’Unione Europea e la comunità internazionale dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. L’Unione Europea in particolare sembra non avere imparato nulla neppure dalla tragica lezione del conflitto nei Balcani e continua a dividersi sia sulla crisi Siriana con il premier ungherese Orban che spalleggia Erdogan, che sul dossier Libia, che vede i francesi in una perenne posizione di attacco, più vicini al generale Haftar e la Turchia grande sponsor del governo Serraj generalmente riconosciuto dalla comunità internazionale, che poi sarebbe l’unico governo legittimo, anche se ormai controlla soltanto una minima parte della Tripolitania.
Potrebbe dirsi anzi che oggi, anche se non è stata mai dichiarata formalmente dagli stati, sia già in corso una terza guerra mondiale, combattuta con intensità variabile ma contemporaneamente su diversi scacchieri, nei quali la corruzione finanziaria dei mercati si salda al commercio illegale di armi, al ricorso alle milizie paramilitari che di fatto costituiscono vere e proprie organizzazioni criminali, ed alle aggressioni dei paesi e delle persone più deboli, oppure che ancora non si piegano a queste logiche di dominio e di morte.
I migranti, i profughi, le persone impegnate nella società civile sul terreno della solidarietà ed i giornalisti indipendenti sono nel mirino. Occorre uno sforzo straordinario per ricostruire legami di solidarietà e per rendere visibile una alternativa nelle prassi e nelle scelte politiche che recuperi la dimensione della dignità umana e del rispetto del diritto alla vita. Gli accordi bilaterali o multilaterali, come l’accordo tra Unione europa e Turchia, con paesi che non garantiscono il rispetto del principio di legalità e la salvaguardia effettiva dei diritti umani vanno immediatamente revocati. Vanno aperti consistenti corridoi umanitari, ripristinati i canali legali di ingresso e devono ripartire le missioni di soccorso internazionale. Vanno liberati tutti i mezzi delle ONG attualmente sotto sequestro e per questo nella impossibilità di salvare vite umane in mare.

Le risposte fin qui fornite dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui casi di respingimento collettivo in mare, nel Mediterraneo centrale, e sui respingimenti collettivi verso la Turchia, nel Mediterraneo orientale, non hanno ancora avuto l’effetto di costringere gli stati ad un effettiva tutela dei diritti umani della persona migrante, sia pure considerata nella condizione di potenziale naufrago o richiedente protezione internazionale. Dopo le importanti pronunce di condanna sul caso Hirsi contro Italia nel 2012 e sul caso Khlaifia contro Italia nel 2016, i pronunciamenti più recenti delle corti internazionali, sia a Lusssemburgo che a Strasburgo, appaiono corrispondenti alle politiche di sbarramento dei porti ed in genere di esternalizzazione dei controlli di frontiera, soprattutto nel caso della Turchia, verso paesi che non garantiscono alcun rispetto dell’habeas corpus e dello stato di diritto.
Il diritto, la giurisdizione interna ed internazionale, i sistemi di comunicazione diffusa ed indipendente, tutti i luoghi di aggregazione sociale, rimangono campo di battaglia di una guerra, commerciale e militare, ma anche contro lo stato di diritto e la rappresentanza democratica, che ormai non si limita più ai deserti africani, alle coste libiche o ai territori di paesi martoriati come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan, ma che coinvolge il mondo intero. Nessuno può davvero sentirsi al sicuro.
TUTTI I GIORNI ( Ingeborg Bachmann)
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.