di Fulvio Vassallo Paleologo
1.Quanto successo agli inizi di settembre dello scorso anno, la “soluzione finale” contro le ONG, la chiusura dei porti ed il sostanziale blocco delle attività di ricerca e soccorso della Guardia costiera italiana, in modo ancora più evidente negli ultimi mesi, dimostra ancora oggi l’esistenza di un sostanziale coordinamento delle fasi iniziali delle operazioni SAR sulle rotte del Mediterraneo centrale da parte delle autorità italiane. Rimane da verificare a livello internazionale ed a livello interno quanto questo ruolo di coordinamento possa costituire manifestazione di una “giurisdizione”, esclusiva o concorrente, sulle persone soccorse dai libici in acque internazionali e poi riportate a terra. Tanto al fine di verificare eventuali profili di responsabilita’ diretta o complementare delle autorita’ italiane nella violazione di diritti fondamentali della persona.
Il ruolo assegnato alla Guardia costiera libica, termine improprio perchè in Libia di guardie costiere ce ne sono diverse, militari e civili, sembrerebbe escludere una potestà esclusiva italiana sulle persone soccorse/intercettate in acque internazionali.
Rome is also aware of the level of endemic corruption present also within the Libyan Coast Guard. In the framework of Operation Eunavfor Med, sufficient information has been gathered concerning the role of the Coast Guard of Zawiya – a city 50 km west of Tripoli – in migrant smuggling. Abdurahman Milad Aka Al Bija, currently the captain of Zawiya’s Coast Guard, has been controlling the migrant smuggling business from the West of Tripoli to the border with Tunisia since 2015.
Non si è mai chiarito sino in fondo il ruolo che hanno avuto nel tempo diversi esponenti della cd. Guardia costiera libica coinvolti a vario titolo nelle inchieste condotte dalle procure italiane, a partire da quella di Catania, nell’indagine denominata Dirty Oil. A che punto sono arrivati gli inquirenti? Possibile che si avvistino solo imbarcazioni che trasportano migranti, soprattutto se hanno la venura di incrociare una rotta di una nave delle ONG, possibile che il mare a nord della Libia sia pieno di navi militari che si sorvegliano reciprocamente, dagli americani, ai russi ed ai turchi, e nessuno veda le piccole navi ( bettoline) che trasportano il petrolio di contrabbando dalle raffinerie libiche alla zona franca al largo della costa de La Valletta ( Malta), stato assente nei controlli a mare quanto solerte però nel rifiutare l’accesso in porto ad una nave umanitaria quando cerca un place of safety nel quale ottenere il riconoscimento di quanto imposto dal diritto internazionale? Si pensa devvaro di potere aggirare impunemente il divieto di espulsioni collettive sancito dalla CEDU, e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’UE ( art. 19), attribunedo responsabilità ad una guardia costiera che certo non è “libica”, ma locale, formata, rifornita, assistita e spesso coordinata dalle unità militari italiane ed europee ?
Non si può neppure ignorare come, nella prima fase dei soccorsi, anche in quella che è stata impropriamente definita come “zona sar libica”, siano generalmente soltanto le autorità italiane, a decidere se attendere l’intervento delle motovedette libiche o procedere al coordinamento di un intervento di soccorso, sollecitando l’intervento di una nave privata in navigazione nella zona dell’evento SAR. Fase nella quale sarebbe possibile configurare una responsabilità esclusiva delle autorità italiane che per prime hanno avuto notizia dell’avvistamento o hanno ricevuto una chiamata di soccorso. Responsabilità ancora più evidente qualora le attività SAR fossero ritardate in attesa di una risposta da parte delle autorità libiche o maltesi chiamate ad intervenire. Tempo nel quale rimane radicata la responsabilita’ della prima autorita’ SAR che e’ stata allertata dopo gli avvistamenti aerei o le chiamate di soccorso. Sono le regole alle quali si è improntata per anni l’attività della Guardia costiera italiana. La creazione di una zona SAR “libica” puà essere utilizzata per eludere l’applicazione del diritto umanitario ed internazionale, a partire dalla Convenzione di Ginevra ?
In proposito si ricorda quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, “… gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4”. Tale articolo stabilisce che “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate” (§ 159). Se si afferma una giurisdizione anche italiana dopo la comunicazione della presenza di imbarcazioni da soccorrere nella cd. SAR libica, inventata apposta per aggirare il divieto di respingimenti collettivi, scattano responsabilità gravi sul piano penale, civile ed amministrativo, sia a livello interno che a livello internazionale.
In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto «Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees», elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione.2. In base al punto 3.1.9 della Convenzione SAR (Search and Rescue) di Amburgo del 1979 ,”Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale) . In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.
Una norma chiarissima, seppure risulti nella pratica oggetto di frequenti controversie applicative, la cui portata non può essere certo capovolta fino al punto di sostenere che “… il paragrafo 3.1.9 SAR sancisce che l’obbligo dello Stato responsabile della zona in cui viene prestato il soccorso non è necessariamente quello di accogliere le navi nei propri porti quanto di coordinare le operazioni e cooperare affinchè la nave che ha garantito il primo soccorso possa approdare in un luogo sicuro (place of safety), determinato dall’autorità SAR, dove far sbarcare momentaneamente i passeggeri. Pertanto, la suddetta circostanza, tuttavia, non implica automaticamente che tale Stato sia tenuto ad autorizzare l’ingresso della nave all’interno del proprio porto (e lo sbarco sul territorio) degli individui soccorsi. Qualora il quadro a bordo delle navi fosse classificato adeguatamente come pericoloso, si ritiene che anche in questo caso lo Stato possa ancora porre il diniego nei riguardi della nave di procedere al suo ingresso nel proprio mare territoriale per raggiungere un porto, qualora avesse fornito l’assistenza sanitaria immediata e i primi interventi agli individui che si trovavano a bordo di essa. Lo Stato costiero non è strettamente vincolato a concedere il permesso di ingresso alla nave come tale se la vita delle persone che si trovano a bordo non sia concretamente e totalmente in serio pericolo” (Mignone).
La tesi porta quindi a sostenere che gli stati abbiano un potere assoluto di limitare l’ingresso nelle acque territoriali e conseguentemente nei porti nazionali, di navi , sempre che battano bandiera di altro paese, salvo i casi di emergenza che si dovessero deterninare a bordo di queste navi, ritenute altrimenti, place of safety temporaneo. Come si è verificato da ultimo con i casi Mare Ionio, davanti le coste maltesi, e Alan Kurdi davanti le coste italiane e maltesi, dove venivano consentite solo alcune evacuazioni mediche di emergenza (MEDEVAC). Il blocco tentato in alto mare dalla Guardia di finanza ai danni della Mare Jonio al limite della zona contigua a sud est di Lampedusa, anche a volere accogliere queste tesi, appare del tutto ingiustificato, come rilevato in precedenza, trattandosi di nave battente bandiera italiana. Non sarà una direttiva ministeriale a escludere le norme di diritto internazionale che sono immediatamente vincolanti nel nostro ordinamento. In base a quanto previsto dagli articoli 10 e 117 della Costituzione.
La stessa tesi sostiene che ” l’Italia, dunque, è nel pieno diritto, ai sensi del diritto internazionale generale, di regolare, come pure inibire, l’ingresso nei suoi porti, soggetto all’eccezionalità di navi che sono in situazioni di scarsa sicurezza oppure in pericolo. Pure in questi casi, quindi, può ancora negare l’accesso, a condizione che le dovute misure siano adottate direttamente nei confronti degli individui che sono a bordo al termine della situazione di pericolo” perchè intimamente contraddittoria in quanto sia pure in modo marginale è costretta ad affrontare la problematica di ” misure siano adottate direttamente nei confronti degli individui che sono a bordo al termine della situazione di pericolo” . Quali, respingimenti, espulsioni, decreti di trattenimento ? Oppure anche quali modalità di ammissione per il riconoscimento di uno status di protezione, o direttamente di un permesso di soggiorno per minore età o per le persone vittime di tratta o di tortura ? Ipotesi che non possono assumere rilievo solo dopo lo sbarco a terra, uno sbarco che si potrebbe giustificare non in base alla condizione soggettiva dei naufraghi, ma solo per la mancata sicurezza delle persone bloccate dal ministro dell’interno a bordo delle navi soccorritrici per un periodo indeterninato di tempo.

Dovrebbe essere a tutti noto che il Libia la cd. Guardia costiera corrisponde nei quoi quadri alle milizie scelte ed ai sindaci che già 30 anni fa circa carattrizzano la struttura sociale libica, malgrado l’avvenimento della logica dei consumi. Non solo in queste ultime settimane, ma gia’ dal 2017, un porto sicuro di sbarco ( place of safety) in Libia, un paese diviso con tre diversi governi ed una miriade di milizie armate, non esiste. Come non esiste a Tripoli, a Misurata o a Bengasi, alcuna Centrale nazionale di coordinamento capace di garantire un porto sicuro di sbarco. Sono le ragioni che lo scorso anno inducevano il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno “stato” unitario) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety). Una posizione successivamente ripresa dalla Procura e dal GIP di Palermo, nei provvedimenti di archiviazione delle indagini contro due ONG (Sea Watch e Open arms) che avevano svolto attività di soccorso umanitario nelle acque del Mediterraneo Centrale
Le Linee guida IMO, unitamente alle Convenzioni internazionali in materia, dispongono che la responsabilità primaria per la individuazione e/o fornitura di un “luogo sicuro”, che non può certo trovarsi in Libia, ricada sullo Stato costiero responsabile della zona SAR al cui interno si verifica l’operazione di salvataggio marittimo. Nell’ipotesi in cui, tuttavia, “non sia possibile contattare lo Stato costiero responsabile della zona SAR, il comandante della nave soccorritrice può contattare un altro Stato costiero e/o un centro di coordinamento e soccorso che possa fornire assistenza alle operazioni di salvataggio”. Incombe su quest’ultimo stato, pertanto, l’onere di coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio “fino a quando lo stato costiero responsabile della zona SAR non assuma la propria responsabilità”. Quest’ultima previsione assicura che gli interventi di salvataggio marittimo vengano condotti con la tempestività necessaria per salvaguardare la vita umana in mare, anche quando uno Stato costiero non adempia agli obblighi di assistenza all’interno della propria zona SAR. Come si verifica da anni con Malta, e con la Libia, o con quello che ne rimane, come entità statale unitaria.
Ocorrerebbe ricordare a questo punto che gli att. 10 e 117 della Costituzione italiana rendono vincolanti nel nostro paese le Convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato ed a cui ha dato esecuzione con atti aventi forza di legge. Una riserva di legge “rafforzata” ricorre proprio in materia di condizione giuridica dello straniero e di diritto di asilo, materie che dovrebbero essere sottratti ad un esercizio sostanzialmente illimitato della discrezionalità politica. Possono bastare le “direttive”, di fatto mere circolari, del ministro dell’interno, ai limiti del conflitto di attribuzione con altre autorità dello stato, a derogare gli obblighi di indicare un porto di sbarco stabiliti dalle Convenzioni internazionali e dalla nostra Costituzione, che non permete di attribuire ai richiedenti asilo la qualifica di clandestino o di richiedente asilo prima dell’esame della loro domanda ( art. 10 Cost.). Prima dello sbarco a terra, dopo una azione che comunque sia qualificata, anche se definita come attività di polizia ( law enforcement) non può eludere i doveri di salvaguardia della vita umana e di non respingimento sanciti dalle Convenzioni internazionali.
Osserva il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, “Una volta le direttive ministeriali (regolamenti, circolari, atti di indirizzo) avevano i requisiti di generalità e astrattezza tipici della norma giuridica
Si osserva quindi come “Il provvedimento vede la luce proprio nell’acuirsi della guerra civile libica e sancisce l’associazione del fenomeno migratorio e delle morti in mare al rischio di terrorismo. Esso nulla aggiunge agli indirizzi recentemente espressi in tema di chiusura dei porti, se non dirigerli contro una specifica nave: una sorta di surrogazione dei titolari delle funzioni esecutive e di giustizia e, soprattutto, una inusuale intimidazione”.
“Quel che è accaduto è gravissimo”, hanno dichiarato i vertici della Difesa, perché “viola ogni principio, ogni protocollo” e costituisce “una forma di pressione impropria” nei confronti del Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli. “Non è che un ministro può alzarsi e ordinare qualcosa a un uomo dello Stato. Queste cose accadono nei regimi, non in democrazia. Noi rispondiamo al ministro della Difesa e al Capo dello Stato, che è il capo Supremo delle Forze Armate”.
3. La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979(Convenzione SAR) obbliga specificatamente gli Stati parte a“…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o allecircostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) ed a “ […] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”. (Capitolo 1.3.2). Essa, inoltre, inviata alla cooperazione tra gli Stati, allo scopo primario di garantire l’osservanza del principio dell’integrità dei servizi S.A.R.. A tale scopo, infatti, ciascuno Stato costiero dovrebbe individuare e dichiarare formalmente una propria specifica area di responsabilità (c.d. Area o Regione S.A.R.-S.R.R.) in cui assume l’onere di garantire l’efficiente prestazione dei citati servizi S.A.R., in modo tale da coprire l’intero globo terracqueo.
Ai sensi del cap. 2, par. 2.1.4 e 2.1.5 della Convenzione SAR del 1979 :“Ogni zona di ricerca e di salvataggio viene stabilita mediante accordo tra le Parti interessate (…) Se le parti interessate non raggiungono un accordo sulle dimensioni esatte di una zona di ricerca e di salvataggio, dette Parti fanno tutto il possibile per raggiungere un accordo sull’adozione di disposizioni adeguate che permettano di assicurare un equivalente coordinamento generale dei servizi di ricerca e di salvataggio di detta zona”.
Ai sensi del cap. 2, par. 2.1.8 “Le Parti dovrebbero organizzare i loro servizi di ricerca e di salvataggio in modo da poter far fronte rapidamente agli appelli di soccorso”.

Le Linee guida IMO, unitamente alle Convenzioni internazionali in materia, dispongono che la responsabilità primaria per la individuazione e/o fornitura di un “luogo sicuro”, che non può certo trovarsi in Libia, ricada sullo Stato costiero responsabile della zona SAR al cui interno si verifica l’operazione di salvataggio marittimo. Nell’ipotesi in cui, tuttavia, “non sia possibile contattare lo Stato costiero responsabile della zona SAR, il comandante della nave soccorritrice può contattare un altro Stato costiero e/o un centro di coordinamento e soccorso che possa fornire assistenza alle operazioni di salvataggio”. Incombe su quest’ultimo stato, pertanto, l’onere di coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio “fino a quando lo stato costiero responsabile della zona SAR non assuma la propria responsabilità”. Quest’ultima previsione assicura che gli interventi di salvataggio marittimo vengano condotti con la tempestività necessaria per salvaguardare la vita umana in mare, anche quando uno Stato costiero non adempia agli obblighi di assistenza all’interno della propria zona SAR. Come si verifica da anni con Malta, e con la Libia, o con quello che ne rimane, come entità statale unitaria.
Il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R.ha dunque la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Tale responsabiltà permane almeno fino a quando la responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Malta non ha mai accettato queste linee guida. Dunque le autorità italiane, dal ministero dell’interno alla Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC), una volta ricevuta una segnalazione di un evento SAR, non possono dismettere la loro responsabilità di coordinamento addudendo la competenza maltese ( per la notoria mancata accettazione delle Linee guida IMO da parte del governo maltese).
Secondo le medesime linee-guida, “ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco. (par. 6.20)
L’obbligo di soccorrere persone in alto mare che versino in una situazione di “distress” pertanto può e deve essere assolto dal mezzo più vicino all’evento, anche prima che vi sia una autorizzazione esplicita di una qualsiasi autorità di coordinamento SAR, soprattutto nella situazione attuale sulla rotta del Mediterraneo centrale, nella quale è documentato che le autorità di coordinamento nazionali (MRCC) maltese, tunisina e libica rispondono con grave ritardo o non rispondono affatto. La portata del concetto di distress è chiarita dalle Convenzioni internazionali, e non può essere ridimensionata nei confronti dell’Italia per il mancato accoglimento da parte delle autorità maltesi dei più recenti emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS.
4. Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), come si dirà meglio in seguito. Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. La Libia non era già negli scorsi anni, e non lo è neppure oggi, in grado di garantire, nelle sue diverse e mutevoli articolazioni militari e territoriali, alcun “porto sicuro di sbarco”. L’IMO ammette che ancora oggi non risulta esistente una unica Centrale di coordinamentto libica per le attività SAR (LMRCC), come riconosce in una intervista a Report il rappresentante dell’IMO a Londra.
Appare dunque infondato quell’indirizzo dottrinale, che trova evidente riscontro nelle ultime prassi imposte dal ministero dell’interno, secondo cui lo stato potrebbe comunque impedire l’ingresso nei porti, o addirittura nelle acque territoriali, in quanto tale limitazione al diritto di passaggio “inoffensivo” nelle acque territoriali, e la stessa “chiusura dei porti”, sarebbe giustificata dal diritto di impedire “un attivita’ illecita” che comporterebbe addirittura una minaccia alla “sicurezza delle acque territoriali”, “minacciata da traffici illeciti in cui le navi delle ONG potrebbero essere individuate come partners in crime per attività più simili a taxi del mare che a soccorsi veri e propri ( Mignone).
Una tesi che risente di una lettura parziale della normativa internazionale in materia di diritto marittimo, e dello stesso codice della navigazione nazionale, già contraddetta dalla sua evidente inapplicabilità ai casi nei quali le prassi ministeriali di chiusura dei porti si rivolgano verso navi private battenti bandiera italiana, se non addirittura mezzi militari della nostra Guardia costiera, come si è verificato lo scorso anno, con i due “respingimenti” della nave Diciotti, prima a Trapani, e poi davanti le coste di Lampedusa. Casi nei quali risultava più che evidente l’obbligo a carico del ministero dell’interno di indicare nei tempi più rapidi un porto sicuro di sbarco, anche indipendentemente dalle trattative avviate a livello europeo per la successiva redistribuzione dei naufraghi. Non si vede infatti verso quale altro porto avrebbero potuto fare rotta navi battenti bandiera italiana, già presenti nella zona contigua italiana dopo una attivitaà di soccorso in acque internazionali, a fronte del notorio atteggiamento delle autorità maltesi, libiche e tunisine che rifiutano l’ingresso nei loro porti a navi di altri paesi che abbiano soccorso naufraghi in acque internazionali (come documenta il Rapporto per il 2017 della Guardia costiera italiana).
Anche a volere considerare gli articoli 25 paragrafo 2 e 98 paragrafo 1 della Convenzione UNCLOS nel senso di riconoscere in astratto che lo stato può impedire l’ingresso nelle proprie acque territoriali ad una nave straniera, anche quando questa abbia effettuato un’attivita’ di ricerca e salvataggio in acque internazionali, e porti a bordo i naufraghi soccorsi in tali circostanze, non sembra proprio che le autorita’ statali possano stabilire sulla base della mera discrezionalità politica il carattere “offensivo” dell’ingresso nelle acque territoriali, fino al punto di impedire persino l’ingresso in porto, circostanza che non esclude, semmai agevolando, eventuali attività di accertamento del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o di altri piu’ gravi reati. Per questa ragione la “terza direttiva” ministeriale, adottata pochi giorni fa e specificamente mirata contro la nave umanitaria “Mare Jonio” dell’associazione Mediterranea appare del tutto illegittima e potrà essere contesta in qualsiasi sede. Se qualcuno vuole intimidire le ONG sappia che ogni procedimento intentato contro gli operatori umanitari non potrà che comportare un accertamento documentale delle reali responsabilità di chi ordina e di chi attua politiche di ritiro dalle attività di ricerca e salvataggio (SAR), con l’espediente della zona SAR libica e la delega alle autorità libiche delle attività di intercettazione in acque internazionali.
5. Se è vero che secondo l’articolo 83 del Codice della Navigazione, “Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”, non si può prescindere dall’adozione di un provvedimento motivato e formale da parte dei ministeri competenti ( non solo dell’interno, ma anche delle infrastrutture). Soprattutto non si può dimenticare che a bordo della nave soccorritrice, anche se la si voglia definire in modo spregiativo come “taxi del mare”, si trovano persone, esseri umani, spesso minori che non sono respingibili, portatori di un nucleo insopprimibile di diritti fondamentali, che non può essere ignorato di fronte ad atti, o mere prassi, che comunque sono frutto dell’esercizio di un potere statale discrezionale, e dunque rientrano in una precisa sfera giurisdizionale in cui tali diritti potranno essere fatti valere, indipendentemente dalla bandiera di stato che batte la nave soccorrtrice.
Il riconoscimento effettivo di tali diritti prescinde dunque dalla bandiera che batte la nave, come peraltro è confermato dalla prassi degli ultimi anni di soccorsi nel Mediterraneo centrale e dalle regole di Frontex, sancite in un Regolamento europeo certamente vincolante per le autorita’ italiane. Le stesse regole che poi hanno caratterizzato la missione Sophia di Eunavfor Med. Regole che valgono anche nel caso di imbarcazioni prive di bandiera, come si potra’ verificare adesso con frequenza sempre maggiore, una volta che sia stata completata l’estromissione della Guardia costiera dalle attività SAR in acque internazionali con l’allontanamento della quasi totalitaà delle navi delle tanto odiate ONG.
All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, è stato chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”. Un obbligo di soccorso che va adempiuto tenendo conto delle prescrizioni del diritto umanitario e delle previsioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Anche con riferimento al divieto di respingimenti collettivi affermato dall’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla CEDU e dal’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
L’applicazione in mare del divieto di respingimento (c.d.principio di “non refoulement” sancito da varie norme internazionali ed europee in particolare)di persone che potrebbero avere titolo allo status di rifugiati (Convenzione di Ginevra del 1951 e collegata normativa europea), comporta anche che una nave intercettata mentre trasporta migranti verso uno Stato costiero europeo ma non risulti soggetta alla giurisdizione di alcuno Stato, perché non formalmente iscritta e, quindi, priva di bandiera e di un equipaggio regolarmente imbarcato, non possa essere meramente respinta in mare –salvi casi particolari, ma debba necessariamente essere scortata in porto per i successivi accertamenti di polizia di frontiera. Per di più, se detta nave o imbarcazione risulti in una situazione di pericolo, anche solo potenziale, per cui si debba temere per la salvaguardia della vita umana in mare, l’obbligo di assistenza previsto dalle citate norme internazionali e nazionali impone in ogni caso di provvedere prima di tutto al soccorso ed al trasporto delle persone in un luogo sicuro di sbarco (POS).Tutto ciò è ripetutamente sancito in varie disposizioni normative, internazionali e nazionali (ad. es.: Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 -T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003).
Il rispetto delle regole di soccorso e degli oblighi di sbarco in un porto sicuro non possono essere eluse agitando dati falsi, e comunque mai verificati da indagini giudiziarie, come la presenza di terroristi sui barconi, e la minaccia di una invasione da parte di (addirittura) 800.000 migranti che sarebbero pronti ad imbarcarsi dalla Libia verso l’Italia. Un dato falso ed una ipotesi irrealizzabile, mente invece è sempre più concreta la situazione di guerra civile in Libia, che Salvini vuole nascondere dietro la “definizione di “scontri interni”. Le finalità di polizia e di difesa dei confini esterni non può mai prevalere sul rispetto delle Convenzioni internazionali, che affermano la priorità assoluta della tutela ei diritti fondamentali della persona, come ribadiscono i Protocolli allegati alla Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale.
Al di là della ripartizione delle zone SAR e della loro incerta attribuzione, gli obblighi di socorso prevalgono su qualunque attività di repressione della cd. immigrazione illegale, come confermato dalle Clausole di salvaguardia previste dall’art. 9 del Protocollo contro il traffico di eseri umani, allegato alla Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale. In base all’art. 19 dello stesso Protocollo, che prevede una specifica “clausola di salvaguardia”, “Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento.”
Secondo quanto osservava nel 2017 il Contrammiraglio Carlone in una relazione resa in Parlamento, nell’ambito delle attività del Comitato parlamentare Shengen, “”non vi dovrebbe essere nessuna differenza tra un’operazione S.A.R. ed un’operazione di polizia diretta al controllo delle frontiere esterne europee in quanto, in applicazione del principio di “non refoulement” nonché del regolamento europeo che disciplina le operazioni FRONTEX e del discendente piano operativo, anche le persone che fossero ritenute non in pericolo e, quindi, intercettate in mare e non soccorse, dovrebbero comunque essere portate a terra, nel territorio del Paese che ospita la specifica operazione nazionale od europea (cioè l’Italia, per quanto riguarda l’operazione TRITON; la Grecia, per quanto riguarda l’operazione POSEIDON; la Spagna, per l’operazione INDALO).
In realtà la differenza risiede nel fatto che l’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, come si è visto, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia al di fuori delle acque territoriali (“law enforcement”) è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale.
La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero é ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a terra delle persone soccorse. Qualora invece la stessa imbarcazione fosse ritenuta ancora idone a navigare, seppure verso le acque territoriali italiane, o maltesi, potrebbe scattare solo il tracciamento, nell’ambito di una operazione di polizia marittima, definita come law enforcement. Solo nel primo caso ricorrerebbe una situazione di “distress” immediato che imporrebbe di procedere senza alcun indugio alla dichiarazione di un evento SAR e quindi all’intervento di soccorso ( con conseguente obbligo di sbarco in un porto sicuro”.
Una responsabilità enorme incombe dunque sugli equipaggi dei mezzi aerei che eseguono i primi avvistamenti e sulle autorita’ marittime nazionali che ricevono le prime segnalazioni di soccorso e ce sono obligate al coordinamento delle attività SAR, fino a quando lo stato responsabile non dichiara di procedervi con i propri mezzi. Tutti devono essere consapevoli dei rischi che comporta la navigazione su imbarcazioni comunque sovraccariche e in navigazione senza adeguati mezzi di salvataggio, e la notoria inadeguatezza della sedicente giardia costiera libica, anche sul piano delle comunicazioni, come peraltro non si può ignorare la gravità delle conseguenze che subiscono coloro che vengono intercettati dalla guardia costiera ” libica” e riportati a terra, come avviene ormai dalla fine del 2017.
Se l’imbarcazione carica di migranti, oggetto di avvistamento in acque internazionali, magari a seguito di una chiamata di soccorso, non è ritenuta versare in situazione di pericolo, come specifica il Conrammiraglio Carlone, “l’attività di polizia delle Autorità dello Stato costiero normalmente si limita al monitoraggio della situazione, allo scopo di verificare se la destinazione appaia essere quella di detto Stato costiero. Solo in tal caso scatta l’intervento di polizia: inizialmente a scopo preventivo, mirato quindi a cercare di prevenire l’ingresso od il transito (considerato potenzialmente “offensivo”) dell’imbarcazione nelle proprie acque territoriali, sempre nei limiti di quanto legittimamente possibile ai sensi delle norme internazionali.
Pertanto l’accompagnamento a terra e l’ingresso nel territorio dello Stato costiero di dette persone si avrebbe solo nel caso in cui l’azione preventiva e deterrente non abbia effetto o sia ravvisata una violazione delle norme dello Stato costiero che comporti la necessità dell’adozione di provvedimenti autoritativi di esercizio della giurisdizione.”
Provvedinenti autoritativi di esercizio della giurisdizione italiana che dunque possono essere adottati anche quando l’imbarcazione sospettata di un possibile passaggio “offensivo” si trovi ancora in acque internazionali o nella zona contigua.
Le autorità politiche e di polizia di uno stato, a partire dal minostro dell’interno, non possono dunque ritenere derogabili le prescrizioni del diritto internazionale marittimo, in nome di un “superiore interesse nazionale alla difesa dei confini”. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R.continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sul S.A.R.
Per queste ragioni costituisce grave infrazione del diritto europeo ed internazionale qualunque disposizione amministrativa o ministeriale, come le recenti “Direttive” adottate dal ministero dell’interno in materia di operazioni SAR, che vada contro l’applicazione effettiva delle prescrizioni delle Convenzione UNCLOS, SAR e SOLAS e delle relative linee guida dell’IMO, che privilegiano il diritto alla vita e gli obblighi di soccorso, rispetto al diritto degli stati di impedire l’ingresso nelle acque territoriali. . Soprattutto se in questo momento storico, di conflitto civile in Libia, si continuasse a dare esecuzione al “Memorandum d’intesa” del 2 febbraio 2017 tra Italia e governo di Tripoli.
Qualora si accertasse la giurisdizione italiana, sia pure in acque internazionali, spetterebbe poi al giudice penale accertare l’eventuale ricorrenza di un reato di omissione di soccorso, o di altri reati, come si è gia’ verificato nel caso della strage dell’11 ottobre 2013 a sud delle coste maltesi, soprattutto nei casi più gravi nei quali dal mancato tempestivo soccorso sia derivata la morte di persone che si trovavano a bordo delle imbarcazioni già oggetto di una chiamata di soccorso o di un precedente avvistamento aereo. Sempre che non si proceda ad altre archiviazioni.
Per quanto riguarda l’aspetto sanzionatorio previsto a livello nazionale, chiunque sia in grado di prestare assistenza ad una persona o ad una nave in pericolo di perdersi ha l’obbligo giuridico di intervenire senza indugio, per cui l’ingiustificata omissione costituisce reato (art. 1113 cod. nav., 1158 cod. nav.), a prescindere ovviamente da eventuali ulteriori responsabilità che siano ritenute conseguenti a tale inazione (omicidio e naufragio colposi, ecc.).
SI PUO’ RITENERE ANCORA IN VIGORE E LEGITTIMA QUESTA DIRETTIVA MINISTERIALE DEL 28 MARZO 2019?




ULTIMO AGGIORNAMENTO DEL !6 APRILE 2019.
TERZA DIRETTIVA DEL MINISTERO DELL’INTERNO . DIRETTAMENTE CONTRO UNA SINGOLA NAVE UMANITARIA. QUALE RISPETTO PER IL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA, LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA, I DIRITTI FONDAMENTALI CHE SPETTANO A QUALUNQUE ESSERE UMANO , IL DIRITTO INTERNAZIONALE E LO STATO DI DIRITTO ?
Comunicato di Mediterranea Saving Humans del 16 aprile 2019
Nella direttiva contro Mare Jonio solo propaganda. Il Viminale rispetti i diritti umani
martedì 16 aprile 2019
Apprendiamo che il Viminale ha dedicato, nella sua intensa attività di produzione di “direttive ad navem”, una nuova direttiva interamente dedicata alla nostra nave, Mare Jonio, salpata per la seconda missione del 2019 il 14 aprile scorso.
La direttiva appare scritta come se il Governo vivesse in un mondo parallelo. Nessun accenno alla guerra che infiamma la Libia e ai corrispettivi obblighi internazionali né alle migliaia e migliaia di persone torturate negli ultimi anni in quel Paese né a quelle annegate nel Mediterraneo centrale (in proporzione in numero sempre crescente, 2.100 nel solo 2018). Forse dovrebbero parlarsi tra Ministeri: la Ministra della Difesa italiana ha appena affermato infatti che “con la guerra non avremmo migranti ma rifugiati e i rifugiati si accolgono”.
Nelle considerazioni introduttive della direttiva in questione, si leggono una serie di slogan di propaganda, oltre che un elenco di bugie, peraltro relative a eventi al momento sotto l’attenzione della Procura di Agrigento nel corso dell’indagine che ci riguarda e che abbiamo accolto offrendo tutta la nostra collaborazione. Sappiamo infatti di avere sempre rispettato i diritti e il diritto, cosa che i governi europei, e il nostro in particolare, dovrebbero cominciare a fare in relazione a quanto avviene nel Mediterraneo Centrale.
La direttiva dice che la nostra presenza in mare sarebbe un incentivo per chi lascia la Libia: bisognerebbe appunto ricordare al Viminale che in Libia c’è una guerra, e che in ogni caso, come l’ONU e l’UE non perdono occasione di ricordare, quel paese non è mai stato un porto sicuro, ma piuttosto il teatro di “indicibili orrori”, stupri quotidiani, torture, esecuzioni sommarie per tutti i migranti, inclusi i bambini.
La direttiva dice che rischiamo di favorire l’ingresso di pericolosi terroristi. Auspichiamo che, una volta sbarcate nel porto più sicuro le persone eventualmente soccorse, questo governo sia in grado di effettuare tutte le indagini necessarie a garantire la sicurezza pubblica, ricordando però che i terroristi solitamente non viaggiano su barche che in un caso su tre affondano, ma che hanno ben altri mezzi per spostarsi.
La direttiva dice che avremmo rifiutato il coordinamento SAR di autorità straniere legittimamente responsabili. Ricordiamo che nel nostro soccorso avvenuto il 18 marzo, nessuna autorità ci ha ordinato alcunché, se non di stare lontani 8 miglia da un punto dal quale siamo rimasti ben più distanti per tutto il tempo. In ogni caso, ci auguriamo che la direttiva non faccia riferimento all’autorità libica, poiché in questo caso, si tratterebbe di una istigazione a delinquere: se già in precedenza era un reato riportare in Libia le persone soccorse, oggi, con la guerra in corso, è un’affermazione semplicemente criminale.
La cosiddetta guardia costiera libica, su delega e finanziamenti italiani, ha catturato per anni le persone in mare riportandole in quell’inferno e rimettendole in mano ai trafficanti, contrastati di fatto solo dalla presenza delle navi della società civile, le uniche a strappare le persone soccorse dalle mafie criminali. Sempre in relazione all’evento del 18 marzo, contrariamente alle menzogne riportate dalla direttiva, ricordiamo di avere fatto rotta verso l’Italia, obbedendo linearmente a quanto previsto dal diritto internazionale, in quanto Lampedusa era il porto sicuro più vicino per i naufraghi soccorsi.
La direttiva ci accusa infine di volere condurre nuovamente le stesse attività: lo confermiamo. Siamo di nuovo nel Mediterraneo, grazie alle tantissime realtà e persone che ci sostengono, per continuare nella nostra missione di monitoraggio e denuncia della violazione dei diritti umani, senza sottrarci mai all’obbligo giuridico ed etico di salvare le vite in pericolo e portarle in salvo.
Ci atterremo, nel farlo, esattamente come chiede la direttiva, alle vigenti norme nazionali e internazionali, cosa che implica l’impossibilità di fare alcun riferimento alla Libia, certi che anche l’illegittimità della sua zona SAR sarà presto definitivamente riconosciuta.
Diffidiamo altresì chiunque, e nella fattispecie il Ministro dell’Interno italiano, dal mettere in atto comportamenti che violino le leggi nazionali ed internazionali in materia di rispetto dei diritti umani e di obbligo di salvataggio in mare.