Soccorso in alto mare e “interesse nazionale”. Quanto valgono ancora le persone ?

di Fulvio Vassallo Paleologo

Un trasferimento di competenza che sembra un verdetto definitivo. Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, che si sono dichiarati incompetenti, nella prima fase della «vicenda Diciotti», quella dal 15 al 20 agosto, non furono commessi reati ma vennero «difesi gli interessi nazionali». Non si può dire però che “gli interessi nazionali” siano stati difesi dal ministro dell’interno come certa stampa ha evidenziato. Secondo diversi giornali, “nei primi giorni di intervento della nave Diciotti al largo di Lampedusa, per il salvataggio dei 190 migranti che si trovavano a bordo di un barcone proveniente dalla Libia, non sono emersi reati. Fu anzi difeso meritoriamente dalla Guardia costiera l’interesse nazionale“. È quanto hanno scritto nelle 60 pagine scritte dai giudici di Palermo. Che non sembrano dare rilievo al notorio scontro di competenze sulle zone SAR ( ricerca e soccorso) nel Mediterraneo centrale, che a sud di Lampedusa risultano parzialmente sovrapposte. Ma il tribunale della libertà di Palermo non si è limitato a dichiarare la propria incompetenza, si è spinto molto oltre, anticipando alcune valutazioni di merito che non potranno non avere un rilevante impatto, oltre che sull’opinione pubblica, sulle successive fasi del procedimento penale, trasferito al Tribunale dei ministri di Catania, sempre che la locale Procura, che in materia ha posizioni ben note, ne ravvisi le ragioni.

Secondo i giudici palermitani, dal 15 al 20 agosto scorso, in occasione del “fermo” della Diciotti davanti il porto di Lampedusa, si è riscontrata “solo una attività di pressione diplomatica nei confronti di Malta, perché adempisse i doveri previsti dalle convenzioni internazionali che regolano il salvataggio e l’accoglienza dei flussi migratori. Poi la nave fece uno scalo nei pressi di Lampedusa, dove, con alcune motovedette, furono sbarcati 13 migranti ammalati. Gli altri 177, sempre in quella prima fase, non furono oggetto di alcun reato, men che meno il sequestro di persona, perché nei primi giorni si stava cercando una soluzione diplomatica per l’accoglienza, che poi non fu trovata”. In realtà in quei giorni non ci fu alcuna trattativa diplomatica, ma si verificarono una serie di ricatti posti dal governo italiano che negava la indicazione di un porto sicuro si sbarco, adducendo che la responsabilità di indicarlo spettasse alle autorità maltesi. Semmai la “pressione diplomatica” del ministro dell’interno era rivolta all’Unione Europea. Ma senza una vera trattativa diplomatica come quella ipotizzata dai giudici palermitani, sempre e soltanto una serie di prove di forza fino alla minaccia vera e propria. Salvini era adirittura arrivato a dichiarare:” “O l’Europa decide seriamente di aiutare l’Italia in concreto, a partire dalla nave Diciotti, oppure saremo costretti a riaccompagnare in un porto libico le persone recuperate in mare”. In quei giorni Salvini non sembrava certo impegnato in alcuna “trattativa diplomatica” con Malta.

Il 22 agosto il Governo di Malta aveva risposto a Salvini, affermando di aver “sempre partecipato ai meccanismi di solidarietà” e rimarcando di essere stato “il primo Stato membro dell’Ue a rispettare i propri impegni riguardo al meccanismo di solidarietà della Commissione europea verso Italia e Grecia”. Nel comunicato, pubblicato sull’account Twitter del ministro dell’Interno maltese, Michael Farrugia, si legge anche: “Le autorità maltesi sono già in contatto con quelle italiane per rispettare i propri impegni nel più breve tempo possibile, tuttavia, le autorità italiane non hanno fornito a Malta alcuna procedura da seguire”. Secondo il governo de La Valletta, “sfortunatamente l’Italia non ha rispettato i propri impegni nel meccanismo di redistribuzione avviato da Malta riguardo ai migranti sbarcati a Malta dalla nave della Lifeline il 27 giugno, nonostante le iniziative delle autorità maltesi per completare questo processo con le autorità italiane”. Non sembra dunque che tra i due governi, tra il 15 ed il 20 agosto scorso, ci siano mai state trattative diplomatiche, come ha evocato il Tribunale dei ministri di Palermo, ma si è trattato solo di un reciproco scambio di accuse. Un clima di scontro internazionale che certo non legittima l’indebito trattenimento a bordo delle persone socccorse dalla Diciotti, come puntualmente rilevato dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, in una sua prima comunicazione indirizzata al Viminale, quando la nave era ancora bloccata davanti Lampedusa, e poi nelle successive relazioni inviate alle Procure di Agrigento e Catania.  Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, ha ipotizzato una possibile violazione di norme fondamentali quali :

  • Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU). All’articolo 3 viene ribadito il “divieto di trattamenti inumani e degradanti, soprattutto se sono coinvolti soggetti vulnerabili come minori o persone traumatizzate”; in base all’articolo 5 ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza e non può esserne privata senza motivi ed al di fuori di “modi previsti dalla legge”.
  • Articolo 13 della Costituzione:Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria“. I casi di urgenza e necessità nei quali l’autorità di polizia dispone la limitazione della libertà personale senza un preventivo provvedimento del magistrato, devono essere comunicati al giudice entro 48 ore e convalidati entro altre 48 ore dall’autorità giudiziaria.

Prima ancora che le motivazioni della decisione del tribunale dei ministri di Palermo fossero rese pubbliche, l’indagato, ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri, ha rilasciato una serie di  dichiarazioni che fanno capire subito la valenza che ha assunto la pronuncia dei giudici palermitani. Per Salvini, in perenne campagna elettorale, “”un giudice di Agrigento mi ha indagato per sequestro di persona, l’indagine è poi passata a Palermo e poi a Catania, non so se è come il gioco dell’oca. Più mi indagano e più mi fanno venire voglia di lavorare e difendere i confini di questo splendido Paese”. Poi Salvini aggiunge ” “Quando la nave Diciotti è arrivata nei pressi di Lampedusa, lo scorso agosto, non sono stati commessi reati ma anzi sono stati meritoriamente difesi i confini. Non lo dico io, che per questa vicenda sono incredibilmente accusato di sequestro di persona, ma il tribunale dei ministri di Palermo: la partita giudiziaria non è ancora chiusa, però è un primo passo significativo. In ogni caso, giudici o non giudici, non arretro di un millimetro!”. In questo modo Salvini si attribuisce il “merito” di avere difeso i confini nazionali, che i giudici di Palermo, per quanto è dato conoscere delle parti della sentenza pubblicata dai media, attribuiscono alla Guardia costiera e non al vertice del Viminale.

Come riferisce la stampa,” il tribunale dei ministri ha rimandato il fascicolo alla procura di Palermo e Francesco Lo Voi, procuratore Capo, non ha potuto far altro che inviarla ai colleghi di Catania. Il Presidente del Tribunale dei ministri Fabio Pilato ha spiegato di avere “portato a compimento le proprie attività” e “di avere rimesso gli atti al Procuratore della Repubblica di Palermo” Francesco Lo Voi “per l’ulteriore corso a seguito di declaratoria di incompetenza territoriale”, come fa sapere il Presidente del Tribunale Salvatore Di Vitale. Adesso la procura catanese valuterà il caso e girerà il fascicolo al tribunale dei ministri competente”. Non si conosce peraltro lo stato dell’indagine che la stessa procura di Catania dovrebbe avere aperto dopo il ricevimento delle note informative inviate dall’Autorità garante per i diritti delle persone private della libertà personale.

Un precedente assai grave, quello del Tribunale di ministri di Palermo,  che legittima per il futuro la politica di blocco dei porti anche in assenza di basi legali e provvedimenti formali adottati dagli organi competenti. Appare evidente che Malta non potrà mai garantire interventi e luoghi di sbarco per i naufraghi che vengono segnalati nella sua vastissima zona SAR. Non si possono subordinare il diritto/dovere al soccorso e gli obblighi degli stati di fornire un porto sicuro di sbarco, dettati dalle Convenzioni internazionali, ai ricatti politici tra stati. Se a questo si riducono i rapporti diplomatici. Come se le prassi instaurate negli ultimi anni negli interventi SAR nel Mediterraneo centrale fossero improvvisamente diventate prive di basi legali.

La decisione adottata dal Tribunale di ministri di Palermo alimenta incertezza sul riparto delle responsabilità nei socccorsi in acque internazionali, ed espone gli operatori Sar (search and rescue), sia militari che civili, a gravi rischi in casi futuri. Rischi che si corrono nei confronti delle autorità militari o di guardie costiere di paesi che non rispettano i diritti umani, come la Libia, rischi simmetrici per la possibilità sempre più elevata di essere oggetto di procedimenti penali in Italia, soltanto per avere adempiuto gli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Di certo le attività di monitoraggio delle ONG ed i soccorsi affidati a navi civili proseguiranno anche nei prossimi mesi,infatti il governo maltese ha finalmente rilasciato la nave SEA WATCH, ed altre navi umanitarie, per proseguire le attività di monitoraggio, stanno ritornando nel Mediterraneo centrale, la rotta migratoria più pericolosa del mondo. Tra poco sarà operativa una nuova nave della missione LIFELINE e ritorneranno la Aquarius di SOS MEDITERRANEE’ ed, alla sua seconda missione, la nave di MEDITERRANEA.

Il soccorso umanitario non si arresta, quali che siano le minacce che provengono dal ministro dell’interno, o dai capi della sedicente Guardia costiera “libica”. Una Guardia costiera, con una centrale di coordinamento congiunto (JRCC) che non sempre risponde e che deve la sua operatività agli equilibri tra le diverse milizie in lotta in Libia ed all’assistenza delle autorità militari italiane, anche questa certo “meritoria”, se si rimane nell’ottica della difesa dei confini sovraordinata alla tutela dei diritti fondamentali delle persone. Come scriveva il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, basandosi sulle inchieste di Unsimil, la missione Onu a Tripoli, in Libia, “sia nei centri governativi sia nei lager clandestini si verificherebbero, come segnalato nel documento consegnato al Consiglio di sicurezza dell’ONU il 12 febbraio, “rapimenti per estorsione, lavori forzati e uccisioni illegali”. Da questi luoghi fuggono i migranti che, se riescono a evitare le motovedette libiche, diventano ostaggio della “difesa dei confini” imposta dai governi dei paesi europei e degli scontri diplomatici sulle competenze nei soccorsi e nella individuazione di un porto di sbarco.

Salvare vite umane in mare è un obbligo di portata assoluta che non può essere cancellato dalle politiche di “controllo dei flussi migratori”, dalle attività di “difesa dei confini” e dagli accordi con paesi terzi che non garantiscono alcun rispetto per la vita ed i corpi delle persone. Le ultime testimonianze che sono state raccolte in Libia dall’UNHCR ed in Italia, dalle Organizzazioni non governative come MSF, sulla sorte dei migranti intercettati in mare e rigettati nei centri di detenzione in Libia, fanno davvero vergognare per le dichiarazioni di esultanza del ministro dell’interno, secondo cui va festeggiato l’allontanamento delle ONG dalle rotte del Mediterraneo Centrale, effetto dei rapporti di collaborazione instaurati con la  Guardia costiera “libica”.

Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha espresso preoccupazioni per la sorte dei migranti intercettati in acque internazionali dalla Guardia costiera “libica” e riportati a terra per essere rinchiusi di nuovo nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti.  Per il ministro degli esteri Moavero la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco, ma si riconosce legittimo che il ministro dell’interno, che certo non sarebbe competente a gestire in proprio delicate trattative diplomatiche, minacci di respingere in Libia i naufraghi che dovrebbero trovare in Italia un porto sicuro di sbarco, e tenga nel frattempo 177 persone bloccate a bordo di una nave di fronte a quello che sarebbe stato il “porto sicuro di sbarco più vicino” (Lampedusa). In ogni caso, rispetto a persone intercettate in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, non si può dare prevalenza alle esigenze nazionali di “difesa dei confini”. Lo impone anche il principio di non respingimento, sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra.

La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR) obbliga gli Stati parte a “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) ed a “ […] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”. (Capitolo 1.3.2).

Gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati membri devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha mai accettato questi emendamenti, ma continua a reclamare unilateralmente una vastissima zona S.A.R., coincidente con la propria Flight information Region (F.I.R.) ed in parte sovrapposta alla zona S.A.R. italiana, con la motivazione che la sua ridotta consistenza territoriale non le consentirebbe di mantenere gli impegni che ne conseguirebbero. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Questo porto sicuro di sbarco ( place of safety) In Libia, un paese diviso con tre diversi governi ed una miriade di milizie armate, non esiste, come non esiste a Tripoli, a Misurata o a Bengasi, alcuna Centrale nazionale di coordinamento capace di garantire un porto sicuro di sbarco. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety). Una posizione successivamente ripresa dalla Procura e dal GIP di Palermo, nei provvedimenti di archiviazione delle indagini contro due ONG (Sea Watch e Open arms) che avevano svolto attività di soccorso umanitario nelle acque del Mediterraneo Centrale.

Le Linee guida IMO, unitamente alle Convenzioni internazionali in materia, dispongono che la responsabilità primaria per la individuazione e/o fornitura di un “luogo sicuro”, che non può certo trovarsi in Libia, ricada sullo Stato costiero responsabile della zona SAR al cui interno si verifica l’operazione di salvataggio marittimo. Nell’ipotesi in cui, tuttavia, “non sia possibile contattare lo Stato costiero responsabile della zona SAR, il comandante della nave soccorritrice può contattare un altro Stato costiero e/o un centro di coordinamento e soccorso che possa fornire assistenza alle operazioni di salvataggio”. Incombe su quest’ultimo, pertanto, l’onere di coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio “fino a quando lo stato costiero responsabile della zona SAR non assuma la propria responsabilità”. Quest’ultima previsione assicura che gli interventi di salvataggio marittimo vengano condotti finanche nell’ipotesi in cui uno Stato costiero non adempia agli obblighi di assistenza all’interno della propria zona SAR. Come si verifica da anni con Malta, e con la Libia, o con quello che ne rimane, come entità statale unitaria.

Dovrebbe essere noto a tutti il caso di scuola della nave greca Salamis che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra autorità maltesi ed italiane. Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il Governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms.

Leanza e Caffio (Il SAR Mediterraneo) osservavano nel 2014 come “Malta abbia dichiarato per innumerevoli occasioni la propria indisponibilità, anche a distanza di ore dalla segnalazione italiana”. Abbiamo già ricordato il rifiuto di sbarco avanzato dalle autorità maltesi nel 2013, poco prima della strage dell’11 ottobre, nei confronti del mercantile Salamis carico di naufraghi, che poi furono sbarcati in Italia. Da allora ad oggi non risulta che le posizioni dei Governi maltesi siano cambiate, al punto che negli ultimi anni si è registrato un costante calo degli sbarchi nella cosiddetta “Isola dei Cavalieri” e lo scorso anno le persone soccorse in mare e sbarcate in quell’isola non sono state più di un centinaio.

Dal 15 al 20 agosto scorso l’obbligo di trasferimento in un luogo sicuro, già da tempo oggetto di controversie tra Italia e Malta, e’ stato eluso dalle autorità italiane per oltre 4 giorni già quando la nave Diciotti era davanti Lampedusa. Dunque il trattenimento arbitrario, fino all’ipotesi di sequestro ipotizzata dalla Procura di Agrigento dopo la segnalazione dell’Autorita’ garante per i diritti delle persone private della liberta’ personale, si era gia’ verificato quando la nave restava bloccata nelle acque delle Pelagie, in attesa della indicazione del “porto di sbarco sicuro”. Indicazione che spettava al ministero dell’interno, come da prassi consolidata. La prolungata privazione della libertà personale dei naufraghi dopo le prime 96 ore successive al soccorso, dal 15 al 20 agosto, quando la nave era a 4 miglia dal porto di Lampedusa, era conseguenza della mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco (POS o place of safety) da parte del ministero dell’interno. Da chiarire semmai, allo stesso riguardo, il ruolo del ministero delle infrastrutture, responsabile delle attività della Guardia costiera e superiore gerarchico della Centrale operativa della stessa Guardia costiera (IMRCC). Lo stesso ministero che poi aveva autorizzato l’ingresso in porto a Catania, ma solo come “scalo tecnico”, escludendo dunque la possibilità di sbarco per tutti i naufraghi. Che poi furono sbarcati in parte, i minori non accompagnati ancora a bordo, solo per un deciso intervento della Procura del tribunale dei minori di Catania.

Non sembra che il prolungato trattenimento a bordo di una nave di un gruppo consistente di naufraghi, tra cui donne e minori non accompagnati, possa ritenersi giustificato solo perchè è in corso uno scontro politico tra stati che si negano reciprocamente  la competenza a garantire un “porto sicuro di sbarco”. Come invece hanno ritenuto i giudici del Tribunale della Libertà di Palermo. Se questa impostazione fosse confermata da altri giudici, si formerebbe una giurisprudenza che riconosce la legittimità dell’uso della forza nelle trattative internazionali e nell’applicazione di Convenzioni che gli stati hanno sottoscritto. Come dire che il diritto alla vita e gli obblighi di soccorso sarebbero subordinati alla “difesa dei confini”, ed agli ordini  informali, inviati, magari via twitter, o con un video su facebook, dal ministro dell’interno.

Esattamente il contrario di quello che affermano le Convenzioni internazionali, incluso il “Protocollo addizionale contro lo smuggling” allegato alla Convenzione di Palermo del 2000, secondo cui ( art.16) prevale comunque il diritto alla vita dei naufraghi, senza possibilità di compromessi.” Nell’applicazione del presente Protocollo, ogni Stato Parte prende, compatibilmente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo, come riconosciuti ai sensi del diritto internazionale applicabile, in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti. (2) Ogni Stato Parte prende le misure opportune per fornire ai migranti un’adeguata tutela contro la violenza che può essere loro inflitta, sia da singoli individui che da gruppi, in quanto oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. (3) Ogni Stato Parte fornisce un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumità, è in pericolo dal fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. (4) Nell’applicare le disposizioni del presente articolo, gli Stati Parte prendono in considerazione le particolari esigenze delle donne e dei bambini.

E ancora, secondo l’art.19 dello stesso Protocollo aggiuntivo  contro il traffico di persone, si prevede una specifica clausola di salvaguardia: “(1) Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento. (2) Le misure di cui al presente Protocollo sono interpretate ed applicate in modo non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. L’interpretazione e l’applicazione di tali misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discriminazione”. Come ha affermato il procuratore di Agrigento Patronaggio, “qualsiasi limitazione della libertà personale deve fare i conti con norme e regole della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, della Costituzione, del Codice penale e del Codice di procedura penale. Non si scappa”.

«Questa storia impone una riflessione – ha dichiarato a MeridioNews il presidente della Camera penale di Catania Salvatore Liotta -. Salvini, carte alla mano, non è il ministro che dovrebbe occuparsi della gestione di questo sbarco. Ci troviamo davanti a una situazione nata da motivazioni esclusivamente politiche, in cui l’aspetto giuridico è messo da parte. Le persone a bordo e l’equipaggio al momento sono privati della libertà di movimento, senza che ci sia un reale pericolo pubblico né un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Il tutto peraltro sta avvenendo in territorio italiano, perché va ricordato che dal momento in cui i migranti hanno messo piede sulla Diciotti è come se fossero in Italia». La Camera penale, in tal senso, ipotizza che la decisione di Salvini di impedire lo sbarco comporti la violazione dell’articolo 13 della Costituzione, che prevede che non sia «ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria».

Gli interessi nazionali diretti alla “difesa dei confini” non possono consentire di cancellare sostanzialmentegli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana che affermano la piena operatività, all’interno del nostro ordinamento, delle Convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. A meno che non si voglia affermare una nuova impostazione di “sovranismo giudiziario” che potrebbe essere certo gradito ai seguaci di qualche partito populista, ma risulterebbe in insanabile contrasto con il principio di gerarchia delle fonti, e con il dettato costituzionale, che non consente ai decisori politici nazionali di assumere linee operative, espresse magari con un silenzio-rifiuto, in contrasto con obblighi sanciti dalle Convenzioni internazionali. Specialmente quando si tratta di obblighi di interventi che dovrebbero garantire il diritto alla vita ed il diritto alla salute di persone provenienti da territori nei quali hanno subito ogni genere di abusi, persone soccorse in alto mare dopo giorni di estenuante attesa. Se sorgono conflitti di competenza tra stati competenti per zone SAR che non corrispondono alle loro effettive capacità di intervento, se gli stati non rispettano gli obblighi di coordinamento reciproco fissati dalle Convenzioni internazionali, i ritardi nella individuazione di un porto di sbarco “sicuro”  non possono ricadere sulla pelle dei naufraghi soccorsi in acque internazionali. E nessuno può pensare di limitare la libertà personale di qualcuno per ottenere una modifica delle politiche europee in materia di immigrazione ed asilo.