Occorre certezza sulle zone SAR (Search and Rescue) in Mediterraneo

di Fulvio Vassallo Paleologo

Si riunisce la Commissione LIBE (libertà civili, giustizia ed affari interni) del Parlamento europeo che tratta oggi della Guardia di frontiera e costiera europea, e domani, dalle 11,45 alle 13, della Situazione in Libia e nel settore delle operazioni di ricerca e di salvataggio”.  All’ordine del giorno, lo “Scambio di opinioni conh UNHCR, IMO, IOM, Frontex e l’Osservatorio per la ricerca e il salvataggio per il Mediterraneo (SAROBMED)” e la “Presentazione a cura del servizio giuridico del Parlamento europeo sulla legittimità delle “piattaforme di sbarco regionali “ e dei “centri sorvegliati”, quali proposti nelle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018″. Per qualche politico potrebbero andare anche bene, ma diverse agenzie delle Nazioni Unite la pensano diversamente. Almeno fino a quando la Libia non sara’ in grado di garantire porti sicuri di sbarco ed il rispetto effettivo della Convenzione di Ginevra che non ha mai sottoscritto.

“The list of violations and abuses faced by migrants in Libya is as long as it is horrific. This is, quite simply, a human rights crisis affecting tens of thousands of people,” UN High Commissioner for Human Rights Zeid Ra’ad Al Hussein said.

Posizioni analoghe sulla Libia sono state espresse da parte del rappresentante UNHCR per il nordafrica Vincent Cochetel, che pure non si è espresso contro le piattaforme di sbarco in paesi come l’Egitto, che non sembrano garantire alcun rispetto dei diritti umani.

Cochetel made clear that when he talked about North Africa being involved in a “mechanism” to receive, process and distribute refugees, he meant a range of countries from Morocco to Egypt — but not Libya. “It’s a different situation, it’s not a safe country of asylum, as far as we are concerned,” he said.

Un’occasione importante, domani in Commissione LIBE a Bruxelles, di cui si scrive in Libia ma non in Italia, per chiarire le responsabilità delle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, soprattutto sulle rotte libiche, nei giorni in cui sono state riportate all’attenzione dei media le traversate della disperazione, di migranti in fuga dall’inferno dei centri di detenzione e delle connecting house in Libia. Migranti che per alcuni politici europei, come il ministro dell’interno Salvini che ancora oggi ha inviato un’altra motovedetta alla sedicente Guardia costiera “libica” con base a Tripoli, dovrebbero essere intercettati in alto mare, anche in acque internazionali, e riportati nei centri di detenzione nei quali hanno subito e continuerebbero a subire ogni genere di abusi. Anche in presenza di personale che veste indebitamente uniformi dell’UNHCR.

Al di là delle attività di assistenza diretta ed indiretta prestata dalle autorità italiane alla Guardia costiera libica, coordinata da tempo ed assistita da assetti navali ed aerei europei ed italiani, la autoproclamazione di una zona SAR libica il 28 giugno scorso, mai smentita dall’IMO, ma anzi recepita nei data base dell’organizzazione, che come è noto fa capo alle Nazioni Unite, ha segnato un punto di svolta. Non tanto nella riduzione progressiva dei cd. sbarchi, già in forte calo dal luglio del 2017, quanto piuttosto nell’incremento esponenziale ( in termini percentuali) del numero delle vittime, rispetto al numero delle persone che sono state imbarcate nei barconi diretti in Sicilia.

Si è alimentata, con notizie costruite ad arte, una (falsa) contrapposizione tra Italia ed Unione Europea, sulle politiche di esternalizzazione delle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare. Una linea invece condivisa tra Roma e Bruxelles, già avviata nel 2015 con il Migration compact proposto dal governo Renzi-Gentiloni e poi approvata dalla commissione Europea. Mentre la creazione di una zona SAR libica, ed il conseguente ritiro delle unità di soccorso italiane, ormai confinate nelle loro acque teritoriali, ha riaperto una fase di forte conflittualità con Malta, che dovrebbe intervenire su una zona SAR tanto ampia da estendersi dal limite delle acque territoriali tunisine fino alla zona SAR riconosciuta alla Grecia. Una missione “impossibile” che Malta non può sicuramente assolvere e che in passato è stata rifiutata dalle autorità di La Valletta in diverse occasioni, nelle quali non sono mancati conflitti di competenza e ritardi nei soccorsi, che hanno prodotto centinaia di vittime. Anche la magistratura siciliana ha dovuto prendere atto che Malta non risponde a tutte le chiamate di soccorso perchè non dispone di mezzi sufficienti, e che l’isola non può costituire un porto sicuro di sbarco per tutte le persone soccorse nella vastissima zona SAR che le viene ancora oggi riconosciuta. Soltanto un accordo tra stati come l’Italia e Malta, può garantire un efficace intervento di soccorso nella SAR maltese, e di conseguenza in quella libica, fino a quando la Libia non garantirà davvero porti sicuri di sbarco.Un accordo che dovrà dare certezza anche sulle modalità di individuazione dei porti di sbarco. Con una modifica dei criteri fissati dal Regolamento Dublino.

Ancora oggi, un peschereccio spagnolo, il Nostra Madre di Loreto, rimane a vagare in acque internazionali, senza la indicazione di un porto sicuro di sbarco, con una burrasca in arrivo e 12 naufraghi a bordo. La Guardia costiera libica era intervenuta in acque internazionali, intercettando il e su cui si trovavano i naufraghi soccorsi dal pschereccio spagnolo, e riportando decine di persone a terra, di nuovo in mano ai miliziani. Altri si erano gettati in mare per evitare di essere ripresi dai libici. Una vicenda che e’ una ulteriore conseguenza della istituzione di una zona SAR “libica”. Che porta qualcuno a confondere una zona di acque intenazionali, definita come SAR (Search and Rescue) per finalita’ di soccorso, con le acque territoriali di uno stato, che neppure …esiste come entita’ unitaria.

4:30 p.m. Daily Mail

Spain says a fishing vessel that rescued 12 migrants in waters north of Libya on Thursday is awaiting a decision from Italy, Malta and Libya over where the migrants can land.

The migrants are from Senegal, Mali and Libya and rescued by 13 crew members of the Spanish fishing vessel, Europa Press news agency reported. The boat is stranded in central Mediterranean waters north of Libya.

Foreign Minister Josep Borrell said Monday that Italy and Malta have rejected taking the trawler in because the rescue took place in Libyan territorial waters.

Oscar Camps, the founder of Spanish non-profit Open Arms, has criticized negotiations to send the migrants back to Libya, arguing that the country’s ports can’t be considered safe.

A doctor from the group boarded the Spanish fishing vessel on Saturday and confirmed all passengers were in good health.

Anche in questa occasione si è rasentato l’incidente, con il rischio di molte vittime, a seguito dell’intervento di una motovedetta libica mentre era in corso l’intervento di salvataggio da parte del motopesca spagnolo. Ancora una volta la guardia costiera “libica” accusa chi ha effettuato un’azione di soccorso, doverosa in base alle Convenzioni internazionali, salvando i naufraghi e sottraendo 12 persone al terribile destino di essere riportate in Libia, restituendo loro la possibilità di sbarco in un “place of safety”. Che però le autorità italiane e maltesi continuano a negare. Come se fosse legittimo , e anzi doveroso, riportare in Libia tutti i migranti soccorsi in acque internazionali, anche quando gli interventi SAR sono operati in acque internazionali da navi o imbarcazione di diversa bandiera, civili o militari. La creazione di una zona Sar libica ha fatto esplodere conflitti ricorrenti tra stati, ogni volta che si deve procedere al soccorso di vite umane in alto mare. Da ultimo, tra la Spagna, l’Italia e Malta. Senza che l’Unione Europea riuscisse ad imporre il rispetto del diritto internazionale che impone collaborazione ed intese operative comuni. Perche’ il diritto alla vita non venga cancellato dalla difesa delle frontiere nazionali.

Si ricorda l’impegno italiano, gia’ lo scorso mese di maggio, a Londra, per la istituzione di una zona SAR libica, nel quadro dei rapporti di collaborazione gia’ consolidati con il Memorandum d’intesa firmato con le autorita’ di Tripoli il 2 febbraio 2017, che pure si richiamava ai Protocolli operativi sottoscritti nel dicembre 2007 dal governo Prodi ed al Trattato di amicizia del 2008 concluso tra Berlusconi e Gheddafi.

Il 28 giugno scorso il governo di riconciliazione nazionale (GNA) di Tripoli notificava all’IMO la costituzione di una zona SAR ( Search and Rescue) “libica”, con la indicazione di una centrale di coordinamento in territorio libico (JRCC). Da quella data le chiamate di soccorso pervenute alle autorità italiane e maltesi da parte di imbarcazioni sulla rotta del Mediterraneo centrale, o frutto di avvistamenti aerei da parte di unità militari, anche di Frontex o di Eunavfor Med, venivano smistate alle autorità libiche.Le stesse autorità procedevano poi in un numero crescente di casi ad intercettare i barconi in navigazione verso la Sicilia in acque internazionali, anche a 70-80  miglia dalla costa, ed a ricondurre o migranti che vi si trovavano a bordo nei centri di detenzione ubicati in prossimità ai porti di sbarco, più frequentemente Tripoli o Khoms. Come è successo ancora oggi.
A partire dalla stessa data si intensificavano i contrasti tra le autorità maltesi e quelle italiane circa le competenze sulle attività di soccorso e sulla individuazione di un luogo sicuro di sbarco. Come si è verificato nel caso della Diciotti, che Salvini voleva rinviare indietro verso la Libia, e poi verso Malta.  Luogo di sbarco che si è individuato sempre più spesso tra i porti libici, che certo non potevano definirsi come “place of safety”. In numerosi casi, durante tutta l’estate, queste controversie comportavano un indebito prolungamento delle attività di soccorso, nell’attesa che i competenti ministeri dell’interno indicassero, tramite la centrale di coordinamento della guardia costiera italiana e maltese, i porti di sbarco che potevano costituire un “place of safety”, secondo la portata di tale termine nelle Convenzioni internazionali UNCLOS e SAR. Di certo non rileva nella individuazione del porto di sbarco sicuro la bandiera dell’unità soccorritrice, altro argomento utilizzato per impedire o ritardare lo sbarco nei porti italiani delle persone soccorse in mare.
Come è provato da un recente comunicato di Medici senza frontiere, a partire dall’inizio dell’estate, risulta notevolmente accresciuta la percentuale di vittime in alto mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale, tenendo conto della fortissima diminuzione delle partenze, per ragioni legate anche all’inasprimento degli scontri in territorio libico. Non esistono fattori di attrazione, come le ONG, ma fattori di spinta, le torture e le violenze subite dai migranti intrappolati in Libia e lo strapotere delle bande dei trafficanti che, ricorrendo alla tortura, estorcono somme sempre più alte ai parenti. Occorre pensare ad una evacuazione delle persone rinchiuse nei lager libici e ad una missione di soccorso in acque internazionali con la partecipazione di più stati ed un generale accordo sui luoghi sicuri di sbarco, che non possono essere individuati in un paese insicuro, che non rispetta alcun principio fondamentale di uno stato di diritto, come la Libia di oggi.Uno stato fallito nel quale, oltre ai diritti, vengono violati i corpi delle persone.
Secondo un rapporto di Medu da Pozzallo, dopo lo sbarco di domenica 25 novembre, la condizione fisica di chi viene soccorso dopo tempi sempre più lunghi di internamento nei centri di detenzione, e traversate che possono durare anche giorni, appare assai critica. Occorre dunque fissare regole certe che rendano obbligatorio l’intervento di salvataggio nei tempi più rapidi possibili. Amnesty international denuncia da tempo le violazioni subite dai migranti rinchiusi nei centri di detenzione nei quali vengono portati i migranti intercettati in acque internazionali dalla Guardia costiera “libica”. Anche l’UNHCR rileva l’incremento delle vittime e le condizioni disumane nei centri di detenzione, dopo la dichiarazione di una zona SAR libica alla fine dello scorso luglio ed il conseguente allontanamento delle ONG.
Oltre ad accordi tra paesi dell’Unione Europea che dovrebbero coordinare i loro interventi di salvataggio in mare ( come Italia e Malta), si rende necessario stabilire con certezza l’estensione e la confinazione delle zone SAR loro spettanti. Molte navi, o pescherecci, talvolta anche unità militari, tentano di ignorare le piccole imbarcazioni cariche di migranti che incontrano sulla loro rotta. Lo denunciano gli stessi migranti che riescono ancora ad arrivare. Appare anche molto urgente che si stabilisca la portata effettiva della zona SAR riconosciuta al governo di Tripoli. Soprattutto al fine di evitare che ritardi in interventi di soccorso in questa vastissima area possano produrre ancora altre vittime, o rendere inefficaci i successivi interventi affidati sempre più di frequente a navi commerciali, come nel caso della NIVIN, se non più a navi appartenenti alle ONG.
L’Unione Europea non può sottrarsi ad un preciso impegno di salvaguardare la vita umana in mare, con assoluta prevalenza sulle operazioni di contrasto dell’immigrazione irregolare, come affermato nei Regolamenti europei n.656 del 2014 e n.1624 del 2016, relativi a Frontex ed alla nuova Guardia di frontiera e costiera europea. Per assolvere questa esigenza di carattere assoluto, occorre fare chiarezza sulle regole di intervento nelle operazioni SAR in quella che è la rotta migratoria marina più pericolosa del mondo.
Diventa dunque essenziale porre termine ad una fase di grande incertezza, nella quale è aumentata la conflittualità tra gli stati titolari di zone SAR confinanti, come Italia e Malta, e rimane da dimostrare, per quanto riguarda la cd. SAR “libica”, l’effettività delle attività di coordinamento e la loro stessa provenienza (catena di comando). Mentre purtroppo non sembra facile dimostrare il rispetto delle garanzie minime dei diritti umani e dell’integrità fisica dei naufraghi soccorsi, una volta portati a terra in Libia e consegnati alle milizie che controllano le diverse parti in cui è attualmente diviso il territorio libico.
L’Unione Europea, e domani la Commissione LIBE del Parlamento europeo, devono chiedere pertanto che l’IMO– in collaborazione con le principali agenzie umanitarie (come l’OIM e l’UNHCR)- voglia definire la esatta confinazione delle zone SAR italiana e maltese, promuovendo gli opportuni accordi tra i due stati. Si deve chiedere all’IMO che venga sospeso qualsiasi riconoscimento di una zona SAR libica, autoproclamata dalle autorità di Tripoli il 28 giugno scorso, fino a quando la Libia non abbia un efficace sistema di coordinamento e soccorso stabilito su base nazionale, come attualmente non si verifica, attesa la partizione del paese tra diverse autorità di governo, e soprattutto fino a quando non siano garantiti i diritti fondamentali delle persone migranti, compresi donne e bambini, intercettate in mare e riportate a terra.
Le condizioni in cui sbarcano le persone che ancora in questi giorni riescono a fuggire dalla Libia smentiscono le rassicurazioni ufficiali circa un miglioramento della situazione nei centri di detenzione libici e delle capacità operative della sedicente guardia costiera. Sarebbe anche tempo che l’UNHCR, che da mesi rileva il peggioramento della situazione dei migranti intrappolati in territorio libico, chiedesse in modo coerente che le attività di soccorso in acque internazionali, ma nella zona SAR, attualmente attribuita ai libici, sino a 80 miglia dalla costa, siano svolte da unità appartenenti a paesi europei, le uniche che possono garantire lo sbarco dei naufraghi in un place of safety, in un porto sicuro.
Le Nazioni Unite non possono tollerare che una loro agenzia dichiari la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco e poi un’altra agenzia come l’IMO continui a riconoscere una zona SAR “libica” che permette lo sbarco di persone che, anche se vengono consegnate al Dipartimento della poizia “libica” contro l’immigrazione (DCIM),  sono immediatamente esposte ad abusi di ogni genere.

“People smuggled or trafficked into Libya face torture, forced labour and sexual exploitation along the route, and many also while held in arbitrary detention,” said Martin Kobler, the Secretary General’s Special Representative for Libya and Head of the UN Support Mission in Libya (UNSMIL).

The report, published jointly by UNSMIL and the UN Human Rights Office, is based on information gathered in Libya and from interviews with migrants who had arrived in Italy from Libya, among other sources*.

Migrants are held in detention centres mostly run by the Department for Combatting Illegal Migration (DCIM), where there is “no formal registration, no legal process, and no access to lawyers or judicial authorities,” the report states.

Si ha persino notizia di trafficanti che riescono ad entrare nei centri di detenzione “governativi”, quelli che per Salvini sarebbero sicuri, e riescono a portare via, di fatto a sequestrare, migranti già riconosciuti dai rappresentanti dell’UNHCR come “particolarmente vulnerabili”.E sono le stesse Nazioni Unite che denunciano torture anche nei cd. centri di detenzione governativi. Tutti gli uomini, le donne ed i minori, intercettati in alto mare e poi rigettati nei centri di detenzione in Libia a disposizione delle milizie, sono dunque definibili come persone altamente vulnerabili.
Ed è la stessa situazione nei porti e sui territori libici, ormai denunciata in diversi rapporti internazionali pubblicati negli ultimi mesi, che impedisce la attuazione dei piani europei per la creazione di piattaforme di sbarco in Libia, dove si vorrebbero riportare i naufraghi soccorsi in acque internazionali, in violazione di regole internazionali che nessun parere degli esperti degli organismi europei è ancora riuscito a giustificare. Come emergerà anche in questa sessione della Commissione LIBE riunita a Bruxelles. Nessun paese nordafricano, incluse le diverse autorità che si contendono la Libia, hanno peraltro mai accettato la possibilità che sui loro territori fossero create queste piattaforme di sbarco, o centri di detenzione direttamente gestiti da autorità internazionali o europee. Una proposta da accantonare immediatamente, per privilegiare invece la salvaguardia della vita umana in mare, anche a costo di rinunciare alla propaganda elettorale, che sembra caratterizzare queste ultime fasi delle attuali istituzioni europee ed italiane, in particolare.
Si chiede dunque che il Parlamento europeo e le altre istituzioni dell’Unione Europea vogliano fare il massimo sforzo, oltre che nella direzione di azioni di contrasto dell’immigrazione irregolare, efficaci se corrispondano all’apertura di credibili canali legali di ingresso, anche nella direzione di dare certezza alle attività di ricerca  e soccorso in alto mare, contribuendo alla salvaguardia della vita umana ed alla decriminalizzazione dei soccorritori. La società civile europea vigilerà sulle ulteriori violazioni che saranno commesse in futuro, su altri possibili casi di omissione di soccorso, e sugli abusi nelle attività di intercettazione in acque internazionali. Resteremo accanto alle organizzazioni umanitarie che, malgrado i ricorrenti tentativi di criminalizzazione, continuano a svolgere una preziosa attività di monitoraggio nelle acque del Mediterraneo.
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Sospendere la zona SAR della Libia

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COMUNICATO STAMPA

Bruxelles, 27 novembre 2018. Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta nella sessione della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE) sul punto in agenda “La situazione in Libia e nel settore delle operazioni di ricerca e di salvataggio”.
Le audizioni avevano per argomento:

– scambio di opinioni con UNHCR, IMO, IOM, Frontex e l’Osservatorio per la ricerca e il salvataggio per il Mediterraneo (SAROBMED);

– presentazione a cura del servizio giuridico del Parlamento europeo sulla legittimità delle “piattaforme di sbarco regionali ” e dei “centri sorvegliati”, quali proposti nelle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018.

Di seguito l’intervento:

Pregherei tutte le istituzioni qui presenti di abbandonare il double speech che usano abitualmente quando parlano di profughi in Libia e di soccorso in mare, celebrando ritualmente i diritti dell’uomo nello stesso momento in cui li calpestano. Le pregherei di guardare alle tragedie che succedono veramente al di là del Mediterraneo, e di riconoscere che siamo davanti a un fallimento colossale dell’Unione europea e delle istituzioni internazionali. Fa accezione l’istituto di monitoraggio Sarobmed (Search and Rescue Observatory for the Mediterranean), qui rappresentato dalla professoressa Violeta Moreno-Lax che ringrazio per il suo intervento sulle attività di sorveglianza delle attività di Ricerca e Soccorso.

Anzitutto, la Commissione elogia la diminuzione degli arrivi, ma non dice una sola parola sul parallelo aumento di morti in mare.

Inoltre la zona di ricerca e soccorso (SAR) in Libia è nei database dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), ma è una zona SAR che non può funzionare: perché la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra; perché non ha una politica di asilo; perché non ha le strutture e le capacità per fare search and rescue, e perché, di fatto, non fa search and rescue.

Quello che domando all’IMO, quindi, è se non sia il caso di sospendere la zona SAR libica.

Il rappresentante della Commissione europea ha appena detto che in questo modo si viene in soccorso delle persone in stato di bisogno. Non è vero. All’interrogazione scritta che in 21 parlamentari europei abbiamo inviato all’UNHCR chiedendo chiarimenti sulla situazione dei profughi in Libia, l’Alto commissario Filippo Grandi ha risposto dicendo che l’UNHCR non è ancora in grado di aprire il proprio centro di evacuazione, e che un certo numero di rimpatri volontari è avvenuto verso il Niger, ma che questi rimpatri funzionano solo se l’Unione europea rispetta gli impegni di reinsediamento – e l’Unione europea non rispetta gli impegni di reinsediamento.

Quanto al parere fornito dal Servizio legale del Parlamento europeo sul progetto di istituire “centri sorvegliati” in Europa e “piattaforme di sbarco” al di là del Mediterraneo per i migranti salvati in mare, mi sembra che ormai le prigioni per rifugiati e richiedenti asilo siano presentate come una normalità: la carcerazione dovrebbe essere proporzionale e necessaria, ci assicurano, ma ormai è normalizzata.

Un’ultima cosa: ho rivolto una domanda alla Commissione in nome della deputata Marie-Christine Vergiat, che ha promosso l’interrogazione parlamentare sopra menzionata. Era diventata una domanda orale, in assenza di risposta scritta da parte della Commissione. Vorrei avere una risposta oggi, non una promessa in un secondo periodo. Da Filippo Grandi l’abbiamo già ricevuta, dalla Commissione nulla. Grazie.

Migranti  VITA

Libia, ecco dove la guardia costiera libica rispedisce i profughi “soccorsi”.

Alessandro Puglia

23 ore fa

Sono tra le 25 e le 33 le prigioni “ufficiali” dove vengono rinchiusi i migranti per periodi indefiniti di detenzione, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento. Global detention project ha creato una mappa, ma sono ancora tanti i centri di detenzione che mancano all’appello per ragioni di sicurezza o perché in mano alle milizie. Ad esserne complici i governi dell’Ue che negli anni hanno stretto accordi con varie entità presenti in Libia

Torturati, violentati, smistati nei centri di detenzione e costretti nuovamente a pagare. I migranti “soccorsi” e “intercettati” dalla così soprannominata guardia costiera libica vivono l’inferno dei centri di detenzione all’andata e al ritorno del loro viaggio, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento e costretti a pagare una forma di riscatto che non fa altro che alimentare il traffico di esseri umani. Una volta “soccorsi” e riportati in Libia i migranti vengono prima trasferiti nelle 16 zone di smistamento che si affacciano sulla costa e successivamente nelle carceri sparse per il paese.

É uno degli aspetti più inquietanti che emerge dal report di Global Detention Project, associazione con sede a Ginevra che promuove i diritti umani delle persone prive di cittadinanza. Incrociando i dati delle maggiori organizzazioni internazionali e non governative presenti sul territorio, come Unhcr, Oim, Amnesty International, ma soprattutto grazie al contributo di ricercatori e giornalisti presenti sul luogo, Global Detention Project già dal 2009 lavora per creare un database che mira a individuare i centri di detenzione in Libia, come già fatto in altri paesi del mondo.

Gdp Mappa 1

Catalogarli tutti è impossibile e anche una classificazione tra centri di detenzione “criminali” e “amministrativi” è più che mai difficile. Questo perché i governi europei non possiedono dati sufficienti e perché un numero indefinito di centri di detenzione sono nelle mani di milizie e trafficanti, impedendo così l’accesso alle organizzazioni presenti sul territorio che svolgono un importante lavoro di assistenza ed evacuazione.

La Libia, da Sud a Nord, da Est a Ovest, è costellata di centri di detenzione, definiti anche “holding centres”: alcuni hanno la forma di prigioni, altri sorgono improvvisamente in vecchie scuole o fabbriche abbandonate. Qui migranti e richiedenti asilo subiscono ogni forma possibile di abuso, in assenza di leggi, con periodi di detenzione indefiniti, senza cibo, acqua, cure mediche e costretti ai lavori forzati. Donne e bambini non sono considerati soggetti vulnerabili.

Gdp Mappa 2

I centri ufficiali, quelli controllati dal Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina sono tra i 25 e i 33 (ad aprile 2018 l’Unhcr ne ha contati 33), ma in realtà i centri di detenzione sono molto di più. A gestirli sono milizie, gang criminali, trafficanti di esseri umani che, come è già stato dimostrato, godono dei finanziamenti del governo, in un paese, la Libia, che occupa il 171esimo posto su 180 nella classifica dei governi con il più alto grado di corruzione al mondo, stando all’indice di Transparency International’s 2017.

Torture e violenze nei centri di detenzione in Libia sono solo in parte documentate. Nel 2013 Amnesty International ha verificato casi di violenze sessuali dove di notte uomini armati portavano via ragazzine di 13 anni per poi farle rientrare il giorno successivo. In quel lasso di tempo venivano violentate e se una di loro provava ad opporsi veniva minacciata con le armi o uccisa. Nei centri di detenzione libici – sottolinea Gdp – bambini e donne non sono separati e l’assenza di guardie di sesso femminile, che è una violazione delle norme per il trattamento dei prigionieri, espone ancora di più le donne ad abusi sessuali.

Gdp Mappa Esempio

Tra i centri dell’orrore si annovera quello di Az- Zawiyah, nella costa ovest della Libia sul quale comunque vi è mancanza di informazioni a causa degli sviluppi militari in questa parte del paese. Qui le Nazioni Unite hanno indagato su una sparatoria da parte delle guardie nei confronti dei migranti. La prigione di Az- Zawiya è nata in una vecchia fattoria durante l’era di Gheddafi per ospitare più di mille persone. Come documentato da Amnesty International è questa una delle prigioni dove vengono trasferiti i migranti “intercettati” dalla guardia costiera libica. Az-Zawiya appartiene ufficialmente al Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina, ma di fatto è controllato dalle milizie di Al-Nasr, tanto da essere chiamato dai migranti “Ossama centre”. La brigata di Al Nasr è stata fondata da Mouhammad e Walid al-Koshlaf che vendevano petrolio rubato ai trafficanti locali dalla vicina raffineria di Zawiya. I Koshlafs erano connessi con l’ex comandante della guardia costiera locale Abdulrahman Al Milad, detto “Bija”, conosciuto per la sua stretta collaborazione con la rete di trafficanti e da qualche mese nella lista nera delle Nazioni Unite. Da comandante della guardia costiera locale “Bija” ha ricevuto fondi italiani e europei.

Sempre sulla costa ovest della Libia i centri di Al- Hamra e Aburshada – interconnessi tra loro – sono tra i peggiori. Qui ad ottobre 2016 sono state documentate una serie di morti da parte dell’Oim. Altri centri di detenzione sono a Zuwarah dove agli inizi del 2018 si contavano 800 migranti nigeriani, ivoriani, maliani e senegalesi; a Sabratah dove un centro di detenzione è stato improvvisato in una vecchia scuola; a Khoms (una vecchia fabbrica cinese) dove a luglio 2018 si registravano 283 migranti, mentre altri centri si trovano a Zliten e Kararim, il nuovo centro di detenzione di Misurata che ha sostituito la vecchia base militare di Al Kharouba.

Nella costa est, nonostante anche qui vi sia mancanza di informazioni, si trovano i centri inaccessibili di Alabyar, Albayda, Almarj, Assahel, Alqubba, Jaghbub, Jalu e Tamimi, e quelli governativi di Ajdabiya, Ganfuda (fino al 2014 in mano delle milizie), Tocra, Shahhat e Tobruk, quest’ultimo annoverato dall’Unchr come il 19 su 33 centri regolarmente visitato.

Gdp Mappa Libia Est

Nel Sud del paese, dove transitano i migranti provenienti dal Niger, ci sono altri centri di detenzione dell’orrore, come a Kufra dove diversi osservatori hanno riportato le condizioni inumane dove i migranti sono costretti a vivere. Senza luce, ventilazione, bagni, letti e con i pasti serviti una volta al giorno. Nel 2016 un uomo etiope, detenuto a Kufra, ha raccontato di essere picchiato regolarmente, chiuso in un container e torturato con l’acqua calda, mentre la moglie e altre donne sono state violentate. Altri centri di detenzione si trovano a Jufra (Al–Jufra), quest’ultimo giudicato uno dei quattro centri al Sud del paese dichiarati inaccessibili dall’Unhcr, insieme a quelli di Shati e Ghat. Ad Al Qatrun non è stato invece possibile verificare le condizioni dei migranti per motivi di sicurezza, il centro collocato ai confini con il Niger e il Ciad ha una capacità per ospitare 1500 persone.

I centri di detenzione attorno a Tripoli ad essere visitati da organizzazioni internazionali sono sostanzialmente cinque: Triq al-Seka, Hamza (Tariq al-Matar) dove a luglio 2018 si trovavano 1770 migranti, 680 eritrei, 240 sudanesi e 200 somali, Quasr (bin Gashir), con 472 migranti detenuti a Febbraio 2018, Ain Zara con 700 migranti detenuti a luglio 2018 e Tajura, quest’ultimo monitorato dall’Unhcr. Già nel 2017, Medici senza frontiere che aveva avuto accesso a 7 centri di detenzione nell’area di Tripoli, tramite il suo direttore generale Arjan Hehenkamp aveva descritto le condizioni inumane e degradanti del luogo, senza luce né ventilazione e pericolosamente stracolmo di persone.

Gdp Mappa Libia Ovest

Le condizioni inumane nei centri di detenzione in Libia non sono una novità e già nel 2005 i servizi segreti italiani riportavano come i poliziotti dovessero indossare delle maschere per via degli odori nauseanti. Nonostante la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, l’Europa – sottolinea Gdp – ha continuato a negoziare con varie entità presenti in Libia per controllare il flusso di migranti. Centinaia e centinaia di milioni di euro destinati proprio alle infrastrutture di detenzione e per equipaggiare le forze marittime, come nel caso della creazione della guardia costiera libica in base al Memorandum di intenti siglato dall’Italia nel 2017 (memorandum che segue il trattato d’amicizia tra l’Italia e la Libia del 2008) per cui dopo gli incidenti avvenuti il 6 novembre 2017 tra l’Ong Sea-Watch e i guardacoste libici è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti umani da parte del Global legal action network e da altri soggetti inclusi l’Arci e la Yale Law School’s Lowenstein International Human Rights Clinic. Come se non bastasse da giugno 2018 la Libia possiede una zona di ricerca e soccorso in mare (Sar zone).

É chiaro quindi – conclude Gdp – che affidando per via di accordi economici la politica sull’immigrazione alla Libia, l’Europa ha creato le condizioni per uno dei più pericolosi sistemi di detenzione al mondo.