di Fulvio Vassallo Paleologo
AGGIORNAMENTO IMPORTANTE ————- ADNKRONOS 20 AGOSTO
Il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, dopo l’ispezione sulla Open Arms, ha disposto il sequestro preventivo della nave. Seguirà di conseguenza lo sbarco dei migranti, da 19 giorni a bordo. Il sequestro, come apprende l’AdnKronos, è stato disposto per la violazione dell’articolo 328 del Codice penale, cioè omissione e rifiuto di atti di ufficio a carico di ignoti “per non avere risposto alle gravi condizioni di salute dei migranti”. Secondo l’articolo 328 del Codice penale “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
1.Quando sembrava che la magistratura avrebbe posto fine al calvario dei naufraghi trattenuti da due settimane a bordo della nave Open Arms, che li aveva soccorsi nel Mediterraneo centrale, dopo la loro fuga dalla Libia, la tardiva disponibilità del governo spagnolo, che ha indicato come possibile porto di sbarco sicuro un porto in Spagna, ha riportato ad una situazione di stallo ed ha consentito al ministro Salvini, alla vigilia di un cruciale dibattito in parlamento, il rilancio della sua propaganda. Una soluzione- lo sbarco dei naufraghi in Spagna- impraticabile sotto il profilo legale e pratico, perché basata sul superamento del principio internazionale dello sbarco nel porto sicuro più vicino, e nel riconoscimento della collaborazione sempre più intensa dell’Italia con le autorità di un paese, come la Libia, tuttora in preda alla guerra civile, nel quale non vengono rispettati i diritti fondamentali delle persone. Da questo paese sono fuggiti i migranti soccorsi dalla Open Arms.
La soluzione “spagnola” che si vorrebbe dare al problema della individuazione di un porto di sbarco sicuro, dopo 17 giorni dal salvataggio, appare ancora più contraddittoria e frutto di una scelta soltanto di opportunismo politico, se si pensa che nel gennaio di quest’anno la Capitaneria di porto di Barcellona, dipendente dal ministero dello Sviluppo di Madrid sosteneva, proprio con riferimento alle attività di monitoraggio ed eventuale soccorso nel Mediterraneo centrale, svolte da Open Arms nei mesi precedenti, che “è stato violato l’obbligo di sbarcare i naufraghi nel porto più sicuro più vicino possibile e l’imbarcazione, che potrebbe trasportare al massimo 18 membri dell’equipaggio, non è adatta a navigare con un numero elevato di persone per un lungo periodo“. Adesso in Spagna sembrano pensare in modo diverso e di fatto contribuiscono a rafforzare le violazioni perpetrate dal Viminale che nega l’indicazione di un porto di sbarco sicuro in Italia, come invece sembra suggerire la Commissione Europea.
Il diniego allo sbarco in Italia non può essere fondato sull’accusa che il ministro dell’interno rilancia continuamente secondo cui le ONG sarebbero “complici dei trafficanti” e la Open Arms avrebbe dovuto riconsegnare i naufraghi alla sedicente Guardia costiera libica. In audizione alla Camera il procuratore di Agrigento ha evidenziato, su un caso che riguardava la Sea Watch, che: “non è stato fino ad ora provato il preventivo accordo tra trafficanti di esseri umani ed ong. Che non deve essere limitato ad un semplice contatto, tipo una telefonata, ma deve esserci una comunicazione del tipo: ‘stiamo facendo partire migranti, avvicinatevi e prelevateli'”.
Il Viminale e gli altri organi dello stato, inclusa l’autorità giudiziaria e le procure procedenti, non possono ribaltare quanto sancito da una importante sentenza del Tribunale di Trapani (GIP Trapani, sent. 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), Giud. Grillo) che tanti sembrano oggi ignorare. Nessuno può ignorare cosa si sono lasciati alle spalle in Libia i naufraghi soccorsi dalla Open Arms, tutti, nessuno escluso. I migranti soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale non potevano essere riconsegnati alle autorità libiche.
Come ricostruisce Luca Masera, “la sentenza fornisce un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’” (p. 38). Il Tribunale fa altresì notare come il memorandum, “pur avendo ad oggetto una materia rientrante tra quelle per cui l’art. 80 Cost. prescrive la previa autorizzazione parlamentare alla ratifica, è stato concluso in forma semplificata, ovverossia con il solo consenso espresso dal Presidente del Consiglio italiano e dal capo del governo libico di riconciliazione nazionale senza la previa autorizzazione del Parlamento” (p. 39): argomento che conduce il Tribunale a ritenere il memorandum, anche al di là dei profili di contrasto con il diritto internazionale appena analizzati, “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.

2. Nel frattempo, mentre si fa la “guerra” alle ONG che soccorrono soltanto una minima parte delle persone che arrivano sulle coste italiane, provenienti dal nordafrica ( meno del 10 per cento), proseguono gli sbarchi isolati, anche a Lampedusa. Mentre tutti “accerchiavano” con i divieti, e con le telecamere, la Open Arms, decine di migranti, giunti su un piccolo barchino, soccorsi a quattro miglia della costa, venivano accompagnati in porto dalla Guardia di finanza. Ormai appare evidente come sulla pelle dei naufraghi soccorsi dalle ONG, ridotti alla disperazione dalla mancata tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco, si giochi una partita politica che non è limitata al palcoscenico politico italiano. Ma si è estesa ormai all’intera Unione Europea, dopo il vertice di Parigi di luglio, quando si era deciso un piano di redistribuzione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale, che l’Italia e Malta avevano duramente avversato, perché centrato sull’obbligo degli stati, derivante dal diritto internazionale, di sbarcare i naufraghi nel porto sicuro più vicino.
Peraltro lo stesso articolo 11 comma 1 ter del Testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998, introdotto dal recente decreto sicurezza bis, ormai convertito con modificazioni in legge 8 agosto n.77 dal Parlamento, fa salvo il «rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia», tra i quali ricorrono senz’altro, coessenziali al diritto di chiedere asilo, il principio di non respingimento ed il divieto di espulsioni collettive. Ne consegue che la legge e le prassi amministrative interne non si possono orientare in contrasto con la normativa internazionale, di rango sovraordinato alla legge interna ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, né derogare ad essa.
Non si può però dimenticare che i diritti fondamentali dei migranti, a partire dal diritto di chiedere asilo, sono garantiti, oltre che dalle Convenzioni internazionali che si cerca di eludere attraverso gli accordi tra stati, dalla Costituzione italiana e dalla normativa nazionale in materia di attività di soccorso in mare e protezione internazionale, da ricollegare comunque alla disciplina di fonte europea. Sono quest diritti che la magistratura deve garantire quando si assume che siano violati dalle autorità statali, e non vi possono essere atti di esercizio della giurisdizione ad intermittenza, a seconda dei rapporti politici interni o internazionali.
3. L’8 agosto scorso 89 naufraghi soccorsi in due diverse operazioni dalla nave Open Arms nelle acque internazionali al largo della Libia hanno espresso la volontà di fare richiesta di asilo in Europa, mentre si trovavano ancora a bordo della nave umanitaria in acque internazionali. Successivamente la stessa nave è stata autorizzata ad entrare nelle acque territoriali italiane, ed i naufraghi non hanno perso per questo la loro condizione giuridica di richiedenti protezione internazionale. Al di là dei contrastanti referti medici del poliambulatorio di Lampedusa, le testimonianze delle persone che finalmente sono libere di esprimersi, una volta a terra dopo essere sbarcate dalla Open Arms, sono agghiaccianti.
Le procedure per formalizzare le manifestazioni di volontà dirette alla richiesta di asilo e formulate a bordo di navi in alto mare non sono rimesse alla discrezionalità del ministro dell’interno, ma devono essere stabilite ed applicate secondo precisi standard internazionali fissati nelle Convenzioni e nelle prassi consuetudinarie richiamate dai manuali operativi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Secondo queste normative, “ If rescued persons appear to indicate that they are asylum-seekers or refugees or that they fear persecution or ill-treatment if disembarked at a particular place, the Master should inform the rescued persons concerned that the Master has no authority to hear, consider or determine an asylum request.
“ As well as RCCs and other State agencies and services, State-controlled vessels (such as coastguard vessels and warships) have direct obligations under international refugee law (notably, the obligation not to engage in or allow refoulement) which bear upon their obligations under international maritime law.” Si prevede inoltre che ” UNHCR should be contacted if there are difficulties reaching agreement regarding arrangements for the treatment or disembarkation of rescued people who may be asylum-seekers or refugees”. Esattamente come è stato fatto dal comandante della Open Arms quando sia Malta che l’Italia hanno negato l’ingresso nelle acque territoriali e la presa in carico dei naufraghi soccorsi dalla nave umanitaria.
Si osserva poi che ” Any operations and procedures such as screening and status assessment of rescued persons that go beyond rendering assistance to persons in distress should not be allowed to hinder the provision of such assistance or unduly delay disembarkation.”, con la importante osservazione finale che ” screening or status-determination procedures to assess whether or not a person is a refugee should at any rate not take place at sea”.
Può venire poi in rilievo la normativa dell’Unione Europea in materia di protezione internazionale. Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
Secondo i manuali EASO, Ufficio dell’Unione Europea per il sostegno in materia di asilo, ” l’articolo 8 della direttiva sulle procedure di asilo rifusa stabilisce che vengano fornite le informazioni necessarie sulla possibilità di presentare domanda di protezione internazionale, qualora vi siano indicazioni che una persona tenuta in un centro di trattenimento o presente ai valichi di frontiera esterna possa voler farlo. All’atto pratico questo significa che occorre essere proattivi nell’identificazione di tale persona, informarla sul proprio diritto di richiedere asilo e indirizzarla su come presentare la domanda.!L’articolo 6 della direttiva sulle procedure di asilo rifusa prevede che una persona che abbia espresso l’intenzione di fare domanda di protezione internazionale (ovvero, chi ha presentato domanda di protezione internazionale) venga rinviata alla procedura di asilo, informandola su dove e in che modo possono essere inoltrate le domande di protezione internazionale. In particolare si osserva che “presentare una domanda di protezione internazionale implica l’atto di esprimere, in qualsiasi modo e a qualsiasi autorità, la propria intenzione di ottenere protezione internazionale. Chiunque abbia espresso la propria intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale è considerato richiedente con tutti i diritti e gli obblighi connessi a tale status. Successivamente alla sua presentazione, la domanda di protezione internazionale dovrà essere registrata dalle autorità competenti entro un determinato periodo — entro tre giorni lavorativi se la domanda è stata presentata a un’autorità competente a registrarla, o entro sei giorni lavorativi se la domanda è stata presentata ad altre autorità, quali la polizia, le guardie di frontiera, le autorità competenti per l’immigrazione e/o il personale dei centri di trattenimento.”
4. In base all’art. 10 ter del Decreto lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare), “ lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”.

La Procura di Agrigento potrà anche sospendere la sua attività di indagine sulla situazione dei naufraghi ancora trattenuti a bordo della Open Arms, vittime di un respingimento collettivo in frontiera, e di trattenimento arbitrario a bordo della nave soccorritrice, ma l’art, 10 ter del Testo Unico 286/98 sull’immigrazione non e’ stata ancora abrogato. Come non sono stati abrogati gli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. La Open Arms si trova nelle acque territoriali, a poche centinaia di metri dal porto di Lampedusa, dove la giurisdizione italiana non può essere sospesa perché un altro stato offre tardivamente un porto di sbarco a 800 miglia di distanza. Un tragitto che, viste le condizioni psicofisiche dei naufraghi, non potrebbe essere affrontato senza mettere a rischio la loro vita e la loro integrità fisica. La tardiva indicazione di un supposto “porto sicuro di sbarco” in Spagna, non può sospendere l’adozione di provvedimenti urgenti adottabili nel corso di indagini sul blocco della Open Arms scaturite da esposti di diverse associazioni, dai quali potrebbero desumersi gli estremi dei reati di sequestro di persona, trattamenti inumani o degradanti (tortura), violenza privata e abuso di ufficio. In ogni caso qualunque provvedimento amministrativo che incida sulla libertà personale dei migranti trattenuti a bordo della stessa Open Arms ricade ormai sotto la giurisdizione italiana e non può essere sottratto al controllo di legalità della magistratura. Come ha ripetuto in diverse occasioni il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma.
Per il Garante nazionale, secondo quanto comunicato il 9 agosto scorso, la situazione in atto può e deve essere vista come ambito di competenza giurisdizionale del nostro Paese, nonostante la sua presenza in acque internazionali, ma in virtù del preventivo divieto d’ingresso nelle acque nazionali notificato dalle autorità italiane il 1° agosto”. “L’interdizione all’ingresso – aggiunge – costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale…) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. Gli stessi concetti sono stati ribaditi in una lettera inviata dal Garante al primo ministro Conte, dopo l’ingresso della Open Arms nelle acque italiane. Una considerazione dunque che vale a maggior ragione, adesso che la nave ha fatto ingresso, con autorizzazione del ministro della difesa, dopo la sospensiva da parte del TAR Lazio del divieto comminato dal ministro dell’interno, nelle acque territoriali italiane. Tutte le persone che sono a bordo della nave si trovavano e si trovano adesso sottoposte alla giurisdizione italiana, e questo vale anche per la proposizione delle domande di protezione internazionale,
5. Le acque del mare territoriale non sono sottratte alla giurisdizione italiana e configurano una “frontiera esterna”. Non si può escludere che i naufraghi della Open Arms siano giunti in “territorio nazionale”, trovandosi da giorni all’interno delle acque territoriali italiane ed essendo sottoposti alla giurisdizione ed ai poteri di imperio delle autorità italiane. Come è indubbio che gli stessi vi siano giunti a seguito di “operazioni di salvataggio in mare”, dal momento che l’Italia ha consentito l’accesso alle acque territoriali, sicuramente coordinate dalle autorità di questo paese ( MRCC e Ministero dell’interno, con il concerto dei ministri delle infrastrutture e della difesa). Gli stessi naufraghi ancora a bordo della nave, che peraltro hanno già manifestato la volontà di chiedere asilo, devono essere condotti nel centro Hotspot ( si definiscono così i “punti di crisi”) di Contrada Imbriacola a Lampedusa, come è stato fatto per i loro compagni di sventura di minore età, o a seguito di evacuazione medica di urgenza (MEDEVAC) dopo le cure ricevute. Soltanto dopo lo sbarco potranno essere avviate le procedure per la redistribuzione in altri paesi europei, secondo il piano concordato da giorni. Un piano bloccato per la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco da parte italiana.
Con riferimento all’articolo 10 comma terzo della Costituzione italiana si osserva (Luca Minniti) che ” ostacolare l’entrata nel territorio dello Stato e della Ue significa sottrarre, in radice, al titolare del diritto di asilo, la possibilità di esercitarlo tramite la domanda di protezione di cui agli art. 10 Cost. e 18 Carta Ue. Con la conseguenza che le norme, gli atti amministrativi, i comportamenti che chiudono i confini dell’Ue indipendentemente dallo scopo che si prefiggono, violano la Costituzione, nella misura in cui precludono la possibilità di accesso al territorio e, dunque, l’accesso alla tutela del diritto alla protezione dello straniero”.
L art. 2, co. 1, lett. a), d.lgs. 142/15 prevede, innovando la precedente normativa ed allo scopo di recepire la normativa europea in materia, che è considerato richiedente protezione internazionale non soltanto “lo straniero che ha presentato domanda di protezione internazionale su cui non è stata ancora adottata una decisione definitiva”, ma anche colui che “ha manifestato la volontà di chiedere tale protezione”.
Secondo il Decreto di rigetto del sequestro preventivo, del Giudice delle indagini preliminari di Ragusa dello scorso anno, che stabiliva il dissequestro della nave Open Arms, gli obblighi di soccorso in mare, come delineati dalle Convenzioni internazionali di cui l’Italia è parte, non si «esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi con lo sbarco in un luogo sicuro (Pos, place of safety)» e tale non può considerarsi un luogo come la Libia attuale, ove i migranti sono esposti a rischi considerevoli di torture e trattamenti inumani e degradanti.
Nel più recente caso Sea Watch 3, il Giudice delle indagini preliminari di Agrigento ha affermato che “… Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1-ter… non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del d.lgs. 286/98 avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
6. A fronte del diniego frapposto dalle autorità maltesi alla richiesta di trasbordo dei naufraghi soccorsi in diverse occasioni ( in una addirittura su coordinamento delle autorità maltesi) dalla nave Open Arms, non si poteva dunque individuare altro che un porto italiano, e segnatamente il porto di Lampedusa, il “porto di sbarco più vicino”, nella formulazione recepita anche dalla Commissione europea e dal vertice di Parigi, per dare finalmente ai naufraghi richiedenti asilo la possibilità di scendere a terra e formalizzare la loro richiesta di protezione internazionale, avendo successivamente accesso alle misure di prima accoglienza e di eventuale redistribuzione verso altri paesi europei. La decisione del governo spagnolo, arrivata dopo 17 giorni dai soccorsi, quando la nave si trova in acque territoriali italiane ed i naufraghi hanno già manifestato la volontà di chiedere asilo, appare irricevibile per ragioni derivanti dal diritto interno italiano in materia di immigrazione ed asilo, oltre che dal diritto internazionale, e costituisce oggettivamente un ulteriore alibi per le politiche delle autorità italiane impegnate ” in modo ossessivo” verso il blocco degli interventi di soccorso operati nel Mediterraneo centrale dalle navi delle ONG.
Poco importa in questo momento che le autorità spagnole diano corso alla minaccia di chiamare l’Italia davanti i tribunali internazionali per denunciare le inadempienze del governo italiano e del suo ministro dell’interno, che non hanno indicato un porto sicuro di sbarco neppure quando la nave, dopo la sospensione del provvedimento di divieto di ingresso nelle acque territoriali, adottato dal ministro dell’interno e sospeso dal tribunale amministrativo del Lazio, aveva già fatto ingresso nelle acque territoriali italiane. Non si possono attendere i tempi dei tribunali internazionali.
Le condizioni psicofisiche delle persone intrappolate a bordo della Open Arms sono ormai intollerabili, al di là delle contrastanti consulenze mediche che non hanno dato elementi per imporre lo sbarco immediato di tutti i naufraghi. Lo confermano i gesti disperati ai quali abbiamo assistito nella giornata di domenica 18 agosto, che potrebbero ripetersi con conseguenze tragiche nei prossimi giorni, qualora la situazione di stallo dovesse prolungarsi. La qualità di richiedenti asilo che va riconosciuta a persone che hanno già manifestato l’intenzione di chiedere protezione internazionale, configura come un respingimento collettivo qualsiasi loro allontanamento, una volta che hanno fatto ingresso nelle acque territoriali italiane. Un respingimento che avverrebbe senza alcun accertamento della condizione individuale di ciascuna persona.

7. Appare davvero incomprensibile, e priva di fondamento giuridico, la posizione adottata dal ministero delle infrastrutture (Toninelli) che ipotizza una scorta della Open Arms fino al porto spagnolo di Algeciras, o di Minorca, sul modello della prima grande operazione di respingimento collettivo operata dal governo giallo-verde nel giugno dello scorso anno, quando la nave Aquarius dopo giorni di trattative, venne scortata da unità militari italiane in un porto spagnolo. Una operazione dal costo umano incalcolabile, caratterizzata anche da un enorme impegno economico da parte dello stato italiano, un dispendio su quale la Corte dei Conti ha aperto una indagine. Adesso ci vorrebbero riprovare, anche se i partiti di governo continuano a litigare su tutto. Nessuno può immaginare quali potrebbero essere le conseguenze se la Open Arms con il suo carico di disperati fosse costretta a ripartire da Lampedusa verso un porto spagnolo.
Se non si riesce a dare applicazione al diritto internazionale del mare, al diritto internazionale dei rifugiati ed al diritto dell’Unione Europea che imponevano lo sbarco sollecito dei naufraghi nel porto sicuro più vicino, dunque a Lampedusa, adesso che la Open Arms si trova all’interno delle acque territoriali, dopo che il TAR Lazio ha sospeso il divieto di ingresso, si deve almeno applicare il diritto vigente in Italia, considerando le manifestazioni di volontà manifestate per chiedere asilo e la dichiarazione della Centrale operativa della Guardia costiera (MRCC) di Roma che, pochi giorni, fa affermava che non ricorrevano ostacoli all’ingresso della nave in porto. Una dichiarazione che non può essere superata, dopo il rinnovato divieto del ministro dell’interno, peraltro senza il prescritto “concerto” dei ministri della difesa e delle infrastrutture, dalla successiva indicazione di un altro porto di sbarco sicuro, in Spagna, situato ad una settimana di navigazione. Un porto ubicato in un paese straniero, sul quale evidentemente la stessa Centrale operativa di Roma non ha alcuna competenza, come nessuna competenza ha ormai sulla Open Arms che si trova da giorni nelle acque territoriali italiane, la Centrale operativa della Guardia costiera spagnola, del tutto priva di giurisdizione, quanto all’indicazione del porto di sbarco sicuro, su imbarcazioni pure battenti bandiera spagnola, ma ormeggiate in acque territoriali italiane.
Al di là delle questioni di competenza territoriale, pure rilevanti, e del vergognoso gioco di ricatti incrociati che la politica ha addossato sulle spalle dei naufraghi, persone già duramente provate dalle violenze subite in Libia, occorre ricordare che a ciascuno di loro spetta il diritto di chiedere asilo in Italia, proprio per effetto del combinato disposto dell’art. 10 della Costituzione italiana e dell’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. La quasi totalità dei naufraghi maggiorenni presenti a bordo della Open Arms ha manifestato da giorni la volontà di chiedere asilo in Italia, trasmessa all’UNHCR e per tramite della Centrale operativa della Guardia costiera, doverosamente al Ministero dell’interno. Come ha affermato in diverse occasioni, non si può dubitare che la nave fosse e si trovi ancora in una zona di mare sotto la giurisdizione italiana. Dove si deve imporre dunque l’applicazione integrale delle norme vigenti nell’ordinamento interno e nel diritto dell’Unione Europea.

Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.
L’unica soluzione possibile a questo punto, in conformità alle leggi italiane ed alla normativa europea in materia di protezione internazionale è ammettere i richiedenti protezione internazionale ancora presenti a bordo della Open Arms nella procedura dettata dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, con il loro sbarco immediato a Lampedusa e trasferimento nell’Hotspot di Contrada Imbriacola dove potranno essere completate le procedure di identificazione ed informazione dei richiedenti asilo, e formalizzate sugli appositi modelli formali le richieste di protezione internazionale, tenendo conto della disponibilità già offerta da altri paesi europei che si sono dichiarati pronti a ricevere una quota dei naufraghi, ma solo dopo che questi siano stati sbarcati in territorio italiano. Come ha chiarito Tove Ernst, portavoce della Commissione europea sui temi dell’immigrazione, secondo cui a bloccare la redistribuzione dei migranti è la mancata indicazione di un porto sicuro: «Senza sbarco non ci può essere redistribuzione».
NESSUNA DECISIONE IN ARRIVO DAL CONSIGLIO DI STATO, ENNESIMA MENZOGNA DEL MINISTRO DELL’INTERNO.
(Il SOLE 24 ORE)
Migranti, perché non è possibile impugnare il decreto del Tar
Nei confronti dei decreti di questo genere emessi dal Presidente di un Tar, il codice del processo amministrativo prevede soltanto la possibilità di richiedere la revoca
di Aldo Travi
“Il Presidente del Tar Lazio, con decreto del 14 agosto scorso, ha accolto l’istanza cautelare proposta nei confronti del provvedimento emanato dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e il Ministro delle infrastrutture, che aveva vietato l’ingresso, il transito e la sosta della nave Open Arms “nel mare territoriale nazionale”. Di conseguenza ha disposto che sia consentito l’ingresso della nave in acque italiane e in particolare «che sia prestata immediata assistenza alle persone maggiormente bisognevoli».
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato l’appello al Consiglio di Stato contro il decreto cautelare del Tar, cosa non prevista dal nostro ordinamento.
Nei confronti dei decreti di questo genere emessi dal Presidente di un Tar, il codice del processo amministrativo prevede soltanto la possibilità di richiedere la revoca, per qualsiasi motivo, allo stesso Presidente. Ciò si spiega col fatto che il decreto cautelare è un atto ‘provvisorio’, destinato ad essere verificato dallo stesso Tar in sede collegiale nella sua camera di consiglio successiva: in quell’occasione il collegio valuterà, con una propria ordinanza, se confermarlo o riformarlo, e provvederà in via definitiva nelle forme ordinarie sulla richiesta di misure cautelari. Il codice del processo amministrativo prevede in questo caso che l’ordinanza del collegio, essa sì, sia passibile di appello (art.62)”.