di Fulvio Vassallo Paleologo
Prima che i difensori della Sea Watch 3 fossero avvertiti, il ministro dell’interno utilizzava, per farsi altra propaganda, la decisione interlocutoria del Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio che respingeva la richiesta di sospensiva della direttiva del Viminale che vietava l’ingresso nelle acque territoriali alla nave umanitaria. Che, una settimana fa, aveva soccorso 53 naufraghi in acque internazionali a nord della Libia, e che adesso viene costretta a vagare nella zona contigua alle acque territoriali italiane a 15 miglia a sud di Lampedusa. A renderlo noto è stata l’agenzia Ansa, citando fonti del Viminale e non, come da prassi, il TAR.
In realtà il TAR Lazio non ha “respinto”il ricorso, come hanno detto molti media, nè dato ragione al ministro dell’interno, ma ha soltanto negato la concessione di una sospensiva del provvedimento di Salvini ( di concerto con Toninelli e Trenta),che impedisce l’ingresso nelle acque territoriali ad una nave carica di naufraghi. Ma il soccorso in mare non è agevolazione o trasporto di clandestini. Come ribadisce la portavoce di Sea Watch, “«La Libia non è riconosciuta come porto sicuro a livello internazionale.Lo dicono la Missione ONU in Libia UNSMIL, l’agenzia ONU per i rifugiati UNHCR, la Commissione Europea e il Ministero degli Esteri. Se riportassimo i naufraghi in Libia, commetteremmo un respingimento collettivo: crimine per cui l’Italia è già stata condannata». Anche configurando una serie di respingimenti individuali, seppure contestuali, sarebbero in ogni caso violati i divieti di respingimento imposti dall’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.
Il principio del non respingimento è il principio cardine della normativa internazionale sui rifugiati, espresso nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. Proibisce qualsiasi condotta che conduca al ritorno di un rifugiato ‘in qualsiasi modo’, anche tramite intercettazioni di vario tipo a terra o in mare (sia nelle acque territoriali degli Stati, zone contigue, o in alto mare), in un luogo in cui sarebbero a rischio di persecuzione in relazione a gravi violazioni dei diritti umani.
Secondo i manuali dell’UNHCR, il principio di non respingimento si applica ovunque lo Stato eserciti la giurisdizione, anche quando agisce al di fuori del suo territorio (anche al di fuori delle sue acque territoriali) nel contesto di operazioni marittime di ricerca e di riconduzione o di intercettazione in mare. Lo stesso principio e’ affermato nella sentenza di condanna dell’Italia, adottata nel 2012 sul caso Hirsi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La circostanza che il governo italiano abbia prestato assistenza per dieci persone che sono state sbarcate a Lampedusa, solo come evacuazione medica (MEDEVAC) su richiesta dei medici, non esclude che sia urgente ed indifferibile lo sbarco delle 43 persone ancora a bordo della Sea Watch 3, soprattutto dopo le richieste di sbarco pervenute dall’Unhcr, dunque dalle Nazioni Unite e dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. A fondamento della legittimita’ del provvedimento del ministro dell’interno che nega l’ingresso nelle acque territoriali, non può essere addotta la considerazione che il tribunale amministrativo si limita ai soli profili di legittimita’, perche’ non puo’ ritenersi neppure legittimo un provvedimento amministrativo che di fatto comporta un respingimento collettivo in frontiera, dal momento che la Sea Watch si trova da giorni all’interno della zona contigua alle acque territoriali italiane e dunque i naufraghi che si trovano a bordo della nave ricadono in pieno sotto la giurisdizione esclusiva delle autorita’ italiane. Un loro allontanamento, seppure a bordo della nave su cui si trovano, potrebbe configurarsi come una violazione dell’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, se non come un respingimento collettivo, vietato dall’arf.4 del Quarto Protocollo allegato alla Cedu e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La rapidità dell’annuncio del Viminale, diffuso alle agenzie in tempo reale prima che fosse notificato dallo stesso TAR agli avvocati dei ricorrenti evidenzia l’uso politico che si fa della magistratura amministrativa e desta più di un dubbio sulla indipendenza del futuro giudizio di merito. Vedremo quante righe di motivazione sono state dedicate dai giudici amministrativi alle 43 persone che sono tenute in alto mare da una settimana, vittime di un respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei. Gli appoggi internazionali, ricevuti dal governo italiano, a partire dalle posizioni dell’agenzia europea FRONTEX, fino alla prassi dei respingimenti collettivi “delegati” alla sedicente guardia costiera “libica”, non ne modificano di una sola virgola la contrarietà con le norme del diritto internazionale, generalmente riconosciuto come vincolante anche per gli stati, e del diritto umanitario, in particolare del divieto di refoulement (respingimento) affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Malgrado la compatezza di tutte le organizazioni internazionali che hanno criticato la politica dei porti chiusi ed il decreto sicurezza bis, il ministro Salvini ha inasprito la linea sovranista che caratterizza il governo, non solo in materia di immigrazione ed asilo, rinnovando i suoi attacchi violenti a qualsiasi voce critica che richieda il rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario. Al punto da richiedere al premier Conte una presa di posizione contro l’Onu, che pero’ non sembra mai stata adottata.
Dopo che è rimasto inascoltato l’appello delle Nazioni Unite per un ripensamento sul decreto sicurezza bis e per la fine della criminalizzazione dei soccorsi operati dalle navi delle Organizzazioni non governative, Dunja Mijatovic, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha chiesto che alla “Sea Watch 3 sia indicato tempestivamente un porto sicuro che possa essere raggiunto rapidamente”. Il Commissario “preoccupato per l’atteggiamento del governo italiano nei confronti delle Ong”, ha aggiunto di essere “seriamente preoccupata per l’impatto che alcune parti del decreto sicurezza bis potrebbero avere sulla vita delle persone che necessitano di essere salvate in mare. Basta con la politica dei porti chiusi” – “Si deve mettere fine alla politica di chiudere i porti per tutte le ong, di proibire la navigazione in acque territoriali o in certe aree in quelle internazionali”.
Anche la portavoce della Commissione Europea Nathalie Berhaud, gia’ prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco.
“La risposta di Matteo Salvini è sempre la stessa: “In Italia con il mio permesso non arriva nessuno”. E al Consiglio d’Europa, che ha chiesto uno stop alla collaborazione con la Libia, non ritenuta porto sicuro ribatte: “per me il suo parere conta meno di zero. Noi stiamo collaborando con la Guardia costiera libica, forniamo uomini e mezzi, e in alcune strutture libiche ci sono rappresentanti dell’Onu.”
Una risposta che contraddice quanto affermato dallo stesso ministro pochi giorni fa, quando definiva la Libia come un paese che non offriva porti sicuri. Si nascondono dati documentali evidenti, come i rapporti di diverse agenzie delle Nazioni Unite che, proprio sulla base di quanto rilevano i loro operatori ancora presenti in Libia, escludono che la questo paese in guerra civile possa garantire POS ( Place of safety) allo sbarco. Una serie di rapporti che sono facilmente accessibili su internet, ma che il ministero dell’interno, e per quanto sembra, il Tribunale Amministrativo del Lazio, sembrano ignorare. Come se il recente decreto legge sicurezza bis, n. 53/2019, avesse sanato la illegittimità delle direttive “ad navem” notificate dal Viminale. Sarà dunque necessario esperire in modo capillare tutte le possibili vie di ricorso interno contro le norme del decreto sicurezza bis 53/2019 che appaiono in contrasto con previsioni costituzionali o con norme cogenti di diritto internazionale.

Si avvertono così evidenti segnali di un progressivo scostamento dal diritto internazionale delle prassi e delle normative imposte dal governo italiano (oltre che alla Guardia costiera, costretta a restare ferma in porto) alle organizzazioni non governative che ancora continuano a soccorrere naufraghi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, dopo che lo scorso anno diversi tribunali italiani, a partire dal dissequestro della Open Arms a Ragusa, avevano definito la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco.
Se questo conflitto con il diritto internazionale e con le ONG che operano soccorsi nel Mediterraneo centrale, in corso da oltre un anno, a partire dal caso Aquarius, dovesse dividere anche la magistratura penale dopo le posizioni assunte dai giudici amministrativi, ci troveremo di fronte ad un vero e proprio “sovranismo giudiziario”, che potrebbe aumentare l’isolamento internazionale dell’Italia e produrre, sia pure indirettamente, una sequenza incontrollabile di vittime. Anche il premier Conte adesso, in aperto contrasto con il Consiglio d’Europa, arriva a sostenere che la parte settentrionale della Libia appare pacificata, almeno da Tripoli a Misurata, probabilmente per confermare la legittimità della collaborazione delle autorità italiane ed europee con la Guardia costiera libica. In un recentissimo incontro a Napoli lo stesso Conte, secondo quanto riferisce l’ANSA, avrebbe dichiarato che “In questo momento in Libia c”e” una fase di stallo, anche se non e” guerra civile. Ma la zona Nord, da Tripoli a Misurata, è ” sufficientemente stabilizzata”. Nelle stesse ore in cui il Presidente del consiglio rilasciava tali dichiarazioni un attacco aereo colpiva gli impianti petroliferi ENI a Mellitah, vicino Tripoli, con il ferimento di alcuni lavoratori. Altri combattimenti con bombardamenti aerei sono riportati a Gharyan, sempre a sud di Tripoli. Una zona dunque, come l’intera Libia, che non sembra affatto “sufficientemente stabilizzata”.

I naufraghi a bordo della Sea Watch 3 potrebbero smentire in qualsiasi momento le dichiarazioni rassicuranti di Conte, se solo avessero la possibilità di fare sentire la loro voce. L’inchiesta aperta dalla Procura di Agrigento potrà fare chiarezza sulla reale situazione sofferta in Libia dai naufraghi sbarcati in questa ultima occasione dalla Sea Watch 3 a Lampedusa.
Quanto si sta profilando sul terreno della giustizia amministrativa, che potremo verificare meglio dopo avere avuto finalmente modo di conoscere le motivazioni della decisione interlocutoria del TAR Lazio, deve indurre ad un impegno maggiore sul piano della comunicazione, in tempi nei quali è ripartita la macchina del fango contro chi salva vite in mare, anche la libertà di informazione ed il diritto di cronaca appaiono coartati. Dall’informazione vicina al governo, intanto, una macchina da guerra contro i soccorsi operati dalle Ong nel Mediterraneo centrale. Per neutralizzare la richiesta del Consiglio d’Europa, che sollecita lo sbarco dei naufraghi ancora a bordo della Sea Watch 3, si chiamano in causa anche i broker assicurativi delle navi commerciali che ancora fanno spola nei porti libici, navi che ignorano sistematicamente la presenza dei barconi carichi di migranti. Per loro la Libia garantirebbe porti sicuri. Come se gli equipaggi delle petroliere fossero esposti in Libia agli stessi rischi dei migranti, e viceversa.
Le dichiarazioni del ministro dell’interno dopo la sospensiva negata dal TAR Lazio a Sea Watch 3, spacciata come un respingimento del ricorso, ma che non chiude affatto il procedimento di merito, sembrano confermare una pericolosa china verso il sovranismo giudiziario. Come se, con la conferma dei tribunali interni, fosse possibile discostarsi dalle norme che nelle Convenzioni internazionali salvaguardano i diritti fondamentali delle persone e antepongono la dignità della persona e la tutela della vita umana alle esigenze di controllo dei confini. Se questa linea di tendenza dovesse essere confermata da altre giurisdizioni, ad esempio in campo penale, e in altre sedi giudiziarie, con il progressivo abbandono dello stato di diritto, a vantaggio dei poteri dell’esecutivo, come si e’ verificato a partire dal caso Diciotti, ed assisteremo ad altri abusi alle frontiere marittime e nella zona contigua alle acque territoriali, abusi chiamati “soccorsi” dai libici, ma che in realta’ sono respingimenti collettivi e intercettazioni guidate da assetti italiani ed europei, che nei prossimi mesi estivi potrebbero sfociare in vere e proprie stragi.
Alcuni passaggi del documento adottato dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa
RECOMMENDATION
Council of Europe member states must assume more responsibility for rescuing migrants at sea and protecting their rights
STRASBOURG 18/06/2019
“European states’ approach to migration in the Mediterranean Sea has become much too focused on preventing refugees and migrants from reaching European shores, and too little on the humanitarian and human rights aspects. This approach is having tragic consequences”, said Dunja Mijatović, Council of Europe Commissioner for Human Rights, while releasing a Recommendation today which identifies the deficiencies of this approach, and aims at helping member states to reframe their response according to human rights standards.
“A number of states have adopted laws, policies and practices contrary to their legal obligations to ensure effective search and rescue operations, swift and safe disembarkation and treatment of rescued people, as well as the prevention of torture, inhumane or degrading treatment”, says the Commissioner.
“Whilst states have the right to control their borders and ensure security, they also have the duty to effectively protect the rights enshrined in maritime, human rights and refugee laws”, says the Commissioner.
The 35 recommendations contained in the paper aim to help all Council of Europe member states find the right balance between these imperatives. They articulate around five main subject areas: ensuring effective search and rescue coordination; guaranteeing the safe and timely disembarkation of rescued people; co-operating effectively with NGOs; preventing human rights violations while co-operating with third countries; and providing accessible safe and legal routes to Europe.
In particular, the Commissioner recommends that member states enhance the effective capacity and coordination of rescue operations in the Mediterranean Sea; ensure disembarkation only happens in safe places and without unnecessary delays; co-operate with NGOs involved in search and rescue operations, avoid stigmatising rhetoric against them and cease any acts of harassment; ensure transparency and accountability in any migration co-operation activities with third countries; and increase the participation in refugee resettlement programmes and expand other mechanisms that help create safe and legal routes.
“The urgency to act is evident. Since 2014 thousands of human beings have died in the Mediterranean Sea as they tried to reach a safe shore after fleeing war, persecution and poverty. Despite this, state search and rescue operations have been reduced; the European Union and individual European states continue to outsource border controls to third-countries with notorious human rights records; and the NGOs which filled the vacuum left by states’ disengagement in providing humanitarian assistance have been harassed with administrative and judicial proceedings.”
The Commissioner stresses that this situation is also the result of the long-standing inability of European states to share responsibility for search and rescue operations and the reception of refugees, asylum-seekers and migrants on land. “Undoubtedly, some coastal countries have been left alone in facing the challenges posed by the arrival of migrants at sea”, says the Commissioner. “However, this cannot justify measures that endanger the life and safety of human beings. The effective protection of the human rights of refugees, asylum seekers and migrants, on land and at sea, should always prevail over any political dilemma or uncertainty that the interaction of different legal regimes, practices and policies may cause”.